Sulla condizione dei comunisti in Italia: che fare?
set 12th, 2023 | Di Thomas Munzner | Categoria: Dibattito Politico
Sulla condizione dei comunisti in Italia: che fare?
Note per una discussione aperta
di Fausto Sorini
Credo che abbia fatto bene Marco Pondrelli, direttore del nostro sito, ad aprire tempo fa con un editoriale una riflessione sulla questione comunista, con particolare attenzione all’Italia. Perché se è vero – come scriveva – che “oggi nell’Unione europea la forza dei comunisti è marginale … se guardiamo al caso italiano la situazione è ancora peggiore, desolante… Di scissione in scissione oramai gli iscritti ed i militanti dei tanti partiti sono sempre meno e i gruppi dirigenti sono sempre più litigiosi e lontani dal mondo del lavoro”, privi di autentico radicamento nella società e nei luoghi del conflitto sociale.
In presenza di una situazione foriera di importanti sviluppi nazionali e internazionali ritengo utile riprendere la discussione con questa lettera aperta per cercare di suscitare, certo non da solo, una discussione in maniera organizzata nei prossimi mesi; senza nessuna pretesa, ma con un metodo che ci consenta di capire meglio la situazione e agire di conseguenza. Ritengo infatti che l’apertura di una tale discussione sia la premessa per il cambiamento. L’obiettivo non è quello di creare nuovi cenacoli, ma di lavorare per ricomporre collettivamente un rapporto corretto tra conoscenza e azione politica dei comunisti.
La sfida ai tanti ‘comunismi’ esistenti in Italia è questa: una sfida con se stessi. Ed è arrivata l’ora (anzi, siamo in grande ritardo) che si esca dalla falsa coscienza e si accetti, senza guerre di religione, il confronto in campo aperto sulle questioni che sono sul tappeto. Per questo mi sembra necessario arrivare, in tempi brevi, ad un forum di discussione tra comunisti, che sia uno strumento, anche se transitorio, con cui si vadano a vedere le carte di chi ci ha provato e i limiti delle esperienze fatte.
L’articolo citato di Pondrelli risale al 21 gennaio 2022 e, salvo qualche raro intervento che lo ha seguito, tutto il dibattito è caduto nel dimenticatoio, e non certo perché la situazione sul campo sia migliorata. Vorrei provare pertanto a rilanciare quella discussione, rivolgendomi – con la doverosa modestia del caso – a tutte le compagne i compagni italiani, comunque collocati, con o senza tessere di partito o di associazioni, che come me ritengono del tutto insoddisfacente la situazione attuale; che non considerano la questione comunista un pezzo da museo da archiviare o da rimandare a tempi migliori; che sono alla ricerca di un percorso – che ancora non si intravede – per cercare almeno in parte di uscire dalla palude in cui siamo immersi, tutti; per compiere i primi passi, piccoli, ma seri, credibili, non velleitari, per avviare un percorso virtuoso.
Tale percorso, a mio avviso, va impostato come processo storico-politico di lunga durata, non già come scorciatoia che, magari con qualche furberia, possa essere trovata dietro l’angolo: con l’illusione effimera di “portare la palla in rete senza giocare la partita”1.
Intendiamoci, a scanso di equivoci e spiacevoli incomprensioni. Nutro il massimo rispetto per la più parte dei militanti che si impegnano nei rispettivi gruppi, associazioni, reti, istanze partitiche comuniste, e che a tale militanza sacrificano tanta parte della loro vita. Ma abbiamo il dovere di dire loro, con modestia e soprattutto con argomenti convincenti, che il loro sacrificio rischia di essere vano, perchè indirizzato loro malgrado su un binario morto, alla fine del quale li attendono cocenti delusioni e conseguenti ripiegamenti. Soprattutto dobbiamo essere in grado di indicare loro una prospettiva e un progetto in positivo, ed anche alcuni esempi realizzati, senza di che la nostra critica suonerà alle loro orecchie come fastidiosa e persino irritante. Dobbiamo anche comprendere quella componente di razionalità insita nel ragionamento di quei compagni/e che dicono: “la mia organizzazione non mi piace, ma se esco dove vado, che alternative valide ci sono in campo”?i
Ognuna di queste forme associative sicuramente contiene in sé qualche risorsa, che non va dispersa o dimenticata; ma per diverse ragioni, nessuna di esse appare adeguata, e non sempre per le stesse ragioni: vuoi per il loro pressoché inesistente radicamento sociale; vuoi per lo spessore politico intellettuale dei gruppi dirigenti o per la loro scarsa rappresentatività e/o prestigio nazionale e internazionale; vuoi per l’essere rispettabili nicchie di riflessione culturale, ma prive di progettualità politica e organizzativa; vuoi per il loro settarismo nell’interlocuzione con forze progressive diverse da loro; vuoi per il loro sfrenato elettoralismo, per cui tutto si sacrifica, anche l’anima: ma non come nel Faust di Goethe, in cambio di una vita eterna sia pure garantita dal demonio, ma per un seggio in Parlamento… Ognuno di noi, se non ha smarrito il senso delle proporzioni, potrà più o meno riconoscersi in questi o quei limiti sopra descritti.
Alle origini della crisi: alcune ipotesi
Sappiamo che le ragioni più profonde di questa condizione dei comunisti in Italia, nel Paese che pure fu patria del partito di Gramsci, di Togliatti, di Longo, di Secchia, vengono da lontano e rimandano ai processi degenerativi insiti nella “mutazione genetica” del PCI2, nella sua auto-dissoluzione, nella incapacità dei gruppi dirigenti sorti dopo la fine del PCI di ricostruire una forza comunista anche piccola nelle sue dimensioni, ma solida ed espansiva, relativamente omogenea sul piano ideologico, a partire dalla collocazione internazionale e dalla stessa concezione dell’organizzazione; una forza che fosse espressione dei settori di avanguardia del mondo del lavoro, dei giovani, degli intellettuali (cioè leninista non solo a parole). Tale incapacità nasceva da fattori interni al contesto italiano, ma la sua negatività è stata moltiplicata da una crisi più generale del movimento comunista mondiale, che ha prodotto prima la crisi e poi il crollo del sistema sovietico, con una influenza devastante sulle coscienze dei popoli e degli stessi partiti comunisti meno preparati a fronteggiare la crisi senza capitolare o addirittura passare al fronte avverso, come è avvenuto con la trasformazione del PCI in PD.
A oltre 30 anni dalla fine del PCI – essendo stati alcuni di noi protagonisti di esperienze come Interstampa nel PCI, l’Ernesto in Rifondazione, MarxXXI prima serie nel PdCI – possiamo dire responsabilmente che tutti questi tentativi sono falliti, sono stati sconfitti (non è la stessa cosa…): sia per limiti soggettivi interni a loro stessi, sia per una inferiorità troppo grande nei rapporti di forza con chi è sceso in campo per osteggiarli, dall’interno e dall’esterno3.
Rifondazione, fin dalla sua nascita (anche per le modalità e la sua piattaforma) eredita tutti i mali dell’ultimo PCI, il che potrebbe anche essere un dato oggettivo della situazione. Il punto è che non ne ha mai discusso collettivamente; e quindi i mali si sono moltiplicati, invece di essere analizzati, affrontati e condotti sia pur gradualmente e dialetticamente a soluzione4.
Le ricorrenti crisi di Rifondazione, e poi dei partiti o partitini che sorgono dalle sue sue scissioni, confermano che nessuno di essi ha superato i limiti originari ereditati dalla crisi del PCI, ma con una infinitesima rappresentatività che oggi sconfina nell’irrilevanza.
E se ci chiediamo come ha scavato la vecchia talpa comunista negli ultimi 35 anni che ci separano dalla Bolognina, e come sta scavando, a mio modesto parere non si intravedono ancora all’orizzonte, in Italia, svolte significative, capaci di sfidare la deriva liberista e filo-atlantica, lavorando alla costruzione di un Fronte sociale e politico che prospetti per l’Italia una direzione di marcia in controtendenza.
Sul terreno dell’autonomia sindacale di classe – benché vi siano settori della Cgil che resistono alla normalizzazione – non si verifica alcuna effettiva controtendenza, capace di incidere sulle condizioni dei lavoratori (paragonabile ad esempio al caso francese), al di là di un sindacalismo di base combattivo, ma privo di effettivo consenso.
Anche sul nodo cruciale della guerra e dello sviluppo delle contraddizioni epocali non si registra un peso pratico e teorico riconducibile a soggettività di ispirazione marxista. In quest’ultimo caso non mancano è vero elaborazioni e contributi anche di valore che vanno nella direzione giusta, ed anche una rete diffusa di contro informazione; ma tutto ciò ancora non riesce a tradursi in una effettiva influenza a livello popolare, con effetti politici capaci di incidere in modo non marginale sulla situazione.
Si è scritto, a mio parere giustamente:
“In un periodo drammatico come questo di scombussolamento economico, sanitario e di equilibri politici nazionali e internazionali, sarebbe importante che da parte dei comunisti italiani si ponesse di nuovo il problema concreto di come affrontare le prospettive”.
Sicuramente quelli che si ritengono comunisti pensano di avere un’opinione sulle cose che stanno avvenendo… ma il loro pensiero non si è trasformato ancora in un progetto politico che sia collegato alla situazione. Si rischia così di rimanere legati a una concezione di nicchia dell’impegno politico e di esprimere solo esigenze di analisi dei problemi senza trasformare questa analisi in un’ipotesi di lavoro e verificarla nella realtà.
I comunisti possono fare in Italia solo questo, oppure si può (e si deve) fare un passo avanti? È su questo che si dovrebbe aprire la discussione.
Certamente le sconfitte subite a partire dagli anni ’90 del secolo scorso hanno lasciato il segno e molti compagni sono cauti e, giustamente, evitano di ricorrere a formazioni partitiche virtuali che possono soddisfare solo le manie di protagonismo di qualche cattivo maestro. Ma allora domandiamoci: qual è il ruolo oggi dei comunisti italiani? Sono destinati solo a mantenere viva una tradizione storica, oppure, affinché questa tradizione abbia un’incidenza reale, devono saper coniugare il loro punto di vista col corso degli avvenimenti?
Partiamo dai fatti storici di questi decenni i quali ci dicono che il fallimento della rifondazione comunista promossa da Cossutta e Bertinotti è stata la conferma che senza un pensiero scientifico e una strategia non si va da nessuna parte. Non solo, ma questo fallimento ha dimostrato che, dopo la fase emotiva della Bolognina, quella che è rimasta sul campo non era la tradizione comunista ereditata dal PCI, il suo storico radicamento di classe e la sua migliore elaborazione teorica, bensì una miscela di nuova sinistra, di trotskismo e di movimentismo, che ha galleggiato finché i risultati elettorali ne hanno giustificato l’esistenza. Questa responsabilità non si può però attribuire solo ai comunisti dell’ultimo momento, perché le difficoltà avevano carattere oggettivo in rapporto alla degenerazione più che decennale che il partito comunista aveva subito e alla crisi del movimento comunista internazionale, soprattutto in Europa.
Sicché, dopo le euforie del primo momento e il grande agitare di bandiere rosse, con i contorcimenti tattici, lo sfrenato elettoralismo, il trasformismo dei dirigenti, si è tornati inevitabilmente alle questioni di partenza. Che sono poi quelle che i comunisti italiani avrebbero dovuto porsi fin dall’inizio della liquidazione del PCI.
La questione del resto non era solo italiana, come si è detto, ma riguardava anche la crisi epocale del movimento comunista internazionale, che rendeva la situazione molto più complessa e abbisognava di un’interpretazione corretta che non poteva essere improvvisata o sostituita solo da dichiarazioni di fedeltà al marxismo leninismo.
Perché le questioni teoriche e strategiche non sono state poste allora?
In realtà perché non erano maturate effettivamente tra coloro che si riproponevano di dare continuità al movimento comunista in Italia, i quali si riducevano di fatto a porre la questione in termini sostanzialmente nominalistici.
È a questo punto che la situazione dei comunisti in Italia si è avvitata su se stessa e ha continuato a produrre solo caricature di riorganizzazioni partitiche. […]
Se invece di preoccuparci dunque di ricostituire qui e subito improbabili partiti comunisti – magari nell’illusione di appropriarsi furbescamente di un’eredità che i fatti hanno dimostrato ormai dispersa – avessimo lavorato nella direzione giusta, forse saremmo adesso a un punto più avanzato. Ma questo lavoro non è stato fatto e la sua necessità si ripropone oggi interamente per chi voglia ritentare la risalita e uscire dall’irrilevanza” (Roberto Gabriele giugno 2020, Il ruolo dei comunisti italiani https://www.marx21.it/comunisti-oggi/in-italia/il-ruolo-dei-comunisti-italiani/ ).
Dall’analisi al ‘che fare?’
La principale questione che va posta riguarda il rapporto tra una ipotesi sia pur minima (ma seria) di riorganizzazione comunista e la situazione italiana.
Riorganizzarsi significa innanzitutto capire come collocarsi rispetto alle contraddizioni sociali (e politiche) e saperle agganciare in un progetto di trasformazione dell’esistente. Senza questa capacità di analisi e di applicazione di un metodo comunista di azione (che non è mera propaganda, ma tattica) non si può fare nessun passo avanti. Un partito di comunisti (o meglio: un partito che – al di là del nome – svolga la funzione di avanguardia che storicamente hanno svolto i comunisti) non si ricostruisce assemblando i cocci dei fallimenti precedenti, né si realizza in astratto, ma capendo i passaggi storici e indicando, non agli addetti ai lavori, ma a milioni di persone, un percorso concreto – e non meramente identitario – da seguire. (cfr. Allegato A)
Dare per scontato che un appello al comunismo possa suscitare un interesse che vada aldilà del romanticismo ideologico di setta e della pura testimonianza significa ignorare il marxismo e la storia del movimento comunista. È bene chiarire difatti che non si può creare una forza comunista se non si fanno i conti con la storia e per noi significa capire gli effetti della liquidazione del PCI nella società italiana, il peso del crollo dell’URSS e quali sono le basi oggettive che possono dare credibilità a una forza comunista oggi. Non si può essere comunisti a prescindere.
