Note sull’utilizzo delle piattaforme digitali nel lavoro sociale

apr 19th, 2023 | Di | Categoria: Cultura e società

Note sull’utilizzo delle piattaforme digitali nel lavoro sociale

 

FRANCESCO MAINIERI

 

Con questo scritto la sezione sudcomune di Machina inaugura una serie di interventi, dialoghi, saggi e interviste sul cd capitalismo digitale, in particolare sui processi di digitalizzazione produttiva e sociale in atto che, come mostrano egregi lavori pubblicati in altre sezioni di questa rivista, sono di fondamentale importanza per comprendere le trasformazioni e gli aspetti decisivi del nostro presente.

Questa prima Nota, curata da uno specialista del settore, riguarda l’introduzione delle piattaforme digitali nel lavoro degli operatori sociali, in termini di conseguenze sulle mansioni lavorative e la qualità delle prestazioni offerte.

Mi sono laureato in Sociologia sul finire degli anni ’90 e svolgo un ruolo attivo nel sociale da 25 anni, ricoprendo a vario titolo diversi ruoli connessi a tutta una serie di attività nell’area del cosiddetto «svantaggio sociale». La formazione di base e il lavoro quotidiano mi hanno portato negli anni a interrogarmi sui processi di cambiamento nelle Organizzazioni No Profit e, in particolare, sui cambiamenti delle prestazioni rivolte a coloro che si rivolgono ai servizi sociali dell’area anzidetta. La nota che segue, alla quale ne farò seguire altre, trae spunto da un cantiere di ricerca che un gruppo di operatori sociali dell’area milanese, tra cui il sottoscritto, ha animato a partire dalla propria esperienza, con l’obiettivo di analizzare l’impatto delle tecnologie digitali sul lavoro sociale in termini di condizionamenti sui modi di operare e di adeguamento dei processi formativi. Il cantiere, curato da Renato Curcio, si è svolto a Milano, dove vivo e lavoro, è durato sette mesi (ottobre 2021 – aprile 2022) ed è stato pubblicato dalla casa editrice Sensibili alle Foglie [1]. Ci tengo a ringraziare Francesco Maria Pezzulli per le sollecitazioni e i preziosi suggerimenti che mi ha generosamente offerto durante la formulazione del presente testo. Eventuali lacune che il lettore dovesse rilevare sono ovviamente imputabili unicamente al sottoscritto.

