Nietzsche nel laboratorio teorico di Domenico Losurdo. Una proposta di rilettura
ago 2nd, 2023 | Di Thomas Munzner | Categoria: Teoria e criticaNietzsche nel laboratorio teorico di Domenico Losurdo. Una proposta di rilettura
di Francesco Fistetti (Università di Bari)
1. La critica della modernità coloniale: Domenico Losurdo e i postcolonialisti
È ormai universalmente riconosciuto che uno dei filoni di ricerca che Domenico Losurdo ha fino alla fine coltivato è quello della questione coloniale. Al punto che essa, a suo avviso, può essere considerata il centro focale della Grande Divisione tra marxismo orientale e marxismo occidentale (come Mimmo mostra nel suo ultimo importante libro pubblicato in vita nel 20171). Altrove ho avuto modo di argomentare che la questione coloniale oltrepassa la dicotomia marxismo orientale/marxismo occidentale, dal momento che diviene una griglia epistemologica del tutto inedita attraverso la quale è possibile rileggere l’intera storia della moderna cultura occidentale e, per questa via, cogliere i limiti del marxismo come paradigma scientifico e come guida per l’agire politico. Su questo terreno la convergenza di Losurdo con gli studi postcoloniali e subalternisti è un dato innegabile, anche se finora del tutto sottovalutato e sottaciuto: il terreno comune è la centralità della questione coloniale come ermeneutica della modernità e chiave privilegiata di ricostruzione della sua storia. Per l’uno e gli altri la modernità occidentale non può essere adeguatamente esplorata se non si tiene conto di ciò che il colonialismo e l’imperialismo hanno significato sia per l’affermazione del modo di produzione capitalistico nelle metropoli europee, sia per l’edificazione degli Stati nazionali. Una lettura incrociata di Controstoria del liberalismo (2005), e dei testi più significativi dei postcolonialisti, a cominciare dal testo seminale di E. Said, Orientalismo (1978), fino ad autori come Homi Bhabha, Gayatri Ch. Spivak, Achille Mbembe o a quell’area pluridisciplinare che include molti autori dell’America latina come Enrique Dussel, Anibal Quijano, Walter Mignolo, Boaventura De Sousa Santos, una lettura incrociata, dicevo, evidenzierebbe un’aria di famiglia attorno al ruolo cruciale che la questione coloniale ha giocato nella formazione della coscienza moderna.
A ben guardare, infatti, la questione coloniale ha inciso profondamente nella costituzione stessa delle forme della soggettività moderna: non solo della figura paradigmatica dell’individuo borghese-proprietario, esaltata dal liberalismo, ma anche dei soggetti collettivi come popolo, nazione, cittadinanza, razza, Stato, ecc. La convergenza sulla questione coloniale si rivela un passaggio strategico ineliminabile per decifrare la modernità non solo nella storia materiale dell’accumulazione originaria e di sfruttamento dei Paesi extra-europei, ma anche nelle forme di autolegittimazione della violenza perpetrata nei confronti delle culture altre e di autocelebrazione della presunta superiorità dei propri valori e della propria civiltà. Se Losurdo demistifica le ideologie che, fin dalla scoperta del Nuovo Mondo, nella storia della filosofia e della cultura occidentale hanno legittimato la Conquista, i postcolonialisti da parte loro mostrano come il progetto di colonizzazione sia stato una forma di razionalità che ha espropriato i popoli colonizzati del loro linguaggio, inteso nell’accezione wittgensteiniana di una prassi sociale che incorpora forme di vita particolari, e come ciò abbia comportato, per dirla con De Sousa Santos, un vero e proprio «epistemicidio». Ora, ciò che divide Losurdo e i postcolonialisti, soprattutto gli autori di area angloamericana e francofona (G. C. Spivak, H. Bhabha, P. Gilroy, S. Hall, D. Chakrabarty, A. Mbembe, ecc.), è il quadro teorico generale dentro il quale il progetto moderno di colonizzazione viene interpretato. In breve, mentre Losurdo è interessato ad una ricostruzione storica dei punti ciechi delle idee filosofiche moderne, in primo luogo del liberalismo e della democrazia, i postcolonialisti assumono la modernità coloniale, per usare il lessico di Foucault di L’archeologia del sapere, come un ordine del discorso o un sapere/potere che contiene le condizioni della sua riproduzione2. Ne deriva che la critica della modernità coloniale, per quanto consonante nella radicalità degli esiti, muove da presupposti affatto diversi e, soprattutto, si propone degli obiettivi del tutto differenti. Vorrei qui, almeno per sommi capi, mostrare: 1) il ruolo determinante, seppure declinato in termini opposti, che nella critica della modernità coloniale per Losurdo e i postcolonialisti occupano gli sviluppi della filosofia europea dopo Hegel e Marx, segnatamente in rapporto soprattutto a Nietzsche (e Heidegger); 2) la complementarità che, dopo un’attenta disamina, si può stabilire tra i risultati delle ricerche di Losurdo e questa famiglia molto variegata di autori definiti postcolonialisti e subalternisti.
