«Marcuse décrit la Société du Spectacle». Guy Debord lettore di “Eros e Civiltà”
feb 20th, 2024 | Di Thomas Munzner | Categoria: Cultura e società
«Marcuse décrit la Société du Spectacle». Guy Debord lettore di “Eros e Civiltà”
di Afshin Kaveh
In questo senso ogni pensatore è responsabile di fronte alla storia del contenuto obbiettivo del suo filosofare.
G. Lukács, La distruzione della ragione
Quel libro tra gli scaffali
Nel 1955, presso la Beacon Press di Boston, trovava per la prima volta pubblicazione Eros and Civilization: A Philosophical Inquiry into Freud del filosofo tedesco Herbert Marcuse, all’epoca insegnante presso l’Università di Harvard. Poco meno di dieci anni dopo, nel 1963, Kostas Axelos, già direttore della rivista Arguments chiusa l’anno precedente e che per le Éditions de Minuit curava una collana omonima, metteva alle stampe la traduzione del libro – resa da Jean-Guy Nény e Boris Fraenkel – consegnata al pubblico francese col titolo di Eros et Civilisation: Contribution a Freud. Daniel Cohn-Bendit, ricordando l’opera, affermava in un primo momento che dall’anno di uscita sino a poco prima degli avvenimenti ruotanti attorno al Maggio del 1968 avesse venduto quaranta esemplari in tutto[1], per poi darne una versione differente diversi anni dopo parlando di «sì e no milleseicento copie» prima del Maggio e più di «centomila esemplari» subito dopo[2]. Quaranta o più di mille copie che fossero, una di queste è presente tra gli scaffali della biblioteca personale di Guy Debord, deposta, dal 2010, presso la Bibliothèque Nationale de France. A tal proposito ci ritorna utile il contributo di Emmanuel Guy e Laurence Le Bras[3], secondo cui, seppur «composta da circa duemila libri», l’archivio dei testi del parigino «corrisponde a una biblioteca tutto sommato piuttosto piccola per uno scrittore di questa portata» e che, per di più, non può essere illustrativa rispetto alle intense letture che hanno accompagnato Debord per tutta una vita, anche perché «il rapido sfogliare i libri al disimballaggio dalle scatole» ha dimostrato, salvo «due eccezioni», che tra le centinaia di migliaia di pagine non era presente «nessuna annotazione a margine dei testi»[4].
È importante contestualizzare questi due punti. Per il primo, ovvero la mole dei libri, bisogna tenere conto che in tutta la propria vita Debord non ha mai posto radici per periodi che gli permettessero di riuscire a organizzare e conservare a lungo una propria libreria e, fatta eccezione della sua ultima abitazione a Champot nell’Alta Loira, abitata per quindici anni, dal 1979 sino al suicidio, in quello che lui definiva «un inaccessibile casolare circondato dai boschi, lontano dai villaggi» e che «sembrava aprirsi direttamente sulla Via Lattea»[5], per tutto il resto della propria vita si è trovato costretto a lasciare, rinunciare o regalare moltissimi libri in vista dei tanti traslochi e viaggi; numerosi solo a Parigi, poi in Italia, in Portogallo, in Spagna e, infine, di nuovo in Francia. Per quanto riguarda il secondo punto, sebbene i titoli da lui posseduti tra gli scaffali possano pur sempre rappresentare una vaga idea dei suoi interessi, a riportare veramente alla luce il pensiero di Debord, illuminandolo di un fuoco vivido, sono un accumulo di migliaia di schede, taccuini e fogli ricoperti di appunti minuziosi, composti lungo tutto un percorso che ebbe inizio alla fine degli anni ’50, in quella che, sia Guy che Le Bras, chiamano la sua «biblioteca interiore»[6]. L’organizzazione di queste pagine, che rivelano l’accurata meticolosità e originalità dello studio e della formazione di un brillante autodidatta – sia nella precisa composizione delle proprie tesi che nella propria ricerca di punti in comune con altri autori –, non sarà argomento del presente articolo, ma parte di questi appunti ci ritorneranno utili: nella sezione delle sue schede di lettura da lui stesso organizzata sotto il nome di «Philosophie et sociologie», Debord intrattenne infatti un confronto con l’opera di Marcuse.
