Raniero Panzieri e la questione del potere

ott 15th, 2024 | Di | Categoria: Recensioni

Raniero Panzieri e la questione del potere

 Franco Ferrari

Il 9 ottobre 1964 muore improvvisamente a Torino, a soli 43 anni, Raniero Panzieri, intellettuale socialista, per diversi anni dirigente politico del PSI e poi dal 1961 promotore dei “Quaderni Rossi”, rivista di teoria e di intervento politico diventata nel tempo oggetto di una sorta di vera e propria venerazione.

Panzieri è stata una figura intellettuale importante, un attento e originale studioso di Marx e un critico acuto di molte delle tesi prevalenti nella sinistra tra la fine degli anni 50 e l’inizio degli anni ’60, con la indubbia capacità di cogliere elementi nuovi presenti in una fase di tumultuoso cambiamento sociale dell’Italia di quel periodo.

L’obbiettivo limitato di queste note non è certo di ricostruirne, neppure sommariamente, la biografia, intensa per quanto breve (per questa si rimanda a Dalmasso 2015), né di esaminarne in dettaglio un pensiero complesso che, come sempre avviene nei pensatori originali, non può essere ridotto ad un percorso lineare. La scomparsa improvvisa ha anche lasciato irrisolti molti nodi che poi altri, in direzioni diverse, cercheranno di sviluppare spesso con forzature che probabilmente lo stesso Panzieri non avrebbe accettato. Né si possono facilmente ridurre e semplificare, quasi in forma manualistica, le implicazioni ed anche le contraddizioni del suo pensiero. Più modestamente si cercherà di individuare qualche nodo problematico attorno al quale ci si può interrogare anche nel presente, a sessant’anni dalla sua scomparsa.

Il socialismo di sinistra

Il primo punto che si vuole evidenziare è come si collochi Panzieri nella più generale storia del movimento operaio e socialista italiano. A me pare che egli vada inserito dentro una specifica tradizione e corrente politico-ideologica di cui pure fu innovatore e non mero rimasticatore. Questa è definibile come socialismo di sinistra, distinta da quelle correnti socialiste che si muovevano dentro gli orizzonti della socialdemocrazia e del liberal-socialismo, come da quella del comunismo italiano, di gran lunga maggioritario in termini di influenza politica dalla fine degli anni ‘40, che possiamo definire come gramsciana-togliattiana.

Questo socialismo di sinistra si presenta sulla scena già prima della Grande Guerra al punto da assumere la direzione del partito socialista nel 1912 contro la corrente riformista ma anche distinguendosi da quel sindacalismo rivoluzionario che, in buona misura, diventerà interventista e in qualche caso aderirà al fascismo.

Questa corrente si diede essa stessa la denominazione di “massimalista”, un termine che poi acquisirà una connotazione negativa e prevalentemente polemica, ma che indicava fondamentalmente due elementi chiave. Il primo era l’azione coerente per il “programma massimo” (ovvero per una compiuta trasformazione sociale in senso socialista o comunista). Questo non li differenziava in sé dai riformisti che anch’essi aspiravano a realizzare il “programma massimo” ma solo alla fine di un lungo e graduale processo storico. Per il “massimalismo”, il “programma massimo” era sempre immediatamente attualizzabile ed era la guida per l’azione politica e sociale. Il secondo elemento era sintetizzabile in una forte accentuazione classista. Il soggetto della trasformazione sociale era la classe operaia. Anche qui non si differenziava in sé da altre correnti se non nel considerare che si trattava della “sola classe operaia”. Nel congresso del PSI che si tiene quando ormai la guerra sta volgendo al termine, Luigi Repossi, dirigente massimalista che parteciperà alla fondazione del PCdI e poi si schiererà con Bordiga contro il centro gramsciano, afferma: “classe contro classe: da una parte la borghesia, tutta insieme, contro di noi; dall’altra noi, soli, contro tutto il mondo: questo è il compito dei socialisti” (Galli, 2001: 97). Lo storico socialista Gaetano Arfé parlerà di “fideismo millenaristico” come fondamento ideologico della sinistra socialista (Arfè, 1965: 164). Vedremo che i due punti cardinali (permanente attualità del “programma massimo” e “sola classe operaia”) non si perderanno con la crisi del socialismo “massimalista”.