Sul piano dell’analisi (e conseguentemente dell’azione politica) i problemi che ci stanno di fronte possono essere riassunti in 4 punti:
1 – Comprendere le ragioni di fondo che hanno segnato l’insuccesso delle esperienze comuniste seguite allo scioglimento del PCI. E con esse, anche quali tratti deteriori dell’ultimo PCI (e della “nuova sinistra”) si sono riversati in quelle minandole sin dalle origini. Sembra che quel lavoro di analisi storica-politica sia già stato fatto, ma per lo più non è così. “Il dibattito sul motivo di questi fallimenti non si è mai aperto in quanto ci si è limitati a scambi di invettive e diatribe che non hanno però sciolto i nodi”.
Sta di fatto che la più parte dei tratti negativi che avevano segnato la mutazione del PCI traghettano nel PRC, e le forze che vi si oppongono sono o di matrice trotzkista, e verranno “protette” da Bertinotti, o di matrice leninista e terzinternazionalista, provenienti dall’esperienza di Interstampa e poi in parte raccolte attorno alla rivista l’Ernesto e ad Essere Comunisti, osteggiate duramente – sia pure con diverse modalità – da tutti i leader delle altre componenti (Garavini, Magri, Cossutta, Bertinotti). Il che ovviamente non significa che alla prova dei fatti tali forze avrebbero saputo far meglio di altre. Ma è un fatto che esse non riuscirono mai a conquistare posizioni di effettiva direzione politica: né in Rifondazione, né in altre esperienze partitiche seguite alle scissioni di Rifondazione. E quando si avvicinarono maggiormente a farlo, furono duramente decapitate e neutralizzate con metodi non sempre politici5.
Aldilà comunque di come si è articolato il dibattito in questi tre decenni che ci separano dalla liquidazione del PCI, a mio avviso la base della ripresa sta nella capacità di comprendere a che punto e su che cosa si è interrotto il rapporto tra i comunisti e i ceti sociali di riferimento, come questo rapporto si era stabilito e dentro quale prospettiva storica. Un comunismo di tipo massimalista e parolaio, come si è tentato di fare finora, ripete invece la storia che conosciamo, che ha portato ai fallimenti ben noti. Anche se oggi la storia si ripete come farsa, bisogna comunque fare i conti con essi e questo ci permette anche di fare i conti con l’intero massimalismo post-sessantottesco.
2 – Analizzare e censire (anche territorialmente), con spirito scientifico e non propagandistico, senza soggettivismi faziosi, qual è la realtà dei comunisti, organizzati e non, presenti oggi in Italia, e quali sono i loro orientamenti e collocazioni. Cercando di capire che tipo di militanti sono, la loro età, la loro cultura politica, il tipo di radicamento sociale e popolare che essi esprimono (o non esprimono) nelle rispettive realtà.
Questo lavoro non va fatto con lo sguardo rivolto all’indietro, dominato dalla nostalgia dei bei tempi che furono per i comunisti in Italia. Non ne faccio una questione di età, ma di cultura politica e di capacità di comprensione delle novità del mondo d’oggi, che ci costringono ad elaborare una visione del processo storico-politico di avanzata al socialismo nel 21° secolo (prima di tutto nel mondo; e di conseguenza in Italia) in termini assai diversi da quelli del secolo scorso. Per cui qualsivoglia “nostalgia del futuro”, per poter essere produttiva, deve collocarsi dentro una visione razionale e oggettiva del mondo di oggi, rifuggendo da un romanticismo rivoluzionario autoreferenziale, soggettivista, meramente rituale o simbolico6.
Non ne faccio solo una questione di correttezza nell’orientamento politico (pur essenziale), ma di qualcosa di preliminare; che attiene alla serietà, all’onestà politica e intellettuale, alla modestia, al realismo misto al coraggio e all’audacia, alla disponibilità vera al confronto con chi la pensa diversamente, all’assenza di narcisismo, di auto-referenzialità o di ambizioni personali e di ruolo fini a se stesse7.
Un insieme di caratteristiche che, ove riconosciute dalle persone a cui ci si rivolge, siano la premessa per essere almeno ascoltati8.
Indipendentemente da come si possono concretamente e utilmente stabilire in Italia rapporti tra comunisti in una prima fase, il punto di partenza di un lavoro collettivo non può che essere la formazione di gruppi comunisti che sappiano discutere, agire politicamente e rapportarsi tra di loro. Immaginiamoci più esperienze come l’Ordine Nuovo che si mettano in movimento contemporaneamente e, fatte le doverose differenze di epoca storica e di livello, sappiano dimostrare di essere avanguardia reale nelle situazioni e portatori di una cultura interpretativa della realtà nazionale e internazionale adeguata alla nuova fase. Solo così essi possono cominciare anche minimamente ad essere punto di riferimento dell’eredità storica del movimento comunista. Finora abbiamo avuto solo avventure corsare basate per lo più su protagonismi individuali, massimalismi parolai o meri calcoli elettoralistici. Bisogna cambiare alla radice il metodo di costruzione di una organizzazione che sia veramente attrice importante della trasformazione dell’Italia; il che va inteso come processo storico politico di medio-lungo periodo.
3 – Individuare un percorso (che non sia quello della moltiplicazione dei partitini autoreferenziali e ininfluenti) che – sulla base di una piattaforma relativamente omogenea sui fondamentali e di una analisi non propagandistica dell’Italia e del mondo di oggi (cfr. Allegato B) – possa facilitare un processo di aggregazione non eclettico e di corto respiro. E possa quindi creare i presupposti per la formazione di un nucleo dirigente riconosciuto come tale non solo dagli adepti del proprio clan: qualcosa che assomigli, tutto concesso alle diversità delle situazioni, a quello che fu l’Ordine Nuovo (che nacque alcuni anni prima del 1921) nel processo di formazione del PCd’I. E nel quale erano i migliori quadri operai delle fabbriche torinesi a riconoscere nell’Ordine Nuovo un punto di riferimento e a legittimarlo come tale.
Tale progetto a mio parere non può essere a breve un processo di costituente partitica (non ne vedo oggi le condizioni), ma qualcosa di preliminare: più profondo, più solido e per questo anche più lungo. Un processo che non avvenga come un esperimento in vitro, sganciato dai processi reali dell’Italia di oggi, ma che si immerga in essi, che ne sia parte; senza chiusure settarie nel rapporto con ciò che di progressivo o potenzialmente tale si muove nella società italiana e che su tali processi cerchi di influire positivamente. Un processo cioè che non esista solo nella nostra immaginazione.
“Non abbiamo avuto – scrive Luca Cangemi – quello che potevamo chiedere a questo centenario, cioè l’occasione per un salto di qualità nella ricollocazione della storia dei comunisti in Italia, una nuova attenzione agli strumenti teorico-politici del movimento comunista riferiti alla società di oggi e più in generale un dibattito che forzasse, almeno un po’, i limiti assai angusti in cui sono costretti i comunisti in questo paese. Appunto elementi di controtendenza che senza aspettarci eventi salvifici aprissero squarci in una situazione desolante”.
“Bisogna (ri)provarci – conclude Cangemi – Bisogna soprattutto, a mio parere, istruire un lavoro che permetta alle forze intellettuali disponibili e in particolare a quelle giovani che – direi persino sorprendentemente vista la situazione – esistono, di condurre un’opera di approfondimento e anche di battaglia culturale in luoghi formali e informali, sociali e culturali. Un’opera articolata e aperta ma non eclettica, un’opera ‘generale’ ma non estranea ai punti brucianti della lotta politica e sociale.
Un lavoro di questo genere si dovrebbe porre anche il problema di una presenza nella rete e negli strumenti informativi disponibili. Le riviste attive, a partire da Marx21, possono essere strumenti da cui partire per questo lavoro senza il quale ogni forma di razionale (uso volutamente questo termine minimale) relazione/collocazione politica è impossibile; frammentazione e marginalità non possono essere superate volontaristicamente, anzi ogni tentativo non meditato rischia di determinare ulteriori lacerazioni”(https://www.marx21.it/comunisti-oggi/oltre-il-centenario-intervento-di-luca-cangemi/).
Con parole diverse, ma analogamente, scrive Aginform: “non si può ricostruire una organizzazione politica senza che questa esprima in modo organico le esigenze delle classi sociali di riferimento. Nei decenni trascorsi si è rimasti invece sul terreno di un ceto politico meticcio che esprimeva, e tuttora esprime, in maniera minoritaria, la sua velleitaria radicalizzazione. Oggi le vicende storiche sono mutate, ma la questione all’ordine del giorno è rimasta:… costruire una nicchia ideologica e continuare a trastullarci col romanticismo ‘rivoluzionario’, oppure decidersi a dar vita a una nuova organizzazione politica che raccolga (in un Fronte – NdA) le forze in campo e ne sia espressione nella lotta quotidiana per la trasformazione dei rapporti sociali?”.
Anche “per riorganizzare una forza comunista si deve prescindere dal metodo identitario con cui ci si è mossi finora. Gruppi che si autoproclamano partiti (o loro anticipazioni – NdA), senza una storia che ne legittimi il ruolo e sganciati da un retroterra sociale, diventano solo nicchie… [che] non aiutano la ripresa che auspichiamo. Abbiamo bisogno invece per maturare questa ripresa di un ambito, non formale ma sostanziale, di transizione organizzata dove si ritrovino tutti quei comunisti che hanno voglia di confrontarsi e di lavorare non in modo propagandistico per un progetto comune e abbiano l’umiltà di confrontarsi e di andare alla verifica delle ipotesi”9.
Ciò configura la ricerca e la costruzione di un luogo associativo organizzato, nazionalmente e sui territori, in cui compagni con diversa collocazione partitica o senza partito né affiliazione politica determinata – ma con una forte affinità politica, ideologica, di collocazione internazionale e di concezione seria e rigorosa dell’organizzazione – possano cominciare a discutere e lavorare insieme; senza che ciò comporti per loro l’abbandono delle loro attuali collocazioni organizzative.
Ciò è cosa assai diversa (opposta) di una indistinta, amorfa, eclettica “unità dei comunisti”. Non possono certo convivere nella stessa organizzazione (come pure avvenne in Rifondazione) quadri che considerano la Cina e la Russia di Putin architravi della lotta antimperialista ed altri che le considerano “forme nuove e inedite di imperialismo o di nazionalismo reazionario e aggressivo”, come a volte capita di ascoltare in certa “sinistra”.
4 – Costruire il rapporto tra i comunisti e la societa’ italiana nei punti alti e concreti delle contraddizioni politiche e di classe.
Mettere al centro e attualizzare il percorso storico della trasformazione dell’Italia sull’asse resistenza-repubblica-costituzione-democrazia progressiva.
Per punti alti non intendo l’elenco della spesa rituale del massimalismo parolaio, pre-leninista e ottocentesco, privo di credibilità a livello popolare, ma i contenuti di una svolta rispetto all’attuale sistema liberista e di piena subalternità al quadro euro-atlantico e agli Usa; di realizzazione dei punti più avanzati e storicamente attuali del programma costituzionale. Dall’art.11 sulla guerra, ai diritti dei lavoratori e dei cittadini, all’indirizzo pubblico e sociale dell’economia. (cfr. Allegato C)
I comunisti italiani devono affermare la ripresa di questo percorso in sintonia con la parte migliore della loro storia. Non bisogna buttare il bambino con l’acqua sporca. Semmai e’ proprio di quest’ultima, che si è accumulata in questi decenni nello stagno della sinistra, che dobbiamo liberarci. Si tratta cioè di recuperare e attualizzare il meglio di un’esperienza storica, per riprendere la marcia.
Su queste indicazioni si innesta la proposta mia e di altri di costituire un Forum dei comunisti italiani che si impegni a lavorare assieme a tutti i compagni e le compagne che vogliano confrontarsi, al di la’ di veri o fittizi steccati. Ma su questo ritorneremo presto con incontri e confronti sui territori. Scopo di questo mio contributo è quello di cominciare a porre il problema e a discuterne.
Partire da una discussione collettiva di natura anche storica e teorica non significa certo rinchiudersi in un cenacolo culturale, pur di livello.
Quello che manca oggi ai comunisti in Italia è un radicamento non marginale nel conflitto sociale. Conflitto esso stesso assai debole, nonostante la gravità della condizione sociale di milioni di lavoratori, giovani, disoccupati, pensionati, donne. Basterebbe un semplice paragone con il livello del conflitto sociale nella vicina Francia.
In Italia partiamo da un livello molto più arretrato (non mi addentro qui sulle ragioni di tale disparità, ma dovremo farlo). Sarebbe già molto se fossimo in grado – facendo alcune esperienze pilota (sperimentazioni) in una fabbrica, in una scuola, in un’azienda del terziario, importante e simbolica per l’insieme del settore – di indicare alcuni esempi paradigmatici. In qualche misura, penso all’esperienza della GKN (subito rifluita), o a quella del Porto di Genova dove un gruppo di lavoratori portuali politicizzati ha promosso una manifestazione contro l’invio di armi italiane nello Yemen, tenendo insieme questione sociale, mondo del lavoro e lotta contro la guerra, non solo a parole. Un esempio concreto val più di mille discorsi. E queste esperienze, per quanto limitate, dicono che è possibile.
Questa sperimentazione si può legare anche ad altri pezzi del mondo politico; raggiungere obiettivi intermedi può e deve essere fatto costruendo alleanze che abbiano l’obiettivo tattico di riconquistare spazi democratici. La fase che viviamo non può certo vedere i comunisti partecipare al governo del Paese.