Premesse divergenti
Il primo a mettere sistematicamente in luce il rapporto Debord-Marcuse supportato da una rigorosa e attenta lettura filologica, è stato lo studioso Gabriel Zacarias. Egli scrive che «le schede di lettura mostrano che non solo» Debord «aveva letto», ma aveva proprio «apprezzato il libro del filosofo tedesco» al punto che «questa lettura aveva contribuito alla stesura de La società dello spettacolo»[7]. Zacarias ha il grande merito di aver fatto realmente dialogare i due autori, a differenza di quelle letture superficiali che, accostando i due nomi, miravano esclusivamente a sottolineare l’impatto che le opere di Marcuse e La société du spectacle di Debord avevano avuto nel corso della stagione di lotte del 1968[8]. Eppure il presente articolo, pur condividendo le conclusioni di Zacarias rispetto all’attenzione che Debord aveva dedicato a Marcuse, si dà come compito quello di sottolineare la profonda divergenza tra i presupposti e le conclusioni delle teorizzazioni dei due pensatori.
In una lettera della fine del 1964, indirizzata a un certo Lansard, un aspirante situazionista, Debord inseriva Eros e Civiltà in una lista di libri che consigliava come funzionali a quello che definiva un «programma di studio». D’altro lato Debord non ha praticamente mai menzionato Marcuse: nella voluminosa corrispondenza, fatta eccezione della lettera pocanzi citata, Debord nomina fugacemente il filosofo tedesco in altre due occasioni, ovvero in una lettera del 25 ottobre 1965 indirizzata a Mustapha Khayati e in una del 13 gennaio 1969 a Robert Chasse, quest’ultimo per avvisarlo di non aver ricevuto il suo polemico «volantino su Marcuse», poi uscito sul primo e unico numero del bollettino della seziona statunitense dell’Internazionale Situazionista col titolo The recuperation of Marcuse[9]. In tutti e dodici i bollettini dell’Internazionale Situazionista, Marcuse è citato solo una volta ma non dalla penna di Debord ma, bensì, per mano di Mustapha Khayati, in un articolo in cui l’autore del pamphlet De la misère en milieu étudiant, menzionava l’opera Soviet Marxism: A Critical Analysis[10] del 1958, tradotta e diffusa in Francia sempre e solo dal 1963 per le edizioni Gallimard.
Il confronto di Debord con Marcuse, probabilmente sopraggiunto attraverso la lettura della psicanalisi e di Freud, a sua volta dettata in principio dal suo giovanile incontro col surrealismo francese, s’innalzava quasi subito al di là di queste influenze in quanto superate e abbandonate nella totale dedizione del parigino verso il metodo “dialettico” e, soprattutto, la “filosofia della storia”. Nel libro di Marcuse, invece, si va incontro a una profonda rilettura filosofica dell’opera di Freud mescolandovi una certa dose di concetti e categorie introdotte e sviluppate da Marx. Sulla lettura di quest’ultimo, sia Debord che Marcuse si trovavano accomunati dall’importanza data all’interpretazione dell’agitatore di Treviri attraverso la lente di Hegel[11] e, ultimo ma non meno importante, dalla forte influenza esercitata su entrambi dalla monumentale opera lukácsiana Storia e coscienza di classe. Da questo comune trio (Marx, Hegel e Lukács) il presente contributo diramerà attraverso questioni e categorie solo ed esclusivamente filosofiche. Le facciate di queste influenze, per esempio, emergono chiaramente dagli archivi di Debord soprattutto negli appunti che scrisse al momento di decidere il titolo del proprio libro, riflettendo tra «la dialectique de/dans la société du/comme spectacle»[12] o nella decisione di un ipotetico sottotitolo, immaginando come possibilità «le moment spectaculaire de la société marchande»[13] che ben fa intuire gli intenti critici e la base teorica da cui ha avuto inizio la sua analisi. A partire da questo dato di fatto la lettura psicanalitica di Marcuse (che in Eros e Civiltà ne costituisce il castello, i bastioni e le fondamenta) non sarà né affrontata né lontanamente menzionata perché distante anni luce dal metodo di Debord. Infatti, se Freud, «in una polemica con il teorema di Kant, secondo cui tempo e spazio sarebbero “forme necessarie di pensiero”» gli si contrapponeva presentando tutti i luoghi dell’interiorità umana come «in sé “atemporali”», ovvero non obbedienti ad alcuna «sequenza temporale», immodificabili e indipendenti alla «categoria del tempo»[14], Debord non poteva accettare queste conclusioni e, da tutt’altra prospettiva, ovvero dalle categorie hegeliane e marxiane, guardava all’essere umano non come avente un’essenza “pura” e “originaria” ma anzi presentando il tutto come storicamente determinato e, in quanto tale, non astorico, eterno, fermo, ma al contrario diveniente e modificabile con l’impatto radicale di profondi cambiamenti sociali. Insomma, è bene tenere a mente che Debord inizia le sue analisi dalla certezza che «l’uomo, “l’essere negativo che è unicamente nella misura in cui sopprime l’Essere”, è identico al tempo»[15], un primo passo che, come vedremo, lo separa da Marcuse.
