Marxismo e classe

mag 10th, 2023 | Di | Categoria: Capitale e lavoro

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Marxismo e classe

di Chris Nineham

Parte 1: Perché non vogliono che parliamo di classe

 

 

Gli scioperi dell’estate scorsa in Gran Bretagna e l’annuncio da parte di Mick Lynch del RMT (il sindacato dei lavoratori ferroviari, navali e dei trasporti) che «La classe operaia è tornata» devono aver fatto correre un brivido lungo la schiena dell’establishment. Quest’ultimo sperava di aver seppellito definitivamente l’idea di una classe operaia combattiva. Uno dei grandi paradossi degli ultimi quarant’anni è che proprio mentre la società è diventata più diseguale di quanto lo sia stata da un secolo a questa parte, la classe è stata esclusa dal dibattito.

Questo è un risultato per il quale la classe dirigente britannica ha lavorato molto sodo sin dall’inizio del progetto Thatcher. Alfred Sherman, importante consulente dell’allora leader del Tories Margaret Thatcher, tenne una serie di lezioni nel corso degli anni Settanta con l’intento di dimostrare che la classe era «un termine marxista che è privo di significato in qualunque contesto non marxista». La Thatcher fece eco in seguito a queste affermazioni dichiarando che la classe era «un concetto comunista». E Keith Joseph, tra i più intimi confidenti della Thatcher, riteneva che il loro progetto fosse la creazione di una società in cui sarebbe stato possibile affermare «Oggi siamo tutti borghesi».1

Questi temi sono stati ripresi con entusiasmo dall’intero establishment. Nelle università i dipartimenti di studio delle relazioni industriali hanno chiuso i battenti, mentre i business studies sono fioriti. Ormai da molto tempo i giornali hanno licenziato i loro corrispondenti sindacali e si concentrano sulle quotazioni di borsa invece che sulle statistiche sugli scioperi. Ignorando le proprie radici all’interno della classe operaia, ovunque i partiti socialdemocratici hanno abbandonato ogni retorica di classe.

Intellettuali di destra, centro liberale e parte della sinistra hanno fatto di tutto per abbandonare il concetto di classe introducendo tutta una serie di nuove categorie sociali, separando la classe da qualunque base economica e riducendola a una semplice suddivisione tra le tante – o negandone espressamente l’esistenza.

La negazione neoliberale della classe è tuttavia soltanto un caso estremo nell’ambito di un’avversione molto più antica. Sin dall’emergere delle prime organizzazioni indipendenti della classe operaia, negli anni Trenta e Quaranta dell’Ottocento, discutere di classe è sempre stato considerato assai inappropriato tra persone istruite. Sino ad allora, la storiografia aveva di tanto in tanto riconosciuto che la classe e perfino la lotta di classe erano essenziali per lo sviluppo dell’umanità. Ma a partire da metà Ottocento, la storia si trasformò in una celebrazione dell’evoluzione e del progresso, o nella mera descrizione di fatti ed eventi privi di qualunque logica interna.

L’economia, che aveva riconosciuto l’esistenza di alcune contraddizioni nel capitalismo, si trasformò più o meno nello stesso periodo in una serie di armonizzazioni puramente matematiche del più volgare liberalismo. Alla fine dell’Ottocento si sviluppò la sociologia, concepita scienza della società che riconosceva l’esistenza di vari collegamenti tra l’individuo e la società, che tuttavia si sforzò in ogni modo di evitare di porre la classe al centro della sua analisi.

Da allora gli accademici, i politici e i giornalisti mainstream hanno sempre avuto la tendenza a negare l’esistenza della classe – oppure, quando questo non era possibile, a suddividerla in più categorie e a trattarla come una semplice suddivisione tra le tante o come un fatto puramente culturale. E in molte, troppe occasioni questo tipo di argomentazioni hanno trovato eco anche a sinistra.

Queste tendenze hanno toccato il culmine negli anni del neoliberalismo. A prima vista può apparire sconcertante che sia stato possibile nascondere la classe sotto il tappeto proprio mentre la diseguaglianza raggiungeva livelli mai più toccati dall’Ottocento – ma in realtà vi è una logica in questo. Per dare vita a una società diseguale come quella in cui viviamo era necessario fare a pezzi i bastioni delle organizzazioni della classe operaia in una serie di battaglie campali. Le sconfitte subite in successione dalla classe operaia in giro per il mondo ha reso credibile l’idea che i lavoratori avessero minore peso sociale. L’ondata di nuove tecnologie, chiusure di fabbriche e ristrutturazione internazionale che ha accompagnato questi processi hanno reso apparentemente obiettiva l’idea che avessimo a che fare con un contesto sociale completamente nuovo.

L’attacco all’idea stessa di classe ha rappresentato tuttavia un elemento importante della guerra di classe scatenata dalla Nuova Destra negli anni Settanta e Ottanta. Paradossalmente, la resa su questa questione, cioè l’accettazione da parte di settori della sinistra dell’idea che la classe non era più fondamentale, è una delle ragioni per cui i datori di lavoro hanno ottenuto la vittoria nella loro guerra di classe.

