Intervista a Luca Grecchi su «Letture.org»
nov 10th, 2023 | Di Thomas Munzner | Categoria: IntervisteIntervista a Luca Grecchi su «Letture.org»
Prof. Luca Grecchi, Lei è autore del libro Il concetto di philosophia dalle origini ad Aristotele, edito da Scholé-Morcelliana: innanzitutto, quale definizione è possibile dare della filosofia?
Direi, prima di tutto, che occorre interrogarsi sul fatto se sia o meno possibile dare una definizione della filosofia. In un libro-dialogo di qualche anno fa (Tra teoria e prassi, Petite Plaisance, 2020), composto con l’amico Maurizio Migliori, riflettevamo sul fatto che quasi tutti i manuali di Filosofia, a differenza di quelli delle altre scienze, non definiscono la propria disciplina. Alcuni di essi, addirittura, lasciano intendere che tale definizione è impossibile, in quanto la filosofia, che è un continuo farsi, non potrà mai assumere una forma compiuta, quindi definita. Nel libro esprimo la mia distanza da questa tesi, la quale, oltre che a mio avviso non corretta, ottiene l’indesiderabile effetto di far passare col nome di filosofia ogni contenuto cui si riesce ad applicare questa etichetta, col risultato, a lungo termine, di deformare, nel sentire comune, il nostro amato sapere, il quale ha invece assunto forma compiuta, dunque definita, già con Platone e Aristotele.
Da aristotelico quale penso di essere, ritengo sempre opportuno cercare di favorire, nei limiti del possibile, una univocità del linguaggio che superi l’ambivalenza di cui, già in epoca antica, la retorica sofistica faceva largo uso nel rappresentare la realtà. Ad ogni nome, infatti, è bene che sia associato uno ed un solo significato, per evitare confusione. La filosofia, come ogni altro concetto concepito – appunto – dagli esseri umani, è un ente definito, e pertanto va definita, ossia le va data forma compiuta mediante un significato chiaro, se si desidera comprenderla in maniera chiara. Nella Metafisica (1006 b 6-10), lo Stagirita affermava che “se si dicesse che le parole hanno infiniti significati, non sarebbe più possibile alcun discorso: infatti, il non avere un determinato significato equivale a non avere alcun significato; e, se le parole non hanno alcun significato, allora non ha luogo neppure la possibilità di discorso”, quindi di pensiero.
Perché allora, fino ad oggi, della filosofia non si è quasi mai fornita una definizione esplicita, o comunque non si è mai trovato un accordo su quale sia la definizione più corretta? A mio avviso, per almeno due motivi. Il primo è che la definizione di enti, soprattutto se complessi, è difficile, per cui è facile sbagliare, e nessuno vuole sbagliare, soprattutto oggi. Il secondo motivo è che ogni definizione, una volta formulata, impegna ad essere coerenti, per cui, per fare filosofia, se la si definisce in un certo modo, occorre poi fare quella determinata cosa, non qualunque altra cosa che vagamente le assomigli; ciò riduce molto le possibilità di azione, e pochi nel nostro tempo, anche in campo filosofico, desiderano subire tale riduzione.
In ogni caso, per chi – con la tesi della necessità di definire la filosofia – non concorda, dico subito che può cercare di confutare tale tesi, in quanto il metodo principale della philosophia, sin dal suo nascere, è il metodo dialettico. Esso si basa proprio sul riconoscimento della possibilità dell’errore, ed al contempo della possibilità di correggere, nel dialogo, gli errori, per giungere alla soluzione migliore in rapporto ai temi affrontati. La filosofia non è, infatti, attività adatta per persone narcisiste e permalose, che non accettano di poter sbagliare, e che si pongono dunque in modo dogmatico, ma per persone umili e generose, che si rendono disponibili a porre in comune una idea, anche accettando di essere criticate, pur di giungere più facilmente alla comprensione della verità e alla realizzazione, in questo modo, del bene.
Nel libro scrive: «La philosophia, per come emersa nel primo pensiero greco, risulta strutturalmente in opposizione con le modalità riproduttive della totalità sociale in cui viviamo»: perché è dunque ancora utile studiarla?
