Molti giorni a gennaio

nov 27th, 2024 | Di | Categoria: Politica Internazionale

Molti giorni a gennaio

di Piero Pagliani

Mentre la portavoce del Pentagono, Sabrina Singh, ha espresso “grande preoccupazione” per la risposta russa al primo lancio di missili Atacms, il 23 e il 25 novembre Kiev ne ha lanciati altri 13 sulla regione russa di Kursk (fonti non ufficiali russe riferiscono di vittime tra i militari e danni a un sistema antiaereo S400).

Mosca ha annunciato che sta preparando la risposta. Immagino che sarà più dolorosa di quella di cinque giorni fa.

Il problema è noto ed è grave: ammesso che fisicamente siano dei militari ucraini a spingere il bottone di lancio, gli attacchi coi missili Atacms sono comunque guidati dagli Stati Uniti. Ragion per cui gli USA e la Russia sono ora in guerra de facto anche se non de jure. Ce lo facciamo spiegare dall’analista dell’Intelligence militare statunitense Rebekah Koffler:

https://www.foxnews.com/video/6365135301112

Dunque «ci stiamo avvicinando a una guerra nucleare», secondo l’Intelligence Community statunitense.

Si noti che già precedentemente sono stati lanciati missili occidentali sul territorio russo, con le stesse modalità. Il fatto che ora il Cremlino decida di rispondere in modo duro sembra indicare la volontà sia di prevenire attacchi più pesanti sia di mettere la Nato con le spalle al muro.

Io penso che ci fermeremo un attimo prima della guerra atomica, ma questo se prevarrà la razionalità.

Il Biden collettivo (il “generone” neo-liberal-con detto anche “deep State”) sembra dunque avere intenzione di continuare l’escalation fino al 20 gennaio quando lascerà in eredità a Trump una situazione incandescente e relazioni con la Russia completamente deteriorate.

Trump dal canto suo non ha nessuna vera exit strategy praticabile e a eccezione di Tulsi Gabbard (che difficilmente passerà il vaglio del Senato) a partire da Marco Rubio si è circondato di persone mediocri, di principio guerrafondaie e intrise anch’esse di suprematismo statunitense.

L’obiettivo del Biden collettivo non è la guerra nucleare (mondiale lo è di già), ma il prolungamento a oltranza della guerra in Ucraina. Perché? Per tre ordini di motivi.

1) Un motivo economico: il gigantesco riciclo di capitali permesso dalla guerra.

2) Un motivo ideologico: l’establishment neo-liberal-con non può ammettere che il suo piano per infliggere una sconfitta strategica alla Russia è fallito.

3) Un motivo sistemico: rinunciare all’egemonia mondiale metterebbe gli Usa e gli UK di fronte a una verità non accettabile, ovvero che la loro ricchezza è in massima parte virtuale, fittizia, quasi totalmente scollata dalla produzione di beni materiali. È una ricchezza in larghissima parte prodotta dalla crisi, non dallo sviluppo.

È comunque un redde rationem che sembra inevitabile ed è legato all’incedere della nuova architettura multipolare del mondo. Provocherà una rivoluzione politica, economica, sociale e culturale che può essere governata (cosa che implica un soggetto politico) verso esiti progressivi ed emancipativi, in sintesi: “positivi”, o può sfociare in una sorta di anarchia costellata da tentativi di controllo da parte di uomini o donne “della Provvidenza”.

Anche il resto dell’Occidente, Europa in testa, ovviamente ne verrà travolto e nessun esito positivo sarà possibile se non saremo in grado al più presto di attuare un delinking attivo dagli Stati Uniti ma continueremo a subire quello passivo imposto da Washington secondo la sua agenda e i suoi interessi.

Il prolungamento della guerra è però possibile solo se l’Occidente trova mezzi e personale per condurla. L’Ucraina è esausta di risorse e di uomini. Kiev ha in piano di mobilitare i diciottenni e alle donne. Ma non basterà, e non è scontato che la società ucraina non reagisca.

Poi c’è il problema degli arsenali Nato ormai esauriti e degli eserciti della Nato progettati per combattere forze militari molto più deboli e per la controinsorgenza. Ecco allora il ripetuto desiderio di arrivare a un “congelamento” del conflitto, per potersi riorganizzare. Congelamento che Mosca non concederà perché non vuole lasciare alla Nato la possibilità di riorganizzarsi e continuerà la guerra finché non si negozierà quella “architettura indivisibile di sicurezza in Europa” (e ora in Eurasia) come aveva richiesto nel 2021 per evitare il conflitto e che la Nato aveva “naturalmente (sic!) rifiutato” (Jens Stoltenberg).

