Storia e coscienza di classe di György Lukács
mar 23rd, 2023 | Di Thomas Munzner | Categoria: Recensioni
Storia e coscienza di classe di György Lukács
di Paolo Cassetta
Destini e significati di un grande classico marxista del XX secolo a cento anni dalla pubblicazione
Storia e coscienza di classe è un libro difficile [1]. La circostanza era abbastanza evidente già al tempo della sua pubblicazione; e non è detto che questa difficoltà, questo linguaggio talora un po’ astruso destinato ad agire sul lettore quasi come una barriera, non abbia contribuito alla sua disgrazia politica negli ambienti del Comintern, abituati a modi spicci e all’empirismo altalenante di Zinoviev, che, come sappiamo, pronunciò la famosa condanna nell’estate del 1924, al V congresso dell’Internazionale.
Ma Storia e coscienza di classe è un libro che, come scrive Lukács stesso nell’Introduzione licenziata a Vienna, nel natale del 1922, è nato “in mezzo al lavoro di partito”. Lukács parla esplicitamente di un “tentativo”. Il tentativo, leggo dall’Introduzione, di “chiarire a se stesso ed ai suoi lettori questioni teoriche del movimento rivoluzionario” [2].
Dunque sono “questioni teoriche”. Ma sono questioni teoriche del movimento rivoluzionario. Dobbiamo avere chiaro che Lukács si riferisce all’ondata internazionale messa in moto dagli effetti della Grande Guerra e della Rivoluzione russa. Quando Lukács scrive queste parole, egli e tutto il movimento comunista hanno già alle spalle l’insurrezione tedesca repressa nel gennaio del 1919, la rivoluzione bavarese dei consigli e quella ungherese fallite nella primavera-estate dello stesso anno, gli scontri armati provocati dal putsch di Kapp in Germania nel marzo del 1920, la sconfitta sovietica nella guerra con la Polonia in agosto, il movimento di occupazione delle fabbriche italiane nel settembre dello stesso anno, il tentativo insurrezionale comunista conosciuto come l’“azione di marzo” in Germania del 1921. In Russia la guerra civile è finita con la vittoria del governo bolscevico. Ma il passo del cambiamento attenua la sua velocità.
Lo stesso Lukács, nell’Introduzione, parla del “cosiddetto ritmo più lento dello sviluppo rivoluzionario” (LXVI). In Russia si è varata la NEP. Nel Comintern si è iniziato a discutere di fronte unico e anche di governo operaio quale forma di transizione verso la dittatura del proletariato. Al III congresso dell’Internazionale Comunista, nell’estate del 1921, Lenin ha sferrato un duro attacco alla “teoria dell’offensiva” di cui anche Lukács è stato fautore accanito. Al congresso successivo, tenuto poche settimane prima della pubblicazione di Storia e coscienza di classe, Karl Radek ironizza sulle resistenze ai temi del fronte unico e del governo operaio, con parole che il resoconto stenografico restituisce con vivace immediatezza: “Un compagno ha detto che il governo operaio non è una necessità storica, ma una possibilità storica. Secondo me, questa è una formula corretta. Sarebbe assolutamente sbagliato sostenere che l’evoluzione dell’uomo dalla scimmia al commissario del popolo passa necessariamente per la fase del governo operaio (risate). Ma una variante nella storia è possibile” [3].
È in questo contesto che Lukács licenzia la sua raccolta di saggi, molti dei quali (non tutti, però) recano chiaramente l’impronta dell’estremismo rampognato da Lenin nel suo famoso saggio del 1920. Fra l’altro, Lukács ha avuto l’onore di essere criticato direttamente da Lenin in un breve articolo comparso nel giugno del 1920, dedicato alla rivista “Kommunismus” pubblicata a Vienna, nella quale l’autore di Storia e coscienza di classe ha fatto uscire numerosi scritti. Il problema è quello del parlamentarismo, della partecipazione ai parlamenti. Su questo tema Lukács ha espresso una posizione intransigente in un articolo che Lenin giudica “molto di sinistra e molto cattivo”. Il marxismo di Lukács appare al capo dei bolscevichi “puramente verbale”. “La distinzione tra la tattica «difensiva» e quella «offensiva» è artificiosa – scrive Lenin –; manca un’analisi concreta di situazioni storiche ben determinate; le cose essenziali (la necessità di conquistare e di imparare a conquistare tutti i campi di attività e gli organismi in cui la borghesia esercita la sua influenza sulle masse, ecc.) non vengono prese in considerazione” [4].