Proprio per questo motivo. La totalità sociale in cui viviamo è crematistica (chremata, in greco, sono i beni materiali), ossia è finalizzata alla massima acquisizione di ricchezza privata da parte dei soggetti che detengono la proprietà privata dei mezzi della produzione sociale. Tutto ciò che è prodotto lo è solo se, in esso, si ravvisa la possibilità di realizzare il massimo profitto privato, altrimenti no. Per questo, ad esempio, vengono prodotti gioielli e auto di lusso, ma non cibo e medicine per i poveri, che pure sarebbero più utili. Miliardi di persone sono condannate, da questo sistema, ad una dolorosa povertà materiale, ed altri miliardi ad una talvolta ancor più dolorosa povertà spirituale.
In una totalità sociale siffatta tutto, ossia gli esseri umani e la natura, viene considerato solo, o prevalentemente, come merce, coi risultati che sono sotto gli occhi di tutti. Essendo, tuttavia, gli esseri umani non merci, ma enti comunitari – come dimostra il fatto che stiamo bene in contesti amicali, non in contesti conflittuali –, le regole della felicità sono per noi quelle della comunità, non quelle del mercato. Più si dona, infatti, più si ottiene, in termini di felicità. Chi desidera soltanto avere senza mai dare, invece, alla fine primeggerà sicuramente, ma solo in termini di infelicità. Lo aveva già compreso Esiodo in Opere e giorni (vv. 201-212): gli esseri umani si differenziano dagli animali feroci in quanto stanno bene se si aiutano fra loro, non se si divorano l’un l’altro. Il nostro modo di produzione sociale è invece massimamente conflittuale: per questo, per cercare di modificarlo in senso comunitario, serve la filosofia.
Quali sono gli elementi costitutivi della philosophia?
Innanzitutto, devo dire che non vi è, purtroppo, nemmeno nella cultura greca una definizione esplicita, unanimemente condivisa, di philosophia. La parola inizia a comparire in epoca presocratica, almeno a quanto risulta da alcune testimonianze, discusse nel libro, riferite soprattutto a Pitagora ed Eraclito. Fu in ogni caso principalmente con Platone e Aristotele, coi quali non a caso si ritiene – stavolta in maniera pressoché unanime – costituita la filosofia, che il termine philosoph* ha cominciato a registrare centinaia di occorrenze scritte. Queste presenze lessicali, unite ad ulteriori ricorrenze terminologiche anch’esse significative (episteme, dialektike, sophia ed altre), segnalano indubbiamente l’avvenuta formazione della philosophia. Ogni concetto si forma infatti solo dopo che “la cosa” che esso rappresenta ha iniziato ad esistere, e “la cosa” philosophia, almeno in potenza, esisteva già nel mondo ellenico prima dell’epoca classica (mi permetto di rinviare, in merito, agli altri miei due volumi per Morcelliana: Leggere i presocratici, 2020 e La filosofia prima della filosofia, 2022).
Per porsi compiutamente in atto occorreva però che essa divenisse pienamente formata, dunque chiaramente strutturata nella sua essenza, il che accadde solo con la riflessione sul suo concetto realizzata soprattutto da Platone e da Aristotele. Proprio dalle centinaia di occorrenze del termine presenti nella loro opera – che in questo libro ho tentato, nei limiti del possibile, di esaminare – ho tratto infatti quelli che, a mio avviso, sono i tre elementi costitutivi della philosophia. Essi, in estrema sintesi, sono: a) il contenuto, costituito dalla ricerca della verità dell’intero; b) il fine, costituito dalla ricerca della buona vita degli esseri umani; c) il metodo principale di analisi della realtà, costituito dalla dialettica (nel senso in precedenza precisato).
Io penso che questa sia la definizione migliore, ma, appunto dialetticamente, sono consapevole che essa è la mia sintesi di quelli che ritengo essere i tre elementi costitutivi della philosophia. In questo tentativo di definizione potrei avere dimenticato un elemento, o averne aggiunto uno di troppo, o formulato male quelli esposti. La cosa bella è che, proprio per il suo prevalente metodo dialettico, anche le definizioni, in filosofia, non sono da considerare dogmi, bensì possono sempre essere modificate. Come dicevamo prima, la filosofia non è fatta per chi ritiene di non sbagliare mai, in quanto è sempre, anzitutto, esercizio di umiltà, soprattutto quando si esprimono tesi forti, maggiormente a rischio errore. Non è un caso che Socrate – di cui non abbiamo scritti, ma che molti considerano il “primo filosofo” – discutesse spesso di grandi temi con persone arroganti, assolutamente convinte di conoscere un certo contenuto, mostrando loro, appunto, che le cose non stavano proprio in quel modo.