 

Il «più intimo segreto»

Perché questo desiderio ossessivo di seppellire la classe? Il primo problema per i capitalisti è naturalmente che la combattività della classe operaia riduce i loro profitti. Perciò, si tratta in parte di una questione di mero interesse personale immediato. La portata dell’operazione, tuttavia, tradisce ansie più grandi. Negare o cancellare la classe è una necessità radicata e ideologica per chi ci governa. In primo luogo, anche la discussione più superficiale del concetto di classe rischia di richiamare l’attenzione delle persone sulla spaventosa diseguaglianza che sfigura il nostro mondo. Per conservare la propria legittimità, la classe capitalista e i suoi sostenitori devono tentare in ogni modo possibile di distogliere l’attenzione delle persone dal fatto che il loro è il dominio di una minoranza.

Ma c’è in gioco qualcosa di più della semplice necessità di nascondere questa lampante diseguaglianza. La classe, nella sua accezione marxista più che sociologica, designa una relazione attiva tra gruppi di persone all’interno della società; spiega come le persone trovano posto nella modalità organizzativa delle basi economiche della società. Per questa ragione, il concetto di classe fa luce sull’economia su cui la società si basa e sui conflitti di interesse che essa genera. Per questo Marx afferma che la classe illumina «il più intimo segreto» della società, «il fondamento occulto dell’intera struttura sociale».

Le società divise in classi esistono da migliaia di anni, sin da quando gli esseri umani hanno iniziato a produrre a sufficienza per creare un surplus – cioè una quantità di prodotti superiore a quella necessaria per la sopravvivenza quotidiana. Ma è nel capitalismo i rapporti di classe hanno raggiunto il loro sviluppo più completo. Nelle società precedenti, lo sfruttamento era determinato dalle necessità immediata dei governanti. Nel medioevo, per esempio, i signori feudali utilizzavano il surplus da loro estratto dai contadini per finanziare i loro eserciti e il loro stile di vita lussuoso.

La caratteristica peculiare del capitalismo è che l’espansione della ricchezza è divenuta un fine in sé: il capitalismo è mosso dalla competizione senza limiti per l’accumulazione di capitale. Per sopravvivere, i capitalisti devono tentare costantemente di accrescere questi profitti in modo da poter generare la quantità massima di nuovi investimenti per acquistare la tecnologia necessaria a raggiungere le economie di scala in grado di mantenere competitivi i loro prezzi. Questa accumulazione si realizza principalmente ricavando profitti dai lavoratori, cioè pagando i lavoratori un valore inferiore a quello della forza-lavoro da loro impiegata per produrre le merci. È questo che spiega il dinamismo del capitalismo, la rapidità con cui esso ha conquistato il dominio del mondo e la spietatezza con cui sfrutta i lavoratori.

La conseguenza è che i lavoratori dipendono completamente dal capitale per i loro mezzi di sostentamento – per la loro stessa esistenza. I fautori del capitalismo affermano che esso si basa sulla libera scelta. È vero che in alcune circostanze i lavoratori possono avere modo di scegliere tra più datori di lavoro – ma questi datori di lavoro competeranno sempre per massimizzare i loro profitti, e quindi tenteranno tutti di ridurre i salari al minimo ed eserciteranno costanti pressioni sul personale affinché lavori in modo più veloce e più efficiente. Di conseguenza, la crescente diseguaglianza è insita nell’impulso economico fondamentale del capitalismo.

Se si comprende il modo in cui il capitalismo sfrutta i lavoratori, i vari modi in cui l’establishment tenta di spiegare il mondo appaiono ridicoli. Il modello di società preferito dall’establishment è un enorme mercato in cui gli individui interagiscono in modo libero ed eguale. La realtà, naturalmente, è che le persone entrano in questo mercato con poteri d’acquisto diversi. La distribuzione della ricchezza è determinata dalla posizione delle persone all’interno del processo produttivo – dalla loro posizione di classe.

I politici, inoltre, amano dirci che «siamo tutti nella stessa barca». Questa affermazione non regge di fronte alla presa d’atto del fatto che l’intero sistema è manovrato da una minuscola minoranza che estorce profitti dal lavoro di molti. Ci dicono inoltre che gli investitori capitalisti «creano ricchezza». In una prospettiva di classe, il capitale che un investitore mette sul tavolo è stato precedentemente espropriato ai lavoratori. L’investitore non fa che riciclare la refurtiva allo scopo di fare ancora più soldi.

Un’analisi di classe permette di smentire anche l’idea che il capitalismo sia destinato con il tempo a «ridurre» la povertà. Il capitalismo ha prodotto una ricchezza inimmaginabile, ma come prevedeva Marx il suo impulso a mantenere bassi i salari fa sì che durante gran parte della sua esistenza la distribuzione di questa ricchezza sia diventata sempre più diseguale. Due decenni e mezzo di boom capitalista dopo il secondo conflitto mondiale, insieme ad alti livelli di pressione da parte della classe operaia, contribuirono a ridurre la diseguaglianza dopo la terribile esperienza degli anni Trenta. Ma quarant’anni di capitalismo neoliberale hanno più che azzerato questi guadagni. La lotta di classe dall’alto messa in atto dal neoliberismo ci ha condotti alla situazione grottesca in cui otto uomini possiedono quanto metà della popolazione mondiale. Se si comprende il concetto di classe come rapporto sociale, si giunge alla devastante conclusione che i poveri sono poveri perché i ricchi sono ricchi. La povertà e la diseguaglianza generalizzate sono una conseguenza necessaria di un sistema basato sulla competizione per il profitto.

