Salario minimo? Timeo Danaos et dona ferentes
mar 29th, 2024 | Di Thomas Munzner | Categoria: Recensioni
Salario minimo? Timeo Danaos et dona ferentes
di Carlo Formenti
L’Italia è l’unico Paese europeo che abbia registrato una contrazione dei salari reali nel trentennio 1990-2020; è anche il Paese che vanta il poco invidiabile record di una percentuale a due cifre di working poor (nel 2019 i lavoratori in condizioni di povertà erano l’11,8% del totale); è infine il Paese in cui i lavoratori che percepiscono una retribuzione oraria inferiore agli otto euro e mezzo l’ora sono più di un milione (1,3). Non sono forse tre buone ragioni per fissare un salario minimo legale, provvedimento che ci viene fra l’altro sollecitato dall’Europa? Savino Balzano, sindacalista pugliese (di Cerignola, città natale di Di Vittorio, precisa orgogliosamente) già autore di libri (1) sulle problematiche del lavoro e collaboratore de La Fionda, non è convinto che questa sarebbe la soluzione giusta per migliorare le condizioni di una delle classi lavoratrici più tartassate del mondo occidentale, e spiega le ragioni di tale opinione in un pamphlet dal titolo Il salario minimo non vi salverà, appena uscito da Fazi Editore.
Il salario minimo, sostiene, potrebbe essere l’ultima di una lunga serie di trappole che, a partire dalla seconda metà degli anni Settanta, hanno collaborato a ridurre progressivamente il potere contrattuale dei lavoratori italiani, fino a ridurlo praticamente a zero. Descrivendo le tappe di questa via crucis, l’autore prende le mosse da Luciano Lama, la vestale del moderatismo sindacale che, con parole degne di Menenio Agrippa, spiegò agli operai che l’impasse del lungo ciclo di lotte del decennio 60/70 era l’inevitabile esito di una stagione di rivendicazioni “estremiste”, alimentate dall’illusione di fare del salario una variabile indipendente. Purtroppo, ammoniva Lama, appellandosi alle “leggi” dell’economia canonizzate dagli esperti al servizio della Confindustria, il capitalismo conosce una sola variabile indipendente, vale a dire quel profitto che, ove costretto a scendere al di sotto di un “ragionevole” minimo, provoca crisi, disinvestimenti, chiusure di imprese, licenziamenti.
Una volta incisa nell’opinione pubblica l’idea che la crisi iniziata negli anni Settanta era attribuibile alle intemperanze del sindacalismo di base e dei consigli dei delegati di reparto, (e non alla fine della bonanza delle materie prime a buon mercato, ai conflitti interimperialistici, all’avvio di un nuovo ciclo di finanziarizzazione dell’economia, ecc.), e una volta imboccata la via della “compatibilità” fra livelli salariali e margini di profitto, si è scesi lungo un piano inclinato sempre più ripido. Incassata la sconfitta della Fiat nel 1980, celebrato (con la scarsa opposizione, se non con la benedizione, di una sinistra sempre più sensibile alle sirene neoliberali) il divorzio fra Banca Italia e Tesoro (1981), a partire dal quale è divenuto impossibile ricorrere al debito pubblico per finanziare politiche economiche anti regressive, si è benedetto il compromesso storico PCI-DC celebrato all’insegna dell’austerità come valore “di sinistra” (2). Finché nel 1985 i sindacati, sposando la tesi che attribuiva la causa dell’inflazione al meccanismo di indicizzazione dei salari, firmano il protocollo Scotti che taglia del 15% la scala mobile, che verrà finalmente soppressa nel 1992, lo stesso anno di quel Trattato di Maastricht che segna la definitiva abdicazione dello Stato italiano alla possibilità stessa di praticare politiche economiche anticicliche.
La cronistoria che Balzano stende dei tradimenti perpetrati nei confronti degli interessi dei lavoratori si articola su due linee, parallele ma strettamente connesse. Da un lato, si impegna a smascherare il mito di un’Europa chiamata a legittimare le politiche di contenimento di retribuzione e spesa pubblica come via obbligata per evitare la catastrofe del fallimento. Un’Europa che letteralmente non esiste, scrive Balzano, ove si consideri che non condividiamo una lingua né un’identità comuni, né tanto meno, uno spirito solidaristico unitario; ma se non esistono una comunità o un popolo europei, esiste la UE in quanto sistema giuridico, ingegneria istituzionale, un organismo che, ancorché privo di legittimazione democratica, può dettare ai paesi membri le politiche pubbliche. Esiste l’Europa come spazio che impone la concorrenza fra stati per attirare capitali garantendo bassa pressione fiscale, tagli allo stato sociale, basso costo del lavoro. L’Europa che nel 2012 ci ha imposto di integrare il Fiscal Compact nella Costituzione, cancellandone con un tratto di penna tutti gli articoli formulati a tutela della dignità del lavoratore e del cittadino.