Negli ultimi due anni, a partire dal 24 febbraio 2022, si sono manifestati eventi dirompenti che stanno cambiando gli assetti del mondo. Si è evidenziata una guerra che va ben oltre la vicenda ucraina; essa investe lo scontro planetario tra i fautori di un sistema multipolare che tenga conto di come il mondo è cambiato nell’ultimo mezzo secolo, e quanti invece si collocano dalla parte sbagliata della storia e vorrebbero perpetuare un dominio unipolare imperialista, imperniato sugli Usa e sulla Nato. Questo scontro non finirà col cessate il fuoco del conflitto in Ucraina; esso proseguirà in forme oggi non prevedibili lungo tutto l’arco del 21° secolo, e oltre. E ciò inciderà fortemente sugli sviluppi economici e politici di tutti i Paesi del mondo, incluso il nostro, e sulle forme in cui si svilupperanno le soggettività politiche in ogni Paese; ivi compreso il futuro dei comunisti e delle forze di sinistra di ispirazione marxista che lottano per il socialismo.
Un Fronte?
“In altre occasioni – scrive Luca Cangemi – ho discusso della costruzione di ‘Fronti’ come tratto caratterizzante dell’azione di tanti Partiti Comunisti in situazioni anche assai diverse l’una dall’altra e dei risultati conseguiti; non riprendo qui il discorso, sottolineo che si tratta di una discussione sempre più urgente”10.
Credo anch’io che la priorità nell’attuale contesto italiano, anche per i comunisti (nel momento stesso in cui operano per la propria ridefinizione e riorganizzazione) sia la costruzione di un Fronte politico e sociale, su un programma minimo condiviso, ancorato innanzitutto all’attuazione rigorosa dell’art.11, all’interno del quale operino convintamente anche i comunisti, associati tra loro in forma non partitica, ma non per questo disorganizzata e inefficace (e ciò nonostante le loro attuali diverse collocazioni).
Ciò è solo desiderabile e necessario o è anche possibile?
Sarebbe possibile se le forze che, dentro e fuori il Parlamento, e più in generale tutte le forze che oggi esprimono contrarietà al coinvolgimento dell’Italia nella guerra della Nato contro la Russia (e la Cina) si facessero promotrici – ognuna con la propria identità e senza velleitari fusionismi – della formazione degli embrioni di un Fronte, su un programma minimo condiviso (pace, democrazia, stato sociale, antiliberismo) capace, sia in Parlamento che nel Paese, di allargarsi alle più larghe adesioni e convergenze tattiche. Coinvolgendo il mondo del lavoro, i giovani, i migliori esponenti del mondo della cultura, dell’arte, dello sport (con un approccio popolare, non elitario), del sindacalismo, e tutti i centri di aggregazione che variamente si riconoscano nei punti più avanzati della Costituzione.
Il dramma dell’Italia, sul piano politico, è che manca una proposta politica al Paese – sufficientemente forte e credibile, non meramente testimoniale – capace di promuovere una iniziativa politica in grado di incidere sui rapporti di forza reali e di ottenere risultati, anche parziali; facendo leva, con grande duttilità tattica, sulle contraddizioni del campo avverso; bandendo ogni settarismo autoreferenziale o meramente rituale. Che cominci a trasformare il malessere sociale diffuso nel Paese in proposta politica, con una sponda nelle istituzioni e nel Parlamento; per farne tribuna che parli al Paese e ne organizzi la volontà di cambiamento, con una articolazione organizzata e capillare anche sui territori.
Un Fronte che si costruisca su un programma non già bolscevico (oggi certamente inattuale…) o meramente propagandistico, ma su una linea che si ispiri alle componenti programmatiche più avanzate della Costituzione. Un programma cioè al tempo stesso avanzato, ma di ispirazione nazionale, che parli all’insieme del Paese e sappia operare anche sulle contraddizioni interne del centro-destra e del centro-sinistra, ma in piena autonomia strategica e senza confusioni di sorta (del tipo: ala sinistra del centro-sinistra… NO grazie!).
Un Fronte aperto alle componenti più avanzate del movimento operaio e studentesco, del movimento sindacale (presenti anche all’interno della Cgil) e alle istanze rappresentate da chi si oppone alla guerra e al trascinamento dell’Italia nell’oltranzismo atlantico.
Un Fronte aperto sul piano politico alla convergenza, con tutte le componenti di sinistra marxista e/o antimperialista, non integrate nelle compatibilità euro-atlantiche e liberiste.
Un Fronte politico con tali caratteristiche ed una leadership unitaria e prestigiosa potrebbe già oggi contare su un consenso potenziale assai diffuso nel Paese.
Penso alla componente legata a Di Battista, che non solo non è scomparsa ma prosegue un lavoro positivo di orientamento con proiezione anche mediatica ed una certa popolarità, ma senza un radicamento organizzato sui territori.
Penso ai compagni e compagne che fanno capo all’Antidiplomatico e che hanno come principale punto di riferimento il senatore Vito Petrocelli: già presidente della Commissione esteri del Senato, oggi Presidente dell’Istituto Italia-BRICS, con importanti collegamenti e forme di stretta cooperazione con quei BRICS che oggi, dopo il vertice di fine agosto in Sudafrica, hanno assunto una rappresentatività mondiale superiore al G7.
Penso alle componenti più avanzate e non russofobe del movimento contro la guerra (quelle che rifiutano il né – né) e ad alcune aggregazioni di sinistra di ispirazione marxista, non subalterne al centro-sinistra e alla logica PD del campo largo11.
Non voglio eludere qui la questione dei rapporti che un Fronte politico come quello di cui sto ragionando potrebbe e dovrebbe avere col Movimento 5 Stelle, oggi partito di Conte.
Il M5S, nato con confuse ma in alcuni casi radicali e dirompenti istanze di cambiamento (o almeno così percepite dai suoi simpatizzanti) è andato via via modificando la sua natura e il suo orientamento, nel bene e nel male. Ha perso, a destra, l’ala più apertamente opportunista, carrierista e infine filo-atlantica che faceva capo all’ultimo Di Maio (scomparsa). Ha perso a sinistra (o meglio ha messo alla porta) la componente più radicale.
Dopo una fase di ambiguità nei due sensi, mi pare che Conte abbia scelto infine l’asse con Fico e quindi col PD di Schlein e coi Verdi europei. E questo spiega meglio anche perché non abbia voluto il rientro di Di Battista, né il referendum sulle armi all’Ucraina.
Sicuramente rimangono nei 5 Stelle aree ed elettori più a sinistra, ma per una fase non breve la partita strategica mi pare chiusa. L’asse Fico-Conte (che oggi mi sembra piuttosto saldo) nasce con l’ambizione in prospettiva di stringere un’alleanza di governo con il PD.
Se questa è la tattica elettorale (competitiva nei confronti del centrismo PD), la strategia mira a portare il dissenso dentro i confini delle compatibilità. Il che significa, in ultima analisi, non rompere con le due grandi discriminanti di sistema: europeismo in salsa UE e atlantismo. La storia di Conte e la nascita del Conte 2 ne sono la prova; il fatto che le figure più critiche verso Ue e Nato siano state emarginate o cacciate è il segno che in futuro questo partito sarà più omogeneo e lascerà meno spazio al dissenso. Perché Conte si rende protagonista di questa operazione? Perché lui e i suoi consiglieri, a partire da D’Alema, sanno che lo spazio di manovra oggi è limitato, non siamo più nella Prima Repubblica. Il loro progetto è incidere su quel minimo di tolleranza che i nostri padroni sono ancora pronti a concedere. Il voto a favore della mozione europea sull’Holodomor non è un incidente di percorso o un evento minore, ma un preciso segnale di affidabilità che viene mandato a chi di dovere. Idem per l’ingresso nei Verdi europei e il ruolo di Pecoraro Scanio come consulente di Conte nel rapporto con loro, che rappresentano la componente più atlantista del Parlamento europeo.
Tutto ciò non esclude una interlocuzione costruttiva col M5S, soprattutto con le sue componenti più avanzate, e convergenze tattiche con lo stesso Conte, su singole questioni, come è stato sul NO a nuovi invii di armi all’Ucraina.
I comunisti di matrice leninista e non massimalista dovrebbero conoscere a menadito la regola aurea e flessibile dell’analisi concreta della situazione concreta (sempre mutevole) e le differenze tra strategia e tattica12.
Non so dire se vi siano oggi le condizioni soggettive per la formazione di questo Fronte. Sicuramente ne esistono le condizioni oggettive e di largo consenso potenziale in una parte importante del nostro popolo, ivi compresa una parte di delusi che si sono oggi rifugiati nell’astensionismo. Credo che valga comunque la pena di discuterne. E credo anche di poter dire che su alcune personalità politiche progressiste che godono tuttora nel Paese di un seguito e di un rispetto rilevante, gravino oggi grandi responsabilità.
Non penso certo all’ennesima operazione meramente elettoralistica senza futuro, ma ad una convergenza (certo, anche elettorale) di varie forze in un Fronte che potrebbe sicuramente occupare uno spazio rilevante, comunque al riparo da sbarramenti elettorali e con un forte potenziale espansivo, in una Italia in cui un italiano su due non va più a votare. Ed anche rappresentare in Parlamento l’unica sponda politica di cui le componenti migliori del movimento sindacale, le organizzazioni giovanili progressive, le componenti più avanzate del mondo cattolico impegnate contro la guerra, potrebbero servirsi sul piano istituzionale. Quindi un Fronte connesso al conflitto sociale, strutturato sui territori e scevro da logiche meramente elettoralistiche. Un Fronte all’interno del quale una presenza comunista anche piccola, ma credibile e matura (tutta da ricostruire) possa svolgere una funzione unitaria, costruttiva, realistica, in sintonia col Paese reale. E che al tempo stesso, sappia tener viva tra i più, nella società italiana, nei conflitti sociali e nelle istituzioni, una visione mondiale e non propagandistica della prospettiva storica del socialismo, dentro un mondo multipolare che contrasti ogni logica imperialistica e di guerra. Tutto ciò, a partire dai valori e dalle indicazioni programmatiche salienti della Costituzione del 1948, che – proprio perchè inattuata e tradita – resta a tutt’oggi la bandiera al tempo stesso più unitaria e più avanzata su cui costruire l’avvenire.
Questione comunista e questione del Fronte, pur avendo le rispettive diversità e peculiarità, vanno quindi intese come parti costitutive di un processo unico e unitario13.
Note:
1 Una parte rilevante delle citazioni che riprendo nel testo, nelle note e negli allegati è tratta dal libro di Roberto Gabriele e Paolo Pioppi, Dopo il PCI – questioni storiche e di prospettiva, quaderni di Aginform, novembre 2022, di cui consiglio vivamente la lettura.
(306 pagine € 10,00 ISBN 9791221454819 si può ordinare scrivendo a pasti@mclink> oppure dai canali librari commerciali. Il link al canale di vendita dell’editore Youcanprint è il seguente:
https://www.youcanprint.it/dopo-il-pci/b/2293a89e-eb02-5d1b-ab2d-3e92c63df66e ).
Personalmente lo considero, su un insieme di questioni rilevanti, il punto più avanzato di elaborazione teorica, storica e politica presente oggi nel dibattito tra i comunisti in Italia.
Gli autori vengono dall’esperienza di radicamento nella realtà di classe dell’area metropolitana di Roma dell’Organizzazione Proletaria Romana, la cui storia e diversità dalle logiche sessantottesche è oggetto del libro La zattera e la corrente (disponibile al prezzo di € 12,00 al link:
https://www.youcanprint.it/la-zattera-e-la-corrente/b/63e395b7-6e61-5866-85e8-f8aea0887544).
Dall’OPR partì l’impulso alla costruzione delle prime Rappresentanze di Base nei posti di lavoro,
tra cui la prima riconosciuta maggiormente rappresentativa nel parastato. Sul piano politico e dei rapporti con il movimento comunista internazionale, l’organizzazione si è espressa col Movimento per la pace e il socialismo, presieduto dal generale Nino Pasti e, dopo la sua morte, con la Fondazione Pasti, presieduta dall’ammiraglio Falco Accame. Prima di dar vita all’OPR Roberto Gabriele era stato dirigente della FGCI come membro della Direzione nazionale e responsabile dell’Ufficio internazionale nel periodo 1960-1961.
2 Per un approfondimento, si vedano a tale proposito: Fausto Sorini-Salvatore Tiné, gennaio 2017, Alle origini della Bolognina e della “mutazione genetica” del Pci. Un contributo per tenere aperta la riflessione storica.
E il libro Ricostruire il partito comunista (pagg. 256-269) https://luccasapiens.goodbook.it/scheda-libro/oliviero-diliberto-vladimiro-giacche-fausto-sorini/ricostruire-il-partito-comunista-appunti-per-una-discussione-9788862593632-1591848.html
3 “Una rifondazione inesistente e un identitarismo facilone, attraversato da tentativi corsari di rianimare un soggetto politico scomparso, hanno condannato per decenni l’area comunista, quella storica e quella di nuova generazione, alla ghettizzazione. Per porre fine a questo stato di cose bisogna riportare il ragionamento (e l’autocritica) a quelli che sono i pilastri di una possibile discussione che appare quanto mai necessaria.
In premessa bisogna dire, e ricordarlo a chi ci ha provato, che la costruzione di un partito, e in particolare di un partito dei comunisti, ha bisogno di individuare e svolgere un ruolo storico su cui la sua azione possa fondarsi. Sembra una considerazione ovvia ma, dati i risultati, non pare faccia parte del DNA di almeno una generazioni di rifondatori del comunismo italiano. Il ruolo storico di un partito infatti non si basa solo su principi generali, ma anche e soprattutto sulla capacità di affrontare la situazione in cui ci si trova concretamente ad operare. La prima domanda da porsi perciò è questa: i comunisti italiani, se vogliono uscire dal ghetto in cui si sono cacciati dopo l’esperienza Cossutta-Bertinotti, in che modo devono ‘rifondarsi’?
Per cominciare bisognerebbe evitare di usare la parola ‘rifondazione’ che rispetto ai fini per cui a suo tempo fu proposta ha un significato tutt’altro che chiaro, alla base del quale c’era appunto un’idea diversa dalla necessità di fare un bilancio serio dello sviluppo e delle contraddizioni del movimento comunista, in assenza del quale venne proposta un’ipotesi posticcia priva di basi scientifiche e dialettiche […]
Cerchiamo invece qui di affrontare il nodo della funzione concreta e storica da cui dipende la ripresa dei comunisti in Italia. Perchè la questione è appunto questa, dimostrare che i comunisti servono a sciogliere i nodi dei conflitti e delle contraddizioni che si presentano in un paese come il nostro. Finora è accaduto invece che l’area comunista è rimasta ai margini del sistema politico e non è riuscita a darsi una prospettiva legata allo sviluppo della situazione.