Quale concezione della philosophia emerge dalle opere dei primi pensatori ellenici, i cosiddetti Presocratici?
Come accennavo poco fa, se la definizione corretta di philosophia è quella che ho dato – ossia un sapere caratterizzato dai tre elementi costitutivi poc’anzi menzionati –, tale, se c’era, essa era, almeno implicitamente, anche nelle opere dei Presocratici, naturalmente tenendo conto delle loro specificità rispetto ai classici, oltre che delle diversità presenti fra questi stessi autori.
Mi soffermerei tuttavia un poco, in merito, sul fatto che, se la filosofia deve davvero contenere tutti tre questi elementi essenziali, allora un pensiero che ne escluda anche uno solo non può, a stretto rigore, definirsi compiutamente filosofico. Questo vale per il pensiero dei singoli autori presocratici, ma vale anche per il pensiero dei nostri contemporanei. Siamo infatti sicuri che l’attività denominata filosofia, oggi, per come svolta nelle varie Università mondiali, comprenda sempre tutti tre questi elementi, ovvero sia realmente filosofia? Siamo, cioè, sicuri che Platone e Aristotele riconoscerebbero molti degli attuali testi accademici di filosofia come tali, in base alla loro concezione, costitutiva della disciplina? In fondo, come dicevamo poco fa, la nostra totalità sociale crematistica, che informa anche l’istruzione universitaria, non è affatto favorevole alla diffusione della filosofia, come dimostra il fatto che il termine, ancora oggi, non gode certo di buona stampa (“filosofia” è spesso usato come sinonimo di “discorso inconcludente”). All’attuale totalità sociale, in effetti: a) la verità dell’intero disturba, in quanto essa è refrattaria verso ogni riflessione onto-assiologica complessiva, la quale potrebbe portare ad una progettualità alternativa sulla stessa totalità sociale; b) il fine della buona vita disturba, in quanto essa è refrattaria verso ogni fine differente da quello della massimizzazione del profitto; c) la dialettica disturba, in quanto essa è refrattaria verso ogni democratico confronto comunitario, essendo l’orizzonte crematistico dogmaticamente dato.
Siamo sicuri, dunque, che gli approcci sempre più particolari (non rivolti all’intero), descrittivi (non valutativi), compilativi (non dialettici) degli attuali prevalenti scritti “scientifici” – come nelle facoltà di Filosofia vengono ormai chiamati anche i saggi filosofici – sarebbero riconosciuti, da coloro che hanno originariamente concepito la philosophia, come vera e propria filosofia? Nessuno di noi, naturalmente, è Platone o Aristotele, ma, quando facciamo filosofia, dovremmo sempre cercare di pensare in grande, come facevano appunto Platone e Aristotele. Lo sguardo teoretico non è infatti un orpello superfluo, ma una abilità necessaria anche per lo storico della filosofia antica, come dimostrano appunto i grandi maestri di questa disciplina (pensiamo solo, fra gli italiani, a Enrico Berti, Giovanni Reale, Mario Vegetti). Ho il sospetto che, se fosse vivo oggi Aristotele, di fronte a molti articoli accademici di ambito filosofico, direbbe che essi sono filosofici solo per analogia, così come è medico solo per analogia il medico dipinto, o è occhio solo per analogia l’occhio di vetro, o è piede solo per analogia il piede di marmo di una statua. Noto peraltro che questi esempi aristotelici riguardano tutti una entità artificiale in rapporto ad una entità naturale, viva, quale appunto per lo Stagirita era, in certo senso, la philosophia, intrinsecamente finalizzata alla comprensione dialettica veritativa dell’intero per favorire la buona vita degli esseri umani.
Che significato assume, nei testi di Platone e Aristotele, il concetto di philosophia?
Assume il significato in precedenza sintetizzato. Circa due terzi del libro sono dedicati a Platone e Aristotele, per cui mi è davvero difficile porre in essere, in poco spazio, una sintesi di tutti i molteplici rimandi che mi hanno portato, per ambedue i pensatori, a ritenere adeguata la definizione di philosophia che ho poc’anzi fornito.