Con poche parole Lukács è liquidato. E bisogna aggiungere che proprio in questo breve articolo, ma prendendosela con Béla Kun, Lenin ha modo di scrivere una frase destinata a grande notorietà: non bisogna mai trascurare, dice, “l’analisi concreta della situazione concreta, che è l’essenza stessa, l’anima viva del marxismo” [5]. Qui siamo di fronte a una specie di paradosso. In Lenin, l’espressione “analisi concreta della situazione concreta” si ricollega a un’altra massima da lui usata molto spesso già a partire da Un passo avanti e due indietro: “la verità è concreta [6]. Mi è capitato più di una volta di far presente che non era farina del sacco di Lenin. La sentenza proveniva da Plekhanov [7], che l’aveva trovata in Černyševskij (nei Saggi sul periodo gogoliano), il quale a sua volta la collegava a Hegel, e (sono parole di Černyševskij) alla sua “straordinaria attenzione per la realtà” [8]. Se non erro, ma Paolo Vinci può facilmente correggere un mio eventuale errore, l’espressione letterale in Hegel non si trova. Però nell’Enciclopedia delle scienze filosofiche, al § 14, Hegel discute il vero come concreto, e, nell’Aggiunta al § 160, parla del concetto come “l’assolutamente concreto” [9]. È molto probabile che Černyševskij avesse presente questi passi. E il paradosso di cui parlo è che Lenin, qui in linea con Hegel e con la lettura che ne aveva compiuto, testimoniata dagli appunti chiamati Quaderni filosofici, strigliasse uno dei pochi autentici lettori e interpreti di Hegel che il movimento comunista internazionale potesse vantare a quel tempo.
Come che sia, già allora Lukács deve avere ben riflettuto su questa critica. Nella Prefazione del 1967 a Storia e coscienza di classe, egli riconosce che proprio il rimprovero di Lenin (sono parole sue) “fece sì che io potessi compiere il mio primo passo verso il superamento del settarismo” (XXXI). Ed è importante notare che, nell’Introduzione del 1922, parla di Lenin come un dirigente politico sottovalutato in quanto teorico, e come il rivoluzionario che “ha portato l’essenza pratica del marxismo ad un grado di chiarezza e di concretezza mai raggiunto prima di lui” (LXIV-LXV). Chiarezza e concretezza, dunque. A Lukács interessa il metodo del marxismo. Nei saggi raccolti in Storia e coscienza di classe, egli avverte, “viene accordato il peso decisivo al lato metodologico” dei problemi posti dalla rivoluzione proletaria (LXIV). Perciò è difeso e rilanciato (parole di Lukács) “ciò che costituisce il nervo vitale di questo metodo: la dialettica” (LXVI). Lukács non ha timore (come il Marx del Poscritto alla seconda edizione del Capitale, e come il Lenin del Significato del materialismo militante – parlo di scritti che Lukács poteva leggere a quel tempo), di riconoscere a Hegel i più grandi meriti nella scoperta della dialettica. Poi, nella Prefazione del 1967, attribuirà – a mio avviso giustamente – a Storia e coscienza di classe “un hegelismo più hegeliano di Hegel” (XLII). Ma questo, almeno per il momento, è un altro discorso. Il fatto importante è la difesa della dialettica come strumento di pensiero rivoluzionario. La dialettica apre alla totalità e alla connessione. La dialettica punta alla concretezza e al superamento dell’ossificazione della legge. La dialettica è anti-menscevica per definizione. “È critica e rivoluzionaria per essenza” diceva Marx [10]. È “l’algebra della rivoluzione”, aveva proclamato Herzen [11], citato non a caso da Lukács in uno dei saggi del libro (36).