Se proviamo ad analizzare i punti su cui i comunisti hanno la necessità di dimostrare di avere un peso e di svolgere un ruolo effettivo, emerge che oggi in Italia si pongono concretamente tre ordini di problemi:
– la capacità di condurre la lotta contro le forze liberiste e autoritarie rappresentate dal governo Meloni;
– la riorganizzazione del movimento dei lavoratori su basi di classe
– e, infine, la capacità di interpretare correttamente la nuova situazione internazionale e portare l’Italia fuori dalla guerra.
Queste cose però non vanno solo dette nei comunicati, bisogna creare gli strumenti in grado di realizzarle.
Riorganizzazione e capacità operativa non sono dunque fattori separati da una sorta di muraglia cinese: di qua il partito dei principi e dall’altra parte quello che potremmo definire situazione reale e livelli delle contraddizioni da affrontare. Questa è l’idea che deve penetrare nella coscienza di quanti pretendono di rapportarsi alla realtà con una posizione comunista. Pretendere di agire da comunisti senza sciogliere i nodi politici è pura velleità, un misto di opportunismo e di pigrizia intellettuale che rende caricaturale oggi il modo di esprimersi, un modo non politico, ma retorico e ideologico, per salvarsi la coscienza e restare al palo della storia. Per questo il vero problema per la ripresa di una presenza comunista non sta solamente nel riferimento alla cultura e alla storia dei comunisti, ma anche nella definizione di un ruolo preciso nel contesto della realtà italiana. Per questo la definizione di un asse strategico dei comunisti italiani dipende da come saranno capaci di cambiare effettivamente le cose, non a parole ma col movimento reale. Solo in questo modo si può determinare una ripresa. Ridursi a nicchia intellettuale o organizzativa dimostra solo che non si è capita la lezione.
Si dirà che le condizioni oggettive non permettono lo sviluppo rapido di un movimento guidato dai comunisti, che sono usciti con le ossa rotte dalla liquidazione del PCI e dal crollo dell’URSS, ma da quei tragici eventi sono passati tre decenni e la situazione si è di nuovo, e da tempo, messa in movimento”.
(Roberto Gabriele, Comunisti alla prova, maggio 2023 https://www.marx21.it/comunisti-oggi/comunisti-alla-prova/ ).
4 “Un metro di ghiaccio non si forma in una sola notte di gelo. La Bolognina fu certamente una scelta drammatica e insieme il compimento di un lungo e complesso processo. In questo senso, l’analisi delle cause della mutazione genetica non può prescindere da una ricostruzione critica dell’intera storia del Pci dell’Italia repubblicana a partire dalla vicenda del suo costituirsi
come «partito nuovo» già nel corso della Resistenza fino al suo trasformarsi nel corso degli anni Cinquanta e Sessanta in un grande partito di massa operaio e popolare, insieme di classe e nazionale.
Diverse interpretazioni. Molte sono, e diverse, le interpretazioni, le sottolineature, le scuole di pensiero che si confrontano a tale proposito. Vi è chi pone l’accento sulla emarginazione di Secchia e della vecchia guardia partigiana alla vigilia del 1956, quella piú legata ad una concezione leninista e rivoluzionaria del partito, e il venir meno quantomeno del suo ruolo di contrappeso alle tendenze piú apertamente riformiste.
Vi è chi invece difende in toto l’intera gestione togliattiana e sottolinea invece il ruolo non sempre positivo svolto da una nuova leva di quadri venuta alla ribalta dopo la morte di Togliatti.
Vi è chi evidenzia la politica dei quadri della nuova generazione promossi a ruoli dirigenti negli anni Settanta e che hanno poi prevalso dopo la morte di Berlinguer; chi la de-ideologizzazione
del partito e del processo formativo dei quadri (la cosiddetta laicità); chi l’allontanamento e poi la rottura con il movimento comunista internazionale; chi la crescente integrazione nella sinistra
europea socialdemocratica; chi il mutamento nella composizione di classe degli organismi dirigenti e degli apparati. E sottolinea, ad esempio, che già nel 1980 i quadri di origine proletaria, operai e
salariati agricoli, che rappresentano il 45,6% degli iscritti, sono solo il 17,5% dei membri dei comitati regionali, e ancor meno se si considerano il Comitato centrale e i gruppi parlamentari. Mentre la piccola e media borghesia, artigiani, piccoli imprenditori, intellettuali
di origine non proletaria, liberi professionisti, commercianti, coltivatori diretti e mezzadri, che rappresentano il 24,9% degli iscritti al partito, sono il 78,7% nei comitati regionali.
De-ideologizzazione e de-proletarizzazione. Non c’è dubbio, a nostro avviso, che la combinazione de-ideologizzazione/de-proletarizzazione è devastante. Non si tratta di un processo contingente o di breve periodo; esso infatti si sviluppa e si consolida nel corso di decenni. Dopo il 1975, anche in conseguenza del successo nelle elezioni amministrative, c’è un drastico trasferimento di quadri – i migliori, i piú preparati, i piú capaci – negli enti locali, per far fronte all’amministrazione delle città, delle province; uno svuotamento del ruolo di questi quadri sperimentati nel partito e un ingresso vasto e tumultuoso di piccola e media borghesia nelle strutture di partito, nelle sezioni, che non è di per sé un fatto negativo, ma che diventa devastante in quanto si accompagna alla de-proletarizzazione nella composizione degli organismi e alla de-ideologizzazione del clima culturale interno al partito. Sono proprio queste classi medie progressiste, orientate a sinistra, assieme ai loro intellettuali di riferimento, che portano nel partito le ideologie piú eclettiche e stravaganti senza trovare un adeguato contrappeso, una massa critica sufficiente di anticorpi.
Tutto ciò si combina con la graduale scomparsa delle cellule sui luoghi di lavoro, con il primato delle sezioni territoriali e della dimensione elettorale, propagandistica, istituzionale della politica;
l’assenza di una formazione politico-ideologica dei quadri e delle nuove generazioni.
L’influenza del contesto internazionale. Vi sono poi anche altri fattori oggettivi del quadro internazionale che in varia misura contribuiscono a favorire i promotori della mutazione, come ad esempio la stagnazione nell’Unione sovietica, gli elementi indiscutibili di crisi che si manifestano nell’esperienza del socialismo reale in Europa; la controffensiva politico-ideologica che dopo il ’75 viene condotta dagli Stati Uniti – dopo la sconfitta in Vietnam – dall’amministrazione Carter. Ma essi di per sé non possono spiegare la mutazione, dato che nella maggior parte dei partiti comunisti del mondo (da Cuba al Vietnam, dalla Cina all’India, dal Portogallo al Sudafrica…) essi producono sí una spinta alla discussione e al rinnovamento, ma su basi leniniste e rivoluzionarie, non liquidazioniste” (Fausto Sorini-Salvatore Tinè, op. cit.).”
5 E’ una storia ancora tutta da scrivere. Prima o poi l’inquietante eppur semplice verità si farà strada, ma ci vuole coraggio per parlarne, al momento giusto. Noi non avevamo solo amici. Ed alcuni amici importanti (anzi decisivi) si ritrassero nel momento della verità, dopo aver sostenuto e incoraggiato il progetto per anni.
La verità è rivoluzionaria, diceva uno che di rivoluzioni si intendeva. Ma non è sempre rivoluzionario dirla tutta, nel tempo presente.
6 A tale proposito ho trovato assai interessanti alcune considerazioni di Paolo Spena (https://www.marx21.it/comunisti-oggi/i-giovani-alla-fondazione-del-pci-riflessioni-sulle-nuove-generazioni-e-la-ricostruzione-comunista-oggi/) sulla questione comunista nella sua dimensione generazionale (mentre divergenze profonde ci dividono nell’analisi internazionale). L’autore critica la concezione del “partito di consenso, di un partito ‘leggero’, tanto monolitico a parole quanto fluido ed eclettico nei fatti, costruito attorno alla comunicazione mediatica della singola figura del segretario, sulla base del richiamo identitario o di nuove strategie comunicative volte alla ricerca del consenso… Questa concezione [esprime] i limiti storici che hanno caratterizzato il processo della Rifondazione Comunista e degli altri partiti che hanno seguito lo scioglimento del PCI. Quelle operazioni politiche nascevano, innanzitutto, dalla consapevolezza che esisteva un ‘popolo comunista’, per usare un’espressione tanto cara ad Armando Cossutta, composto da quelli che si identificavano nel PCI, che non avevano accettato il suo scioglimento e avevano bisogno di un partito in cui riconoscersi. Si trattava di amministrare quell’area di consenso, di ‘riconquistarla’ e darle dei riferimenti elettorali, capitalizzandone il peso con gruppi parlamentari, ministri, consiglieri regionali, assessori. Sia il PRC che il PdCI furono questo, ma non furono mai partiti di classe in senso proprio, cioè partiti che organizzavano i lavoratori e le loro avanguardie in quanto tali. Si pensava di poter ricostruire una forza comunista a partire da una affermazione di volontà, da un’autoproclamazione identitaria slegata dai processi reali che agivano sul terreno della lotta di classe, senza porsi il problema di costruire realmente il partito tra i lavoratori. Questa concezione, già errata decenni fa, si è trascinata fino ai nostri giorni.
La gioventù non ha aderito, e non poteva aderire a questa visione della costruzione del partito, per una consapevolezza dettata da fattori molto concreti e centrali nell’esperienza di questi anni. Tra i giovani semplicemente non è mai esistito un “popolo comunista” da riconquistare, non esistono comunisti “delusi”, o ritiratisi a vita privata, a cui infondere nuova fiducia. Non avevamo il fondo del barile del vecchio PCI da raschiare, potevamo solo attingere da forze nuove. Per questo, radicare l’organizzazione nella lotta, trasformare in comunisti parte degli elementi più avanzati che spiccavano dalle lotte di settori giovanili e studenteschi, non è stata un’opzione o un’intuizione felice di cui prenderci il merito, ma una scelta obbligata… imposta dalle condizioni oggettive. Sono stati questo elemento spiccatamente generazionale e le sue implicazioni concrete a far sì che i giovani compagni maturassero per primi questa consapevolezza, e non una nostra particolare bravura”.
7 “Può esistere politica, cioè storia in atto, senza ambizione? «L’ambizione» ha assunto un significato deteriore e spregevole per due ragioni principali:
-
perché è stata confusa l’ambizione (grande) con le piccole ambizioni;
-
perché l’ambizione ha troppo spesso condotto al più basso opportunismo, al tradimento dei vecchi principi e delle vecchie formazioni sociali che avevano dato all’ambizioso le condizioni per passare a servizio più lucrativo e di più pronto rendimento.
In fondo anche questo secondo motivo si può ridurre al primo: si tratta di piccole ambizioni, poiché hanno fretta e non vogliono aver da superare soverchie difficoltà o troppo grandi difficoltà, [o correre troppo grandi pericoli].
È nel carattere di ogni capo di essere ambizioso, cioè di aspirare con ogni sua forza all’esercizio del potere statale. Un capo non ambizioso non è un capo, ed è un elemento pericoloso per i suoi seguaci: egli è un inetto o un vigliacco…. La grande ambizione, oltre che necessaria per la lotta, non è neanche spregevole moralmente, tutt’altro: tutto sta nel vedere se l’«ambizioso» si eleva dopo aver fatto il deserto intorno a sé, o se il suo elevarsi è condizionato [consapevolmente] dall’elevarsi di tutto uno strato sociale e se l’ambizioso vede appunto la propria elevazione come elemento dell’elevazione generale.
Di solito si vede la lotta delle piccole ambizioni (del proprio particulare) contro la grande ambizione (che è indissolubile dal bene collettivo). Queste osservazioni sull’ambizione possono e devono essere collegate con altre sulla così detta demagogia. Demagogia vuol dire parecchie cose: nel senso deteriore significa servirsi della masse popolari, delle loro passioni sapientemente eccitate e nutrite, per i propri fini particolari, per le proprie piccole ambizioni (il parlamentarismo e l’elezionismo offrono un terreno propizio per questa forma particolare di demagogia, che culmina nel cesarismo e nel bonapartismo coi suoi regimi plebiscitari). Ma se il capo non considera le masse umane come uno strumento servile, buono per raggiungere i propri scopi e poi buttar via, ma tende a raggiungere fini politici organici di cui queste masse sono il necessario protagonista storico, se il capo svolge opera «costituente» costruttiva, allora si ha una «demagogia» superiore; le masse non possono non essere aiutate a elevarsi attraverso l’elevarsi di singoli individui e di interi strati «culturali». Il «demagogo» deteriore pone se stesso come insostituibile, crea il deserto intorno a sé, sistematicamente schiaccia ed elimina i possibili concorrenti, vuole entrare in rapporto con le masse direttamente (plebiscito, ecc., grande oratoria, colpi di scena, apparato coreografico fantasmagorico: si tratta di ciò che il Michels ha chiamato «capo carismatico»). Il capo politico dalla grande ambizione invece tende a suscitare uno strato intermedio tra sé e la massa, a suscitare possibili «concorrenti» ed eguali, a elevare il livello di capacità delle masse, a creare elementi che possano sostituirlo nella funzione di capo. Egli pensa secondo gli interessi della massa e questi vogliono che un apparecchio di conquista [o di dominio] non si sfasci per la morte o il venir meno del singolo capo, ripiombando la massa nel caos e nell’impotenza primitiva. Se è vero che ogni partito è partito di una sola classe, il capo deve poggiare su di questa ed elaborare uno stato maggiore e tutta una gerarchia; se il capo è di origine «carismatica», deve rinnegare la sua origine e lavorare a rendere organica la funzione della direzione, organica e coi caratteri della permanenza e continuità” (cfr. (Gramsci, Passato e presente. Grande ambizione e piccole ambizioni, Quaderno 6 (VIII)
§ (97).