 

Una classe universale

Per Marx, tuttavia, la natura del moderno sfruttamento e l’esclusione dei lavoratori dal godimento dei frutti della produzione aveva altre tre implicazioni profondamente sovversive, che vengono discusse meno sovente benché siano sotto molti aspetti le più importanti.

La prima è che il capitalismo ha creato una «classe universale» che non ha alcun interesse a sfruttare o a opprimere altri gruppi. Le rivoluzioni borghesi provocarono la sostituzione di una classe dominante con un’altra. La classe capitalista emergente combatté contro le rigidità e l’arretratezza del sistema feudale, ma lo fece allo scopo di introdurre un nuovo e più dinamico sistema di sfruttamento. Dal momento che il progetto economico della borghesia dipendeva dallo sfruttamento di una nuova classe, i nuovi diritti da essa offerti alla massa della popolazione, anche nelle loro forme più radicali, erano limitati. Malgrado tutti i successi della Rivoluzione francese, l’uguaglianza annunciata dal suo slogan centrale «libertà, fratellanza e uguaglianza» si rivelò avere una natura formale e politica, più che materiale o economica.

La natura della subordinazione e dello sfruttamento dei lavoratori li pone in una posizione molto più radicale. Non soltanto la classe operaia non è in grado di sfruttare altri gruppi; per i lavoratori, la libertà politica in assenza di liberazione sociale ed economica ha ben poca importanza. La vera liberazione dei lavoratori può avere luogo soltanto smantellando l’intera struttura sociale, e questo implica la lotta contro ogni forma di discriminazione prodotta dal sistema. Come scrive Marx nel Manifesto Comunista:

«Tutti i movimenti sono stati finora movimenti di minoranze o nell’interesse di minoranze. Il movimento proletario è il movimento autonomo della stragrande maggioranza nell’interesse della stragrande maggioranza. Il proletariato, ceto infimo dell’attuale società, non si può sollevare, non può elevarsi, senza far saltare in aria l’intera costruzione dei ceti che formano la società ufficiale.»2

Le dimensioni stesse dello sfruttamento e dell’oppressione della classe operaia ne fecero una forza più sovversiva di qualunque altra, «una classe che è la dissoluzione di tutte le classi»; in breve, una classe «con catene radicali».3

Il secondo punto è implicito nel primo. La posizione e l’esperienza della classe operaia offrono un punto di osservazione privilegiato per comprendere come funziona il capitalismo. L’esperienza dello sfruttamento, i continui attacchi alle condizioni di lavoro e la tensione tra padrone e lavoratore producono in ogni momento un determinato livello di coscienza di classe. Ciò spiega perché, malgrado le sconfitte subite e la propaganda degli anni del neoliberismo, ben il 60% della popolazione britannica abbia continuato per tutto questo periodo a definirsi appartenente alla classe operaia.4

Ci occuperemo della questione della non uniformità del pensiero e dell’opinione della classe operaia in un articolo successivo di questa serie; ma con buona pace delle snobistiche caricature della classe operaia attualmente in voga – che la dipingono come socialmente retrograda, piena di pregiudizi, «nativista» e via dicendo – in realtà i lavoratori sono la classe che all’interno della società tende ad assumere gli atteggiamenti più progressisti riguardo a una molteplicità di questioni economiche e sociali.5 Tra i lavoratori esiste sempre una qualche forma di percezione del «noi» e del «loro», che si manifesta tra l’altro nell’antipatia per il padrone e nella simpatia o nella partecipazione attiva ai sindacati. Per questo la maggior parte dei lavoratori che partecipano alle elezioni votano per i partiti socialdemocratici e simili.

Nei periodi di tensione sociale e di crisi, le cose tendono a spingersi molto oltre. Vivek Chibber ha probabilmente espresso un’opinione diffusa quando, lo scorso anno, ha ipotizzato che il culmine toccato dalla lotta rivoluzionaria dei lavoratori nel periodo compreso tra le due guerre mondiali abbia rappresentato in un certo senso un’eccezione storica.6 Il periodo della Rivoluzione russa rimane effettivamente il punto massimo toccato finora dalla lotta operaia. Va ribadito, tuttavia, che i lavoratori sono stati all’avanguardia dei cicli insurrezionali sin dalla nascita del capitalismo. Queste lotte, dal movimento cartista alle grandi lotte operaie del Sessantotto e oltre – passando per l’ondata della lotta antifascista in Europa durante la seconda guerra mondiale, le numerose insurrezioni anticoloniali e le varie rivolte recentemente verificatesi nel Sud del mondo – tendono a far risorgere lo spettro del socialismo. Di conseguenza, le lotte della classe operaia hanno senza dubbio costituito il vivaio più importante di idee radicali e movimenti rivoluzionari e anticapitalisti.