La corrente “massimalista” guidò il PSI fino alla fine degli anni ’20, ma si trattava di un partito che aveva perso, anche per i colpi subiti dal fascismo, quel reale e consistente radicamento nella classe operaia, in particolare al nord, che ne aveva fatto una forza significativa e non una semplice corrente intellettuale. In realtà, se si eccettua in parte Giacinto Menotti Serrati, che fu innanzitutto un combattente politico estremamente popolare, non seppe produrre significative elaborazioni teoriche.

In questa dimensione teorica venne sopravanzata sia da coloro che si trovavano alla sua destra nel movimento operaio, sia da chi se ne staccò alla sua sinistra per dare vita al Partito Comunista. Mentre per certi versi Bordiga espresse una riformulazione del progetto massimalista, più che una vera negazione, il PCdI gramsciano, con le note “Tesi di Lione”, produsse delle significative rotture, in particolare individuando come soggetto della trasformazione rivoluzionaria in Italia non più la sola classe operaia bensì l’alleanza tra la classe operaia, prevalentemente insediata al nord, con il proletariato contadino del sud. Novità apparentemente banale ma dalla quale nasceranno gran parte delle innovazioni teoriche gramsciane.

La stessa duplicità del soggetto rivoluzionario partiva da una rilettura dei limiti del Risorgimento e richiedeva un insieme di strumenti d’azione politica (costruzione di un blocco sociale alternativo a quello della borghesia, egemonia della classe operaia sui ceti popolari alleati, questione meridionale e questione vaticana, ruolo degli intellettuali, natura popolare e non strettamente classista della rivoluzione e così via). Il PCI metteva quindi in discussione i due elementi chiave del “massimalismo” sopra indicati: permanente attualità del “programma massimo” e ruolo della “sola classe operaia”. Elementi importanti di questa revisione della tradizione socialista italiana messa in atto dalla corrente “centrista” del PCdI (Gramsci e poi Togliatti) si innestavano sull’elaborazione leninista come, successivamente, sulla reinvenzione staliniana dello stesso leninismo.

Dalla sinistra morandiana alle Tesi sul controllo operaio

Nel secondo dopoguerra la presenza di un originale Partito Socialista che non ripiegava verso la socialdemocrazia e l’atlantismo anti-sovietico, alleato del Partito Comunista, pose il problema non semplice di ripensare le ragioni dell’esistenza di questo partito. Il conflitto permanente tra “autonomisti” e “fusionisti”, non sempre ricalcabili sulla divisione destra-sinistra, pose una serie di problemi politici, teorici e organizzativi soprattutto alla componente di sinistra. Questa era attraversata da diverse ispirazioni e tra queste cercò di farsi strada il pensiero di Rodolfo Morandi. Non è qui la sede per approfondire il ruolo di questa importante figura del movimento operaio e socialista italiano ma si può rilevare come nella sua esperienza politica, che ebbe fine con la morte nel 1955, si incrociarono spinte libertarie tese a valorizzare esperienze di democrazia diretta con l’adesione al marxismo-leninismo nella sua forma staliniana. Il dirigente socialista scriverà nel 1952 che non è “possibile contestare la piena legittimità dell’assunzione del marxismo-leninismo e stalinismo come ideologia del partito di classe” (Agosti, 1971: 447).

Panzieri fu uno dei giovani e promettenti dirigenti del PSI morandiano e da questo a mio parere assunse soprattutto l’idea della centralità del ruolo della classe operaia e del suo primato rispetto al partito politico che si propone di rappresentarla. Lo stesso Morandi, pur all’interno di una grande ispirazione unitaria, fu critico verso alcune scelte del Partito di Togliatti, soprattutto sul tema delle alleanze sociali.

Fu negli anni successivi al 1956, spartiacque del movimento comunista e socialista per la denuncia kruscioviana dei crimini di Stalin e per l’invasione dell’Ungheria, che Panzieri iniziò ad assumere un ruolo importante nella sinistra italiana. In particolare con la direzione di fatto di “Mondoperaio”, rivista teorica del PSI. I suoi tentativi di ripensare una strategia per la conquista del potere da parte della classe operaia, trovarono un punto di condensazione con le “Sette tesi sul controllo operaio” scritte insieme a Lucio Libertini. Quest’ultimo aveva un percorso politico estraneo all’itinerario morandiano di Panzieri. Era sempre stato critico dello stalinismo ed era entrato nel PSI dopo il fallimento dell’esperienza dei “socialisti indipendenti” di Magnani e Cucchi.