2. Nietzsche e la critica delle “idee moderne”
Quanto al primo punto, è evidente che il riferimento è a una delle maggiori fatiche di Losurdo: Nietzsche, il ribelle aristocratico (Bollati Boringhieri, Torino 2002). Per economia di tempo, non possiamo qui occuparci di un altro lavoro storico-filosofico meritevole di altrettanta attenzione, La comunità, la morte e l’Occidente. Heidegger e l’«ideologia della guerra»3. L’originalità di questi due testi – ma la stessa cosa vale per gli studi sul pensiero di Spaventa, Croce, Gentile, Gramsci – risiede nel fatto che la filosofia nella varietà delle sue voci viene rivisitata e ripercorsa come cartina di tornasole di una “controstoria” della ragione occidentale, in particolare di una controstoria dell’identità europea ed euro-atlantica, compresa la nostra cultura nazionale. In questa prospettiva, la storia della pratica filosofica non solo non può più rivendicare una sua autonomia, per quanto relativa, ma diventa una sorta di storia interna alla ragione politica e incapace di generare una dialettica concettuale fatta di tensioni e di conflitti produttivi di effetti di conoscenza specifici, sia pure in interazione costante con gli altri saperi. A questo proposito, il tema della critica dell’universalismo occidentalocentrico è il terreno più istruttivo per chiarire la concezione affatto diversa dell’attività filosofica da cui muovono Losurdo e i postcolonialisti. Per Losurdo il discorso filosofico della modernità (per utilizzare una locuzione habermasiana) va posto sullo stesso piano e in continuità con la storia politica e sociale e con quella delle ideologie come forme della coscienza e dei codici di comportamento individuali e collettivi. Più che un problema di “traducibilità dei linguaggi scientifici e filosofici” (che è l’assunto metodologico suggerito da Gramsci nei Quaderni), Losurdo assume una prospettiva che identifica ab origine filosofia e politica. Così, le “idee moderne”, a cominciare da quelle di libertà ed eguaglianza, vengono esplorate nei momenti o nei passaggi storici della loro contraddizione performativa o autoconfutazione pratica. Non è solo un procedimento argomentativo, sorretto in Losurdo, come sappiamo, da una conoscenza storica poderosa, ma qualcosa che ha a che fare con l’idea che la temporalità storica e, dunque, la produttività della pratica filosofica sono del tutto immanenti alla ragione pratico-politica. Per converso, i postcolonialisti assumono Nietzsche come una sorta di “ponte girevole” dal moderno al postmoderno, inaugurando una costellazione intellettuale caratterizzata da una critica della metafisica nella molteplicità delle sue figure, a cominciare dal cogito cartesiano e dal Geist hegeliano, sottoposte a una decostruzione “genealogica” (Nietzsche) o a un’attività di Destruktion del loro statuto di ipostasi metastoriche (Heidegger). In questo modo l’approccio alle “idee moderne” non viene più declinato dal versante della loro fungibilità alla costruzione delle forme della sovranità statuale e alla legittimazione della ragione signorile (il liberalismo aristocratico e la democrazia dei signori), ma come momenti di una ragione emancipativa rivolta a restituire la complessità della liberazione dai vincoli dell’oppressione e la ricchezza delle forme dell’umano. Questa impostazione teorica, che è il prodotto di un impasto, variamente declinato, tra poststrutturalismo, costruttivismo e decostruzionismo a cui si è dato il nome di French Theory4, non è estranea alla questione coloniale – con i connessi processi di decolonizzazione avviati nel Secondo dopoguerra -, ma