Un dato cruciale è naturalmente che i lavoratori, oltre ad avere interesse al cambiamento, hanno anche i mezzi per provocarlo. Se i lavoratori dipendono interamente dai capitalisti per la propria sopravvivenza, i capitalisti dipendono interamente dai lavoratori per i propri profitti. Impotenti a livello individuale, i lavoratori hanno una forza potenzialmente immensa a livello collettivo. Concentrando a forza un gran numero di lavoratori in corrispondenza dei punti di produzione, il capitalismo si crea esso stesso un contro-potere. In quanto dimostra pubblicamente che senza i lavoratori non si può fare nulla ed esemplifica che cosa si può ottenere quando i lavoratori si organizzano collettivamente, ogni sciopero importante contiene in sé il suggerimento, la speranza di un diverso modo di organizzare la società. Citando Marx:

«La grande industria raccoglie in un solo luogo una folla di persone sconosciute le une alle altre. La concorrenza le divide, nei loro interessi. Ma il mantenimento del salario, questo interesse comune che essi hanno contro il loro padrone, li unisce in uno stesso proposito di resistenza: coalizione. (…) Se il primo scopo della resistenza era solo il mantenimento dei salari, a misura che i capitalisti si uniscono a loro volta in un proposito di repressione, le coalizioni, dapprima isolate, si costituiscono in gruppi e, di fronte al capitale sempre unito, il mantenimento dell’associazione diviene per gli operai più necessario ancora di quello del salario. (…) In questa lotta – vera guerra civile – si riuniscono e si sviluppano tutti gli elementi necessari a una battaglia imminente. Una volta giunta a questo punto, l’associazione acquista un carattere politico».7

Naturalmente, la classe dominante detesta la combattività della classe operaia, poiché la colpisce nel portafogli. Ma proprio perché le lotte economiche dei lavoratori possono trasformarsi in sfide politiche, per i padroni ogni sciopero rappresenta una sfida insolente alla loro autorità nel suo insieme. Se investono tanti sforzi e tante energie nel tentativo di impedire lo sviluppo della coscienza di classe è perché la storia ha insegnato loro che la lotta di classe può minacciare le basi stesse del loro mondo. Ciò rivela una certa comprensione della ragione più importante per cui la classe conta. I lavoratori si trovano in una posizione ideale per comprendere la rapina sistematica che è al centro del capitalismo, e hanno sia l’interesse sia la capacità di mettervi fine.

Note:
1 Per un’interessante analisi di questo tentativo, v. Jon Lawrence e Florence Sutcliffe-Braithwaite (2012), ‘Margaret Thatcher and the decline of class politics’, in Ben Jackson, Robert Saunders (2012) Making Thatcher’s Britain, Cambridge University Press, Cambridge, pp.132-148.
2 Karl Marx e Friedrich Engels, Il manifesto del Partito Comunista.
3 Karl Marx, Per la critica della filosofia del diritto di Hegel. Introduzione (1844).
4 Si veda per esempio l’articolo di Patrick Butler (29 giugno 2016) «Most Britons regard themselves as working class, survey finds», The Guardian, disponibile all’indirizzo: https://www.theguardian.com/society/2016/jun/29/most-brits-regard-themselves-as-working-class-survey-finds
5 Per un’analisi dei dati sulle opinioni della classe operaia si veda Chris Nineham (2017), How the Establishment Lost Control, Zero, Hants, pp.22-3.
6 Vivek Chibber, «Labor’s Long March», Jacobin, agosto 2021.
7 Karl Marx, Miseria della filosofia, II (1847).

 

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Parte 2: Che ne è stato della classe operaia in Occidente?

Nella seconda parte di questa serie dedicata alla classe, Chris Nineham dimostra che la classe operaia è oggi più che mai centrale per il capitalismo – qui e in tutto il mondo

È ormai dato per assodato che la classe operaia nei Paesi capitalisti più antichi abbia subito un declino – o sia addirittura scomparsa, secondo altre versioni – durante gli anni del neoliberismo. Questa versione ufficiale è stata riassunta recentemente in modo conciso da una giornalista della BBC:

«Molte cose sono cambiate dall’inverno del malcontento del 1979. L’economia degli anni Sessanta e Settanta basata sull’industria manifatturiera è ormai un lontano ricordo. Nel settore privato, solo un lavoratore su sei è iscritto a un sindacato. Molti lavorano come autonomi, con contratti a breve termine o per piccole aziende. Il sindacalismo è diffuso soprattutto nel settore pubblico».

La conclusione, naturalmente, è che se un tempo i sindacati costituivano una forza con cui fare i conti, oggi la loro capacità di lotta è drasticamente diminuita.1 Purtroppo, alcune delle versioni più estreme della tesi del declino della classe operaia sono state elaborate dalla sinistra. Ad aprire la strada fu il socialista francese André Gorz con il suo libro del 1982 Addio al proletariato, secondo il quale la nuova economia aveva eroso le basi della tradizionale solidarietà di classe. Variazioni su questo tema furono proposte da una serie di intellettuali di sinistra, tra cui i due autori britannici fautori della teoria dei New Times, Stuart Hall e Charles Leadbetter. Essi sostenevano che dopo le sconfitte degli anni Settanta e dei primi anni Ottanta, e nella nuova economia «post-fordista» sviluppatasi in seguito, la classe operaia sembrava non essere più in grado di resistere allo sfruttamento, né interessata a farlo.