Il “tempo” in Marcuse e Debord
Sebbene Marcuse inserisca tra i propri elementi principali «la conquista del tempo», presenta quest’ultimo come quella dimensione che «distrugge ogni soddisfazione duratura»[16] e, per dirla con Zacarias, «per Marcuse, il tempo appare come il limite invariabile alla rivendicazione del piacere» auspicando dunque un piacere eterno come ultima istanza[17] e, anzi, indicando nell’atemporalità la base ideale per lo stesso[18]. Infatti, scrive Marcuse, «il nemico funesto della soddisfazione duratura è» proprio «il tempo, la limitazione interiore, la brevità di ogni condizione», per cui «l’idea della liberazione integrale dell’uomo» non può che passare per «la visione della lotta contro il tempo»[19]. Per Marcuse l’uomo, apprendendo «che “non può durare per sempre”, […], che per ogni cosa limitata l’ora della nascita è l’ora della morte – che non potrebbe essere altrimenti»[20], ebbene in questo riquadro «il fluire del tempo è il più grande alleato della società nel suo intento di conservare legge e ordine» in quanto esso, scorrendo, «aiuta gli uomini a dimenticare ciò che è stato e ciò che potrebbe essere: esso fa sì che essi dimentichino un migliore passato e un futuro migliore»[21]. Quella che Marcuse definisce «facoltà di dimenticare» è presentata dapprima come «un’esigenza indispensabile», per poi affermare subito dopo che «significa anche perdonare ciò che non si dovrebbe perdonare se si vuole la vittoria della giustizia e della libertà» in quanto «perdonare riproduce le condizioni che riproducono l’ingiustizia e l’asservimento». Tutto questo sarebbe dunque un «arrendersi al tempo» a cui Marcuse presenta il «ricordo» come «uno dei compiti più nobili del pensiero» salvo, poche righe più avanti, scoprirsi nietzschiano e vedere nella facoltà del ricordare o «nell’allenamento della memoria l’inizio della morale civile – particolarmente della memoria di obblighi, contratti e impegni»[22]. Il nostro francofortese confuso impiega pochissime pagine per inveire dapprima contro la “facoltà di dimenticare” costituita dall’antipatico scorrere del tempo, subito dopo definirla “indispensabile”, infine che il “dimenticare” comporta anche il “perdonare”, quindi l’accettazione dello stato di cose presente. A rigor di logica gli si dovrebbe dunque opporre il “ricordare”, ma per Marcuse la “memoria” si «lega alla cattiva coscienza», alla «colpa», al «peccato», all’«infelicità», alle «minacce di punizione»[23]. Alla partenza della sua disamina tocca una questione reale, ovvero l’essere “mortali”, ma la pone quasi nei limiti del dizionario ontologico heideggeriano dell’essere-per-la-morte[24], premesse invece totalmente estranee a Debord. Le conclusioni a cui giunge Marcuse, con un invito atemporalizzante, non possono che precludere e limitare le forze della vita all’interno di bolle sovrastoriche. Marcuse presenta uno scenario privo di un qualsiasi contorno preciso in cui l’uomo «si rassegna prima che la società lo costringa a una rassegnazione metodica»[25], presupposti a cui cede risposte interiori e resistenze spirituali che ricordano l’ambigua rassegnazione dell’esser gettato di Heidegger armato però di utopismo. Il rischio marcusiano è quello di oscillare dualisticamente nel gergo concettuale kierkegaardiano in un non ben definito autentico e inautentico. Così finisce col combattere il secondo per la ricerca del primo perdendo di vista le interrelazioni di una realtà materiale decisamente più complessa. Ampliare l’inautentico sino all’essenza umana che abita il tempo, pensando dunque l’inautenticità come similitudine della reificazione, risulta una semplificazione: quale sarebbe l’autenticità dell’essenza umana e del tempo per potersi de-reificare o che l’inautenticità corromperebbe?