la ricollocano e la reinterpretano all’interno di una modernità radicalizzata e di una nozione “postrazionalistica” di ragione5. Paradossalmente, l’inclusione della sferzante critica di Nietzsche al liberalismo e alla democrazia nella famiglia di autori come Burke, Constant, Tocqueville, Stuart Mill, ecc., che Losurdo documenta particolareggiatamente nella sua “biografia intellettuale” e nel suo “bilancio critico” (come recita il sottotitolo del volume), va letta come l’altra faccia dell’approccio postcolonialista o come sua integrazione storico-filosofica. In Nietzsche, ma in qualche modo anche in Heidegger di Essere e tempo, vi sono entrambi gli aspetti di una stessa concezione della filosofia: da un lato come critica senza appello dell’eguaglianza e del processo di democratizzazione della società interpretati da Nietzsche come “morale del gregge” e da Heidegger come “lo stato interpretativo pubblico” del Man6; dall’altro in Nietzsche come “filosofia del martello” che vuole abbattere ogni ipostasi concettuale e ogni pretesa assolutizzante di verità (religiosa, morale, scientifica, ecc.), e in Heidegger come attività di “distruzione” (Abbau) della concettualità che nella storia della metafisica ha ricoperto il nucleo originario dell’essere (Sein).
3. L’ambivalenza del pensiero nietzscheano: nichilismo e pathos della distanza
A questo punto, conviene lasciarsi alle spalle non solo le polemiche sul Nietzsche precursore del nazionalsocialismo e antisemita (tesi che lo stesso Losurdo rifiuta), ma anche la diatriba sulla “progressività” emancipativa tout court del pensiero di Nietzsche, se anche Giuliano Campioni riconosce che nell’ultimo Nietzsche (1887-1888) il tema della «degenerazione» (dei membri malati della società) «approda talvolta ad una rozza eugenetica»7. Una problematica quest’ultima su cui Losurdo si sofferma nel cap. 11 della sua monografia, intitolato non a caso «Radicalismo aristocratico» e «nuovo partito della vita». In Nietzsche, dunque, convivono antinomicamente sia un attacco esplicito contro il liberalismo, la democrazia e il socialismo, considerati come un prodotto quasi naturale del cristianesimo, in particolare del ressentiment della morale cristiana, che sfocia in un’esaltazione della gerarchia e della “morale dei signori”, sia una demolizione di tutte le mitologie della modernità, dallo Stato politico all’utilitarismo mercantile, ma soprattutto, agli occhi dei postcolonialisti, la decostruzione del soggetto dominatore della ragione occidentale che esclude e discrimina l’altro o il diverso sopprimendo ogni differenza. Basterà riportare, tra le tante, a titolo di esempio, due citazioni dal corpus nietzscheano per mostrare come questa convivenza tra i due modi di rapportarsi alla modernità da parte di Nietzsche è un dato non solo filologicamente inoppugnabile, ma anche un problema strutturale nella “storia degli effetti” (Wirkungsgeschichte) che la sua opera ha ingenerato nella cultura occidentale. Seguendo un’indicazione di Leo Strauss, si può affermare che dalla Destruktion di Nietzsche si origina una lignée nichilistica che conduce al “rifiuto dei princìpi della civiltà in quanto tali” (segnatamente dei suoi “pilastri” come la scienza e la morale), di cui il libro di Rauschnig, La rivoluzione del nichilismo, è il rappresentante più significativo8. In essa affonda le sue radici la fascinazione per il tiranno, da cui autori come Carl Schmitt e lo stesso Heidegger (almeno fino al crollo della Germania nazista) non riusciranno ad affrancarsi9. Ma anche tutti gli esponenti della c.d. “rivoluzione conservatrice”10.