Le “Tesi”, pubblicate nel 1958 su “Mondo operaio”, furono oggetto di un notevole dibattito nel quale intervennero socialisti, comunisti e anche esponenti del dissenso comunista come il trotskista Maitan. Il tema che a me pare cruciale nelle Tesi, al di là di molti riferimenti legati al contesto politico del momento ed in particolare quello interno al PSI nel quale si cominciavano ad affacciare le tendenze verso una riunificazione con la socialdemorazia e le prime mosse verso quello che diventerà il centrosinistra, è evidentemente proprio il tema del potere.

Questo non è presentato solo nella forma più scontata: il potere nei confronti del capitale. Sulla base di una analisi critica dello stalinismo come delle difficoltà nelle quale si trova in quella fase il movimento operaio italiano pone anche il tema del potere della classe nei confronti delle proprie organizzazioni (partiti, sindacati) e dello stesso Stato, laddove questo viene conquistato da un partito che si richiami alla classe operaia.

Le questioni avanzate, seppure a volte più come suggestioni che come vere propri progetti strategici e organizzativi, ovvero quelli della democrazia diretta e del controllo operaio cercavano di rispondere ad entrambi i problemi. Le Tesi contengono due formulazioni che resteranno a lungo nel dibattito politico a sinistra e che meritano di essere richiamate. Innanzitutto che è la classe operaia a fondare i “propri istituti”. Tra questi istituti ci sono quelli nei quali esercita il proprio potere e che devono esistere già prima della conquista del potere statale, da qui la ripresa della tematica consiliarista. Inoltre, scrivono Panzieri e Libertini: “questi istituti debbono sorgere nella sfera economica, laddove è la fonte reale del potere, e rappresentare perciò l’uomo non solo come cittadino ma anche come produttore”. In questo modo “il proletariato educa sé stesso” (Panzieri, 2022: 37).

L’altro elemento importante, riprendendo una formulazione già utilizzata da Rodolfo Morandi, riguarda il ruolo e il carattere del partito politico operaio: “La difesa, in questa situazione, dell’autonomia rivoluzionaria del proletariato, si concreta nella creazione dal basso, prima e dopo la conquista del potere, degli istituti della democrazia socialista, e nella restituzione del partito alla funzione di strumento della formazione politica del partito di classe (strumento, cioè, non di guida paternalistica, dall’alto, ma di sollecitazione e di sostegno delle organizzazioni nelle quali si articola l’unità di classe)”. Affermare ciò – aggiungono Panzieri e Libertini “non vuol dire certo che si dimentichi la questione del potere, condizione essenziale per la costruzione del socialismo” (Panzieri, 2022: 40).

Partito come “strumento” o “parte” della propria base sociale?

Le Tesi sollevarono diversi obiezione da parte comunista. In genere le ricostruzioni pongono l’accento su un sommario articolo di Spriano pubblicato da “l’Unità” nel quale si tendeva a liquidare il teso come un recupero di idee anarco-sindacaliste o trotzkiste. In realtà vi furono diversi interventi di peso che entravano nel merito delle questioni poste. Luciano Barca il quale esprimeva chiaramente punti di consenso e di dissenso. “Altro è auspicare il sorgere, nel corso della lotta del movimento operaio per il potere, – scriveva il dirigente comunista – di istituti propri, autonomi della classe operaia anche nella sfera economica, sul “fronte produttivo” (su questo punto l’accordo è pieno), altro è il contrapporre il sorgere di questi istituti nella sfera economica “laddove è la fonte reale del potere” alla funzione del partito”. Barca riaffermava la visione secondo la quale solo grazie al partito “la classe operaia può divenire soggetto attivo di un generale rinnovamento strutturale e sovrastrutturale”. Barca si rifaceva per questo all’autorità di Lenin sulla coscienza socialista che entra nella lotta di classe “dall’esterno” (AA. VV., 1969; 194)

