Senza partito niente coscienza di classe Senza classe niente partito rivoluzionario

lug 18th, 2023 | Di | Categoria: Recensioni
Senza partito niente coscienza di classe
Senza classe niente partito rivoluzionario
Alessandro  Visalli

Questa non è una recensione. Il nuovo libro di Visalli, Classe e partito. Ridare corpo al fantasma del collettivo (1), tratta troppi argomenti perché li si possa esaurire nell’angusto spazio di una recensione, ancorché corposa. In questo articolo mi limito quindi ad affrontare due temi teorici che reputo cruciali: la ridefinizione del concetto di classe (e il suo impatto sul concetto di partito) e il background “religioso” della civiltà capitalistica (e la sua capacità di “contaminare” il discorso socialista). Da queste pagine restano quindi fuori temi quali il lascito delle grandi rivoluzioni otto-novecentesche, nonché l’alternanza fra capitalismo di mercato e capitalismo politicamente regolato, associata all’alternanza fra fasi di crisi e fasi di ripresa economica, temi ai quali il lavoro di Visalli dedica ampio spazio.


1. Classe e partito: due questioni inscindibili

“Lo spettro che si aggira per l’Europa” evocato da Marx ed Engels nel Manifesto dei comunisti era in larga misura un’entità virtuale (decenni più tardi, al tempo della Comune, gli insorti saranno in larga misura garzoni di bottega e artigiani, più che operai in senso moderno), ma presentava già una consistenza materiale sufficiente a inquietare una borghesia timorosa di dover abbandonare il trono sul quale si era da poco seduta. Oggi, dopo che la controrivoluzione neoliberale ha espropriato il proletariato occidentale della propria identità sociale, culturale e politica, lo spettro di cui sopra sembra persino più evanescente di quello evocato un secolo e mezzo fa. Per parafrasare il sottotitolo di Visalli, potremmo dire che il fantasma del collettivo si presenta ormai come un’ombra dispersa fra una miriade di soggettività incapaci di “fare corpo”. Nel secolo scorso, i marxisti rivoluzionari potevano disquisire sui metodi migliori per risvegliare la coscienza politica di una classe “oggettivamente” rivoluzionaria, ancorché frenata dalla tendenza spontanea a non oltrepassare i limiti del tradunionismo; oggi si tratta piuttosto di reintrodurre in una massa polverizzata in atomi individuali la consapevolezza di appartenere a un’unica classe sociale dotata di interessi, bisogni e aspettative comuni. Visalli indaga i presupposti teorici che renderebbero concepibile la realizzazione di un simile obiettivo.

 

 

L’analisi parte da due punti fermi. Il primo consiste nel rifiutare gli approcci “sostanzialisti”, termine con il quale Visalli si riferisce ai dogmi economicisti e “oggettivisti” di un marxismo dogmatico che considera la classe operaia come una sorta di realtà “a priori”, un dato di fatto che trascende le condizioni storiche concrete. Contro questa posizione scrive, citando la lezione di Labriola, (2), “le classi sociali non emergono dalla terra” non esistono come entità astratte, bensì “nascono storicamente entro e attorno una determinata forma di produzione, al punto di congiunzione di volontà e necessità”. Da ciò discende il secondo punto fermo: la questione della classe è inevitabilmente intrecciata a quella dell’agire politico, vale a dire a quella del partito, si costituisce assieme all’azione, al progetto politico.

 

Antonio Labriola

 

Il rifiuto dell’approccio sostanzialista non comporta la negazione dell’esistenza di interlocutori sociali concretamente definibili, atteggiamento che appartiene piuttosto alle correnti culturali che si ispirano alle filosofie post strutturaliste e post moderne. Ecco perché il libro dedica molte pagine a smontare le tesi di André Gorz e dei teorici postoperiasti (3), i quali pontificano di una presunta “fine del lavoro” equivocando il senso della profezia marxiana contenuta in un noto frammento dei Grundrisse, laddove si afferma che, raggiunto un certo livello di sviluppo delle forze produttive, la teoria del valore-lavoro non può più essere applicata, dal momento che l’unico motore della produzione di ricchezza diviene il general intellect, vale a dire l’insieme delle conoscenze scientifiche e tecnologiche generate dall’individuo sociale.