Ora, proprio alla dialettica Bernstein aveva rivolto aspre critiche, considerandola una delle pecche capitali del pensiero di Marx, nella sua famosa opera “revisionista” del 1899, I presupposti del socialismo e i compiti della socialdemocrazia. La dialettica, notava l’ex segretario di Engels, spingeva ad anticipare in modo artificioso e deduttivo gli sviluppi del cammino del movimento operaio attraverso costruzioni arbitrarie, non suffragate dai dati concreti [12]. I dati concreti evocati da Bernstein erano esattamente “i cosiddetti fatti” di cui sprezzantemente scrive Lukács nel primo saggio della sua raccolta, cioè (parole scintillanti di Lukács) “gli idoli ai quali l’intera letteratura revisionista offre sacrifici” (7). Ma è opportuno ricordare, e qui incominciamo a mettere il dito nella piaga, che, ai fondatori del socialismo scientifico, Bernstein non aveva imputato soltanto il vizio della dialettica; aveva anche rilevato la presenza di forti accenti blanquisti nelle opere giovanili, mai superati del tutto, vista la dottrina della violenza rivoluzionaria sempre difesa anche nelle opere più tarde degli autori del Manifesto del Partito comunista [13]. Lukács rileva acutamente la circostanza ancora nel primo saggio della raccolta (38-39). E poi offre scrupolosi sacrifici al canone invalso nel socialismo della Seconda Internazionale (da Engels, alla Luxemburg, a Lenin), tacciando il blanquismo di primitivismo e di un punto di vista “parziale e meccanico” (52). Eppure tra blanquismo, putschismo, avventurismo, “teoria dell’offensiva” c’era più di una relazione. Il problema della decisione, la questione dell’azzardo lecito e illecito, il tema dell’occasione e del ruolo della soggettività all’interno delle condizioni oggettive date, rinascevano dentro lo stesso movimento comunista, evidentemente (e molto spesso empiricamente) in cerca di una strada per affermare la dittatura del proletariato nell’Europa centrale e occidentale.
Così arriviamo alla coscienza di classe. Il saggio lukácsiano che porta questo titolo reca in esergo una citazione di Marx tratta dalla Sacra famiglia. È un passo famoso. Ve lo leggo. “Ciò che conta non è che cosa questo o quel proletario, o anche tutto il proletariato si rappresenta temporaneamente come fine. Ciò che conta è che cosa esso è, e che cosa esso sarà costretto storicamente a fare in conformità a questo suo essere” [14]. In queste parole, i lettori e gli studiosi di Hegel avvertono subito la presenza di espressioni caratteristiche. La “rappresentazione” temporanea che anche tutto il proletariato può avere dei propri scopi e interessi non esaurisce il suo “essere” e ciò che esso sarà costretto a fare in conformità ad esso. C’è molta dialettica, molta inserzione del determinato, e della negazione determinata (il proletariato che nega se stesso abolendo le classi) all’interno del flusso (per alcuni pesantemente preordinato) della totalità. Volendo c’è anche il compelle intrare, il “costringili a entrare” che Agostino riteneva di poter estrarre dalla parabola lucana del banchetto, per assolvere la chiesa dall’uso della violenza nelle occasioni reputate necessarie [15]. In ogni caso è a questi problemi, vissuti nell’ambiente tellurico dei primi anni Venti, che Lukács pensa quando propone la sua categoria di “coscienza attribuita di diritto” (73 e 97). Non c’è tempo per approfondire i lati e le influenze weberiane presenti in questo conio, un po’ infelice, del lessico lukácsiano. Il dato di fatto è che, quando scrive così, nel maggio del 1920, egli ha di mira ciò che in un altro testo di quel tempo, non inserito in Storia e coscienza di classe, chiama “il letargo menscevico del proletariato, il punto morto dello sviluppo rivoluzionario” [16]. A suo parere, e non solo suo, all’interno del neonato movimento comunista sussisteva il pericolo di un ritorno alle pratiche e al pensiero della Seconda Internazionale. In altre parole, sussisteva il pericolo di un “menscevismo comunista”. Per questo, poco prima del III congresso del Comintern, difendeva il senso della “azione di marzo” scrivendo: “È necessario mettersi alla prova in azioni rivoluzionarie per essere capiti dal proletariato stesso, non solo intellettualmente, sotto il profilo della correttezza teorica, ma in modo che esso si appropri della teoria con anima e cuore” [17]. Per questo, in Storia e coscienza di classe leggiamo: “La fonte di ogni opportunismo si trova proprio nel fatto che esso prende le mosse dagli effetti e non dalle cause, dalle parti e non dal tutto, dai sintomi e non dalla cosa stessa: nell’interesse particolare e nella lotta per la sua affermazione, esso non vede un mezzo formativo in vista della lotta finale, la cui decisione dipende dall’approssimarsi della coscienza psicologica alla coscienza attribuita di diritto, ma qualcosa che è valido in sé e per sé, o almeno che conduce in sé e per sé verso il fine; in una parola – esso confonde lo stato di coscienza psicologico e fattuale dei proletari con la coscienza di classe del proletariato” (97).