Digitalizzare la relazione d’aiuto

Nell’ultimo decennio l’utilizzo delle piattaforme digitali nel terzo settore è stato crescente e ha riguardato numerose attività tra cui quelle legate alla gestione delle mansioni e dei processi lavorativi degli operatori sociali. Nel lavoro quotidiano di questi ultimi le procedure digitali si sono lentamente impiantate e hanno man mano riguardato anche gli elementi qualitativi inerenti la relazione d’aiuto, da sempre intesa come un interscambio tra due o più soggetti, finalizzato al superamento e rimozione di impedimenti patologici, sociali, economici cui sono costrette le persone «speciali» [2]. Il tentativo delle tecnologie digitali di registrare gli elementi centrali di questo interscambio, a fini di monitoraggio e valutazione del servizio, hanno di fatto segnato l’inizio di una nuova era del lavoro sociale. Lo spazio di prossimità della relazione d’aiuto, infatti, è ricco di elementi fondamentali per il raggiungimento degli obiettivi «professionali», che riguardano sempre, prima di tutto, il miglioramento delle condizioni di esistenza dei soggetti speciali. In una situazione ottimale le parti si devono fidare reciprocamente, devono essere in qualche modo alleate (pur nella riservatezza e discrezionalità) e il lavoro degli operatori si è sempre misurato su questa facoltà di stringere relazioni fiduciarie che rappresentano un solido sostegno al percorso di cambiamento intrapreso dal soggetto speciale. In tale dimensione intersoggettiva, l’utilizzo di piattaforme finalizzate a digitalizzare la relazione d’aiuto, tende a ridefinire i tempi e i modi operativi stessi con un incremento considerevole di compiti e mansioni legate al monitoraggio e alla rendicontazione a scapito del tempo dedicato alla relazione d’aiuto, che possiamo definire tempo elastico in quanto legato alla creatività derivata dalle specificità del caso relazionale. Per meglio intendere i termini della questione, noi dobbiamo pensare che «la comunità» è un luogo molto dinamico: attività di gestione quotidiana della struttura, gruppi terapeutici dedicati al disagio manifestato dagli ospiti, colloqui periodici individuali con il case mananger, eccetera. In una comunità con un potenziale ricettivo di venti utenti circa, ad esempio, non è semplice per un operatore espletare tutte le mansioni nel tempo a disposizione, quindi nasce l’esigenza di «ottimizzare» alcune mansioni, solitamente i colloqui individuali con gli ospiti della struttura. Tali colloqui avvengono in una scena educativa composta da un setting dedicato, nel quale la persona speciale deve poter beneficiare di un elevato grado di ascolto e attenzione. In questa scena, per meglio sortire l’efficacia dell’attività terapeutica, l’operatore deve stabilire un alto grado di empatia con la persona e, c’è da aggiungere, che anche il linguaggio corporeo può favorire il grado di autenticità della relazione rispetto alle tematiche trattate. In sintesi: setting dedicato, ascolto attivo e comunicazione efficace sono gli strumenti principali presenti nella cassetta di attrezzi di un operatore. Con l’introduzione delle piattaforme digitali si aggiunge anche una nuova attività dell’operatore, che consiste nel data entry delle numerose informazioni comunicate durante il colloquio individuale, che deve avvenire – come recita l’interfaccia della piattaforma – nel modo più aderente possibile alla narrazione avvenuta sulla scena educativa. A questo punto l’operatore ascolta mentre contemporaneamente scrive sulla tastiera, guarda il monitor e contemporaneamente la persona che ha davanti. Separare nettamente le attività relazionali da quelle di monitoraggio, al fine di aumentare l’efficacia del colloquio, gli operatori sostengono a ragione che è molto difficile: perché potrebbero andare persi elementi importanti della «scena» e, soprattutto, perché si tratterebbe di un tempo non rendicontabile, che non viene pagato, un tempo «altro» del lavoratore. Nella cornice appena descritta è evidente che l’apparato digitale condiziona le scelte dell’operatore a scapito dell’attenzione che questi dovrebbe rivolgere alla persona speciale che ha di fronte. In un processo comunicativo, infatti, la piattaforma digitale diventa un elemento di «rumore», di disturbo, che può concretamente inficiare l’efficacia dei feedeback dell’operatore e la relazione d’aiuto nel suo insieme. La funzione di monitoraggio eseguita dalle piattaforme digitali, utile soprattutto agli organi di vigilanza istituiti dagli enti committenti, in altri termini, condiziona negativamente la funzione relazionale che, da sempre, costituisce il momento chiave per una svolta soggettiva finalizzata al superamento delle criticità.

Questi cambiamenti nelle modalità operative, che rappresentano una tendenza molto diffusa nel lavoro sociale (e più in generale nelle Organizzazioni No Profit), riteniamo siano alla base delle attuali trasformazioni della figura professionale di operatore sociale, che sembra preda di un intenso processo di burocratizzazione [3]. Prova ne sia che nei contesti lavorativi dove sono in uso le piattaforme digitali agli operatori sociali non viene chiesto di attivare relazioni sociali complesse (o di affinare le proprie capacità di comunicazione) ma di apprendere le modalità d’uso di particolari piattaforme, dispositivi e programmi informatici, se non altro per evitare che il deficit professionale digitale pregiudichi la partecipazione ai bandi per ottenere le commesse. In questa situazione, la formazione dei lavoratori, che fino a ieri ha riguardato l’approfondimento delle competenze di gestione relazionale con persone speciali, pone alcune domande importanti: quale funzione reale svolge oggi la formazione professionale nel lavoro sociale? Formare alla gestione dei dispositivi digitali è volta a colmare un divario digitale o può rappresentare una sostituzione di competenze che potrebbe condurre a una dequalificazione?

Nelle prossime note, relative all’analisi del processo di burocratizzazione in atto, proveremo a rispondere a queste domande che riguardano propriamente il futuro degli operatori sociali e la qualità delle loro prestazioni professionali.

