La questione palestinese tra multipolarismo e decolonizzazione
ott 18th, 2023 | Di Thomas Munzner | Categoria: Dibattito Politico
La questione palestinese tra multipolarismo e decolonizzazione
di Nico Maccentelli
Piaccia o no ai nostri commentatori, veri aedi del suprematismo occidentale, gli eventi di questi giorni in Palestina collocano il conflitto israelo-palestinese dentro le dinamiche internazionali odierne. Le misure fasciste prese da Macron in Francia, che vietano le manifestazioni pro Palestina, punibili con l’arresto, dimostrano che le classi governanti atlantiste stanno comprendendo che il declino dell’impero americano davanti alle potenze emergenti in Asia e a modelli economico-sociali alternativi come in America latina, nel contesto dell’affermazione dei BRICS e dei processi di decolonizzazione come in Burkina Faso, Mali e Niger, ha forti ricadute in tutta la catena imperialista.
Piaccia o no a lor signori, e al netto di fatti specifici accaduti o esagerati o addirittura inventati nell’attacco della Resistenza palestinese nel Diluvio di Al Aqsa, Hamas e le organizzazioni di Resistenza rappresentano le aspirazioni alla liberazione dal colonialismo di insediamento razzista, suprematista e nazista del regime sionista, spacciato per “democratico” dai media occidentali e dagli agenti sionisti in Occidente. Una democrazia infatti è tale se tutta la popolazione che vive in un medesimo territorio ha i medesimi diritti, servizi e possibilità nella vita quotidiana e politica di un dato paese. Ma sappiamo bene che gli arabi non ce l’hanno né in Israele, né in quel simulacro di autorità palestinese che negli anni ha esercitato solo il compito di collaborazionista con i sionisti.
E proprio questo è il nodo della questione palestinese. L’esperienza di tre Intifade (1987, 2000 e 2015), del fallimento degli accordi di Oslo del 1993, lo sprezzante rifiuto di ottemperare alle risoluzioni ONU (1) e il conseguente stillicidio dell’oppressione su un intero popolo, hanno portato all’unica soluzione oggi possibile in quel contesto.
Non ci sono altre strade che la lotta armata per mettere Israele davanti alle sue responsabilità. Se Israele diverrà un posto invivibile e costantemente insicuro per una popolazione in prevalenza tenuta nell’ignavia e nelle credenze religiose a giustificazione dell’orrore colonialista, una trattativa seria e definitiva a rapporti di forza mutati sarà allora possibile. Del resto la lotta armata è riconosciuta come legittima dall’Assemblea Generale ONU stesso, adottata nella 90a plenaria del 3 dicembre 1982 riconoscendo
“… la legittimità della lotta dei popoli per l’indipendenza, l’integrità territoriale, l’unità nazionale e la liberazione dal dominio e dall’occupazione coloniale e straniera con tutti i mezzi disponibili, compresa la lotta armata”.
Non c’è che dire riguardo la vergognosa propaganda filo-sionista dei media di regime e dei maggiori partiti in una vulgata bipartisan, fatta di bandiere con la stella di David proiettate sui palazzi istituzionali. Eppure c’era più dignità di una politica estera attiva e su alcune questioni autonoma dal blocco USA negli anni della Prima Repubblica. Queste per esempio le posizioni di Craxi nel 1985, allora primo ministro al Parlamento.
E questa un’ottima analisi comparativa sulla dignità di allora e la vergogna servile di oggi.
Ovviamente, da un punto di vista politico antimperialista, questa posizione del tutto onorevole quanto diplomatica non basta. La legittimità della Resistenza armata in Palestina si pone e si è posta come opzione di una lotta di popolo strategica fondamentale per incidere sui rapporti di forza con Israele.
Quello che possiamo fare noi è manifestare per la Palestina e mi auguro che anche le piazze italiane si riempiano di sodali.
Detto questo, ogni manifestazione anche solo pacifista e diritto umanitaria ovviamente va in questa direzione.