Dall’altro lato l’autore elenca gli obiettivi che, sfruttando l’inquadramento del Paese nella gabbia europea e la trasmigrazione di vertici sindacali e partitici sotto i vessilli del liberismo, questa spietata guerra di classe dall’alto (3) è riuscita a realizzare sul fronte interno. Di anno in anno, accusa, la classe operaia è stata inondata di menzogne, un coro cui hanno partecipato non solo sindacalisti e politici ma anche intellettuali, studiosi, giornalisti unanimemente impegnati ad assicurare, in occasione di ogni taglio di salario diretto e indiretto (sanità, pensioni, welfare), e di ogni cambiamento peggiorativo delle regole sui contratti di lavoro, che questi “sacrifici” avrebbero garantito un aumento dell’occupazione.
Ciò che in realtà si è ottenuto è stato l’aumento della precarietà. Così, in un crescendo culminato con il famigerato Jobs Act varato da Renzi, i lavoratori hanno “conquistato”: la liberalizzazione dei contratti a termine; i contratti di apprendistato che hanno istituzionalizzato lo sfruttamento semi gratuito di persone congelate a tempo indeterminato nello status di lavoratori “in formazione” e “in prova” (per tacere dell’alternanza scuola-lavoro, che ha consentito di imporre a migliaia di studenti di sgobbare gratuitamente, e di pagare un sanguinoso tributo alla strage dei caduti per incidenti sul lavoro); la creazione di un esercito di finte partite Iva, inquadrate come dipendenti a tempo pieno senza godere dei “privilegi” dei colleghi regolarmente assunti (operazione accompagnata da una tambureggiante retorica sulle magnifiche sorti e progressive di una nuova generazione di aspiranti “imprenditori di se stessi”); infine, a correzione dell’ “eccesso di tutela” garantito dallo Statuto dei lavoratori, i vincitori delle cause contro licenziamenti immotivati non hanno più potuto ottenere la reintegrazione del posto di lavoro ma solo modesti rimborsi.
Per colmo di ironia, una volta creato questo variegato esercito di precari, lo si è aizzato contro gli ingiusti “privilegi” di lavoratori garantiti e pensionati, tentando di dirottare la rabbia delle nuove generazioni contro gli anziani, una delle tante guerre fra poveri al pari dei conflitti fra uomini e donne, immigrati e autoctoni, ecc. Nel frattempo, le sinistre liberal progressiste sventolavano la bandiera arcobaleno (simbolo di quei diritti civili – riservati a individui e gruppi minoritari (4) – che Balzano definisce senza peli sulla lingua il nuovo oppio dei popoli) dimentiche di essere le prime responsabili della falcidia di salari, occupazione e stato sociale. Nel corso dei decenni in cui l’esercito del lavoro abbandonato dai propri generali passava di sconfitta in sconfitta, l’unico provvedimento in controtendenza è stato, pur con i suoi limiti, quel Decreto dignità varato nel 2018 dal governo M5S – Lega, provvedimento che, nella misura in cui poneva un minimo argine agli effetti dell’abolizione dell’Articolo 18, è stato criticato da PD e CGIL perché foriero di rischi di “irrigidimento” del mercato del lavoro. A rassicurare i padroni in merito ai rischi in questione hanno del resto provveduto i successivi governi Draghi e Meloni.
A questo punto perché non guardare con favore alla proposta di istituire un salario minimo fissato per legge? In primo luogo, risponde Balzano, perché a sostenerla sono gli stessi soggetti, come la UE, le sinistre liberal progressiste e persino la Confindustria (“non poniamo ostacoli, anche perché noi già paghiamo di più”) che hanno gestito lo scempio dei diritti delle classi lavoratrici appena descritto: timeo danaos et dona ferentes, per citare l’avvertimento di Laocoonte agli imprudenti troiani che si apprestavano a introdurre il cavallo nelle mura cittadine. Per corroborare il proprio sospetto, Balzano cita fra gli altri il guru del neoliberismo von Hayek: l’uomo che aveva individuato nell’Europa il dispositivo ideale per abbattere il costo del lavoro si è infatti speso a favore di un reddito minimo “per impedire che i poveri possano rappresentare una minaccia”.