[26] Neanche il rievocare nuovamente la “memoria” e il “ricordo”, poco prima invece da Marcuse presentate come soluzioni problematiche, pur ammettendo che non si tratta di «un’arma reale, a meno che non lo si traduca in azione storica» grazie a cui «la lotta contro il tempo diventa un fattore decisivo nella lotta contro il dominio»[27], lo esula da questo limite, piuttosto palese, di una lotta irrazionalista contro il tempo in un illogico auspicio all’eternalismo. Ciò che sfugge è che quest’ultimo trova in Marcuse terreno fertile grazie a due letture completamente errate: la “fine della storia” in Hegel[28] e l’“eterno ritorno” in Nietzsche[29].
Per Debord invece esiste una «base naturale del tempo» e il tempo scorre come «dato sensibile»[30] (concependolo così, e giustamente, nella sua propria autonomia), limite, quello del tempo e della morte, che il teorico situazionista ovviamente riconosce ma assolutamente non combatte, presentando anzi il tempo come «l’alienazione necessaria, come mostrava Hegel, l’elemento in cui il soggetto», dialetticamente, «si realizza perdendosi, diviene altro per divenire la verità di se stesso»[31]. Il problema, secondo Debord, è che il tempo naturale è soggiogato in una società in cui «è semplicemente proibito invecchiare» e in cui l’«assenza sociale della morte è identica all’assenza sociale della vita»[32]. Il tempo si presenta come mero «tempo della produzione», come «tempo-merce», «un’accumulazione infinita di intervalli equivalenti» che rappresenta se stesso «sul cronometro» quale «uguaglianza quantitativa»[33], assumendo l’aspetto di un «tempo generale del non-sviluppo umano», ovvero «tempo pseudo-ciclico»[34], che è «quello del consumo della sopravvivenza economica moderna» alla cui base «il vissuto quotidiano rimane privato di decisione e sottomesso, non più all’ordine naturale» quale il tempo è in sé, «ma alla pseudo-natura sviluppata nel lavoro alienato»[35]. Per Debord, a differenza di Marcuse, non è il fluire del tempo a mantenere lo stato di cose presente quanto bensì la sua astoricizzazione, «lo spettacolo, come organizzazione sociale presente della paralisi della storia e della memoria, dell’abbandono della storia eretto sulla base del tempo storico, è la falsa coscienza del tempo»[36]: il modo di produzione capitalistico pone la storicità come suo presupposto per poi negarla naturalizzando e ontologizzando le proprie categorie costitutive, pone il tempo come carattere centrale del proprio funzionamento ma contemporaneamente lo nega astoricizzandosi come modello esistente da sempre e per sempre, come unica e possibile organizzazione materiale della vita e sintesi sociale dell’esistenza degli esseri umani associati dall’antichità a oggi, e così domani ancora. Non a caso per Debord anche quella che marxianamente si può definire “l’accumulazione originaria”, si è giocata sul tempo, leggiamo infatti che «per ridurre i lavoratori allo stato di produttori e consumatori “liberi” del tempo-merce, la condizione preliminare è stata l’espropriazione violenta del loro tempo»[37]. La loro stessa esistenza si ritrova a essere separata e frammentata da sé e dal proprio tempo «nell’aumento della produttività realizzato per mezzo del raffinamento incessante della divisione del lavoro»[38] la cui logica è feticisticamente e tautologicamente estesa verso ogni ambito della vita quotidiana, tempo compreso,infatti, «la società che separa alla radice il soggetto dall’attività che gli sottrae, lo separa anzitutto dal suo proprio tempo»[39].