Come ho scritto in varie occasioni (4), polemizzando con questa corrente di pensiero, i teorici postmoderni si sono illusi di riconoscere nelle utopie dei profeti della rivoluzione digitale, come Yokai Benkler (5) e Manuel Castells (6), la conferma che la appena citata profezia marxiana si era ormai trasformata in realtà di fatto. Per tutti costoro, i cosiddetti “lavoratori della conoscenza” (categoria costruita estendendo a dismisura un campo limitato a esigue minoranze, quali le comunità degli sviluppatori opensource e i membri delle culture hacker) sarebbero le avanguardie rivoluzionarie di una forza lavoro dotata di consapevolezza e competenze tali da potersi affrancare dalle vestigia di un capitalismo ridotto a spettrale residuo del passato, a una sorta di sovrastruttura parassitaria, priva di reali funzioni produttive, che sopravvive solo imponendo con la forza “leggi” economiche desuete a una comunità produttiva che sarebbe ormai in grado di autogestirsi liberamente. Nella sua variante “accelerazionista” (7) il mito guarda con speranza alle tendenze più estreme del turbo capitalismo digitale che, sostiene, a mano a mano che prevarranno sulla “Old Economy”, finiranno per estinguersi a causa del loro stesso trionfo.

Il secondo punto fermo coincide con una visione che associa classe e partito in un unico processo costituente, visione in nome della quale Visalli ingaggia un’altra battaglia cruciale: quella contro la sostituzione del concetto di classe con quello di popolo. In questo caso il bersaglio polemico è la coppia Ernesto Laclau e Chantal Mouffe (8) e il loro rifiuto di identificare il soggetto del conflitto sociale nelle classi lavoratrici. Questi autori rimpiazzano infatti il proletariato con il popolo, un soggetto che considerano come una costruzione puramente linguistico-discorsiva operata da leader carismatici capaci di tradurre il coacervo delle domande inevase dal sistema liberal democratico in una “catena equivalenziale”, che “si fa” popolo nella misura in cui identifica nelle élite dominanti il nemico comune. Questa costruzione intellettuale si fonda su una peculiare rilettura del concetto gramsciano di egemonia, non più riferito al dominio ideologico-culturale delle classi dominanti sulle classi subalterne, bensì alla capacità di una particolare rivendicazione di sovradeterminare gli altri anelli della catena equivalenziale.

 

Laclau e Mouffe

 

A offrire una parvenza di validità a questa tesi, argomenta Visalli, hanno contribuito la crisi economica iniziata nel 2008 e il suo aggravamento, associato alla pandemia del Covid19. Questi due “cigni neri” hanno destabilizzato le procedure e le istituzioni del regime neoliberale, riducendone la facoltà di generare consenso e ottenere legittimazione. La società è così entrata in un momento Polanyi (8), ha cioè iniziato a reagire agli effetti distruttivi del neoliberismo su tutti gli aspetti della vita sociale. L’individualismo edonista, che per decenni era riuscito a narcotizzare le velleità di opposizione, mascherando la realtà di una rapida e vertiginosa crescita delle disuguaglianze, ha iniziato a perdere colpi a mano a mano che si esaurivano le condizioni di sicurezza e fiducia che lo rendevano possibile. Purtuttavia la consapevolezza che solo l’azione collettiva (leggi la lotta di classe) può rovesciare i rapporti di forza vigenti non è a tutt’oggi riuscita a riemergere.

Assieme alla sfasatura temporale fra “il vecchio che muore e il nuovo che non riesce a nascere”, Visalli evoca il monito di Gramsci sui rischi di rivoluzione passiva associati a queste fasi di transizione che, in assenza di un credibile progetto politico alternativo, appaiono senza sbocco. L’ondata populista (di destra e di sinistra: Sanders e Trump negli Stati Uniti, Corbyn in Inghilterra; Podemos e Vox in Spagna, M5S in Italia, Mélenchon e Le Pen in Francia) se da un lato conferma questa diagnosi gramsciana, dall’altro sembrerebbe corroborare le tesi di Laclau e Mouffe, se non fosse che questi movimenti, non essendosi posti l’obiettivo del rovesciamento del regime neoliberale, bensì quello di un suo addolcimento (a sinistra), o quello della restaurazione dei suoi principi e valori originari “traditi” da caste politiche corrotte (a destra) sono quasi del tutto rifluiti sotto i colpi della reazione delle élite dominanti.