Eppure, gli si potrebbe obiettare, è indubbio che i lavoratori non coperti da contratti collettivi potrebbero trarne giovamento. Vero, replica Balzano ma, a parte il fatto che lavoratori in nero e finti autonomi ne resterebbero fuori, si tratterebbe comunque di una minoranza, visto che la maggioranza gode di retribuzioni superiori alle soglie minime previste. Ma soprattutto, aggiunge, il rischio è che, in un contesto di debolezza contrattuale, il salario minimo legale potrebbe trascinare verso il basso le retribuzioni. Un simile provvedimento potrebbe funzionare solo in un contesto contrattuale favorevole alla forza lavoro, svolgendo il ruolo di base retributiva incomprimibile per gli strati più deboli e di primo gradino di una mobilità verso l’alto per quelli più forti, viceversa, in un contesto di debolezza generalizzata, qual è quello attuale, agirebbe da “tappo”, legittimando il rifiuto padronale nei confronti di ogni velleità di aumento (vi diamo già più del minimo) o addirittura le decurtazioni di salari “eccessivi” in situazioni di crisi aziendali e/o di crisi settoriali o generalizzate (non possiamo darvi più del minimo fissato per legge, ed è già fin troppo). Del resto, scrive Balzano, la stessa CGIL ha già siglato contratti che prevedono paghe sotto i 9 euro l’ora (cioè la base che si ipotizza per il salario minimo legale).
Per capire il vero nodo sollevato da Balzano, occorre però andare al di là delle argomentazioni fin qui esposte. Il fatto è che la sua diffidenza è rivolta in generale contro la regolazione politica dei rapporti di forza fra classi sociali. Un esempio? I diritti acquisiti con lo Statuto dei lavoratori, argomenta, sono stati operativi solo finché gli operai hanno avuto la forza di imporne l’applicazione. Venuta meno tale condizione si è capito come quella “conquista” fosse servita a congelare, istituzionalizzandolo, il processo di democratizzazione delle imprese innescato dalla rivoluzione dei delegati di reparto, per poi decapitarlo in una fase successiva. Insomma: le vere conquiste non derivano dalla legge ma dagli equilibri di potere, solo i lavoratori possono salvare i lavoratori, mentre delegare alla legge (cioè alla politica) la gestione dei loro interessi “significa firmare una cambiale in bianco ai partiti”, gli stessi che li hanno massacrati.
Eppure nemmeno Balzano può esimersi dall’evocare la legge nella sua forma più alta, vale a dire quegli articoli della nostra Costituzione che trattano del lavoro, per spiegare a quale modello dovrebbero a suo avviso ispirarsi i rapporti fra capitale e lavoro. Un modello al quale, sembra di capire da alcuni passaggi del libro, si sarebbe in qualche modo avvicinato, pur senza realizzarlo, il capitalismo del trentennio postbellico, (un modello capitalistico “che è stato svenduto” scrive). Dopodiché riconosce che quel modello costituzionale appare oggi insostenibile (5), per cui conclude ammettendo francamente di non essere in grado di proporre una pars construens, tanto è vero che l’unica affermazione “positiva” che ho trovato nel libro è che ci vorrebbe un sindacato “animato da una visione del lavoro e della società”. Perché piuttosto non un partito radicalmente altro da quelli che giustamente critica, un partito diverso sul piano di principi, valori e modalità di intervento politico e sociale? Evidentemente perché Balzano è a sua volta parte di quella cultura radicalmente antipolitica che caratterizza anche l’ala più onesta e incazzata (tanto da rivendicare il proprio diritto all’odio di classe) di una sinistra occidentale ormai arresasi alle ragioni del verbo liberale. Una cultura che, nel suo caso, assume toni che non esisterei a definire pansincalisti, visione di cui la sua generosa denuncia sconta inevitabilmente i limiti. Vedi laddove scrive che quello del lavoro è un mercato, non un mercato qualunque ma pur sempre un mercato; ebbene: questo è esattamente il confine al di là del quale nessuna prassi sindacale, anche la più radicale, potrà mai spingersi. Oltre c’è solo il riconoscimento di Marx – ma anche di Polanyi (6) – che la forza lavoro (non il lavoro!) è, al pari della terra e del denaro, una finta merce, e che questa finzione, su cui si fonda l’oppressione e lo sfruttamento delle classi lavoratrici, può essere superata solo da una società socialista, magari “imperfetta”, come quelle di cui mi occupo nel mio ultimo libro (7), ma in cui è comunque la politica a governare sull’economia e non viceversa.