Va però chiarito che quando Lenin parlava di “esterno” indicava due elementi che vanno considerati con attenzione. Il primo è effettivamente estraneo alla classe operaia come tale, perché riguarda il ruolo degli intellettuali. Questi sono necessari perché la classe ha bisogno di fare proprio l’insieme del pensiero dell’umanità, anche quello borghese (filosofia, economia, teoria politica, ecc.) e ciò richiede una conoscenza specialistica e non superficiale del patrimonio culturale accumulato del tempo dall’umanità. Ma l’esterno è inteso anche in un altro senso. La coscienza socialista non si può emergere dal solo conflitto tra lavoratori e padroni nel rapporto di lavoro perché deve considerare l’insieme dei rapporti tra tutte le classi, tra le classi e lo Stato e così via.

Da questo punto di vista l’elaborazione gramsciana, sia quella che emerge dalla sua concreta azione politica, sia quella affidata ai quaderni dal carcere si muove all’interno della prospettiva leninista. A questa si aggiunge un elemento in più. Si tratta di un concetto che si affina nella polemica con Bordiga e che afferma il partito come “parte” della classe operaia. Il comunista napoletano contrapponeva la sua idea del partito come “organo” che portava nei fatti a slegarlo dalla realtà viva della classe per affidargli la gestione del programma considerato in sé invariante.

Il fatto che il partito politico sia “parte” della classe operaia e più in generale dei soggetti della trasformazione sociale e del blocco sociale alternativo a quello borghese-capitalistico è l’unica garanzia dall’evitare di parlare “per conto di” (la classe, il popolo, i movimenti, la comunità, ecc.) senza in realtà avere alcun legame reale con le diverse articolazioni della società.

Certamente Panzieri, e lo stesso si può dire di Libertini che poi diventerà comunista, rifuggivano all’idea della setta ideologica ma le due formulazioni da loro utilizzate presentano problemi di non facile risoluzione. La “classe fonda i propri istituti” e “il partito è lo strumento della classe” cercano di affrontare un problema reale, il rapporto tra determinati soggetti sociali e le loro rappresentanze politiche. Come evitare che queste ultime si facciano inglobare dentro i meccanismi del potere statale perdendo per strada il legame con gli interessi di quei soggetti sociali che dichiarano di rappresentare?

Le Tesi attribuiscono alla classe operaia una soggettività politica già data prima che si formino i suoi istituti (che siano i soviet, il sindacato, il partito ecc.), ma in che modo opera e agisce un soggetto collettivo? I partiti politici possono avere le loro radici in determinati movimenti o classi sociali ma sono sempre espressione di una volontà soggettiva di individui mossi da una determinata visione della società, da una strategia politica e da una concezione organizzativa. La politologia accademica li definisce “imprenditori politici”. La relazione tra un partito politico ed un determinato soggetto che allora era chiaramente la classe operaia si può solo verificare a posteriori sulla base di un reale consistenza del consenso e del radicamento organizzativo.

Panzieri si porrà il tema nelle sue elaborazioni successive ma, a mio parere, senza risolvere il problema né dal punto di vista teorico né da quello pratico, pur avendo, rispetto alla nostra attuale situazione, un indubbio vantaggio: la classe operaia era concentrata dal capitale in grandi fabbriche nelle quali operavano decine di migliaia di persone. Mentre oggi le classi lavoratrici salariate sono enormemente disperse e frammentate.

 

La rottura col PSI e i “Quaderni Rossi”

Alla fine degli anni cinquanta, l’intellettuale socialista si trova ai margini del suo partito e in dissenso anche con le correnti che formano il socialismo di sinistra e che nel 1964 confluiranno in gran parte nello PSIUP. In quella fase Panzieri coglie certamente i limiti delle strategie dei partiti della sinistra e cerca di rispondervi sia con un lavoro di ricerca teorica quanto con un collegamento operativo con settori del sindacato torinese. Mentre con quest’ultimo i rapporti si fanno subito difficili per le polemiche seguite alla cosiddetta “rivolta di Piazza Statuto” a Torino, riesce a coinvolgere nuove leve intellettuali e militanti di diversa provenienza (prevalentemente giovani e con una significativa presenza del mondo valdese e protestante) che si troveranno, per un breve momento, in sintonia con la ricerca panzieriana. Da questo incontro nascono nel 1961 i Quaderni Rossi.