8 Per fare questo abbiamo bisogno di militanti e quadri comunisti che prima di tutto possiedano una linea politica appropriata, ferma e non opportunista sulle questioni di fondo, ma aperti al dialogo con tutti, anche con quelli che si sentono oggi più lontani da noi; quindi assolutamente non settari. E’ quello che seppero fare i comunisti italiani in clandestinità sotto il fascismo. Erano in pochi, circa tremila nel 1939, ma erano stimati e rispettati nella loro fabbrica, nelle cascine, nel quartiere, tra la loro gente, anche tra quelli che non conoscevano ancora le loro idee. Pochi anni dopo, finita la guerra e caduto il fascismo, erano due milioni; e seppero animare un grande moto popolare unitario, nazionale e patriottico, prima nella Resistenza e poi con la Costituzione. Cambiarono l’Italia; e il valore di quel patrimonio storico, politico e culturale non è ancora stato completamente cancellato, a 80 anni di distanza, nonostante si sia fatto di tutto per distruggerlo.
Permettetemi una testimonianza personale. Alcuni anni fa sono tornato a vivere nel mio paese d’origine (10.000 abitanti). I comunisti organizzati e attivi vi si contano forse in una decina. Ma vi esercitano una loro influenza attraverso una presenza importante nell’ANPI e nell’ARCI locale, con annesso circolo culturale, frequentato da un bel gruppo di giovani.
Uno di questi compagni in particolare, vecchio leader operaio e già segretario della sezione locale dello storico PCI, è una delle persone più stimate nel Paese, e se dovesse presentarsi in una lista civica come candidato sindaco (e tutti sanno che lui è un comunista della vecchia guardia), penso che avrebbe almeno un migliaio di voti, forse duemila. Mentre ne avrebbe assai pochi se oggi si presentasse come capolista di Rifondazione o di un qualsivoglia altro partitino “comunista”.
Lenin diceva che per capire meglio la realtà bisogna osservarla nel dettaglio dei microcosmi, non solo nelle grandi dinamiche globali. A buon intenditor, poche parole…”
9 “Dopo la liquidazione del PCI nel pensiero politico comunista si è verificato una sorta di big bang che ha inciso profondamente nelle formulazioni di ipotesi su come ricominciare un percorso rivoluzionario nelle mutate condizioni storiche. Il risultato è stato un dibattito incapace di determinare ipotesi alternative, che ha prodotto invece una sorta di pratica politica contestativa dell’esistente, senza però che la strategia del partito comunista entrata in crisi fosse sostituita da un nuovo asse di riferimento. E’ subentrata una sorta di distruzione di quella ragione politica e storica che aveva accompagnato lo sviluppo del PCI dal congresso di Lione fino alle elaborazioni togliattiane… – una ragione che aveva dimostrato la sua validità e ricevuto la sua conferma dalla storia.
Se guardiamo alla sostanza dobbiamo dire che in seguito, a partire soprattutto dalla fine degli anni ’60 del secolo scorso, la spinta al superamento del revisionismo del PCI da parte delle correnti che si consideravano rivoluzionarie ha impedito in realtà di vedere l’assenza di un’analisi alternativa su cui ricostruire un percorso concreto di trasformazione sociale, non basato sulla quotidianità ma su un’ipotesi generale di sviluppo delle contraddizioni della società italiana con cui il nuovo partito avrebbe dovuto cimentarsi. Ipotesi alternative sono state sì messe in campo, ma per la loro inconsistenza hanno avuto vita breve non solo ma, come è facile constatare, non hanno mai prodotto una riflessione vera sui loro fallimenti, neppure sulla scelta della lotta armata. Andare a fondo delle questioni avrebbe comportato un giudizio anche sulla trasformazione intervenuta dopo i grandi fallimenti post-sessantotteschi nel tessuto politico che oggi si definisce alternativo e conflittuale.
[…] In sostanza dobbiamo dare risposta all’interrogativo su come oggi si debba sviluppare l’azione politica dei comunisti rispetto a un processo di trasformazione sociale, con una strategia di lungo periodo che recuperi quella visione di carattere storico che il crollo del PCI aveva messo in crisi.
Nella politica del partito comunista ‘cambiare l’Italia’ significava proporre un tipo di società che partiva dal modello costituzionale dove confluivano le istanze di pace, di un sistema economico basato sulle riforme di struttura, di difesa dei diritti sociali e democratici, per arrivare a una ‘democrazia progressiva’. Su quel livello si è attestata la lotta politica e sociale fino alla trasformazione genetica del PCI.
Le vicende degli anni ’70 hanno distrutto, per scelta del PCI, quella prospettiva e la disgregazione del partito ha aperto la via al consolidamento del sistema liberista e atlantista.
La domanda a questo punto è: da quale modello strategico bisogna ripartire per riprendere la marcia? C’è bisogno o no di un cambiamento di paradigma rispetto a come sono andate le cose negli ultimi decenni e qual è il paradigma che ci suggerisce la realtà odierna?
[…] Non definire i termini delle questioni significa non avere un punto di riferimento per costruire una strategia. É inutile infatti continuare a parlare di lotta di classe, di conflittualità sociale, di alternativa se non si mette in chiaro come possa partire un disegno che sia in grado di agganciare la realtà e portarla a un livello di dignità strategica. Domandiamoci soprattutto se la ginnastica ‘rivoluzionaria’ di questi decenni ha portato a un risultato o si continua a macinare retorica mentre il mondo cambia e la Meloni diventa capo del governo.
[…] Il bandolo della matassa dei problemi posti ai comunisti dopo gli anni ’90 del secolo scorso non poteva emergere subito, non solo relativamente al quadro internazionale, ma anche per quanto riguarda in particolare l’Italia, dove lo sconquasso politico e nei rapporti di forza tra gli schieramenti è stato enorme a partire dagli anni ’70. Ridefinire una strategia non era cosa a portata di mano, ma senza strategia si è vissuti e si continua a vivere alla giornata, senza intaccare il corso degli avvenimenti. Di qui la necessità che non si continui ad andare in una direzione sostanzialmente sterile.
Ma qual è la direzione giusta? I dati oggettivi ci dicono che le forze di destra avanzano, che circa la metà del popolo italiano si è ritirata sull’Aventino dell’astensionismo e che l’Italia è la coda dell’Europa quanto a lotte dei lavoratori. Questo non ci porta a dire che la partita è persa, ma ci induce a riflettere su come uscire dallo stallo, senza prescindere da questi dato di fatto e prendendoci anche la nostra parte di responsabilità. Smettiamo di recitare la parte delle anime belle e delle vittime.
Nel 1964 Palmiro Togliatti, alla vigilia della morte, scrisse un importante articolo su Rinascita intitolato Capitalismo e riforme di struttura. In quell’articolo Togliatti diceva che fino ad allora il partito comunista, nonostante la Costituzione varata nel 1948, non era riuscito a modificare i rapporti di forza. Questo veniva detto dal segretario di un partito che esprimeva una grande forza politica nel paese. Poteva sembrare una dichiarazione di fallimento ma, se proseguiamo nella lettura, troviamo un altro giudizio che chiarisce il concetto. Togliatti aggiunge infatti che, se fino ad allora la struttura del sistema non era stata intaccata, si era però mantenuta aperta la prospettiva con una guerra di posizione che aveva condizionato le mosse dell’avversario, all’epoca rappresentato dal blocco conservatore che faceva capo alla DC, e questo risultato apriva la porta a ulteriori passaggi. Ma poco dopo Togliatti morì e con lui si interruppe definitivamente una fase storica e si imboccò quel tunnel che portò allo scioglimento del PCI.
Nonostante ciò, l’eredità di quella esperienza ancora sopravvive nella cultura della società italiana e, seppure mal rappresentata da ridicole riproposizioni di partiti e nicchie che giocano a utilizzare rendite di posizione, rappresenta la base per una via d’uscita dal minoritarismo”.
(https://www.marx21.it/comunisti-oggi/la-fine-del-pci-e-la-distruzione-della-ragione/ ).
10 Luca Cangemi febbraio 2022 Oltre il centenario https://www.marx21.it/comunisti-oggi/oltre-il-centenario-intervento-di-luca-cangemi/
Sono molte le esperienze da cui si può apprendere, adattandole al proprio contesto nazionale. Ne cito due. La prima, quella promossa in Uruguay negli anni Settanta dal Partito comunista di Rodney Arismendi. Un partito radicato che aveva però all’epoca una limitata base elettorale (2%), ma che seppe animare la costruzione di un Frente Amplio (un fronte – non solo elettorale – di forze politiche e movimenti progressisti) che giunse fino a conquistare la maggioranza e a governare.
La seconda, ai giorni nostri, quella promossa dal PC do Brasil (PCdoB), che insieme al PT di Lula ed altre forze ha costruito un Fronte progressista per vincere le elezioni presidenziali, e che in Parlamento, dove questo fronte è minoranza, volta a volta stringe accordi e compromessi per non compromettere la presidenza di Lula. Un’impresa ardua, ma questo vuol dire essere rivoluzionari non solo a parole. E i risultati si vedono: basti pensare al posizionamento di Lula sulla guerra in Ucraina e sui rapporti con Russia e Cina, che fa impazzire gli atlantisti; così come quello di Sudafrica e India”.
11 “Oltre duemila persone, i camalli del Comitato autonomo lavoratori portuali genovesi in testa, insieme ai compagni di Civitavecchia, Livorno e Trieste annunciano: “Per la prima volta nella storia un corteo fatto anche di cittadini entra nel porto”. E poi le bandiere della sinistra più a sinistra … ma anche Uniti per la Costituzione, i sindacati di base Cobas, Si Cobas e Usb. E tanti attivisti senza partito e bandiere, studenti e operai, tutti dietro lo striscione “Abbassate le armi, alzate i salari”… E’ la manifestazione nazionale contro le armi che transitano regolarmente nel porto di Genova e arrivano nello Yemen con il loro carico di carri armati e munizioni, ma dopo un anno dall’inizio della guerra in Ucraina il significato è ben più ampio, fra bandiere della pace e slogan contro la Nato… [Analogamente] nel 2022 gli operai USB di Pisa avevano bloccato le armi destinate alla guerra in Ucraina” (La Repubblica, 26.02.2023).
E’ solo un esempio, ma significativo. Se ne potrebbero fare altri che coinvolgono Comitati locali contro la guerra (penso al Comitato NO Guerra NO Nato delle Marche, a una serie di Comitati locali che si sono costituiti per la raccolta delle firme per il Referendum contro l’invio di armi all’Ucraina, a Televisioni come Ottolina TV, Byoblu, Visione TV, il Vaso di Pandora, o siti e riviste (come Marx21, l’Antidiplomatico) e tanti altri che svolgono un importante lavoro di contro informazione e orientamento, indebolito dalle frammentazione con cui tutte queste istanze operano.
Vedo anche che un gruppo di quadri e personalità su posizioni avanzate (Claudio Grassi, Luca Cangemi, Maurizio Brotini, Paola Pellegrini, Paolo Brutti, Bruno Casati, Alfredo Novarini, Lidia Santilli, Sandro Fucito ed altre) stanno promuovendo, con spirito unitario e su una piattaforma avanzata e non russofoba, una associazione per la pace (e non solo) denominata DISARMA (Non abbiamo paura).
Essa sta raccogliendo numerose adesioni in ambienti diversi, anche tra comunisti. Tale iniziativa verrà discussa in un’assemblea aperta a Firenze il 23-24 settembre 2023, in cui verrà esaminata anche la eventualità (opportunità) di partecipare alle elezioni europee in una Lista per la Pace, in convergenza con l’iniziativa promossa da una serie di personalità progressiste (Raniero La Valle, Michele Santoro, Luigi de Magistris e altre).
Tutto ciò che serve ad assicurarsi una tribuna e una strumentazione importante per proseguire e ampliare l’iniziativa politica sui territori, fuori da logiche autoreferenziali o da piccolo gruppo, o meramente elettoralistiche – e senza vendersi l’anima sui fondamentali – penso che meriti di essere considerato e nel caso valorizzato, anche quando non coincide al 100% con le proprie opinioni.
12 Un’analisi a parte, che non è oggetto di questo articolo (non ne avrei la competenza) meriterebbe il tema della pandemia e della sua gestione, nei suoi diversi aspetti; tema che ha suscitato e suscita anche tra i marxisti discussioni accese. Mi limito qui ad alcune brevi osservazioni, di metodo e di merito, poiché ritengo che in tale discussione una diversità di punti di vista sia legittima e non vada trasformata in una crociata tra il bene e il male; e che tale discussione investe diversi piani di analisi e di lettura che non vanno confusi e mescolati tra loro come se facessero parte di un unico pastone.
– Esiste un piano strettamente scientifico che riguarda la maggiore o minore efficacia e/o pericolosità di questo o quel vaccino (MRNA o non MRNA);
– esiste un piano, distinto da esso, che investe la questione della obbligatorietà del Green Pass e dei costi che esso ha comportato per talune categorie di lavoratori;
– esiste il piano degli enormi interessi economici delle grandi imprese farmaceutiche private volto ad imporre sul mercato i propri vaccini. Il che spiega in parte la propaganda ostile e le difficoltà che nell’Occidente capitalistico sono state frapposte all’utilizzo del vaccino russo (salvo alcune significative eccezioni, come quella di Israele). Tale propaganda si è intrecciata con le campagne russo-fobiche deliranti connesse alla guerra in Ucraina, per cui tutto ciò che era russo (inclusa la musica e la letteratura) andava bandito: un po’ come facevano i nazisti con tutto ciò che era di origine ebraica;
– esiste il piano del controllo sociale capillare dei comportamenti dei singoli che, a partire dal controllo sanitario, è stato visto da alcuni come un piano di rafforzamento complessivo dei poteri statuali di controllo in senso autoritario;
– esiste infine, ma non in ordine di importanza, la tesi sull’origine della pandemia, che secondo alcuni analisti sarebbe stata provocata dagli Usa per destabilizzare e danneggiare soprattutto la Cina: una sorta di guerra batteriologica non dichiarata, di cui sarebbero indizio anche una serie di laboratori segreti Usa scoperti in Ucraina e in altri Paesi confinanti con Russia e Cina, con tanto di denunce e dossier presentati da questi due paesi in sede ONU. Denunce cioè di un intreccio perverso tra pandemia e guerra, e di preparazione ad una guerra su più vasta scala
13 “Sul che fare?, dopo le verifiche di questi decenni, noi siamo arrivati alla conclusione che … il punto di ripresa, comporti la rivalutazione del percorso tracciato nel dopoguerra con la Costituzione, che contiene i fondamenti di un progetto politico che è anche in linea, come abbiamo indicato in precedenza, con l’articolazione delle contraddizioni di questa fase storica.