Note [1] R. Curcio (a cura di), Ombre digitali sul lavoro sociale. Socioanalisi narrativa sulle derive del lavoro sociale, Sensibili alle foglie, Roma 2022. [2] Preferisco utilizzare la dicitura persone «speciali», invece di utenti, individui fragili, dipendenti, eccetera, perché rimarca la distanza di questi soggetti dai canoni standard di «normalità» che la società neoliberale pone come criterio di integrazione e controllo sociale. Su questi temi, in generale, vedi l’interessante analisi di Anna Simone e Federico Chicchi, La società della prestazione, Ediesse, Roma 2017. [3] Il processo di burocratizzazione trainato dalle piattaforme digitali non riguarda soltanto gli operatori sociali ma pare coinvolgere numerose figure professionali tra loro anche molto diverse. Ad esempio, sul caso dei professori universitari, vedi F.M. Pezzulli, L’università indigesta 2. Nota sui professori, in Machina, 01/2022 (https://www.machina-deriveapprodi.com/post/l-universit%C3%A0-indigesta-2) .

 

 

Come avviene in numerosi contesti lavorativi nei quali vengono introdotte tecnologie digitali, anche nel terzo settore, in particolare in quello che viene definito lavoro sociale, le conoscenze pregresse tendono a perdere buona parte della loro utilità. In tal senso, agli operatori sociali non viene chiesto soprattutto di attivare relazioni complesse e affinare le proprie capacità di comunicazione, quanto di essere disponibili ad apprendere le modalità d’uso di particolari dispositivi digitali e di attenersi alle richieste informative di questi ultimi, anche perché un deficit professionale in tale ambito potrebbe pregiudicare la partecipazione a bandi per l’acquisizione di commesse pubbliche o private. Nulla di problematico in tutto ciò, se non fosse che tali strumenti digitali di fatto formano l’operatore e plasmano i suoi interventi. Ciò premesso, la domanda che ci poniamo è: quale valore ha la formazione nel settore sociale? Più precisamente: la formazione professionale richiesta per la gestione dei dispositivi digitali in che relazione si pone con le aspettative formative degli operatori? Ed ancora: colmare il divario digitale è un accrescimento oppure una sostituzione di competenze?

Nell’epoca pre-digitale la formazione degli operatori è consistita soprattutto nell’acquisizione delle conoscenze e competenze necessarie a gestire una relazione con persone «speciali» portatori di bisogni complessi da soddisfare. Oggi, invece, il nocciolo della formazione è di tipo tecnico, legato all’utilizzo di macchine digitali standardizzate che rispondono a una gestione rigida e nient’affatto relazionale. Con l’irruzione della pandemia da Covid-19 il passaggio anzidetto è divenuto diffuso ed evidente in molti settori produttivi, compreso il settore sociale, giustificato dal fatto che la modalità lavorativa da remoto non ha fermato (e neanche rallentato) le attività professionali.

Per capire come le richieste formative da parte delle cooperative, imprese e Onlus del settore si siano modificate, riportiamo due narrazioni tratte dal cantiere di socioanalisi Ombre digitali sul lavoro sociale (a cura di R. Curcio, Sensibili alle foglie, Roma 2022):

Sto facendo l’esperienza della didattica a distanza mista e voglio raccontare come avviene il disciplinamento del mio corpo e delle mie dissociazioni. Ho degli studenti in classe e altri collegati a distanza per via del Covid19. La mia formazione è consistita nel dovermi impratichire nello spazio di una mattina all’uso di Microsoft Teams, il software utilizzato dalla scuola per questo genere di necessità. Dovendo accedere a Teams per connettermi con questi ragazzi on line ho dovuto gestire il mio corpo nello spazio della classe riempito con altri corpi in presenza. Normalmente il mio dispositivo è mobile, disordinato, entro in aula e passeggio, non riesco a stare mai ferma, sono iperattiva, interagisco con gli altri. Avendo simultaneamente il collegamento a distanza non posso comportarmi in questo modo, perché devo anche sempre essere sotto l’occhio della telecamera. Questo mi obbliga a stare immobile affinché chi è a casa possa vedermi. Ma stare dietro alla mia cattedra è anche un po’ ridicolo perché la classe è enorme e io sono alta un metro e sessanta e se mi siedo l’ultimo della fila non riesce neanche a vedermi. Quindi devo disciplinare il mio corpo e anche le mie dissociazioni (…) devo essere contemporaneamente in presenza nella relazione con i ragazzini che ho davanti e, contemporaneamente in una maniera diversa davanti lo schermo (…) Ho dovuto predispormi a un vero e proprio addestramento a Microsoft Teams e questa formazione è avvenuta in questo modo: Il professore d’informatica ha mandato una mail di disponibilità al nostro addestramento all’utilizzo della piattaforma ma, non riuscendo a trovare un momento al di fuori delle sue lezioni perché per questo non veniva pagato, ci ha chiesto di andare da lui nelle ore in cui faceva delle verifiche agli allievi delle sue classi (…) In quella situazione la relazione con la sua classe si è spenta e la sua attenzione si è dirottata su di me per addestrarmi alla tecnologia di Microsoft Teams mentre i suoi studenti, buon per loro, facevano una verifica non sorvegliata.