Si potrà qui solo cercare di considerare qualcuno dei temi che emergono dal lavoro di ricerca della rivista e in particolare di Panzieri, del quale non si può negare, si condividano o meno le sue tesi, la qualità del lavoro intellettuale.

Nel porsi il problema della rivoluzione in occidente e nel valutare criticamente le strategie del PSI e del PCI, Panzieri ritiene che innanzitutto sia necessario un diverso approccio alla conoscenza della realtà. Ritiene che si sia entrati in una nuova fase del capitalismo e quindi si dovrà parlare senza timidezze di “neocapitalismo”, un oggetto in parte nuovo che richiede la definizione di una strategia nuova.

Come strumenti teorici parte da due fondamenti. Il ritorno alla conoscenza diretta dei testi marxiani, il Capitale ma anche altri meno conosciuti, rivisitati criticamente, e l’apporto della sociologia, un ambito scientifico che in generale il marxismo, anche in modo dogmatico, aveva ritenuto sostanzialmente espressione dell’ideologia borghese. Panzieri sosterrà, in questo riprendendo una tesi di Colletti (Vacca, 1972: 133-149), che il marxismo sia sostanzialmente una sociologia. In questo approccio c’era anche una fondata insoddisfazione per un dibattito tra marxisti che ruotava soprattutto su questioni di filosofia e di metodo, rischiando di non misurarsi mai con la realtà sociale effettiva.

Per Panzieri il punto di partenza per la conoscenza della realtà non poteva che essere la fabbrica, il luogo dove la classe operaia (in questo in linea con una specifica tradizione del socialismo di sinistra) vive e si forma. Una riformulazione strategica non può sorgere che dal luogo dove il livello di sviluppo del capitalismo è più elevato. Panzieri, pur avendo una qualche simpatia per la Cina nel conflitto con l’Unione Sovietica (in particolare nell’opposizione alla coesistenza pacifica) non segue l’onda terzomondista che avrà un notevole impatto nei decenni successivi.

La natura del neocapitalismo e “l’insubordinazione operaia”

Dalla sua ricerca Panzieri estrae alcune tesi principali sulla natura del neocapitalismo dalle quali fa poi derivare la considerazione sul ruolo della classe operaia.

Una prima tesi riguarda il rifiuto di considerare ancora rilevanti quegli elementi che vengono considerati caratteristici dell’arretratezza del capitalismo italiano. A partire da una lettura dei testi gramsciani, si ritiene che l’Italia per ragioni storiche non abbia portato a termine la rivoluzione borghese e quindi tocchi al movimento operaio farsi carico di recuperare questi ritardi. In tal modo conquisterebbe l’egemonia su un vasto blocco sociale popolare e dalle posizioni conquistate potrebbe avviare un processo di trasformazione dell’Italia in senso socialista. Il movimento operaio non può far più leva su questa contraddizione: non è l’arretratezza che conta ma è il livello più avanzato che costituisce la sede del conflitto sociale.

Se qui si tratta di una tematica specificamente italiana, le altre due tesi hanno valore generale. La prima è che non si dà più contraddizione tra sviluppo delle forze produttive e rapporti sociali di produzione. In estrema semplificazione socialisti e comunisti ritenevano che il movimento di sviluppo del capitalismo, relativo alle forze produttive, fosse positivo e quindi utilizzabile nel processo di costruzione di una società socialista e comunista. Questa infatti poteva nascere solo con una grande crescita della ricchezza sociale. La parte negativa era data dai rapporti di produzione che fondavano la divisione in classe della società e ad un certo punto diventavano ostacolo allo sviluppo delle forze produttive.

In questa impostazione Panzieri metteva in evidenza, con buone ragioni, l’eccessiva fiducia del movimento operaio nelle ricadute degli sviluppi della scienza e della tecnologia, che non potevano essere considerate neutrali ma erano già tutte imbrigliate nel capitalismo. L’argomentazione di Panzieri ha certamente portato ad una maggiore consapevolezza critica sugli effetti sociali (e poi anche ambientali) delle innovazioni introdotte dal capitalismo.