Può però essere interessante sostare ancora un poco su questo concetto di philosophia, che Platone e Aristotele, pur senza darne una definizione univoca, hanno ottimamente contribuito a delineare. Ebbene: per i parametri accademici attuali, lo stesso concetto di philosophia in epoca classica, ossia il tema del libro, potrebbe paradossalmente essere ritenuto un contenuto troppo ampio da trattare filosoficamente in maniera “scientifica”. La filosofia oggi, in Università, procede infatti con criteri molto simili a quelli delle scienze particolari (che come tali, appunto, si occupano di descrivere – non di valutare – solo parti – non l’intero – della realtà), ossia, se mi si passa l’immagine, procede, in ogni analisi, cercando di porre un puntino sempre più piccolo sotto il microscopio. Il livello di precisione che si raggiunge in questo modo risulta sicuramente, così facendo, molto elevato. Di questi articoli scientifici è doveroso essere grati ai rispettivi autori. Ciò nonostante, considerando il concetto di philosophia presente in Platone e Aristotele, è possibile anche domandarsi quale sia l’effettivo contributo alla comprensione complessiva del senso e del valore della realtà – l’ambito, appunto, da sempre proprio della filosofia – che molti di questi articoli forniscono.
Non è mia intenzione, come detto, criticare l’attività di tanti giovani studiosi, che semplicemente si adattano, nel loro modo di fare ricerca, alle modalità dominanti, che hanno ormai introiettato essere, anche in campo filosofico, le uniche funzionali al percorso accademico. Ciascuno può fare ricerca nelle forme che ritiene opportune, sui contenuti che ritiene opportuni e con le finalità che ritiene opportune, ma – occorre dirlo – ciò non è senza effetto per i risultati della ricerca. Rimango in ogni caso amareggiato quando mi accorgo, in merito, che la medesima apertura non risulta talvolta essere presente, in alcuni studiosi, nei confronti della legittimità del fare ricerca filosofica anche sui grandi temi, richiedendo necessariamente quest’ultima, come ben sapeva Aristotele, un approccio più generale, a maglie più larghe.
Risulta significativa, a tal proposito, la terminologia utilizzata, in ambiente accademico, per definire i testi filosofici caratterizzati da un argomento molto ampio, spesso qualificati come “divulgativi” (ricordo il disappunto con cui l’amico Enrico Berti accolse una recensione di un importante studioso, in cui il suo splendido In principio era la meraviglia. Le grandi questioni della filosofia antica, edito da Laterza nel 2007, venne definito tale). Bisognerebbe allora, in primo luogo, chiarire che “divulgazione” non è una brutta parola. Se leggiamo, infatti, l’Enciclopedia Treccani, per “divulgazione” si intende la diffusione di teorie “attraverso esposizioni piane e compendiose, senza tecnicismi, e insieme sufficientemente sistematiche, (..) con lo scopo di interessare un sempre più largo strato sociale”. È in effetti possibile essere insieme “scientifici” e “divulgativi” – i due termini non si oppongono –, ossia al contempo accurati ed essenziali, come era appunto il caso del libro di Berti. Vi è anzi grande bisogno, a mio avviso, di opere di questo tipo in filosofia. Esse tuttavia, in vario modo, sono scoraggiate dalle attuali tendenze dominanti, per motivi che di passaggio, nel libro, provo a spiegare, riferibili sempre, in ultima analisi, al fatto che il nostro tempo ha interesse a reprimere la vera attitudine filosofica.
Ritenere a priori “scientifico”, nel senso di accurato, solo uno studio iperspecialistico su una piccolissima parte di realtà, e “non scientifico”, nel senso di poco accurato, un testo monografico su un grande tema della filosofia, mi sembra davvero l’esito di una conformazione del sapere contraria allo stesso concetto di philosophia per come elaborato dai classici. Sostenere questo equivale infatti – mi si conceda una provocatoria analogia zoologica, che assume come implicito riferimento ancora Aristotele, larga parte del cui corpus è dedicata, come noto, alla zoologia – a considerare “scientifico”, ad esempio, lo studio della riproduzione delle formiche rosse del Madagascar orientale nel luglio del 2023, ed a considerare “non scientifico” lo studio del mondo animale nel suo complesso. Per quale motivo chi osserva, pur con grande acribia, la riproduzione di un campione di formiche per un mese dovrebbe compiere uno studio “scientifico”, ossia accurato, e chi, come lo Stagirita, opera un gigantesco sforzo teoretico per anni analizzando le strutture biologiche di oltre 500 specie animali non dovrebbe compierlo? Tutto dipende, ovviamente, da quale significato si vuole attribuire al termine “scientifico”. Faccio peraltro notare che, come sempre Aristotele ha mostrato, l’intero risulta ontologicamente anteriore alle parti – l’esistenza delle parti richiede l’esistenza dell’intero, non viceversa –, per cui chi non si occupa anche dell’intero non può nemmeno dire di avere ben compreso la parte che analizza, mancandogli le strutture generali mediante cui porre in relazione quella stessa parte con le altre parti (la realtà è interconnessa, quindi queste relazioni vi sono, pertanto vanno conosciute).