Ma se il momento populista esaurisce la sua spinta propulsiva, il momento Polanyi con le sue laceranti contraddizioni, permane e si radicalizza. E quindi crescono i rischi. Il crollo dei sistemi tecno-scientifici di protezione provocato dal covid, scrive Visalli, ha imposto il ritorno dello stato in forme autoritarie, provocando la rabbia e il rifiuto delle classi medie sedotte da ideologie antipolitiche e dal sovversivismo di destra. Ma il peggio è che la mobilitazione contro il virus ha lasciato il posto alla mobilitazione totale in vista di una Terza guerra mondiale fra le potenze occidentali e i Paesi che si oppongono alla loro egemonia, di cui la guerra tra Ucraina e Russia è il primo atto. Il keynesismo di guerra torna dunque a proporsi come soluzione di ultima istanza a una crisi senza sbocco. In questa situazione tragica, scrive Visalli, il lavoro intrecciato e parallelo di ricostruzione della classe e del suo partito diventa l’obiettivo prioritario e irrinunciabile, mentre al discorso populista va riconosciuto il merito di avere evidenziato il problema di ridefinire una soggettività antagonista non più descrivibile nei termini classici della opposizione bipolare operai/padroni.

Sbarazzarsi di questo dogma che, pur essendo già discutibile ai tempi di Marx (il quale era del resto consapevole di descrivere un modello astratto a partire dall’osservazione dal processo di accumulazione originaria in Inghilterra), è rimasto in auge per più di un secolo, non è compito agevole. Visalli lo affronta rimpiazzando lo schema bipolare con una rete complessa in cui si intrecciano una serie di “diagonali” che descrivono altrettanti criteri di selezione. Da un lato resta importante, anche se non esclusivo, il criterio delle differenze quantitative e qualitative di reddito, per cui la condizione di chi ha come unica fonte di reddito la vendita della propria forza lavoro – né è in grado di determinare il prezzo di questa “finta merce” – funge da fattore unificante dell’arcipelago dei frammenti (lavoro precario, “uberizzato”, finto autonomo, intermittente, terziarizzato, ecc.) in cui l’offensiva neoliberale ha fatto esplodere la classe operaia tradizionale. Dall’altro lato, occorre leggere queste nuove forme a partire dalle catene produttive globali, che dimostrano come la legge del valore si sia ampliata e complessificata, in barba a coloro che ne decretano la fine (vedi sopra). Lo sfruttamento classico viene così a intrecciarsi con il conflitto fra centri, periferie e semi periferie, tanto a livello nazionale (9) che a livello globale, uno scenario che già Lenin aveva abbozzato nelle sue tesi sull’imperialismo e che i teorici dello scambio ineguale e della dipendenza hanno ripreso ed approfondito (10). Senza tenere conto di quest’ultimo scenario resterebbe incomprensibile il fatto che le uniche rivoluzioni socialiste vittoriose sono avvenute in Paesi ex coloniali e hanno avuto come protagoniste le larghe masse contadine, più che le minoranze operaie (un motivo in più per superare il modello classico della opposizione binaria fra capitalisti e proletariato industriale).

Quale formula organizzativa dovrebbe adottare un partito rivoluzionario per unificare questo complesso intreccio di contraddizioni, evitando la scorciatoia del populismo? Visalli sembra dirci che, al di là degli inevitabili adeguamenti di formule organizzative e linguaggi, sono ancora il gramsciano Partito Principe e il Che fare di Lenin a indicare la strada da imboccare: posto che riunificazione della classe e ricostruzione del partito sono processi interconnessi, resta il fatto che in quella magmatica materia grezza che sono le attuali classi subalterne, potenzialmente antagoniste ma attualmente ridotte alla passività, la coscienza politica, intesa come consapevolezza non solo dei propri interessi immediati ma anche del proprio ruolo nel contesto delle relazioni fra tutte le classi sociali, può penetrare solo dall’esterno. Senza dimenticare la lezione di Lukács (11), secondo cui questa coscienza importata diventa reale autocoscienza di classe solo se e quando la massa proletaria se ne appropria effettivamente, il che dovrebbe renderci consapevoli della necessità di incorporare gli strati proletari più combattivi e politicizzati già nelle prime fasi di costruzione dell’organizzazione.