Il “lavoro” in Marcuse e Debord
Anche per il pensatore della corrente francofortese «il lavoro che ha creato e ampliato la base materiale della civiltà, è stato principalmente fatica, lavoro alienato, penoso e miserabile» così come «continua a esserlo»[40]. La teoria marcusiana si predispone inizialmente verso «la trasformazione del lavoro faticoso in gioco» e della «produttività repressiva in “libera espansività”»[41] per poi affermare subito dopo che «gioco e libera espansività, come principi di civiltà, non implicano una trasformazione del lavoro, ma la sua assoluta subordinazione al libero evolversi delle potenzialità dell’uomo e della natura» auspicando infine una conversione del «lavoro faticoso necessario», composto «di attività essenzialmente disumane, meccaniche, di pura routine»[42], in un gioco che, invece, non trova spazio alcuno all’interno della sfera della sedicente utilità sociale. «Dire che il lavoro debba essere fatto perché è “lavoro”, è veramente il colmo dell’alienazione»[43]. La conflittualità tra la vita e il lavoro, secondo Marcuse, deve essere combattuta con la contrapposizione non al lavoro stesso ma, bensì, al lavoro alienato, inteso come fulcro centrale del «principio di prestazione», ovvero «la forma storica prevalente» e dominante della e sulla vita dell’individuo[44]. Eppure per Marcuse, che nella propria produzione teorica, «dal punto di vista terminologico», si trova a oscillare ripetutamente «tra eliminazione del lavoro ed eliminazione del lavoro estraniato solo perché nel linguaggio corrente i termini “lavoro” e “lavoro estraniato” sono ormai divenuti equivalenti»[45], appiattisce spesso ciò che è il lavoro, rendendolo imprecisamente generico e storicamente indeterminabile, con ciò che è invece l’attività umana in quanto tale, tanto da affermare proprio che per quanto riguarda l’«eliminazione del lavoro come tale, credo non sia possibile»[46]. Ciò che manca in Marcuse è una critica categoriale del lavoro-in-sé e, perdendosi nel moralismo dei labirinti di matrice freudiana, abbandona per strada la costruzione marxiana del funzionamento logico del modo di produzione capitalistico, di cui il “lavoro” è uno dei perni principali: soltanto qui l’attività umana è anacronisticamente generalizzata a “lavoro” e soltanto qui il suo lato astratto è posto a categoria economica principale e fondativa. Il lavoro che, prescindendo dal contenuto materiale del proprio agire e dispendio, ha come base portante il profilarsi della valorizzazione del valore come unico fine. Il valore che, come soggetto automatico, diviene il solo moto esistente del processo lavorativo e da cui gli individui tutti, in quanto “maschere di carattere” (Marx), sono agiti e non agenti. Il lavoro inteso esclusivamente in una sfera di misurabilità temporale in cui il denaro e la merce sono le uniche determinazioni abituali della mediazione sociale. Lavoro, merce, valore e denaro che, perdendo il proprio carattere storicamente determinato, si naturalizzano feticisticamente come categorie acriticamente eterne. A differenza di Marcuse, Debord si scaglia contro ciò che il lavoro è e rappresenta dimostrando una maggiore avversione verso l’economia. Non a caso descrive lo “spettacolo”, «il risultato e il progetto del modo di produzione esistente»[47], quello capitalistico, come «l’economia sviluppantesi per se stessa»[48], l’economia che da mezzo diventa il fine, l’economia non come forza di produzione materiale, caratteristica quest’ultima tipica di tutte le società umane oltre che base essenziale di sopravvivenza nella relazione col mondo naturale che viviamo e che siamo, ma la sottomissione economica di tutta la vita umana nel ribaltamento tra astratto e concreto tipico del modo di produzione capitalistico. Non a caso per Debord «l’astrazione di ogni lavoro particolare e l’astrazione generale della produzione d’insieme si traducono perfettamente nello spettacolo, il cui modo d’essere concreto è precisamente l’astrazione»[49]. A questo proposito l’analisi debordiana non deve essere ridotta a una disamina dei media di massa, la teoria dello “spettacolo” non può essere letta «come un abuso del mondo visivo, prodotto delle tecniche di diffusione massiva delle immagini», in quanto lo “spettacolo”, pur essendo «un rapporto sociale fra individui» ma «mediato dalle immagini»[50], è in sé «una Weltanschauung divenuta effettiva, tradotta materialmente»[51]. Per cui, seppur sia vero che Debord presenti lo spettacolo come «il mondo sensibile» che viene «sostituito da una selezione di immagini»[52], esse non sono semplicisticamente quelle che scorrono nelle televisioni, e «la perdita dell’unità del mondo»[53] non è data dallo sguardo verso un servizio giornalistico di cui si è spettatori, ma dal rivestire questo stesso ruolo passivo nella vita quotidiana stessa. Dal momento in cui l’attività umana è generalizzata nel “lavoro” (decretando persino cosa sia produttivo e cosa non lo sia) e senza di esso non si possa esistere nella barbarie della “sopravvivenza aumentata” (Debord), la soluzione per riappropriarsi dell’unità del mondo non può che trovarsi nella critica radicale del “lavoro” stesso.