Va detto però che in questa contraddizione del capitalismo c’è un altro elemento forse non del tutto presente in Panzieri e in altri. Lo sviluppo delle forze produttive non va inteso solo come crescente utilizzo di scienza e tecnologia quanto come crescente carattere sociale della produzione. Da un lato la produzione diventa sempre più sociale (coinvolge un sempre maggior numero di attori) mentre contemporaneamente il controllo del capitale si restringe e si concentra. È qui la sede di un contrasto interno al capitalismo per nulla risolto, al contrario decisamente aggravato.

L’altra contraddizione che il movimento operaio (a partire da Marx e poi da Lenin) ha sempre individuato nel capitalismo, riguarda la contrapposizione tra la pianificazione all’interno della fabbrica, necessaria al capitale per farla funzionare in modo efficace, con il caos e l’anarchia prodotti nella società (causa di crisi, squilibri, ecc.). In realtà, spiega Panzieri ormai il capitale è in grado di pianificare anche la società. Lo Stato non è più il terreno di un possibile compromesso sociale tra classi diverse, ma è lo strumento con il quale il capitale collettivo esporta la pianificazione nella società. La fabbrica irradia la società stessa.

Al di là della corretta valutazione del neocapitalismo operata da Panzieri, emerge un problema di fondo dalle sue riflessioni. Il movimento operaio perde la possibilità di operare a partire dalle contraddizioni interne al capitalismo, il quale di per sé tenderebbe a riprodursi all’infinito.

Ma, dato che Panzieri non è un apologeta del capitalismo, al contrario il suo obbiettivo è rovesciarlo, si pone il problema di quale leva si possa usare per una trasformazione rivoluzionaria. E qui interviene l’idea della irriducibilità operaia al piano del capitale. Gli operai vengono espropriati di qualsiasi capacità autonoma di governo del processo produttivo e diventano vittime del “dispotismo” del capitale.

È questa irriducibilità che costituisce la base di una potenziale “insubordinazione” operaia verso il capitale. Questa può realizzarsi dentro la fabbrica ed è qui che si radica una possibile strategia alternativa a quella che i socialisti perseguono con l’ingresso nella “stanza dei bottoni” e i comunisti con la via nazionale al socialismo e le riforme di struttura.

Panzieri riteneva, almeno in una prima fase della sua ricerca, che le lotte operaie potessero essere “immediatamente politiche” e potessero porre all’ordine del giorno il tema del socialismo, ovvero della trasformazione rivoluzionaria. Come si vede, tornano in un contesto diverso e sulla base di un’analisi teorica ben più raffinata quei due elementi chiave che avevamo riscontrato alle origini del socialismo di sinistra: il programma massimo è immediatamente praticabile e la sola classe operaia è il soggetto rivoluzionario.

Questa ipotesi politica viene sottoposta a verifica da Panzieri con gli scontri che avvengono in Piazza Statuto a Torino e con l’esito delle lotte contrattuali dei metalmeccanici del 1962 che vedono una ripresa della capacità di lotta anche dei lavoratori della Fiat che erano rimasti fino a quel momento alla retroguardia del movimento.

Il ritorno della politica con le riforme e la transizione

Se da un lato resta la critica alla gestione da parte sindacale del conflitto, dall’altro Panzieri trae alcuni elementi di ripensamento per un verso e di radicalizzazione del suo pensiero per un altro. Nell’intervento intitolato “Sul rapporto tra pianificazione capitalistica e sviluppo equilibrato”, l’intellettuale socialista introduce alcune considerazioni di grande rilievo a partire da un bilancio delle lotte del 1962, rispetto alle quali ritiene pensava vi fosse la possibilità di un esito alternativo. Vale la pena di riportare un’ampia citazione: “Anche in questo caso (ndr: “anche”, perché si fa riferimento alle lotte avvenute in Belgio nello stesso periodo) si trattava comunque di mettere capo a un movimento borghese di riforme più veloci e più radicali. Questo avrebbe avuto un valore perché delle riforme borghesi non elargite dall’interno del sistema ma attuate secondo modi non previsti dal piano (ndr: del capitale) diventano un segno, una misura del potere e dell’autonomia della classe operaia. (…) Le riforme non valgono quindi per quello che sono, ma: 1° perché danno la misura dell’incidenza della lotta operaia sul sistema, 2° perché attraverso questo possono diventare un elemento di coscienza politica della classe operaia, 3° perché se non gli impediscono la capacità di lotta sono uno strumento di stimolo all’organizzazione politica. Possiamo intendere in questo senso il termine “controllo operaio”, cioè un controllo esercitato al di fuori di ogni compartecipazione al potere”.