 

2. Il capitalismo come religione

L’influsso dei fattori religiosi sulla cultura capitalista non è argomento inedito. E’ nota la tesi di Max Weber (12) che identifica nell’etica protestante (in particolare in quella calvinista) le radici storiche dello spirito del capitalismo e le ragioni del ritardo con cui tale spirito ha potuto trionfare nei paesi di cultura cattolica, o ha dovuto essere importato dall’esterno in quelli di cultura islamica, confuciana e buddista.

Non meno note sono le critiche rivolte a tale tesi, a partire da quella di Samir Amin (discussa in un precedente articolo su questa pagina (13)) il quale, da un lato rovescia il punto di vista weberiano, sostenendo che sono state piuttosto le religioni ad adattarsi, prima o dopo, a seconda delle differenti condizioni storiche, all’evoluzione dei rapporti sociali; dall’altro lato critica il materialismo volgare di quei marxisti che hanno eretto a dogma la battuta marxiana sulla religione come “oppio dei popoli”, ricordando come in determinati contesti storici e geografici (vedi il ruolo della Teologia della Liberazione in America Latina) la religione abbia svolto al contrario un ruolo rivoluzionario. Senza dimenticare le pagine (14) in cui Lukács analizza la storia del cristianesimo e l’alternanza fra ruolo progressivo e ruolo reazionario che ne ha contraddistinto differenti fasi evolutive. E senza dimenticare che un grande filosofo marxista (ancorché eretico) come Ernst Bloch (15) ha addirittura visto nella rivoluzione bolscevica il compimento di un annuncio profetico inaugurato dal cristianesimo, proseguito dalle eresie medievali e culminato nell’utopia socialista.

Visalli affronta il tema da un altro angolo visuale, adotta cioè il punto di vista di Walter Benjamin, il quale, in alcuni testi (16), più che occuparsi del rapporto fra capitalismo e religione, descrive il capitalismo stesso in quanto religione. Il capitalismo, scrive Visalli seguendo le tracce di Benjamin, “serve alla soddisfazione delle medesime ansie, sofferenze, inquietudini cui un tempo davano risposta le religioni”. In altre parole: non si tratta di leggere l’influenza di credenze religiose secolarizzate sui valori della civiltà capitalistica, bensì di capire come proprio il radicale processo di secolarizzazione messo in atto da tale civiltà abbia creato un vuoto di senso che lo stesso capitalismo ha finito per riempire. Ma di che religione stiamo parlando? Siamo di fronte a un culto, risponde Visalli sempre ispirandosi a Benjamin, che si fonda quasi esclusivamente sulla ritualità, che è mero rito, ripetizione di gesti e pratiche senza una vera teologia; un culto che introduce nel mondo la dismisura, la cattiva infinità dell’accumulazione di ricchezza (in forma di denaro) fine a se stessa, che è illimitatezza di un desiderio disperato il cui fine ultimo non è la buona vita bensì la creazione di valore economico. Siamo infine di fronte a una religione mortifera, sia perché opprime il lavoro vivo per accumulare oggetti, lavoro morto, sia perché non offre redenzione bensì la disperazione di una colpa irredimibile che indossa la maschera del debito.

 

Walter Benjamin

 

Ma il vero motivo per cui Visalli adotta questa lettura benjaminiana del capitalismo come culto religioso è il fatto che, adottando il punto di vista del grande eretico della Scuola di Francoforte su questo tema, è possibile mettere sotto accusa i feticci del progresso e del lavoro industriale; feticci che ispiravano la socialdemocrazia tedesca fra fine 800 e primo 900, ma che sono rimasti saldamente incastonati nella cultura di tutte le correnti – tanto riformiste che rivoluzionarie, tanto nel passato quanto nel presente – del marxismo mainstream.

Nella misura in cui il socialismo si converte ai valori dell’industrialismo progressista, non considerandoli semplicemente come strumenti per sottrarre milioni di persone alla povertà (vedi il caso della Cina socialista), bensì ipostatizzando la tecnica e lo sviluppo delle forze produttive come fattori determinanti, se non esclusivi, della transizione a un nuovo modo di produzione e a una nuova civiltà, ci si è già inconsapevolmente esposti al rischio di abbracciare la fede borghese nella natura salvifica della crescita illimitata.