Perchè scomodare la Costituzione per ridefinire una strategia di riorganizzazione popolare e di classe? Se usciamo dalla retorica della ‘Costituzione più’ bella del mondo’ e dal modo ipocrita e formale in cui ne parlano le istituzioni, ci rendiamo conto che la Costituzione contiene i cardini di un progetto che, sulle relazioni internazionali, sull’esigenza di dare un carattere sociale all’economia e di affermare i diritti dei lavoratori e dei cittadini, costituisce il passaggio che si richiede per modificare gli indirizzi liberisti degli ultimi decenni e creare un punto di unità per vasti settori sociali che sono oggettivamente interessati a una svolta di questo genere. Solo superando questa prova possiamo pensare a una ulteriore avanzata.
Non si tratta, è bene precisarlo, di un programma puramente tattico, ma di qualcosa di molto diverso che implica quella svolta storica che neppure col PCI, quando era ancora un partito comunista, si è riusciti a determinare, nonostante la battaglia incessante combattuta in quel senso fino al momento della svolta liquidatrice del partito. Il che dimostra anche quanto sia importante e difficile il passaggio che indichiamo come prospettiva.
Nel fare questa scelta, e senza voler fare allineamenti impropri, crediamo che oggi, per inquadrare le cose da fare e come farle, bisogna tener conto anche di una delle importanti lezioni che ci viene dai comunisti cinesi, i quali insistono che nel definire la strategia bisogna attenersi ai fatti e abbandonare un certo romanticismo rivoluzionario che riteniamo invece pesi molto sulle scelte dei gruppi che vogliono il partito a prescindere.
Se andiamo a vedere il bilancio italiano di questi decenni dobbiamo constatare, a conferma della tesi che stiamo esprimendo, che c’è stata una netta separazione tra movimenti reali e ipotesi di riorganizzazione e dobbiamo chiederci da che cosa dipenda questo fatto. L’apparenza immediata è di una tradizionale frammentazione tra gruppi caratterizzatisi nei decenni trascorsi per la loro reciproca rissosità, ma al fondo c’è una spiegazione che va aldilà delle apparenze e dimostra che in realtà c’è stato sempre uno sviluppo parallelo tra i due filoni, che non si sono mai incontrati e non si è mai pervenuti a una sintesi. Nei fatti i movimenti reali si sono espressi in modo disarticolato e spesso episodico, mentre è del tutto mancata quella ossatura organizzativa che poteva assicurarne la continuità e la lucidità strategica.
I gruppi ‘livornisti’ invece, che hanno scelto di costituirsi in ‘partiti’, hanno dimostrato che l’unico scopo della loro scelta era quello di godere, usando i simboli comunisti, di una rendita di posizione, dimostratasi peraltro inesistente, e non di aprire una prospettiva nuova per ricostruire una forza politica. Aldilà dei limiti specifici però, la ragione dell’insuccesso deriva dal dato oggettivo insito in quel tipo di esperienze ed è per questo che abbiamo sempre insistito sulla ricomposizione dialettica tra movimento, livelli di organizzazione, situazione oggettiva e fase storica.
[…] Nel delineare il progetto di trasformazione sociale che la situazione oggettiva pone non basta però solo fare riferimento al Fronte Politico Costituzionale come modello. Devono essere chiari prima di tutto i caratteri di una organizzazione che deve essere all’altezza del progetto del Fronte e non può che essere espressione di una tendenza storica forte, decisa a cambiare lo stato di cose presente. Effimere e transitorie forme di aggregazione, anche se legate a tematiche di sinistra, ma che in realtà puntano solo a gestire risultati elettorali, non sono in grado di aprire una prospettiva di cambiamento. Il bilancio della Rifondazione comunista e di tentativi analoghi sta lì a testimoniare la caducità e il fallimento di esperienze di quel tipo e da ultimo abbiamo l’esempio del M5S che, coi sui contorcimenti governativi (il commento risale alla fase del governo Draghi – n.d.r.) sta dimostrando la stessa cosa.
Quando parliamo di ricostruire un movimento politico attorno al programma costituzionale abbiamo dunque in mente un’organizzazione che sul piano delle lotte e della capacità politica sia in grado di diventare avanguardia di un vasto movimento popolare e progressista, per far compiere all’Italia quel passaggio storico che fu impostato all’epoca della Resistenza, della Repubblica e della Costituente, insomma un movimento politico che viene da lontano e si propone di andare lontano” (Dopo il PCI, op. cit., pagg. 116-118).
ALLEGATI
Allegato A
Il tema viene affrontato in modo organico nella presentazione della seconda parte del libro citato, Dopo il PCI, di cui riporto alcuni passaggi salienti (pagg. 104-109, 116):
“Le considerazioni che seguono non sono un ennesimo libro dei sogni su cui costruire, qui e subito, una nuova organizzazione politica, ma l’apertura di una discussione che esce dai parametri abituali in cui in questi decenni ci si è dibattuti tra identitaristi e movimentisti, per andare oltre il polverone e capire come riannodare il filo rosso di un processo di trasformazione tenendo conto della situazione oggettiva e della storia concreta del nostro paese.
Sono passati circa tre decenni da quei maledetti anni ’90 del secolo scorso con i quali si è chiusa un’intera fase storica e si è riproposta in Italia la questione di come e da chi dovessero essere rappresentati gli interessi dei lavoratori e di tutti i settori della società interessati al cambiamento del sistema politico ed economico imposto al paese dopo il 1947.
La crisi era partita da lontano […] e aveva investito le strutture di riferimento e di rappresentanza dei ceti popolari e progressisti con liquidazione del partito comunista e con la riduzione del sindacato di classe, la CGIL, a strumento consociativo del sistema, col conseguente blocco dell’autonomia contrattuale dei lavoratori. Questa crisi non poteva che lasciare un vuoto enorme nell’equilibrio politico e dentro questo vuoto, che dura da decenni, è marcita una condizione che ha reso subalterno e senza prospettive politiche lo stesso sviluppo delle lotte in Italia.
Ritrovare il bandolo della matassa non è facile. Molti tentativi sono stati fatti per risalire la china, ma nessuno di questi ha portato al risultato di ricreare uno strumento di lotta e di trasformazione sociale che coinvolgesse stabilmente una parte importante del paese e quindi ne condizionasse positivamente gli sviluppi.
Sulla negatività dei risultati hanno pesato sicuramente i dati oggettivi. La crisi del partito comunista, che era anche crisi internazionale del movimento comunista, non poteva non incidere sulle possibilità di ripresa di un progetto di riorganizzazione e di trasformazione sociale. Ma la crisi che si era andata maturando negli anni si era manifestata senza che emergesse un contrasto effettivo delle tesi liquidazioniste, sia rispetto al partito che rispetto all’indirizzo sindacale di classe […]
Due sono le questioni da indagare per meglio capire le ragioni dei fallimenti: una è di carattere teorico e riguarda i problemi dello sviluppo del movimento comunista nella fase storica attuale; l’altra riguarda il rapporto tra partito e società.
Sulla questione teorica. L’illusione che bastasse uno stendardo con la falce e il martello per riprendere il percorso glorioso del Partito comunista italiano è naufragata abbastanza presto, a pochi anni dalla sua liquidazione. Il fallimento della Rifondazione comunista, da questo punto di vista, va visto non solo come fallimento di un gruppo dirigente trasformista e non all’altezza della situazione, ma anche e soprattutto come incapacità dei protagonisti di comprendere il processo storico entro il quale il partito comunista italiano era nato e si era sviluppato e le motivazioni stesse che lo avevano condotto a concludere la sua esistenza alla Bolognina. Ricreare in modo nominalistico una nuova formazione politica poteva portare, come nei fatti è avvenuto, solo alla formazione di nicchie ideologiche, oppure poteva servire a mascherare, col nome di Rifondazione comunista, un’operazione trasformistica di altro genere, occupare cioè uno spazio improprio a fini elettoralistici.
Ma anche quelli che noi definiamo livornisti, cioè quei gruppi che usano dar vita alle rievocazioni del gennaio 1921 per riproporre improbabili partiti comunisti, gli identitaristi, dimenticano il fatto che la fondazione dei partiti comunisti è avvenuta in un’epoca storica precisa, quella della guerra imperialista e dell’apertura di un processo rivoluzionario che ha avuto il suo epicentro nella Russia zarista, una fase cioè in cui si era aperto un grande processo rivoluzionario, di cui bisognava però valutare lo sviluppo e gli esiti nei decenni successivi. Non tener conto di questo poteva significare solo improvvisazione e scarsa conoscenza delle questioni del movimento comunista a cui si volevano legare i nuovi tentativi di ripresa. Quegli avvenimenti rivoluzionari, come sappiamo, avevano avuto un’enorme influenza in tutto il mondo e avevano messo in moto, anche con la scelta di fondare l’Internazionale comunista, gruppi e partiti che, sulla base dell’apporto teorico di Lenin e poi con la direzione di Stalin, avevano fatto progredire i processi rivoluzionari nei paesi in cui l’ipotesi leninista si andava saldando con le situazioni concrete.
Anche quello italiano era stato uno di questi partiti, ma il suo scioglimento senza lasciti ereditari, poneva una serie di questioni che andavano attentamente valutate. Non si poteva, sic et simpliciter, portare indietro la ruota della storia e ricominciare daccapo ignorando il nuovo contesto storico. La prima questione che andava presa in considerazione infatti era rappresentata dal fatto che non c’era stato tanto uno scioglimento del partito, quanto piuttosto una trasformazione da PCI a PDS realizzata col consenso quasi totale delle strutture centrali e periferiche del partito.
Come è stato possibile un passaggio del genere senza una reazione forte e di massa, come avviene normalmente in situazioni simili? Come mai, soprattutto, nel riproporre una riorganizzazione dei comunisti non si è valutato il nuovo contesto storico in cui la trasformazione genetica era avvenuta? E quindi: in quali forme e in quali modi e soprattutto con quale asse strategico andava riproposta la riorganizzazione? In sostanza da cosa ripartire per dare continuità a un processo iniziato nel 1921, che non era stato solamente una questione interna a un partito, ma riguardava il rapporto tra il partito e la società italiana di cui esso aveva condizionato lo sviluppo?
Questi interrogativi ci rimandano alla questione del rapporto tra partito e società, la cui valutazione diventa essenziale se si vuole porre all’ordine del giorno la ricostruzione di una forza politica di trasformazione sociale che riprenda il ruolo storico del PCI.
Il rapporto dunque tra partito e società italiana, questo aspetto essenziale della questione che ci fa capire il senso del vuoto che si è determinato presso i lavoratori e i ceti sociali progressisti dopo la crisi del PCI e la riduzione della CGIL a sindacato consociativo, avrebbe dovuto costituire, assieme al dibattito sulle prospettive, il punto essenziale della riflessione. Bisognava partire da un progetto di ricostruzione di un rapporto organico coi ceti di riferimento, a cominciare dai lavoratori, per ridar loro una prospettiva politica convincente e avere anche l’organizzazione adeguata a quel compito politico. Ma questa cultura e questo livello di organizzazione mancavano completamente dopo la fine del PCI […].
Assieme al PCI era stato liquidato dunque un pensiero politico che aveva garantito lo sviluppo di un grande partito di massa e popolare. La storia di questa fase, che va avanti da decenni, è ben nota e ne conosciamo l’esito. Resta il fatto che il rapporto tra ipotesi organizzative e legami di massa non si è più ricostituito e che le varie ‘rifondazioni’ hanno rappresentato un processo esterno alla questione storica concreta che si poneva con la fine del PCI.
Le responsabilità di questo fatto non sono solo soggettive. In realtà assieme alla crisi organizzativa e alla trasformazione genetica andava maturando anche quella distruzione della ragione che aveva guidato il ruolo delle forze di opposizione che si battevano per la trasformazione sociale, che non poteva essere superata senza un chiarimento teorico e una elaborazione politica legata alla nuove fase storica.
È appunto su questo che bisogna aprire la discussione e andare alle verifiche concrete. Soprattutto bisogna combattere l’idea che i cambiamenti sociali possano determinarsi con azioni di propaganda a cui non corrisponde un vero coinvolgimento delle forze che a quei cambiamenti dovrebbero essere interessate. Non è che dopo il PCI sono scomparse le contraddizioni di classe e sociali, ma il punto essenziale sta nella ricostruzione di un legame serio, profondo, tra queste contraddizioni e la nuova formazione politica che ne deve prendere il posto.
Isolare singoli momenti di scontro sociale cercando di piegarli ad astratte ipotesi politiche fuori da una prospettiva storica fondata sui dati portanti della dinamica a cui quei fatti sono legati porta a quella marginalità in cui i tentativi di alternativa sono stati confinati in questi decenni. Bisogna quindi uscire dai ghetti e ritornare a quella ragione politica che ha portato un partito comunista come quello italiano ad avere la forza di milioni di iscritti e di elettori e non in modo effimero, bensì rappresentando un blocco sociale stabile capace di superare le difficoltà che i suoi nemici creavano per contrastarlo… [Ciò] non può avvenire con una appropriazione indebita di simboli e di slogan. Bisogna analizzare come questa forza sia riuscita a crescere nella realtà italiana e saperne trarre le dovute conseguenze. […] In questo quadro bisognerà concentrare bene l’attenzione e le analisi sulle caratteristiche dei conflitti interni e internazionali che possono legittimare una nuova ipotesi politica perchè, senza una visione di largo respiro, si vive alla giornata, come avviene da decenni, con manifestazioni che, salvo rari casi, non aprono una breccia per proiettarsi su un vera prospettiva politica”.