Tuttavia, per esercitare il ruolo di alternativa politica anticapitalista e antimperialista, tutto questo non basta. Ricostruire un’opposizione anticapitalista nei paesi a capitalismo avanzato e in particolare nel nostro, significa cogliere le dinamiche internazionali che ho prima sintetizzato all’inizio di questo articolo. Secondo la massima del bastonare il cane che affoga, va preso atto che il blocco atlantista a dominanza USA, con la messa in mora della dollarizzazione, il fallimento della guerra in Ucraina e le pressioni politiche che i paesi emergenti portano avanti in più quadranti del pianeta, occorre recuperare quella visione che ha animato i movimenti di lotta operai e studenteschi degli anni ’60 e ’70, del periodo del VietNam tanto per capirci: l’imperialismo va combattuto in casa e a sostegno dei processi attuali di decolonizzazione. Processi che non beneficiano più di un blocco socialista come un tempo, ma che trovano solide sponde nell’azione cinese e della Russia.
Un’apertura al sostegno del multipolarismo in questa ottica si rende necessario, anche se questo comporta uno scontro frontale e una prevedibile repressione da parte dei regimi capitalistici nei paesi a dominanza USA.
Ormai si sa che le operazioni di mostrificazione degli avversari globali e dei singoli paesi e movimenti esterni e interni sono all’ordine del giorno e segnano ogni passaggio politico: no vax, putiniani e la solita manfrina dell’antisemitismo e della collusione con il terrorismo. E purtroppo l’opposizione nostrana in questi ultimi decenni si è caratterizzata per seguire le narrazioni del mainstream, ponendo una pletora di dissociazioni che le rendeva accettabili al regime stesso. Si è arrivati con manifesti come quello del Brancaccio di qualche anno fa di Montanari e Falcone e l’odierno accrocchio elettoralistico di Santoro oggi, a espungere dal discorso pacifista o giustizialista sociale qualsiasi nemico concreto, preferendo un nemico astratto, concettuale, come l’ingiustizia, la guerra, la fame.
L’operazione che va fatta è invece quella di emersione delle posizioni politiche, per tagliare le catene che legano le opposizioni al sistema politico e mediatico generale.
La questione palestinese si colloca molto più direttamente rispetto a quella del Donbass (cancellata, rimossa dal mainstream con il solito criterio menzognero del prendere l’ultimo frame della vicenda), nella questione delle decolonizzazioni e nel conflitto internazionale tra unipolarismo atlantista, ossia tra imperialismo e multipolarismo, quest’ultimo con l’insieme dei paesi del sud del mondo.
A chi si pone su un piano anche diplomatico, di forza che interviene dall’opposizione per proporre soluzioni, non può non considerare tutta l’azione diplomatica cinese nel ridefinire un nuovo assetto di relazioni in Medio Oriente, come il successo della pace tra Arabia Saudita e Iran, il reintegro della Siria nella Lega Araba, processo che la Resistenza Palestinese con la sua offensiva ha suggellati facendo fallire il trumpiano accordo di Abramo. Non può non considerare il ruolo della Federazione Russa nello spingere per la soluzione dei due popoli e due stati (Lavrov).
Un fronte di opposizione non può limitarsi a reclamare genericamente la pace, ma deve entrare in queste dinamiche politiche comprendendo che a posizioni diverse per soggetti diversi, dalla Resistenza Palestinese alle potenze che spodestano gli USA nell’area, tutto converge per una soluzione ragionevole di quel conflitto e nel contempo crea le condizioni per un cambio di passo nei rapporti internazionali, passando dalla rapina colonialista all’autodeterminazione dei popoli. Un nuovo mondo che affiora e che non sarà certo rose e fiori e privo di contraddizione, ma entro il quale le forze del socialismo possono meglio agire per affermare le transizioni alla fine dello sfruttamento e dell’oppressione di classe.
Un movimento d’opposizione alla guerra dunque, non può esimersi dall’avere ben riconoscibile un nemico e una linea strategica per combatterlo. Non può esimersi dall’essere anticapitalista, anticolonialista e di sostegno ai processi politici internazionali che procedono verso il declino dell’impero atlantista a dominanza USA e all’affermazione del multipolarismo e delle sovranità popolari e nazionali dei popoli.