Tuttavia, da quella Destruktion si origina altresì una lignée che fa del “pathos della distanza” un’autocritica della cultura europea, in primo luogo nei confronti del mito di una soggettività disincarnata e autofondata. Si tratta di un’ambivalenza, per così dire, intrinseca al pensiero di Nietzsche, di cui finora non hanno tenuto conto né i postcolonialisti, né quelli che Jan Rehmann ha definito “nietzscheani di sinistra” riferendosi con una certa approssimazione ad autori come Deleuze e Foucault11. Infatti, proprio la nozione di “pathos della distanza” misura l’ambiguità di Nietzsche rispetto al tema dell’emancipazione umana, che nel suo linguaggio coincide con il progetto di Übermensch, di trascendimento del tipo umano esistente, ingabbiato nella camicia di forza della metafisica e nella ragnatela della morale cristiano-borghese (il progetto di Così parlò Zarathustra).
«Ogni elevazione del tipo “uomo”» – scrive Nietzsche nel par. 257 di Al di là del bene e del male – «è stata fino ad oggi, opera di una società aristocratica – e così continuerà sempre ad essere: di una società, cioè, che crede in una lunga scala gerarchica e in una differenziazione di valore tra uomo e uomo, e che in un certo senso ha bisogno della schiavitù. Senza il pathos della distanza, così come nasce dalla incarnata diversità delle classi, dalla costante altezza e ampiezza di sguardo con cui la casta dominante considera sudditi e strumenti, nonché dal suo altrettanto costante esercizio nell’obbedire e nel comandare, nel tenere in basso e a distanza, senza questo pathos non potrebbe neppure nascere quel desiderio di un sempre nuovo accrescersi della distanza all’interno dell’anima stessa, l’elaborazione di condizioni sempre più elevate, più rare, più lontane, più cariche di tensione, più vaste, insomma l’innalzamento del tipo “uomo”, l’assiduo “autosuperamento dell’uomo”, per prendere una formula morale in senso sovramorale»12.
Ma al contempo il “pathos della distanza” consente a Nietzsche una relativizzazione della nostra morale, della nostra politica e delle nostre forme di vita.
«Perché la nostra moralità europea» – scrive nel frammento 380 della Gaia scienza – «possa essere osservata da lontano, per commisurarla ad altre moralità anteriori o di là da venire, si deve fare come il viandante che vuol sapere quanto sono alte le torri di una città: egli abbandona la città per questo. “Pensieri sui pregiudizi morali”, nell’eventualità che non debbano essere pregiudizi sui pregiudizi, presuppongono una posizione al di fuori della morale, un qualsiasi al di là del bene e del male al quale si deve salire, arrampicarci, volare; e in questo caso presuppongono sempre un al di là del nostro bene e del nostro male, una libertà da tutta l’“Europa”, intesa questa come una somma di imperanti giudizi di valore, trapassati in noi fino a divenire carne e sangue»13.
4. La questione del soggetto e la critica nietzscheana della ragione occidentale
Che l’Europa venga vista come un complesso di “pregiudizi” diventati “carne e sangue” dell’homo communis occidentale è un assunto ermeneutico che offre una griglia di critica della modernità che va molto al di là della postura di aristocratismo anarchico che Nietzsche adotta in polemica con i processi di livellamento omologante – o di “mediocrizzazione”, come a volte si esprime – che l’incipiente società di massa va sviluppando sotto i suoi occhi. Come pure, il principio dell’equilibrio nei rapporti di forza tra i ceti sociali di una comunità, mutuato da Tucidide, come principio genetico esplicativo delle forme di potere; la demistificazione dell’etica del mercato come «lo scaltrimento della morale piratesca» in Umano, troppo umano14; o la denuncia in Aurora della civiltà moderna che estende la legge della domanda e dell’offerta «alle produzioni delle arti e delle scienze, dei pensatori, dei dotti, degli artisti, degli uomini di Stato, dei popoli e dei partiti»15, che riprenderà nella Genealogia della morale («Fissare i prezzi, misurare i valori, inventare equivalenze, scambi - tutto ciò ha preoccupato il pensiero più antico dell’uomo in misura tale che, in un certo senso, il pensare è questo: qui è stata allevata la forma più antica di intelligenza, qui si potrebbe supporre anche l’avvio dell’orgoglio umano, il suo sentimento di superiorità nei confronti degli altri animali»16) sono motivi tutt’altro che occasionali, di pathos della distanza nei confronti della ragione occidentale.