I partiti socialdemocratici fecero proprie con entusiasmo queste teorie. Neil Kinnock, allora leader del Partito Laburista, si rifiutò di appoggiare i minatori durante il loro grande sciopero, e trascorse il resto degli anni Ottanta attaccando la sinistra laburista e allontanando il partito perfino dalla linea politica socialdemocratica tradizionale, incentrata sulle rinazionalizzazioni e sui diritti sindacali. «Non c’è più un “noi” e un “loro”», ribadì; «ora siamo tutti sulla stessa barca».2

Kinnock seguiva una tendenza inaugurata dal leader socialdemocratico tedesco Helmut Schmidt – in seguito adottata dal leader socialista francese François Mitterrand e portata all’estremo da Tony Blair alla fine degli anni Novanta – il cui messaggio categorico era: «la lotta di classe è finita».3

 

Il pessimismo degli intellettuali

Nel clima tetro del neoliberismo che seguì, gli autori di sinistra escogitarono ogni sorta di nuove concezioni di società che non avevano più al centro una classe operaia. Gli esponenti dell’autonomia italiana Hardt e Negri sostituirono l’idea di classe operaia con il concetto mal definito di «moltitudine», la cui sconfinata creatività sarebbe in qualche modo incarnata dal rapporto con un non meglio precisato «impero». Più prosaicamente, l’accademico britannico Guy Standing ottenne grande sostegno per la sua tesi secondo cui la classe operaia era stata sostituita da una nuova serie di classi. Tra esse vi erano: il «salariato»; i «proficians», caratterizzati da un’elevata specializzazione ed elevati salari; uno zoccolo duro di lavoratori manuali, sempre meno numerosi; e il «precariato», un settore in rapida crescita che risentiva di un’insicurezza cronica e strutturale e si caratterizzava per preoccupazioni e interessi diversi da quelli dei sempre meno numerosi lavoratori fissi. Standing contribuì a preparare il terreno per l’idea secondo cui i lavoratori sarebbero un settore privilegiato, esemplificata dal seguente commento di Slavoj Žižek: «Chi osa scioperare oggi, quando avere un impiego fisso costituisce un privilegio in sé? Non i lavoratori a basso reddito… bensì i lavoratori privilegiati che hanno impieghi garantiti».4

Perfino alcuni marxisti più «ortodossi» iniziarono a manifestare disagio nei riguardi di un’interpretazione della società basata sulla realtà centrale dello sfruttamento dei lavoratori. Eric Olin Wright e Richard D. Wolff furono tra i primi sedicenti marxisti a convincersi che fosse giunto il momento di gettare alle ortiche l’idea di Marx secondo cui la «contraddizione tra lavoro e capitale» costituiva la principale linea di frattura all’interno della società. A loro ha fatto seguito David Harvey, a cui avviso la caratteristica centrale dell’economia neoliberale è «l’accumulazione mediante esproprio».5

Nel frattempo, i teorici di quello che veniva definito «nuovo capitalismo» affermavano che il lavoro, nella misura in cui esiste, produce oggi beni immateriali quali informazione, conoscenza, immagini e relazioni, più che beni tangibili o quantificabili. Il settore dei servizi fu ampiamente interpretato come del tutto separato dal mondo della produzione e delle merci. L’influente sociologo Manuel Castells integrò molte di queste idee in una serie di studi che delineavano una società in rete incentrata sulla comunicazione e un’economia immateriale della conoscenza i cui «flussi» non potevano essere ricondotti ai concetti di merce, sfruttamento o plusvalore. Nella sua opera del 2010 Il potere delle identità, Manuel Castells giunge alla conclusione – oggi ampiamente diffusa – che tutti questi processi rendono il socialismo irrimediabilmente obsoleto e lasciano spazio soltanto a una molteplicità di resistenze identitarie.

 

Il capitalismo come esiste realmente

Qualsiasi analisi seria delle recenti tendenze della produzione, dei rapporti di classe e dei processi di lotta può dimostrare che questi tentativi di ridimensionare la classe erano e sono tuttora assolutamente fuorvianti. Il neoliberismo ha riorganizzato la produzione e riplasmato in modo traumatico la classe operaia a livello internazionale. Tanto nelle economie capitaliste più antiche quanto nei Paesi in via di sviluppo, interi settori economici sono andati distrutti, sono nate nuove tecnologie, la produzione è stata delocalizzata e il sostegno degli Stati ai lavoratori e ai poveri sono stati drasticamente tagliati.

Si sono verificate una rapidissima innovazione tecnologica, una parziale deindustrializzazione, una forte espansione del cosiddetto settore dei servizi, un’esplosione delle esternalizzazioni e la concomitante privatizzazione di ampi settori del settore pubblico. Tutto ciò rientra in una costante offensiva messa in atto su molti fronti dai datori di lavoro, che ha determinato tagli salariali, de-sindacalizzazione e l’introduzione di nuovi e inumani metodi gestionali basati su una stretta sorveglianza. La conseguenza è stata un netto declino del tenore di vita della classe operaia, accompagnata da un record negativo del livello di resistenza da parte dei lavoratori. Ma questi processi non hanno creato nulla di simile a un mondo caratterizzato dal lavoro immateriale, da un’economia priva di attriti, dalla fine della classe operaia o da un onnipresente precariato.