Come abbiamo già ricordato, al III congresso del Comintern Lenin strapazzò tutte queste concezioni, battendosi con forza per affermare la linea del fronte unico. Lukács ne prende atto, e in effetti ne abbiamo la riprova nell’ultimo saggio di Storia e coscienza di classe, scritto in previsione della pubblicazione della raccolta, dove agli avversari del fronte unico (e quindi anche al se stesso delle posizioni precedenti) viene rimproverata “la mancanza di un modo di pensare dialettico, di una comprensione della reale funzione del partito nel processo evolutivo della coscienza del proletariato” (405). Il clangore dello scontro fra “coscienza psicologica e fattuale” e “coscienza di classe attribuita di diritto”, che avvertiamo chiaramente nello scritto del 1920, inizia a moderarsi in una più ampia considerazione del ruolo del partito nel “processo evolutivo della coscienza del proletariato”. Ma proprio in questo saggio Lukács mette in guardia dalla visione organicista della rivoluzione tipica di Rosa Luxemburg. Il processo della presa di coscienza non può evitare al proletariato, dice Lukács, “una terribile crisi ideologica” interna. E perciò non manca di notare quanto e come il programma spartachista voluto testardamente dalla Luxemburg all’atto della fondazione del partito comunista tedesco, fosse basato su una idea notevolmente ottimistica, ed esageratamente lineare del rapporto fra il partito e le masse (375).
È questo il momento di sottolineare un passo decisivo della Prefazione del 1967. In essa, a proposito della coscienza di classe “attribuita di diritto”, Lukács scrive: “Io avevo di mira ciò che Lenin indica in Che fare?, quando dice che, a differenza della coscienza trade-unionista che sorge spontaneamente, la coscienza di classe socialista viene introdotta «dall’esterno», «cioè, al di fuori della lotta economica, della sfera delle relazioni tra operai e imprenditori»” (XXXVII). Lukács non conosceva, non poteva conoscere l’opera del 1902, perché non era ancora stata tradotta in tedesco. Si dice anzi che Lenin mettesse in guardia da una sua diffusione intempestiva in lingue straniere, per non dare adito ad equivoci (probabilmente estremistici) nella sua ricezione. In ogni caso, non appena, nel 1925, ampi stralci dell’opera vennero pubblicati in una raccolta di scritti di Lenin apparsa a Vienna [18], Lukács stabilì una connessione diretta fra le sue riflessioni del 1920 e quelle del dirigente bolscevico, che, secondo le stesse parole di Lenin, aveva storto il bastone dal lato della soggettività per raddrizzare la barra della socialdemocrazia russa, messa in pericolo dall’economismo [19]. Questo fatto, a mio parere di grande importanza, è letteralmente testimoniato in un lungo inedito, intitolato Codismo e dialettica, scoperto e pubblicato solo nel 1996. Lukács respingeva gli attacchi subiti e replicava punto per punto alle accuse di idealismo, sinistrismo ed eccessivo hegelismo che gli erano state mosse, in qualche caso non senza ragione. Codismo e dialettica è un testo molto importante. È quasi una spiegazione e una chiarificazione di molti passi “difficili” del suo libro del 1923. Di sicuro, esso testimonia quanto e come Lukács, attaccato e condannato ufficialmente nell’ambito del Comintern, tenesse al senso della raccolta di saggi pubblicata pochi anni prima [20].