Tutto questo solo per dire, soprattutto ai giovani studiosi, di essere benevoli – ossia di orientarsi anche loro, nei limiti del possibile – verso i testi filosofici generali, i quali, per quanto sempre migliorabili, risultano spesso utili per inquadrare anche gli studi particolari.
Un’ultima domanda relativa alla dedica del suo libro, “Ai ragazzi con qualche difficoltà, e a chi sta loro accanto”: c’è qualche collegamento con il tema del libro?
La ringrazio molto per questa domanda. Il collegamento, in effetti, c’è. Dicevamo prima che la nostra totalità sociale è molto competitiva. Nel libro, ogni tanto, faccio riferimento alla ideologia del merito che permea – talvolta in maniera poco attenta nei confronti di chi ha invece qualche difficoltà – anche il mondo della scuola. Penso ai campionati di filosofia, alle gare retoriche dei debates, alla eccessiva attenzione ai voti, e a molto altro ancora. La scuola riflette, naturalmente, i processi della nostra totalità sociale conflittuale. La filosofia però, come abbiamo detto, fu sin dal suo inizio comunitaria, in quanto ricerca comune del vero per il fine della realizzazione comune del bene, ossia del bene di tutti, anche di quelli solitamente considerati ultimi, i quali spesso fanno molta più fatica dei “primi” anche solo per arrivare ultimi.
Mi piacerebbe concludere raccontando una piccola storia. La vostra redazione è giovane, ma forse sapete che, negli anni in cui io ero piccolo, quindi molti anni fa, andò in classifica per diverso tempo una simpatica canzone di Enzo Jannacci, Vengo anch’io. No tu no. Con la sua ironia, il cantautore milanese aveva messo in scena, con quel brano, la storia di un ragazzo con qualche difficoltà che, semplicemente, voleva fare le stesse cose che facevano gli altri. Come evidente, in quel brano c’era molto più dell’ironia, ma io allora, essendo piccolo, non lo capivo. Capivo però che a me quella canzone non divertiva. Il perché l’ho compreso bene molti anni dopo, quando ho avuto la fortuna di conoscere, e poi di diventare amico, di uno dei maggiori critici musicali italiani, Andrea Pedrinelli, autore, fra le altre cose, di una bella monografia su Enzo Jannacci (Roba minima, Giunti, 2014). Fu lui, infatti, ad indicarmi una intervista in cui il grande Enzo diceva più o meno queste parole: “Quello lì, quello che chiedeva Vengo anch’io? e a cui gli altri rispondevano sempre no tu no!, ero io. Anche io infatti, quando ero ragazzo, volevo andare, come gli altri, allo zoo comunale, o con la bella sottobraccio a parlare d’amore, ma nessuno mi voleva, perché ero piccolo, brutto e povero”. Ho edulcorato un poco le parole di Jannacci – mentre lui lo faceva raramente quando rappresentava i suoi personaggi esclusi, sempre in parte autobiografici: in questo, anche, la grandezza della sua arte –, ma il segreto del saper voler bene, del saper accogliere, sta tutto lì, ovvero nella capacità di sapersi mettere nei panni degli altri, di vederli un poco come se fossimo noi. Se infatti “quello lì”, escluso dal “bel mondo sol con l’odio ma senza l’amore”, fossimo noi, o nostro fratello, o nostro figlio, forse saremmo più sensibili nel “vedere di nascosto l’effetto che fa” l’esclusione. La filosofia aiuta a capirlo, mostrando come tutti possono dare il proprio contributo alla realizzazione del bene comune, anche chi ha qualche difficoltà, in quanto spesso possiede risorse di umanità meravigliose, di cui semplicemente la nostra società ipercompetitiva, purtroppo, non si accorge.