Quando abbiamo iniziato a proporre la discussione sul Fronte Politico Costituzionale…avevamo presenti tutte le considerazioni che abbiamo fatto fino a questo momento sullo scenario internazionale, sui rapporti di forza e sulle caratteristiche dei processi in corso. In particolare abbiamo cercato di dare risposta al problema principale rimasto insoluto dopo la crisi della togliattiana via italiana al socialismo e ancor più della prospettiva berlingueriana del compromesso storico, cercando di trovare un collegamento tra la nuova fase e il processo di trasformazione sociale che era rappresentato dal PCI ma si era bruscamente interrotto negli anni ’60 del secolo scorso (corsivo mio, per evidenziare un punto e una periodizzazione che ritengo vadano approfondite e modulate – NdA).
Quale alternativa andava riproposta per la riorganizzazione di un movimento politico? I cattivi maestri post-sessantottini e i neobordighisti (il partito a prescindere) hanno impresso da subito una deriva che ha portato a disperdere sia l’eredità storica del PCI che l’esperienza delle lotte operaie e di altri settori sociali progressisti che si erano andati esprimendo dalla fine degli anni ’60.
Soprattutto è rimasta in sospeso la questione principale: riforme o rivoluzione? La risposta a questo quesito è rimasta inevasa. I ‘rivoluzionari’ hanno continuato ad abbaiare alla luna senza spiegarci (e soprattutto dimostrare) come un processo rivoluzionario potesse avanzare in Italia e su questo punto neppure i fautori della lotta armata, nonostante l’evidente fallimento, hanno mai dato spiegazioni.
Nel contempo, in alternativa alla deriva ‘rivoluzionaria’, si è andato diffondendo nella sinistra un pensiero debole a sfondo prevalentemente elettoralistico che non ha dato prospettive né alle lotte né a progetti seri di riorganizzazione delle ‘forze motrici della rivoluzione’. In sostanza, una cultura velleitaria e priva di fondamenti scientifici, di cui l’attuale radicalismo ‘antagonista’ è permeato, ha impedito una discussione seria sul che fare? dopo la mutazione genetica del PCI. Una cultura che col suo velleitarismo rende subalterne al sistema tutte le spinte al rinnovamento che pur si esprimono nella società italiana”.
Allegato B
Ancora da Dopo il PCI, op. cit., pagg. 109-115.
“Partiamo dal quadro internazionale e dalle contraddizioni che il nostro paese vive e che in buona parte sono ad esso riconducibili. Consideriamo la situazione internazionale non solo dal punto di vista geopolitico, ma soprattutto per individuare la natura dei processi in corso la cui caratteristica principale si differenzia molto dal periodo successivo alla prima guerra mondiale da cui è partito l’assalto al cielo dei comunisti. Si tratta di mettere in chiaro appunto che non siamo nel 1921 e quindi una forza politica che nasca dalle ceneri del PCI non può avere come prospettiva quella dei delegati del congresso di Livorno. Da allora è passato esattamente un secolo che ha cambiato completamente il panorama mondiale, il modo di esprimersi delle contraddizioni e il ruolo dei comunisti – a partire dalla Cina, dove il partito comunista al potere, dopo la sconfitta della rivoluzione culturale, ha completamente reimpostato la propria strategia verso il socialismo.
Che cosa è cambiato in sostanza? Con la fine dell’URSS e dei paesi socialisti dell’Europa orientale, con la crisi del movimento comunista in Europa, di cui il PCI era parte importante, e con la svolta del PCC che ha portato alla elaborazione del ‘socialismo con caratteristiche cinesi’ è cambiato lo schema precedente, caratterizzato da un blocco socialista contrapposto all’occidente capitalistico. ‘Campo socialista’ non erano soltanto i paesi del socialismo reale, ma anche i partiti comunisti non al potere che si presentavano uniti sulla scena mondiale.
Se qualche gruppo crede di poter riproporre oggi, collegandosi all’esperienza cinese, lo stesso schema strategico del campo socialista, si dimostra incapace di inquadrare le caratteristiche e lo sbocco attuale delle contraddizioni a livello mondiale e anche di vedere come la Cina stessa si colloca in questo contesto. Se fino agli anni ’50, cioè alla morte di Stalin, il campo socialista aveva diretto in maniera abbastanza uniforme il processo di trasformazione economica e politica mondiale verso il socialismo, dopo quel periodo le cose sono cambiate totalmente. E’ vero che oggi la Cina occupa nel mondo uno spazio enorme, ma la strategia del PCC sul piano interno e internazionale è completamente diversa da quella che caratterizzava il movimento comunista mondiale e fa prevedere che i nuovi passaggi storici verso il cambiamento del sistema imperialistico occidentale non si presenteranno come una riedizione del big bang del 1917. A meno che l’occidente capitalistico, per uscire dalle difficoltà, non decida di usare l’opzione militare. Ma una scelta di questo genere è ardua visto il rapporto di forze tra USA, Cina e Russia.
A decidere su questo sarà l’evoluzione della situazione nei prossimi anni e non tutto è prevedibile, ma quello che si può intravedere è piuttosto l’acuirsi delle contraddizioni interne al blocco occidentale, negli USA come in Europa, sia come difficoltà nella competizione internazionale sul piano economico e tecnologico, in particolare rispetto alla Cina, sia rispetto alle condizioni sociali che registrano una povertà crescente e anche una radicalizzazione di settori non solamente proletari e che spesso vengono egemonizzati dalla destra neofascista, tanto negli Stati Uniti quanto nell’UE e nella sua parte orientale come in quella occidentale.
Questo secondo aspetto del problema può diventare, in presenza di un approfondimento della crisi, un fattore scatenante per indirizzarla verso soluzioni autoritarie e nazionaliste. Per questo è importante che una nuova forza politica che raccolga in Italia i settori popolari e progressisti nasca con una visione solida del quadro internazionale, individuandone i possibili sviluppi, ma anche definendo una visione corretta del ruolo che deve ricoprire per influenzare gli orientamenti di massa sulle scelte internazionali del paese.
Qualche identitario di casa nostra pensa di cavarsela con lo slogan No alla Nato – No all’UE, pensando così di essersi lavata la coscienza. Nella realtà le cose sono un po’ più complicate e abbisognano di un serio adeguamento rispetto agli schemi tradizionali. Soprattutto bisogna individuare quali sono i punti concreti su cui si sta muovendo la situazione mondiale e quindi quali sono i fattori su cui puntare per modificare i rapporti di forza non con vuoti slogan, ma con la partecipazione ai movimenti politici e di massa che realmente tendono a portare la situazione fuori dal caos e dai disastri provocati dal sistema imperialistico occidentale.
Se si considerano le cose da questo punto di vista ci sono tre questioni che sono all’ordine del giorno per una ricostituita forza politica che abbia un orizzonte adeguato alle questioni oggettive che si pongono in questa fase storica: il futuro del pianeta, il carattere delle relazioni internazionali nella fase del cambiamento dei rapporti di forza mondiali, il movimento per liberare gran parte del nostro pianeta dalla miseria e dalla rapina delle risorse e infine una politica estera di pace del nostro paese e la difesa della sua indipendenza.
Su questi obiettivi va ricomposto un nuovo modello di unità e solidarietà internazionale e costruito il nuovo blocco mondiale che deve prendere coscienza, a partire dalle condizioni nazionali, del destino che accomuna tutti i popoli nella fase della globalizzazione.
Qual è la differenza tra questi obiettivi e la fase che abbiamo attraversato nei decenni passati? Le differenze sono sostanziali perché innanzitutto siamo usciti dal tunnel in cui le guerre infinite degli Stati Uniti e il crollo dell’URSS sembravano averci cacciati. La vecchia talpa è riuscita, in questo caso, a determinare la sconfitta americana nelle guerre ‘umanitarie’ e nuovi equilibri mondiali grazie alla Cina e alla Russia di Putin che hanno modificato i rapporti di forza, come è avvenuto nel Medio Oriente, e determinato anche una crisi del sistema occidentale, restringendone le possibilità di azione. Non solo, ma la forza economica della Cina è diventata elemento fondamentale del sistema economico mondiale per cui, nonostante gli embarghi e i boicottaggi, il dominio economico e tecnologico occidentale si trova ormai di fronte a un blocco delle possibilità espansive che solo una guerra atomica potrebbe rimuovere. L’opzione non è da escludere, ma le incognite per chi la scatenasse sono molte.
E’ in questo contesto internazionale che vanno ridefinite le strategie di un movimento di emancipazione sociale che, se non vuole chiudersi un una nicchia ideologica, deve saper cogliere le contraddizioni su cui determinare una nuova avanzata. L’orizzonte in cui questo deve avvenire è quello di dare alle forze in movimento una prospettiva generale e portare a un punto di sintesi le spinte che pure ci sono in varie parti del mondo e anche in differenti scenari.
Da questo punto di vista la Cina svolge con la sua linea di politica estera un ruolo importantissimo, sia impostando le sue relazioni internazionali coi vari paesi su un piano di parità e di collaborazione, in alternativa alla logica imperiale dell’occidente, sia orientando le proposte sul futuro dell’umanità verso quelle soluzioni che servono a sciogliere i nodi che si sono accumulati: ambiente, collaborazione economica per lo sviluppo dei paesi arretrati, una visione del futuro sottratta alle guerre.
Ma la Cina non è e non può essere l’unico fattore su cui può marciare la prospettiva di modificare la situazione caratterizzata da molteplici contraddizioni che investono interi continenti, come l’Africa e l’America latina e aree come il Medio Oriente. Qui si tratta di capire che ci troviamo di fronte a contraddizioni sociali e politiche prodotte dal neocolonialismo occidentale e dalla borghesia compradora ad esso collegata che non possono essere superate se non da movimenti rivoluzionari e al tempo stesso nazionali che rendano i popoli protagonisti del loro futuro. Come le vicende irachena, siriana e afghana ci insegnano e come mostrano anche i segnali che vengono dall’America latina, a partire dal Venezuela, e dall’Africa, la situazione è in rapido movimento e tende a determinare una ulteriore spinta al cambiamento. Non solo Cina dunque nel considerare l’evoluzione dei rapporti di forza internazionali.
Ma in ballo c’è anche la questione europea e come essa gioca nelle prospettive future. Finora abbiamo considerato il ruolo dell’Europa in modo abbastanza schematico, collegandola di fatto alla leadership americana e da essa strettamente dipendente. Oggi però la questione si presenta in una dimensione alquanto diversa. Non che si siano allentati i legami militari, che rimangono strettamente atlantici, bensì perché l’Europa è entrata in una fase di fibrillazione economica e sociale che la rende, più che una fortezza inespugnabile, un continente fragile dove si gioca una partita importante rispetto agli equilibri internazionali e di cui bisogna cogliere sia i dati oggettivi che si vanno manifestando che i compiti che spettano a una forza politica come quella di cui sollecitiamo la nascita che deve agire in questo contesto.
Le questioni all’ordine del giorno, su cui stanno maturando le maggiori contraddizioni, riguardano le relazioni intereuropee, i pericoli di guerra all’Est e i rapporti con la Russia, il vento di destra che soffia nell’UE ad ovest come ad est, la riorganizzazione del modello economico su cui si vanno modificando sotto la spinta di Bruxelles i rapporti sociali.
Mentre un certo tipo di sinistra si attarda in riti accademici per studiare l’UE come moloch economico finanziario che gestisce e controlla tutti i rapporti, le cose stanno andando avanti in un modo molto più complesso e politicamente disarticolato. All’orizzonte europeo appaiono infatti la crescita di confini politici interni che si vanno via via rafforzando. Un’Europa orientale che pur essendo destinata al ruolo di trincea avanzata in particolare degli USA contro la Russia, ha ingranato una marcia sua propria di tipo nazionalista e di destra (a cui peraltro fa riscontro una consistente destra occidentale, a partire dall’Italia e dalla Francia), una Germania che archiviando la Merkel ridimensiona le proprie ambizioni egemoniche, e la Francia che prova, coll’appoggio dell’Italia, a cambiare asse per diventare più aggressiva sul terreno economico e nelle relazioni africane e medio-orientali.
Con queste divaricazioni, quanto reggerà l’immagine della fortezza Europa? Come si aggraveranno queste sue contraddizioni interne e con quali sbocchi?
Eppoi c’è l’incognita della guerra che pesa su un continente che è diventato un possibile, nuovo campo di battaglia e non tanto perché si sta progettando un esercito europeo (a decidere una guerra in Europa saranno sempre gli americani) quanto perché proprio gli Stati Uniti stanno sviluppando un’azione pericolosa, dal Baltico, alla Bielorussia, alla Polonia e all’Ucraina e nel mar Nero e aspettano il momento opportuno per colpire.
Sul piano economico le prospettive di questa Europa, aldilà delle apparenze sui progetti della ricostruzione post-pandemica, stanno dimostrando che la condizione economico-sociale gira a due velocità e che ormai l’economia forte raggiunge solo una parte della società, mentre una parte consistente è diventata un’area di sottosviluppo sociale che condiziona anche le possibilità di difesa dei lavoratori occupati. Questo fenomeno si manifesta sul piano politico con la nascita di movimenti meticci che nascono sì come protesta per le condizioni economico-sociali, ma con una mancanza di esperienza organizzativa e di chiarezza sui programmi per cui diventano anche terreno di penetrazione della destra. E questa caratteristica sta diventando una condizione politica e sociale endemica dell’Europa.
La conclusione che si può trarre da queste considerazioni sulla situazione in Europa è che ci troviamo di fronte a una articolazione delle contraddizioni che vanno colte e trasformate in capacità di azione, in modo che incidano sui rapporti di forza e nei movimenti di emancipazione che stanno emergendo nel contesto mondiale.