Questa architettura comprenderà verosimilmente la fine dell’assedio Nato alla Russia, la neutralità dell’Ucraina e una sua nuova Costituzione che metta al bando l’ideologia e la politica banderiste (e naziste). E infine nuovi trattati di limitazione delle armi e di disarmo.

Ognuno di noi può valutare se sarebbe un bene o un male. Nel frattempo c’è da aspettarsi una escalation fino al 20 gennaio.

Anche verbale, od orientata alle Public Relations se volete, come l’affermazione del capo del Comitato Militare della Nato, Rob Bauer, che “l’alleanza sta studiando la possibilità di attacchi di precisione preventivi sulla Russia”, dove quel “preventivi” serve solo, nelle intenzioni, a creare incertezza ma non vuol dire nulla, se non la possibilità tecnica di farsi distruggere una gran quantità di missili per poi ricevere una risposta devastante su basi militari, su navi, su centri di comando, senza che la Nato ci possa fare nulla.

In realtà il vero pericolo di uno scontro nucleare sta proprio qui: nell’arretratezza militare dell’Occidente rispetto alla Russia che potrebbe suggerire agli Usa e alla sua appendice atlantica, in una sequenza di mosse tanto disperate quanto catastrofiche, di usare infine l’arma atomica. Per primi, perché fino a quel momento la Russia non ne avrebbe bisogno (e inoltre non le userebbe per questioni politiche), come il missile Oreshnik ha perfettamente dimostrato (e di sicuro questa è solo una delle nuove armi sviluppate dalla Russia – tra l’altro si noti che questo missile balistico a medio raggio è un diretto prodotto dell’uscita unilaterale di Trump dagli accordi INF, Intermediate-Range Nuclear Forces Treaty, nel 2019).

Ci fermeremo prima? Io credo di sì, perché è chiaro anche negli USA che lo scambio atomico è la fine di ogni soluzione. Ma occorrerà neutralizzare chi invece pensa che sia “winnable” (e ve ne sono anche nella squadra di Trump). Occorrerà togliere capacità decisionale a quei centri di potere e ideologici la cui propensione guerrafondaia è direttamente proporzionale alla loro amoralità e alla loro ignoranza di cosa sia una guerra, nucleare o convenzionale.

Noi Europei potremmo avere una pesante voce in capitolo in un cambio di rotta statunitense, ma preferiamo rimanere afoni (o parlare solo come dei pappagalli che non sanno nemmeno quel che ripetono).

Sarà quindi un affare interno agli Stati Uniti influenzato solo dalle mosse di Mosca e dei Brics, cioè di quella “larger picture” di cui noi non facciamo e non vogliamo fare parte rimanendo così irrilevanti.

Nel 1962 Fletcher Knebel pubblicò il romanzo “Sette giorni a maggio” in cui si racconta di un tentativo di colpo di stato di un gruppo di militari americani per impedire che vengano messi in pratica gli accordi di disarmo con l’Unione Sovietica conclusi dal Presidente in carica.

Adesso potremmo pensare a un intervento di militari americani per poter arrivare a un accordo con la Federazione Russa ostacolato da un Presidente formalmente ancora in carica ma sfiduciato dal popolo e dai grandi elettori.

Fantapolitica? Ovviamente.

Ovviamente?

Il ben informato premio Pulitzer, Seymour Hersh, ha scritto sul suo blog che «alcuni importanti uffici [del Pentagono], che sicuramente avevano una idea differente rispetto all’escalation, non sono mai stati interpellati per avere il loro contributo [nell'analisi delle implicazioni strategiche dell'escalation stessa]».

Ed è tipico delle crisi sistemiche scombinare le geometrie, creare chiasmi (si faccia mente locale agli endorsement incrociati: il nipote di John Kennedy, Robert Kennedy jr, che appoggia Trump in nome della pace e il vice di Bush jr, Dick Cheney, che appoggia la Harris in nome della guerra).

Grande è la confusione sotto il cielo e sui ponti di comando statunitensi.

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