Ma è sulla questione del soggetto che i postcolonialisti incontrano Nietzsche e innestano la deflagrazione del soggetto-sostanza (upokéime -non di Aristotele) e del soggetto-coscienza (cogito di Cartesio e Geist di Hegel) della tradizione metafisica occidentale all’interno di un ripensamento radicale delle forme di identità generate dall’ingresso nell’età della globalizzazione contemporanea. La concezione di Nietzsche secondo cui il soggetto è un quantum di volontà di potenza o una «pluralità di forze di tipo personale, delle quali ora l’una ora l’altra vengono alla ribalta come ego, e guardano alle altre come un soggetto guarda a un mondo esterno ricco di influssi e di determinazioni»17, apre la via a quella costellazione storico-filosofica postmetafisica – e programmaticamente antimetafisica – oltremodo variegata che comprende autori tra loro diversissismi come Mach, Bergson, W. James, Wittgenstein, solo per citare alcuni nomi - e, passando attraverso Heidegger (basterà ricordare il suo Nietzsche del 1961, un’opera che lo aveva sfiancato, come egli confessa), approda all’heideggerismo del secondo Novecento. Soprattutto Derrida, Lacan, Foucault, Deleuze, Barthes, Baudrillard formeranno quella koiné intellettuale – un impasto, come dicevamo, di poststrutturalismo, costruttivismo e postmodernismo – che negli anni 1980/1990 è divenuta famosa con il nome di French Theory. Nonostante i limiti di questi autori, tuttavia essi, mettendo a frutto l’idea nietzscheana del soggetto come “pluralità di forze”, colgono la cifra fondamentale del nostro tempo, che possiamo dire risieda nella pluralizzazione delle forme di soggettività e di conseguenza, come afferma Honneth, nella “lotta per il riconoscimento” della loro differenza peculiare. Infatti, l’ingresso nell’età globale ha significato la destabilizzazione delle identità fisse e ha inaugurato un “processo di diasporizzazione culturale” (Stuart Hall), da cui è difficile tornare indietro, nonostante le strategie reattive di ricerca di un’“essenza” originaria incontaminata che si rivelano fallaci costruzioni mitopoietiche. Tutte le identità sono oggi identità diasporiche, al punto che possiamo affermare che la peculiarità del tempo presente è la dialettica tra il Medesimo e l’Altro, con tutto ciò che ne deriva per quanto riguarda la costituzione della soggettività (individuale o collettiva che sia). Le identità culturali, comprese le identità nazionali con i rispettivi Stati di riferimento, sono per definizione “im-pure”, vale a dire immerse in un processo inarrestabile di ibridizzazione interculturale, in un movimento storico di metamorfosi incessante, anche quando si illudono di sottrarsi a questo destino innalzando barriere simboliche artificiali o addirittura inventando “capri espiatori” fittizi su cui scaricare l’insofferenza o l’odio verso l’altro. Come ha osservato Vandenberghe, questi autori «potrebbero legittimamente pretendere di proseguire la nobile tradizione della teoria critica – con la sofisticazione filosofica della prima generazione della Scuola di Francoforte [M. Horkheimer e T. Adorno], la responsabilità morale della seconda [J. Habermas], l’impegno per l’analisi sociologica della terza [A. Honneth] e la sensibilità convivialista della quarta»18. Ma intraprendere questa strada significa in primo luogo oltrepassare la postura meramente negativa di critica dell’ideologia presente negli studies, che rischia continuamente di sconfinare nel nichilismo passivo, non avendo essi alcuna visione positiva della “vita buona” e, quindi, avendo rinunciato a qualsiasi strategia concreta. In assenza di un’intenzionalità ricostruttiva, il paradosso è quello di restituire un’immagine ironicamente apologetica e trionfalistica del capitalismo globalizzato. A questo proposito, la ricostruzione della