Nell’ambito di questa prospettiva occorre considerare dunque l’Europa non solo un polo del blocco imperialista occidentale, ma anche come possibilità di ripresa di lotte e di riorganizzazione politica…
Le lotte contro i progetti di guerra nel continente, contro l’emarginazione sociale e per la riconquista di una forza autonoma dei lavoratori,la contrapposizione al nazionalismo della destra, arma di riserva della borghesia in alternativa all’attuale europeismo, sono il banco di prova per un movimento politico che ha l’ambizione di cambiare le cose e non solo nel proprio paese.
Una volta delineate le prospettive su cui si muove la situazione internazionale occorre anche rimettere a punto in termini teorici e di interpretazione storica il passaggio epocale che stiamo attraversando su cui definire una strategia di riorganizzazione.
La domanda è: a che livello si vanno sviluppando le contraddizioni non solo geopolitiche, ma di classe e antimperialiste e come si presentano le esigenze di trasformazione sociale a breve e medio termine? …
Già qualche anno dopo la rivoluzione russa, in una fase di relativa stabilizzazione economica e con l’irrompere del fascismo contro i tentativi di sovvertire l’ordine capitalistico, la spinta alla generalizzazione dell’esperienza bolscevica si andava allontanando dai paesi europei. Non che l’indicazione di Lenin e della terza Internazionale non avessero avuto effetti mondiali, a partire dalla Cina, ma nell’occidente capitalistico l’andamento della spinta a modificare il sistema ha preso un’altra strada e si è fatto molto più articolato fino a quando il crollo dell’URSS e degli altri paesi socialisti europei e la svolta del ‘socialismo con caratteristiche cinesi’ non hanno messo brutalmente i comunisti di fronte alla necessità di una riflessione seria sugli avvenimenti.
Su che cosa va fatta questa riflessione? Per cominciare sui tempi di sviluppo dei rapporti di produzione socialisti nei vari paesi del mondo. Il crollo dell’URSS e la svolta cinese hanno dimostrato che le difficoltà e le questioni oggettive pongono in essere una dialettica tra l’obiettivo (il socialismo) e i passaggi pratici per realizzarlo. Non solo, ma dalla nuova fase storica si possono dedurre indicazioni sul modo di procedere delle trasformazioni sociali su cui i comunisti devono aggiornare la loro teoria e i loro progetti.
In verità alcune di queste questioni erano già all’ordine del giorno, sia nell’area dei paesi sottosviluppati ed ex coloniali sia nei paesi occidentali, e in particolare in Europa, prima ancora della crisi del movimento comunista degli anni ’90. Questa crisi, come sappiamo, si è manifestata in Europa con la liquidazione dei maggiori partiti comunisti e, sul piano mondiale, con la riduzione di molti altri partiti a minoranze senza incidenza sugli avvenimenti del proprio paese.
Ora però l’esperienza storica ci può aiutare a impostare in modo più corretto il percorso da seguire. Essa difatti ci insegna molte cose: in primo luogo che per avere l’effetto su larga scala di un movimento rivoluzionario come quello del 1917 bisogna che le condizioni oggettive abbiano uno spessore profondo, come quello determinato dal conflitto mondiale e dal crollo dell’impero zarista; e poi che lo sviluppo del socialismo deve essere in grado di tenere testa al sistema capitalista mondiale non solo sul piano politico e militare, ma anche sullo sviluppo delle forze produttive, e infine che l’articolazione di un processo rivoluzionario non va in linea retta, ma è una curva che tiene conto dei rapporti di forza e di come tutti gli elementi oggettivi si vanno evolvendo e configurando, e la soggettività rivoluzionaria deve tenerne conto.
Nel contesto storico attuale lo scenario che abbiamo di fronte prepara grosse trasformazioni, ma ancora non è maturata una condizione che riapra un fronte rivoluzionario di ampie proporzioni. Finora a dominare la scena è la situazione geopolitica che si è determinata in seguito alle sconfitte americane in Medio Oriente, al consolidarsi della posizione russa nella difesa della propria indipendenza e integrità territoriale, al ruolo decisivo della Cina sul piano economico, politico e militare. E’ in questo contesto che va definito il ruolo delle forze che tendono alla trasformazione e sono schierate contro il sistema imperiale occidentale di cui l’Italia ovviamente fa parte”
Allegato C
Dalla postfazione di Vladimiro Giacché del 14 novembre 2022 ai due volumi di Carlo Formenti, Guerra e rivoluzione, vol. I, Le macerie dell’impero, vol. II Elogio dei socialismi imperfetti, Milano, Meltemi, 2022, vol. II pagg. 277-287).
“Sui caratteri della CEE prima, della UE poi, Formenti è netto: i loro “principi ideali” fondativi, afferma, “non hanno nulla a che vedere con il dichiarato obiettivo di dare vita a uno spazio geopolitico economicamente florido e sottratto agli orrori della guerra”; essi sono piuttosto quelli – propri delle teorie di Hayek e di altri autori – tesi “all’annientamento della sovranità popolare, allo svuotamento della democrazia e a un drastico ridimensionamento della forza contrattuale delle classi subalterne. Questa filosofia, inscritta nel codice genetico delle istituzioni europee e delle loro regole di funzionamento, è stata fatta propria dalle élite neoliberali italiane, di destra e di sinistra, le quali vi hanno visto uno strumento strategico per imporre dall’esterno quella disciplina sociale che non riuscivano a imporre all’interno del Paese”.
Si tratta, come è chiaro, di una posizione molto dura, che nega in radice il carattere “progressivo” delle istituzioni europee, e si contrappone non soltanto alla propaganda corrente, ma anche alle posizioni di coloro i quali riconoscono a tali istituzioni idealità originariamente positive, poi tradite nel successivo processo storico.
Ritengo che Formenti abbia pienamente ragione. […] La filosofia… del trattato di Roma è in tutto e per tutto quella dell’economia di mercato”. È precisamente su questa base che si sviluppa il confronto della Commissione con gli interventi degli Stati membri nell’economia: “il nostro aiuto all’economia consiste nel favorire la concorrenza”. In queste parole emerge con chiarezza come l’indifferenza dei Trattati di Roma nei confronti delle forme di proprietà sia soltanto apparente, e come già su quella base fosse inevitabile pervenire a un approccio inequivocabilmente a favore della centralità del mercato e della concorrenza tra società private e contro ogni orientamento pubblico dell’attività economica.
Il pieno dispiegarsi di questi presupposti ovviamente richiese molto tempo. Il quadro normativo conobbe una significativa evoluzione nel corso degli anni, accompagnando le tappe di sviluppo dalla Comunità Economica Europea a quella che dopo Maastricht chiamiamo Unione Europea. Queste tappe sono in sintesi: l’unione doganale, il mercato comune, il mercato unico, la moneta unica e infine l’unione bancaria.
I due passaggi chiave sono rappresentati dall’Atto Unico Europeo (1986) con il completamento del mercato unico, e poi dal Trattato di Maastricht (1992) con la moneta unica. Questi due passaggi si collocano nel pieno del trionfo del neoliberismo: quando l’Atto Unico Europeo viene stipulato, Margaret Thatcher e Ronald Reagan sono al potere, in Francia un Mitterrand indebolito è costretto alla coabitazione con Chirac, in Germania è saldamente al potere Helmut Kohl, mentre il blocco sovietico è già entrato nella sua crisi terminale. Quando si firma il Trattato di Maastricht, la bandiera rossa è stata ammainata dal Cremlino da meno di due mesi, e l’ondata neoliberista sta vivendo il suo momento di più incontrastata egemonia. Quell’“economia sociale di mercato” che ai tempi del Trattato di Roma era nulla più che l’etichetta appiccicata, per motivi di marketing politico interno, al solo ordoliberismo tedesco, è ora inserita esplicitamente nei Trattati; non solo: quasi a voler stemperare ulteriormente il significato dell’aggettivo “sociale”, il legislatore europeo ravvisa la necessità di aggiungere a quest’espressione la caratterizzazione di “fortemente competitiva”…
Nei primi anni Novanta il contesto storico è completamente diverso, e caratterizzato dal rollback della proprietà pubblica – sia pure con differenze rimarchevoli da Stato a Stato, e con quello italiano in prima fila nel privatizzare. Su questo aspetto vale la pena di spendere qualche parola. La particolarità della situazione italiana era [tale] che in Italia le nazionalizzazioni di parte importante dell’industria e dell’intero sistema bancario erano tali da far sì che “gli italiani in questo modo abbiano possibilità del tutto straordinarie di intervenire nell’economia, che è quanto noi non vogliamo fare”.
Lo smantellamento di queste imprese pubbliche, e delle conseguenti “possibilità del tutto straordinarie di intervenire nell’economia”, sarà disposta nel 1993 proprio dalla Commissione Europea, utilizzando come grimaldello la categoria degli “aiuti di Stato”, codificata nel diritto comunitario in modo sempre più restrittivo col passare degli anni. […]
Risultato: tra il 1985 e il 2009 l’Italia privatizzò beni di proprietà pubblica per 160 miliardi di euro (il 18% del PIL italiano del 1994), ma ben la metà di queste privatizzazioni avvennero tra il 1996 e il 2000. La privatizzazione è pressoché totale in campo bancario dove, se a inizio decennio Novanta il 73% delle banche era in mano pubblica, alla fine del decennio non ne restava praticamente più nessuna. Di fatto, come ha osservato Roberto Artoni, l’accordo Andreatta-Van Miert “costituì il viatico per un processo di dismissione delle imprese pubbliche facenti capo all’IRI al di fuori di ogni disegno complessivo di ragionata tutela di settori industriali potenzialmente determinanti per lo sviluppo economico del paese”.
Quella scelta (o meglio quella imposizione accettata di buon grado dalla classe dirigente dell’epoca) ha contribuito in misura importante al declino economico italiano dell’ultimo trentennio. Si è rotto di fatto il delicato equilibrio tra proprietà pubblica e privata che contraddistingueva l’economia italiana e che ne aveva accompagnato i decenni di maggiore espansione, sia pure tra luci e ombre. E assieme è venuto meno il nesso, ben chiaro ai costituenti, tra proprietà pubblica ed esigibilità di diritti costituzionalmente riconosciuti, e quello, non meno importante, tra proprietà pubblica e governo dell’economia.[…]
Il secondo aspetto … su cui vorrei soffermarmi brevemente è connesso a quello sin qui trattato, e riguarda la Costituzione italiana. Sul contrasto insanabile tra i Trattati europei e la nostra Costituzione ho avuto modo di diffondermi altrove. Io credo che precisamente tale contraddizione, politicamente sostenibile dalle classi dirigenti di questo Paese solo al prezzo di negare l’evidenza (gioco a cui si è prestata ripetutamente la Corte Costituzionale) e di aggirare e disattivare di fatto il disposto costituzionale su aspetti essenziali (gioco al quale si è purtroppo ripetutamente prestato anche il Parlamento), dimostri l’importanza di tener fede alla Costituzione, alla sua lettera e al suo spirito. Questo punto di vista sembra del resto essere condiviso dalla larga maggioranza degli italiani, i quali per ben due volte, nel 2006 e nel 2016, hanno respinto attraverso referendum popolari le modifiche alla Costituzione volute, rispettivamente, da Berlusconi e da Renzi.
Detto in altri termini: i contenuti della Carta Costituzionale rappresentano tuttora un’arma politicamente importante, che può e deve essere impugnata proprio a fronte del progressivo allontanarsi della legislazione del nostro paese (come richiesto dai Trattati europei) dal percorso tracciato dalla Costituzione […].
L’obiettivo al quale è oggi necessario tendere, ossia la (ri-)costruzione di un’economia mista con poteri di indirizzo dello Stato sull’economia, è perfettamente compatibile con l’attuale Costituzione. Ovviamente, per conseguire questo obiettivo bisogna “rivendicare la possibilità che lo Stato nazione italiano recuperi la propria sovranità”. E questo, come correttamente osserva Formenti, non è “sovranismo” (pseudoconcetto diffamatorio), ma “la sola via per restituire al popolo il potere decisionale su scelte da cui dipendono i suoi livelli di vita”.
Credo che risieda in ultima analisi in questo diverso giudizio sulla Costituzione anche il motivo per cui non mi ritrovo sulla critica di Formenti al “riformismo” di Togliatti, accusato di limitarsi a “rivendicare un’applicazione più rigorosa dei principi della Costituzione”. Ritengo infatti che la rivendicazione di un’applicazione rigorosa della Costituzione, lungi dall’essere una battaglia di retroguardia, rappresentasse allora e rappresenti oggi una frontiera molto avanzata. […]
Togliatti faceva del concetto di “democrazia progressiva” uno dei principi guida per l’azione del PCI (in coerenza con l’articolo 3 della Costituzione). Anzi: la sua urgenza si fa tanto maggiore in un periodo storico come l’attuale, in cui la conservazione degli assetti del potere economico sembra richiedere la compressione delle libertà, anche sotto il profilo civile e politico…
A questo scopo occorre recuperare, all’interno del discorso sulla democrazia e del concetto di democrazia, l’obiettivo dell’eguaglianza, riproponendo il concetto di democrazia sociale come unico possibile significato di «democrazia» in senso pieno. Si tratta in definitiva di recuperare e far valere la ricchezza del significato di democrazia come valore rispetto all’angustia della democrazia come forma di governo. La dialettica tra questi due significati del termine è permanente. Il perché è presto detto. La democrazia intesa come valore ha in sé un contenuto dinamico: spinge verso la democratizzazione in ogni ambito. Così facendo, essa mette in luce i limiti del concetto formale di democrazia, e la sua intrinseca incapacità di mantenere ciò che promette”. Dobbiamo, in altri termini, riaffermare una semplice verità: “se non si realizza la democrazia anche a livello economico e sociale, se il “potere del popolo” non si esercita anche nei confronti del modo di produrre e distribuire la ricchezza, la stessa democrazia come forma e metodo di governo si riduce a un guscio vuoto destinato a essere schiacciato”.
Questo, purtroppo, è quanto oggi puntualmente sta accadendo. Ma la storia – anche grazie a libri come questo – non è finita”