Si tratta, evidentemente, di un passaggio di grande importanza perché mette in discussione quegli elementi di eccessivo spontaneismo e di sopravvalutazione dell’immediata politicità delle lotte operaie in quanto tali, presenti in altri testi precedenti.

Così come di notevole interesse è anche un passaggio successivo nel quale si afferma che: “possiamo fare un serio discorso su questo (ndr: il riferimento è alla questione del partito) solo se partiamo da una idea chiara sul comunismo, e sulla fase di transizione al comunismo, cioè sul socialismo. Dobbiamo quindi porci il problema di una fase di transizione socialista in un paese capitalistico avanzato” (Panzieri, R., 1972; 308-309).

Rapporto tra lotte operaie e riforme e fase di transizione sono due elementi teorici importanti che allontanano Panzieri da una certa tradizione del socialismo massimalista per avvicinarlo, forse inconsapevolmente, alla tradizione comunista, pur continuando a contestare concretamente la politica del PCI. Si può sostenere, senza forzare eccessivamente il ragionamento di Panzieri, che la “politica” messa in un qualche modo fuori dalla porta in alcune riflessioni precedenti, rientrava obbligatoriamente dalla finestra.

Un altro aspetto della riflessione di Panzieri in questa fase si può trarre dalla rottura con Tronti e gli altri che daranno vita a “Classe operaia”. Questi ultimi pensano che sia ormai necessario trasformare le analisi teoriche in un sempre più diretto intervento politico nella prospettiva della costituzione di un nuovo partito della classe operaia, alternativo a quelli (PCI, PSI, PSIUP) esistenti in quel momento. Ma questa forzatura risulta per Panzieri in contrasto con l’idea stessa del partito strumento della classe. Come è possibile che il partito nasca non per iniziativa diretta della classe operaia che dimostrava in larga parte di continuare a seguire sia i partiti tradizionali che il proprio sindacato (inteso nella CGIL) ma promosso da un gruppo di intellettuali. In Tronti c’è una aperta mitologizzazione della classe operaia, rappresentata come la “rude razza pagana” che Panzieri critica come una sorta di nuova filosofia della storia di marca hegeliana. Poi quando la “rude razza pagana” non si presenterà all’appuntamento fissato da Tronti e dagli altri, interverrà la tesi dell’autonomia del politico. Mentre la componente di Toni Negri sostituirà via via l’operaio-massa con altri soggetti (l’operaio-sociale, la multitudine) cercando di mantenere in piedi il paradigma originario.

Per cercare un’altra prospettiva che non sia quella della costruzione del partito, che Panzieri teme possa diventare, non a torto, una setta ideologica, propone l’uso socialista dell’inchiesta. Questa consentirebbe l’incontro tra il gruppo di intellettuali rimasti nei “Quaderni Rossi”, in grado di maneggiare i metodi della sociologia accademica, con un processo di presa di coscienza di settori, necessariamente limitati, di classe operaia. Panzieri giustifica questa proposta, che verrà polemicamente criticata da Asor Rosa su “Classe operaia”, con un richiamo a Lenin: “il movimento politico operaio è l’incontro del socialismo con il movimento spontaneo della classe operaia. Cioè dentro il movimento spontaneo della classe operaia – diceva Lenin, con una immagine abbastanza bella – se non c’è l’incontro con il socialismo come fatto volontario, cosciente e scientifico, c’è l’ideologia dell’avversario di classe”. Il che ci riporta in un qualche modo al punto di partenza, ovvero alla “coscienza esterna” in una formulazione che per certi versi è anche più rigida di quella che sopra abbiamo richiamato espressa da Lenin nel “Che fare!”. Non siamo più evidentemente nella convinzione che le lotte operaie siano, di per sé e immediatamente, lotte per il socialismo. Se Panzieri è stato effettivamente operaista, si può dire che nelle ultime riflessioni, per alcuni aspetti, non lo sia più.