Ciononostante, nell’opera successiva di Lukács, la “coscienza attribuita di diritto” si eclissa senz’altro. Ma non la “coscienza introdotta dall’esterno” di Lenin. È una presenza singolarmente duratura che pochi hanno notato e che non ha dato luogo, per quel che ne so, a studi rilevanti. Per esempio, troviamo interessanti occorrenze in Esistenzialismo o marxismo?, dove il rapporto tra libertà e necessità si presenta ancora in modo compatto e piuttosto ortodosso [21]. Nella Distruzione della ragione il tema compare di sfuggita [22], ma nel Romanzo storico incontriamo a questo proposito bellissime notazioni sull’azione storica, legate anche alla figura di Lenin [23]. Poi, in modo molto più approfondito e motivato (con una impostazione del rapporto fra libertà e necessità variata, e ormai riferita al tema complesso delle “catene di alternative”), il Che fare? riappare nell’Estetica [24], nei Prolegomeni [25], nell’Ontologia dell’essere sociale [26], in alcune importanti interviste degli anni Sessanta e Settanta [27], e nella Postilla all’edizione italiana del suo Lenin del 1924 [28]. Con Lukács è difficile controllare tutto. Ma è davvero importante che, nella Prefazione del 1967, dopo aver stabilito anche pubblicamente una connessione diretta fra la sua “coscienza attribuita di diritto” e la “coscienza esterna” di Lenin, egli evitasse di pretendere una impossibile coincidenza fra le due. La sua, dice Lukács, era “una intenzione soggettiva”. Quella di Lenin era “il risultato di un’analisi autenticamente marxista di un movimento pratico all’interno della totalità della società” (XXXVII). Attenzione: Lukács tiene molto al punto proprio perché vuole difendere Lenin. Sicuramente ha in mente, anche se non lo cita, il passo del Contenuto economico del populismo, in cui un giovanissimo Lenin scrive: “Il determinismo non solo non presuppone il fatalismo, ma, al contrario, offre precisamente la base per l’azione razionale” [29]. Forse il Lukács del 1967, il Lukács delle “catene di alternative” dell’Ontologia dell’essere sociale, avrebbe sottoscritto con qualche distinguo questa affermazione così recisa. Ma non è un caso che, parlando della sua “coscienza attribuita di diritto”, le rimproveri un certo quale deficit di basi materiali. “La conversione della coscienza «attribuita di diritto» in praxis rivoluzionaria – egli scrive –, appare qui – considerata oggettivamente – come un puro e semplice miracolo” (XXXVII).
Questo è il contesto politico, ma anche umano, di Storia e coscienza di classe. È il contesto delle insurrezioni azzardate, delle brusche ritirate, della dittatura del proletariato tentata in molti luoghi e in molti luoghi fallita. Come ho detto, Lukács cita il Marx della Sacra famiglia, il Marx che dà al proletariato il compito di esecutore “della condanna che la proprietà privata pronuncia su se stessa” [30]. Ma è abbastanza impressionante che il periodo successivo della frase presa a esergo da Lukács, e che abbiamo letto poco fa, suoni come segue: “Non c’è bisogno di spiegare qui – scrive Marx – che una grande parte del proletariato inglese e francese è già cosciente del suo compito storico e lavora costantemente a portare questa coscienza alla sua completa chiarezza” [31]. Ora, da un lato possiamo ricordare che proprio questo passo fu usato malignamente da Plekhanov per attaccare la “coscienza esterna” del Che fare? di Lenin [32]. Dall’altro dobbiamo segnalare che questa idea potremmo dire “facile” del processo di acquisizione del proprio ruolo storico da parte del proletariato, una idea che è presente anche nel Manifesto del partito comunista, verrà messa in discussione dall’esito negativo delle rivoluzioni del 1848. Nei Grundrisse, a proposito del proletariato, Marx parla di una “coscienza enorme”, ein enormes Bewusstsein, come risultato del modo di produzione basato sul capitale, e quale rintocco funebre del suo giudizio finale (Knell to its doom) [33]. Questa “coscienza enorme” è la coscienza di cui si parla nell’opera di Lukács del 1923. Ma ormai siamo di fronte a una impostazione drammatica. Secondo Ferenc Fejto, Storia e coscienza di classe rappresenta l’“incontro di un hegeliano geniale e di un rivoluzionario apocalittico” [34]. È il suo fascino e il suo limite. Eppure quando Lukács parla della dialettica fra salto e processo, noi sentiamo che la questione resta aperta, che questo tema ha segnato il percorso del proletariato europeo fin dall’inizio del suo cammino. L’alternarsi di lunghi periodi di lotta prevalentemente (ma non esclusivamente) pacifici e di brevi (ma non sempre brevissimi) momenti di scontro frontale con il potere politico e militare della borghesia, ha generato insomma il problema specificamente comunista del governo sul ritmo disomogeneo della storia. “Il concreto qui ed ora nel quale il divenire si risolve nel processo – scrive Lukács nel suo libro –, non è più un istante passeggero ed inafferrabile, sfuggente immediatezza, ma il momento della mediazione più profonda ed articolata, il momento della decisione, della nascita del nuovo” (268).