Molti rimarranno sorpresi apprendendo che in realtà questo periodo è stato segnato da un netto aumento delle dimensioni della classe operaia a livello mondiale. Secondo un rapporto del 2014 dell’Organizzazione Internazionale del Lavoro, per la prima volta nella storia il lavoro salariato costituisce oggi l’esperienza della maggior parte degli abitanti del pianeta.6 La forza-lavoro salariata non agricola globale è passata da 1,5 miliardi di persone nel 1999 a 2,1 miliardi nel 2013, giungendo a rappresentare circa metà della forza-lavoro mondiale. Nello stesso periodo, il numero dei lavoratori dell’industria è passato da 533,2 milioni nel 1999 a 724,2 milioni nel 2013.7

Questa crescita della classe operaia, come vedremo in un successivo articolo di questa serie, ha avuto luogo soprattutto nel Sud del mondo. Ma occorre molta cautela in relazione all’idea di una «deindustrializzazione» al centro, e in relazione all’idea a essa legata di una definitiva delocalizzazione indirizzata verso il Sud. Il numero dei lavoratori dell’industria nelle economie sviluppate è effettivamente diminuito – di circa un sesto nello stesso periodo. La Gran Bretagna è stata tra i Paesi più colpiti – qui l’occupazione nel settore manifatturiero si è dimezzata dal 1978. Questa situazione, tuttavia, è ancora lontanissima da una definitiva deindustrializzazione. Negli Stati Uniti il settore manifatturiero occupa oltre dodici milioni di lavoratori, e il loro numero è aumentato in tempi recenti. In Germania, oltre un quarto dei lavoratori è tuttora occupato nel settore manifatturiero.

In termini di produzione effettiva, e non di occupazione, la manifattura è tuttora un settore cruciale – e sovente in crescita – in tutte le economie sviluppate. La produzione industriale negli USA, in particolare, è in aumento da diversi anni. Come ha osservato recentemente la rivista The Economist, «a dispetto di tutti i piagnistei sul “declino dell’industria americana” e sul “trasferimento in massa della produzione in Cina”, la produzione reale dal 1991 è aumentata a un tasso annuo vicino al 4% – superiore al tasso di crescita del PIL».8

Dunque, anche stando alle cifre ufficiali – che come vedremo sono fortemente fuorvianti – in Occidente esiste ancora una classe operaia industriale numericamente assai importante. Queste cifre dimostrano un’altra cosa – che il grosso dell’accumulazione capitalista ha tuttora luogo mediante forme tradizionali di sfruttamento del lavoro, più che mediante il land-grabbing o il saccheggio del settore pubblico e dei beni comuni – l’«accumulazione mediante esproprio» di David Harvey. I processi menzionati da Harvey sono reali e hanno effetti devastanti, ma come altri autori hanno dimostrato, l’aumento della produttività e del numero dei lavoratori a livello internazionale rende del tutto insostenibile l’idea che queste tipologie di accumulazione costituiscano le caratteristiche essenziali del capitalismo neoliberale.

 

Punti di pressione

La globalizzazione neoliberale ha effettivamente potenziato notevolmente le comunicazioni, i trasporti e altri settori «di servizio». Tuttavia, come dimostrano queste cifre, è cruciale comprendere che questa proliferazione dei «servizi» e quella che è stata definita «rivoluzione della logistica» si sono in realtà verificate in un contesto di enorme aumento della produzione di beni fisici, sia a livello mondiale sia nelle economie capitaliste più antiche.

A rifletterci, questo è tutt’altro che sorprendente. La nuova economia non sarà interamente globalizzata come sostengono i suoi promotori, ma la «rivoluzione della logistica» è proprio la conseguenza del fatto che le merci di ogni tipo circolano attraverso il pianeta in quantità senza precedenti. Questa mobilità si basa su un’enorme infrastruttura materiale immobile - sulle reti dell’industria, della logistica, della comunicazione e del commercio. Sebbene i milioni di addetti che lavorano in questi settori vengano classificati come lavoratori dei servizi, come sostiene Kim Moody i lavoratori della logistica che contribuiscono a tenere insieme la catena produttiva e a trasferire le merci sul mercato fanno parte del processo di produzione: «La catena di rifornimento, dalle materie prime sino all’ingresso di Wal-Mart, costituisce nella visione marxista una catena di montaggio». Moody aggiunge:

«Milioni di lavoratori impiegati nei servizi, nelle vendite e perfino negli uffici lavorano oggi in luoghi di lavoro più grandi e caratterizzati da una maggiore intensità di capitali. Sono sempre più collegati tra loro nell’ambito di catene di rifornimento vulnerabili e incentrate sulle tecnologie, a loro volta imperniate su giganteschi snodi logistici in cui si concentrano decine o perfino centinaia di migliaia di lavoratori, all’interno di sedi geograficamente definite».9