storia del liberalismo di Losurdo ci avverte che la dialettica tra emancipazione e de-emancipazione è destinata a non chiudersi mai. Sicché la critica delle determinazioni sostanzialistiche della metafisica del soggetto, per quanto innestata sul terreno di una critica radicalizzata dell’ideologia, può rovesciarsi in una difesa corporativa delle identità plurali (di classe, di razza o di genere) e, così, risultare subalterna alla logica astratta del capitalismo neoliberale, vale a dire a una variante postmoderna dell’homoœconomicus che scambia la difesa corporativa dei propri interessi per l’interesse generale. La “politica dell’identità” – la richiesta del riconoscimento del proprio Sé o del proprio “Noi” (o dell’uno e dell’altro insieme) non ci mette, dunque, al riparo dalla deumanizzazione conseguente alla hybris dell’illimitazione predatoria insita nell’odierno capitalismo neoliberista. De-umanizzazione significa perdere la consapevolezza della nostra appartenenza ad una comune umanità. Il riconoscimento dei “noi” plurali (noi gay, noi LGBTplus, noi di qualsiasi comunità etnica o culturale) non può prescindere dalla domanda di giustizia sociale e dalla solidarietà nei confronti di coloro che sono volta a volta ricacciati ai margini della vita sociale e politica e che patiscono diseguaglianze sempre più gravi di reddito e di status. Detto altrimenti, la critica del liberalismo assimilazionista, per quanto radicale, può sempre legittimare una sottostante ideologia della de-umanizzazione, tale da ripresentare in termini nuovi la clausola sacrificale del liberalismo aristocratico consistente nel postulato secondo cui per il “bene della nazione”, per il “benessere del maggior numero” o per promuovere la crescita economica si rende necessario sacrificare gli strati sociali più deboli: vagabondi, poveri, migranti, nullatenenti, ecc. E per questa via riconsacrare sotto forme inedite una “democrazia per il popolo dei signori (Herrenvolk)”. Potremmo dire, dunque, che la lezione più duratura di Losurdo risiede in ciò: nell’epoca del capitalismo globalizzato la lotta per il riconoscimento delle identità, per sfuggire alla trappola degli identitarismi e della chiusura egoistica e narcisistica dell’homoœconomicus, non può non declinarsi come una domanda di giustizia, deve, cioè, appoggiarsi su una concezione esigente di solidarietà e di sacrifici a favore dell’eguaglianza altrui. Come avvertiva Marcel Mauss, «si adotti come principio della nostra vita ciò che è stato e sarà sempre un principio: uscire da se stessi, dare, liberamente e per obbligo; non c’è rischio di sbagliare»19. Il rischio della de-umanizzazione, su cui Losurdo ha richiamato insistentemente l’attenzione, è oggi il pericolo più grande. L’appartenenza alla comune umanità è una conquista culturale ed evolutiva che va continuamente riscoperta e salvaguardata, perché impone non solo di coniugare incessantemente la dialettica tra eguaglianza e differenza (la differenza attraverso l’eguaglianza), ma anche di legare l’interrogativo “chi siamo?” a quello su “come dobbiamo vivere”, al fine, per dirla ancora con Mauss, di «contrapporci senza massacrarci e di «darsi» senza sacrificarci l’uno all’altro»20.
Note
1 LOSURDO 2017.
2 FISTETTI 2020.
3 LOSURDO 1991.
4 FISTETTI 2021, cap. sesto e cap. nono.
5 WELLMER 1987.
6 HEIDEGGER 1976, p. 223; si vedano in particolare i parr. 35-36-37.
7 CAMPIONI 2021, p. 118.
8 STRAUSS 2000, p. 122 e p. 123.
9 FISTETTI 2018.
10 AZZARÀ 2000 e 2014.
11 REHMANN 2009.
12 NIETZSCHE 1968/1977, p. 175.
13 NIETZSCHE 1967, p. 259.
14 NIETZSCHE 1965, p. 136.
15 NIETZSCHE 1963, p. 128.
16 NIETZSCHE 1977, cap. 8, pp. 85-86.
17 NIETZSCHE 1963, p. 439.
18 VANDENBERGHE 2018, p. 34.
19 MAUSS 1965, p. 276.
20 ivi, p. 291.
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