La progettualità rivoluzionaria in Marcuse la si ha con quello che chiama il “Grande Rifiuto”, ovvero «la protesta contro la repressione superflua, la lotta per la forma definitiva di libertà»[54]. In Debord la si ha nell’auto-organizzazione dei Consigli Operai, il «luogo in cui le condizioni oggettive della coscienza storica sono riunite; la realizzazione della comunicazione diretta attiva, in cui finiscono la specializzazione, la gerarchia e la separazione, in cui le condizioni esistenti sono state trasformate “in condizioni dell’unione”»[55], il luogo in cui si «è il proprio prodotto, e questo prodotto è il produttore stesso» e «la negazione spettacolare della vita è negata a sua volta»[56]. Da cosa derivano due risposte così differenti? Di fronte a una sintesi sociale feticista in cui concreto e astratto si ribaltano e in cui l’utilità diretta di un’attività non ha senso se non si converte e realizza in valore di scambio su mercati anonimi, l’esistenza umana si ritrova a rivestire vesti contemplative, categoria ampiamente usata da Lukács, ma se Debord della contemplazione lukácsiana mantiene l’impianto critico-negativo, Marcuse la presenta positivisticamente come base sulla quale riscoprire la soddisfazione, la bellezza e, infine, goderne riappropriandosi del mito di Orfeo e Narciso, a discapito di quello di Prometeo rappresentante invece la fatica, la produttività e il progresso per mezzo della repressione[57]. E così la lotta spirituale di Marcuse fatica a scendere dal cielo in cui nasce.
Gli appunti di Debord su Marcuse
Grazie alla pregevole ricerca filologica di Gabriel Zacarias possiamo ora avventurarci tra gli archivi di Debord. L’attenzione non può che ricadere subito su di una frase che Debord ricopia da Eros e Civiltà e che, nel suo ultimo passaggio, ci appare molto utile nel comprendere il rapporto tra i due autori. Secondo Marcuse le logiche che hanno «avuto luogo in tutto l’ambito della civiltà industriale contemporanea» sono state descritte «nei vari resoconti sugli stati totalitari e le “culture popolari”», e gli esempi di questa tendenza sono il «coordinamento dell’esistenza privata e pubblica» oppure «la promozione di attività spensierate nelle ore libere» e, infine, «il trionfo di ideologie antintellettuali»[58]. Accanto a questa trascrizione (di cui Debord in realtà ricopia un passo decisamente molto più lungo e consistente) Debord riporta un appunto più che significativo: «Marcuse décrit la SdS», ovvero «Marcuse descrive la Società dello Spettacolo»[59]. Debord ricopia altri due passaggi del libro, trascrivendo per entrambi l’appunto «thèse I.S. de base»[60] facendoci intendere che il parigino riconoscesse nell’opera marcusiana parte della complessità teorica dell’Internazionale Situazionista. Questi passaggi sono: «la civiltà deve difendersi contro lo spettro di un mondo che potrebbe essere libero»[61] e «le risorse disponibili portano a un cambiamento qualitativo dei bisogni umani»[62]. Nel paragrafo successivo all’ultima citazione, Marcuse prosegue scrivendo che, a parer suo, «la razionalizzazione e la meccanizzazione del lavoro», tendenzialmente, potrebbero ridurre il quantitativo di forza solitamente incanalata «in lavoro faticoso (lavoro alienato), liberando in questo modo» quella necessaria «a raggiungere gli obbiettivi posti dal libero gioco delle facoltà individuali»[63], passaggio che, come ci riporta Zacarias, Debord ricopia con l’appunto «idée de base I.S., en