Questi lavoratori hanno una forza enorme, non soltanto a causa dell’impatto diretto che le loro azioni hanno sui loro datori di lavoro immediati, ma anche in virtù delle conseguenze a monte e a valle della mancata consegna di merci, servizi e personale alle rispettive destinazioni nella nuova economia fortemente integrata in rete. Ai profeti del «capitalismo immateriale» è sfuggito che le reti sono in realtà cose materiali, che paradossalmente dipendono fortemente dalla loro esatta posizione. In questo ambito, le «correzioni spaziali» a cui i capitalisti possono ricorrere sono ben poche. Come osserva lo stesso David Harvey, «strade, ferrovie, canali, aeroporti eccetera non possono essere spostati senza che il valore da essi incarnato vada perduto».10

Questo per quanto riguarda la logistica. Più in generale, la distinzione tra servizi e manifattura è spesso in ogni caso piuttosto arbitraria, e di sicuro non può essere considerata alla stregua di un elemento di differenziazione tra settori economici produttivi e non produttivi o non redditizi. La realtà è che moltissimi altri impieghi del settore dei «servizi» implicano di fatto la trasformazione fisica di impulsi in prodotti di valore più alto – in altre parole, implicano uno sfruttamento capitalista. Per esempio, gli impieghi nei settori della ristorazione, delle pulizie, degli alberghi, degli ospedali, della manutenzione e dell’intrattenimento rientrano perlopiù nel settore privato, sono organizzati in base a principi capitalisti e producono qualche genere di merci. Gran parte di questi impieghi sono caratterizzati da bassa specializzazione e bassi salari. Pochissimi sono propriamente impieghi da «colletti bianchi», e men che meno «immateriali». Si tratta perlopiù di lavori di routine, spesso manuali, che in gran parte richiedono una formazione limitata.

Anche laddove i servizi rimangono nel settore pubblico, costituiscono un costo sociale per i capitalisti, che questi devono finanziare in parte attingendo ai loro profitti. Gli anni del neoliberismo sono stati caratterizzati dall’introduzione di mercati interni, incentivi e stretta sorveglianza nel settore pubblico – interventi che spesso hanno reso l’esperienza del lavoro praticamente indistinguibile da quella del settore privato.

La realtà è che in Occidente la classe operaia non è stata affatto atomizzata, ridimensionata, esternalizzata o comunque marginalizzata nel contesto dell’economia. Ciò che è avvenuto è che questa classe è stata riorganizzata nell’ambito di un’enorme ristrutturazione del processo di produzione. Questo ha trasformato per molte persone l’esperienza del lavoro in un incubo, e ha indebolito drasticamente l’organizzazione della classe operaia. Come nelle precedenti ristrutturazioni, tuttavia, stanno emergendo nuove concentrazioni di forza-lavoro che rappresentano potenziali centri di iniziativa e di potere della classe operaia.

Se l’impatto iniziale dell’offensiva neoliberale negli anni Ottanta fu costituito dal decentramento della produzione e dall’esternalizzazione, specie nel cosiddetto settore dei servizi, l’espansione dell’accumulazione del capitale ha nuovamente centralizzato il capitale, riorganizzando la produzione di merci e servizi attraverso ampi spazi. Gli addetti alle pulizie e al catering, il personale di sicurezza e gli addetti alla manutenzione nei grandi uffici aziendali, nei call-center e negli edifici pubblici, così come nelle università e negli ospedali sono essenziali per l’accumulazione di profitti, o se non altro per il funzionamento quotidiano di istituzioni fondamentali. Questa realtà è stata riconosciuta dalla loro designazione come «lavoratori dei settori essenziali» durante la pandemia. Sempre più spesso essi lavorano per enormi imprese multinazionali. Gli scioperi in questi settori hanno un impatto immediato e devastante.

La scuola è un importante punto di pressione nell’ambito del processo di produzione mondiale. Anche se non viviamo certo nella fluttuante economia della conoscenza che popola le fantasie di alcuni commentatori, l’elaborazione dei dati e delle informazioni è divenuta un elemento sempre più importante del processo di produzione. Il numero degli insegnanti a livello mondiale iniziò ad aumentare nettamente nella seconda metà del Novecento, passando dagli otto milioni nel 1950 ai 47 milioni del 1990. Nel 2014 si calcolavano 83 milioni di insegnanti in tutto il mondo.11

Gli insegnanti sono lavoratori altamente specializzati e quindi relativamente difficili da sostituire in tempi rapidi; ma sebbene la loro importanza per la produzione di nuove generazioni di lavoratori sia andata aumentando, il loro controllo sul proprio curriculum si è andato riducendo, e hanno dovuto fare fronte a procedure di lavoro sempre più burocratizzate. Questa contraddizione tra il ruolo sociale degli insegnanti nell’ambito dello sviluppo di altri esseri umani e le procedure di lavoro sempre più insostenibili e «industriali» ha creato un’immensa insoddisfazione. Forse, quindi, non deve sorprendere che la scuola sia stata tra i pochi settori che hanno registrato un aumento tendenziale delle mobilitazioni dei lavoratori negli ultimi decenni, e che gli scioperi degli insegnanti abbiano costituito un elemento centrale della resistenza contro i tagli e l’austerità sia nei Paesi sviluppati sia in quelli in via di sviluppo.