Superare questo approccio, argomenta Visalli, implica rivisitare criticamente alcuni dogmi del marxismo mainstream (compresi certi passaggi dei testi marxiani). Dall’esaltazione positivista, evoluzionista e progressista del ruolo rivoluzionario della tecnica, dello sviluppo delle forze produttive, deriva infatti una visione della rivoluzione come l’esito necessario, “naturale” di presunte leggi immanenti alla storia. Abbandonare questa visione significa seguire Benjamin nel suo tentativo di ridefinire il senso del progetto rivoluzionario. La metafora benjaminiana dell’angelo della storia (17), rappresentato come una figura che il vento trascina verso un futuro cui essa volge le spalle, mentre contempla il cumulo delle rovine e delle vittime che il progresso si lascia dietro, ispira l’idea della rivoluzione come “estrema difesa davanti al disastro”, più che come approdo di una evoluzione spontanea verso un futuro predestinato. Così concepita, la rivoluzione non può essere altro se non la rottura del continuum storico nell’attimo dell’azione, il “balzo di tigre” (per citare un’altra metafora benjaminiana) che spezza la continuità della dominazione.

 

Note

(1) A. Visalli, Classe e partito. Ridare corpo al fantasma del collettivo, Meltemi, Milano 2023.

(2) Le idee di Antonio Labriola (vedi in particolare, Saggi sul materialismo storico, Editori Riuniti, Roma 2019) esercitano una forte influenza sul pensiero di Visalli che ritiene questo autore un anticipatore di Gramsci.

(3) Cfr. A. Gorz, Miserie del presente, ricchezza del possibile, Manifestolibri, Roma 1998 e L’immateriale. Conoscenza, valore e capitale, Bollati Boringhieri, Torino 2003. Quanto ai teorici postoperaisti il riferimento è soprattutto ad Antonio Negri.

(4) Vedi, in particolare, Felici e sfruttati, EGEA, Milano 2011 e Utopie letali, Jaka Book, Milano 2013 (anche se sul tema mi ero già espresso in lavori precedenti così come sono tornato in lavori successivi).

(5) Cfr. Y. Benkler, La ricchezza della Rete, Università Bocconi Editore, Milano 2007.

(6) Cfr. M. Castells, L’età dell’informazione: economia, società, cultura, 3 voll., Università Bocconi Editore, Milano 2002-2003.

(7) Cfr. N. Srnicek, A. Williams, Inventare il futuro. Per un mondo senza lavoro, Nero Editions, Roma 2018.

(8) Cfr. E. Laclau, C. Mouffe, Hegemony and Socialist Strategy, Verso, Londra 1985; E. Laclau, La ragione populista, Latera, Roma-Bari 2008; E. Laclau, Le fondamenta retoriche della società, Mimesis, Milano 2017.

(9) Cfr. K. Polanyi, La grande trasformazione. Le origini economiche e politiche della nostra epoca, Einaudi, Torino 1974.

(10) La questione della territorializzazione del conflitto di classe nei paesi a capitalismo avanzato è associata al tema del processo di gentrificazione dei centri metropolitani e del parallelo processo di periferizzazione delle città minori. Per quanto riguarda il caso francese cfr. C. Guilluy, La France périphérique, Flammarion, Paris 2014.

(11) Per una dettagliata ricostruzione della storia della teoria della dipendenza vedi A. Visalli, Dipendenza, Meltemi, Milano 2020.

(12) Cfr. G. Lukács, Storia e coscienza di classe, Tasco, Milano 1997; ma soprattutto vedi Ontologia dell’essere sociale (4 voll.), Meltemi, Milano 2023.

(13) Cfr. M. Weber, L’etica protestante e lo spirito del capitalismo, Rizzoli, Milano 1991; vedi anche M. Weber, Sociologia della religione, Edizioni di Comunità, Milano 1982.

(14) “Samir Amin: una spallata contro l’eurocentrismo” https://socialismodelsecoloxxi.blogspot.com/2023/06/samir-amin-una-spallata-contro.html

(15) Cfr. G. Lukács, Ontologia, op. cit.

(16) Cfr. E. Bloch, Il Principio Speranza, 3 voll. Mimesis, Milano-Udine 2019.

(17) Visalli discute soprattutto due testi di Benjamin: le “Tesi di filosofia della storia”, in Angelus Novus, Einaudi, Torino 1962 e Strada a senso unico, Einaudi Torino 1983.

(18) vedi nota precedente.

Tags: , , , ,

Lascia un commento