In questa prima storia, che potremmo definire di «dissociazione e disciplinamento», risalta il fatto che i cambiamenti repentini nelle modalità di trasmissione dei saperi, introdotti in origine da una emergenza sanitaria, siano diventati operativi, ordinari e normativi per gli operatori sociali. In tal senso, il miglior percorso formativo è quello che riesce ad «allineare» senza particolari traumi gli operatori sociali ai dispositivi digitali. Da un altro lato, sono evidenti i cambiamenti nelle stesse modalità di esercizio professionale: da una modalità interattiva – che comunicava con il corpo empatia e vicinanza alla sua «classe speciale» – la nostra professionista alle prese con «Teams» è di fatto obbligata a cambiare le proprie abitudini professionali, a gestire diversamente il proprio corpo e la relazione didattica con i propri allievi.

Ascoltiamo adesso la seconda storia nella quale emerge nettamente come l’utilizzo dei dispositivi digitali abbia generato una cesura tra il lavoro sociale «pre-digitale» e quello «post-digitale» e quindi la necessità di percorsi di adeguamento professionale:

Tredici anni fa quando ho iniziato a lavorare la modalità relazionale era completamente lasciata all’esperienza e alle affinità nel rapporto operatore utente. Non veniva chiesta una documentazione se non una velina della terapia farmacologica rilasciata dallo psichiatra e un diario dove si segnavano le spese dei singoli utenti. Tutto il tempo era dedicato alla relazione. Poi pian piano ho visto un passaggio alla scrittura; prima su carta semplice, poi su carta intestata e infine si è giunti a una scheda predefinita da riempire rispondendo a un certo numero di domande. Con il salto al digitale questa scheda, a sua volta, si è trasformata in una cartella onnicomprensiva: dall’anamnesi al programma quotidiano, dalla diagnosi psichiatrica alle consegne giornaliere, al progetto riabilitativo (…) La relazione e il percorso educativo delle persone che seguivo doveva essere per forza vincolato a questa procedura di «Valutazione delle Abilità Definizione degli Obiettivi». Io me ne sono andata via prima di quest’ultimo passaggio.

I passaggi di questo brano, che vanno dall’introduzione del diario di bordo alla scheda omnicomprensiva, non definiscono soltanto un cambio di strumenti ma anche il cambiamento nella qualità dell’organizzazione del lavoro. Comunque sia, ciò che in questa sede ci preme evidenziare è il diverso atteggiamento delle operatrici nei confronti delle nuove procedure: se la protagonista del primo brano, obtorto collo, ha deciso di adeguarsi al nuovo modus operandi, la protagonista del secondo brano compie la scelta opposta: si rifiuta di adeguarsi alla nuova organizzazione e, cosi facendo, non obbedendo agli input della macchina non ha altra scelta che abbandonare il lavoro.

Queste due narrazioni ci raccontano come le nuove tecnologie stanno cambiando l’organizzazione del lavoro nel settore sociale e come, di conseguenza, diventa necessario che anche gli operatori cambiano mentalità e prassi operative: non perché migliori ma perché richieste dalle applicazioni digitali. Il vecchio modus operandi predigitale, in altri termini, diventa obsoleto, non più utile e neppure funzionale. In questo scenario si è innestato uno «scontro culturale» dal quale emergono difficoltà soggettive di adattamento a fronte delle caratteristiche sempre più standardizzate della formazione degli operatori.

Francesco Mainieri. Nato a Cosenza nel 1970, ha conseguito la laurea in sociologia vecchio ordinamento presso L’università «La Sapienza» di Roma nell’anno accademico 2000/01, con una tesi sperimentale su: «Il contributo della cooperazione sociale allo sviluppo locale».

Dal 1997 lavora nell’ambito dei servizi alla persona, con particolare attenzione verso l’utenza tossicodipendente.

MACHINA

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