 

La ricomposizione della classe operaia

Il neoliberismo ha avuto conseguenze profonde anche sulla composizione della classe operaia. Negli Stati Uniti, la partecipazione delle donne al mercato del lavoro è quasi raddoppiata dal 1950, avvicinandosi al 57% nel 2016. La percentuale di donne lavoratrici è aumentata in tutti i Paesi più sviluppati e non solo, ma è stata ovunque accompagnata da un allargamento della forbice di genere per quanto riguarda i salari.12 Parallelamente, le donne continuano a svolgere gran parte del lavoro domestico non pagato, e i sostegni statali alle famiglie sono stati tagliati. Una delle conseguenze è stata una nuova ondata di mobilitazioni delle donne incentrata in parte sulla discriminazione salariale di genere e in parte sulle violenze e le molestie sessuali così diffuse in molte delle istituzioni della società capitalista.

La «nuova economia», con il suo corollario di guerre, flussi migratori record e carcerazioni, ha creato nuove forme di razzismo, inasprendo quelle già esistenti. Allo stesso tempo, il neoliberismo ha nettamente accresciuto la differenziazione etnica della classe operaia in numerosi Paesi. Nel 2012 neri, latinoamericani e asiatici costituivano circa il 40% dei lavoratori nei settori fondamentali dell’economia – un aumento vertiginoso verificatosi in pochissimi decenni. Prevedibilmente, questo ha determinato un forte aumento della percentuale di neri, asiatici e latinoamericani tra gli iscritti ai sindacati. Negli Stati Uniti come in Gran Bretagna, i lavoratori neri hanno oggi maggiori probabilità di essere iscritti al sindacato rispetto ai lavoratori bianchi.13

Naturalmente, questa concentrazione sproporzionata all’interno della classe operaia costituisce in sé un prodotto del razzismo. Le enormi diseguaglianze tra i lavoratori, basate su appartenenza etnica e genere, persistono e devono essere combattute attivamente. Tuttavia, in una fase in cui le lotte contro il razzismo e il sessismo sono in ascesa, la collocazione di alcuni dei gruppi più oppressi nel cuore della classe operaia offre loro nuove prospettive di forza e apre dirompenti opportunità di lotta.

La lotta di classe non tende ad aumentare in modo graduale; al contrario, è caratterizzata da impennate improvvise, esplosive e oscillanti. A partire dalla seconda metà dell’Ottocento vi è stata una serie di queste esplosioni di combattività. Le lotte insurrezionali verificatesi negli anni precedenti e successivi al primo conflitto mondiale, nel secondo dopoguerra e tra la metà degli anni Sessanta e la fine degli anni Settanta scossero tutti i Paesi capitalisti centrali ed ebbero ripercussioni ben al di là di essi. Queste lotte furono l’esito di tensioni accumulate che esplosero improvvisamente dopo essere state compresse per anni. Si verificarono nei punti di intersezione tra cambiamenti epocali di natura economica e tecnologica e crisi sociali più ampie, tra cui spesso le guerre, e di fronte all’incapacità della politica tradizionale di rispondere alle esigenze e alle aspirazioni di nuove popolazioni di lavoratori radicalizzati.

Naturalmente, in Gran Bretagna e in altri Paesi vi sono segnali di una positiva ripresa della lotta di classe. Tentare di prevedere in modo dettagliato quali effetti avranno processi così complessi nel futuro sarebbe azzardato. Da parte della sinistra, tuttavia, sarebbe altrettanto sbagliato ignorare il fatto che intorno a noi possiamo osservare oggi molte delle caratteristiche che segnarono queste grandi insurrezioni storiche. Il punto non è soltanto che la classe operaia esiste ancora, ma anche che i lavoratori sono arrabbiati, alienati e molto più attivi di quanto venga solitamente ammesso – e tutto questo nel contesto di una crisi sociale articolata su più livelli.


Note:
1 Anne McElvoy, «Across the Red Line. Can going on strike any longer be justified?», BBC Radio 4, 16 agosto 2022.
2 Neil Kinnock, Making Our Way (Basil Blackwell, Londra 1986), p. 56.
3 «Leader’s speech, Bournemouth 1999, Tony Blair, Labour», British Political Speech Archive, disponibile all’indirizzo: http://www.britishpoliticalspeech.org/speech-archive.htm?speech=205.
4 Slavoj Žižek, «The Revolt of the Salaried Bourgeoisie», London Review of Books 34:2 (2012): pp. 9-10.
5 David Harvey, Seventeen Contradictions and the End of Capitalism, (Oxford University, Oxford 2014), p. 68.
6 International Labour Organisation, Key Indicators of the Labour Market, 8ª ed. (ILO, Ginevra 2013)
7 Kim Moody, On New Terrain: How Capital Is Reshaping the Battleground of Class War, (Haymarket, Chicago 2017), p. 8.
8 Cit. in in Moody, On New Terrain, p. 22.
9 Ibid., pp. 74-75.
10 David Harvey, The Limits of Capital (Verso, Londra 1999), p. 380.
11 Max Roser, «Teachers and Professors» (2017), pubblicato online da OurWorldInData.org e disponibile all’indirizzo https://ourworldindata.org/teachers-and-professors.
12 Esteban Ortiz-Ospina, Sandra Tzvetkova e Max Roser, «Women’s employment» (2018), pubblicato online da OurWorldInData.org e disponibile all’indirizzo https://ourworldindata.org/female-labor-supply.
13 Kim Moody, On New Terrain, pp. 64-65.
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