termes psychanal»[64], indicando ancora una volta nelle parole di Marcuse alcune idee di base dell’Internazionale Situazionista, poste però in termini psicanalitici, sottolineando dunque la profonda divergenza di metodo. Se tra le pratiche situazioniste (come per esempio la deriva o l’urbanismo unitario) si potrebbe scorgere superficialmente una sorta di libero gioco (è palese che entrambi gli autori siano stati influenzati dalla lettura di Huizinga e Fourier), esso non si è mai sviluppato sulle fondamenta individualistiche e sovrastoriche delle categorie freudiane come in Marcuse ma, bensì, in chiave consapevolmente dialettica, tanto che Debord assimila il gioco all’appropriazione della «storia totale» dando una maggiore importanza alle «variazioni liberamente scelte delle regole del gioco»[65] e non del gioco in sé inteso astrattamente. Ciò che invece auspica il filosofo tedesco, sembra debba scaturire da un essere umano che è presentato quasi come primordialmente puro ma corrotto in una civiltà, l’ordine capitalistico, di cui non sempre in Marcuse se ne coglie il sunto, né gli inizi, né gli sviluppi e, in conclusione, la fine è altrettanto incerta. Ciò rischia di sovratemporalizzare ed eternalizzare un’indefinita natura umana soggiogata da un altrettanto indefinita natura sociale, non cedendo i mezzi teorico-pratici per opporvisi e il “Grande Rifiuto”, a differenza dei Consigli Operai, finisce ancora una volta con l’essere uno sbattere i piedi a terra.
Conclusioni
Sorge spontaneo domandarsi il ruolo che hanno rivestito, che rivestono e che potranno ancora rivestire il filosofo francofortese e l’autodidatta parigino all’interno della critica radicale. Può risultare evocativo menzionare una delle rappresentazioni più taglienti mai coniate da György Lukács, quando inventò l’iconografia del Grand Hotel Abisso[66], nelle cui stanze immaginava alloggiare tutti i pensatori e gli intellettuali nell’illusione di essersi emancipati nella più dissoluta libertà spirituale, credendosi visitatori di uno spazio in cui poter esercitare la propria funzione presentandola come critica e di rottura, mentre, in verità, il proprio esercizio altro non è se non quello di scontrarsi con problemi ideologici e affrontarli a propria volta con strumenti puramente ideologici. Insomma, per Lukács certi pensatori si distendevano tra il lussuoso arredo della propria stanza d’albergo, accontentandosi di guardare di tanto in tanto dall’orlo dell’abisso sul quale si erano adagiati per criticarlo senza però andarne oltre. Pare scontato non faticare nel collocare Herbert Marcuse in una di quelle stanze[67], così com’è scontato per noi immaginare Guy Debord alloggiare ai piedi del Grand Hotel, sul ciglio della profonda voragine, nella sola intenzione di aiutare diversi ospiti dell’edificio, con qualche spintarella, a osservare al meglio e più da vicino le conformazioni caratteristiche dell’abisso, restituendo loro il posto che meritano. Questo in linea col Debord che, nella sua pellicola più evocativa, lo si sente dire: «troverei altrettanto volgare divenire un’autorità nella contestazione della società che divenirlo nella società stessa»[68]. Nonostante ciò, forse Debord avrebbe comunque risparmiato Marcuse da un qualsivoglia tipo di volo nell’oscurità dell’abisso, direi con forte disappunto di Lukács; ma è sempre meglio non speculare eccessivamente su personalità che non si sono mai incontrate, per quanto divertente sia.