Da un altro versante invece Panzieri mantiene e in qualche modo radicalizza elementi teorici che saranno alla base della formazione dell’operaismo politico. Laddove scrive che “solo limite dello sviluppo del capitale non è il capitale stesso, ma la resistenza della classe operaia. (…) Nel sistema di fabbrica l’aspetto anarchico della produzione capitalistica è unicamente nella insubordinazione della classe operaia, nel suo rifiuto della “razionalità dispotica”” (Panzieri, 1972: 345). Per l’operaismo successivo questo approccio porterà alla parola d’ordine del “rifiuto del lavoro”, unico modo per gli operai per sottrarsi al “dispotismo” del capitale.

Panzieri compie un ulteriore passaggio di grande importanza e di notevoli implicazioni. Nel testo sull’uso socialista dell’inchiesta operaia afferma che c’è stato un “certo cambiamento” nel capitalismo. Per chiarire in che cosa consista questo “certo cambiamento” è opportuno citarlo esattamente: “c’è un rovesciamento nel rapporto tra ricchezza e potere; mentre nel capitalismo classico la ricchezza è il fine e il potere è un mezzo, questo rapporto nel corso del capitalismo tende a rovesciarsi e il potere tende ad asservire la ricchezza, cioè la ricchezza diventa un mezzo per accrescere il potere” (Panzieri, 1972: 324). Risulta evidente che con questa formulazione è la natura stessa del capitalismo che cambia, al punto che si può mettere in dubbio se si possa ancora chiamare capitalismo dato che questo presuppone la centralità del capitale e del suo processo illimitato di accumulazione come fondamento dei rapporti sociali. Se il centro si sposta sul potere, altro diventa l’elemento costitutivo dei rapporti sociali e conseguentemente cambia sensibilmente anche la natura dei soggetti sociali e dei loro conflitti.

Conclusioni

Da questo relativamente breve excursus del pensiero di Panzieri, restano fuori diversi temi e soprattutto una valutazione del suo effettivo impatto sulle diverse correnti anticapitalistiche, sia quelle radicali che quelle dell’estrema sinistra. Il movimento del ’68-69 rappresenta la verifica della correttezza delle tesi di Panzieri? In parte no, il movimento nasce tra gli studenti, in parte sì, dal movimento degli studenti si arriva ad una vasta mobilitazione operaia. Certamente vi furono correnti e organizzazioni che consideravano i “Quaderni Rossi” all’origine della propria storia (Potere Operaio direttamente, Lotta Continua meno direttamente) e altre che l’avversavano o rivendicavano altre radici.

Se si prova a trarre un bilancio a partire dal presente, al di fuori dell’agiografia e della mitizzazione, vanno riconosciuti a Panzieri diversi meriti, in particolare lo sforzo di verificare la validità degli strumenti concettuali senza restare ingabbiato nelle ortodossie utilizzando questi strumenti per comprendere i mutamenti nella realtà sociale.

Altra questione importante che Panzieri ha sollevato è il rapporto tra il partito politico e i soggetti sociali di cui si ritiene, o aspira ad essere, rappresentante. Nel suo caso, e per il suo tema, il rapporto cruciale era fra il partito (e il sindacato) e la classe operaia. Come far sì che il partito politico non sovrapponga le proprie ragioni di esistenza a coloro che rappresenta e organizza? Questo interrogativo si pone per qualsiasi forma politica che essa voglia fare riferimento alla classe o a un blocco sociale, come ai movimenti, al popolo o alla comunità.

Il suo pensiero, nettamente classista come era quello della tradizione storica nella quale va inserito, era certo lontano da tentazioni campiste o geopolitiche, almeno nel passaggio cruciale successivo alla destalinizzazione, che invece oggi tornano a tormentare la sinistra anticapitalista.

Direi però che se la ricerca ci pone alcune interessanti questioni di metodo e sollecita problemi aperti, più difficile rintracciare nelle sue riflessioni, rimaste incompiute per l’improvvisa scomparsa, gli elementi fondamentali sui quali costruire oggi una forza politica di massa con una chiara strategia di alternativa al capitalismo e al potere delle classi dominanti.

Franco Ferrari

 

Riferimenti bibliografici

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