La Prefazione del 1967 collega tutto questo all’“utopismo messianico” degli anni Venti (XXX, XXXVI, XLIV, XLVII). D’altra parte Ernst Bloch, proprio parlando di Storia e coscienza di classe a un anno dalla sua uscita, era facile profeta nello scrivere: “I russi, che agiscono filosoficamente, ma pensano come cani incolti, subodoreranno l’eresia. Immensamente diversi dai revisionisti, sono però egualmente privi di eredità filosofica e molti di loro diranno che Marx non ha certo rimesso in piedi Hegel perché Lukács rovesciasse di nuovo Marx dalla parte della testa” [35].
In realtà i bolscevichi non erano così incolti. E non più di dieci anni prima della Rivoluzione di Ottobre, avevano anche discusso di questioni filosofiche solo apparentemente astruse, accapigliandosi furiosamente. Ad ogni buon conto, certamente Lukács aveva cercato di capire la rivoluzione. E così aveva messo a fuoco molti snodi del marxismo, dai più fini e complicati ai più concreti, lavorando su pochi testi disponibili e pensando autenticamente di testa sua. Fa impressione leggere le sue considerazioni critiche sull’“illegalismo romantico” e sul Savinkov di cui pure aveva letto i romanzi con passione pochissimi anni prima e che aveva citato in Tattica ed etica insieme alle parole della Giuditta di Hebbel (326-327) [36]. Colpiscono anche le sue considerazioni molto mature, molto concretamente hegeliane, sulla Weltanschauung della legalità (325-326). Si capisce che il “salto vitale” nel marxismo era stato compiuto davvero [37]. Si capisce che molte porte (quelle del romanticismo anti-capitalistico da cui pure erano uscite opere importanti e affascinanti come L’anima e le forme e la Teoria del romanzo) erano state chiuse definitivamente. In questo senso, Storia e coscienza di classe ha ancora molto da insegnare ai comunisti che si sentono impegnati in quel destino del “ricominciare daccapo” di cui parlava Marx nel Diciotto brumaio a proposito delle rivoluzioni proletarie [38]. Lukács non si peritava infatti di rivendicare persino la “fede religiosa” di cui gli opportunisti incolpavano i comunisti. Contro “l’oggettività dell’erudito da tavolino”, questa fede coincideva con “la certezza metodologica del fatto che, indipendentemente da ogni sconfitta o regresso momentaneo, il processo storico compie la sua strada fino alla meta nei nostri atti e mediante i nostri atti” (56). Qui non c’è più colpa. Qui si può usare una “piena spregiudicatezza comunista” (326), senza bisogno di evocare il fardello del Grande Inquisitore, come pure Lukács faceva a Budapest durante la breve dittatura dei consigli in cui agì coraggiosamente da dirigente [39]. Una linea è tirata. L’etica coincide con ciò che è utile alla lotta di classe (55) [40]. Se è arido, se vi sembra arido, ci si può accomodare altrove.