Chicco Galmozzi Marzo 1973. Bandiere rosse a Mirafiori
mar 14th, 2023 | Di Thomas Munzner | Categoria: Recensioni
Immagine: Porzione di piantina della Fiat Mirafiori, 1973
Pubblichiamo un estratto del libro di Chicco Galmozzi Marzo 1973. Bandiere rosse a Mirafiori, pubblicato di recente da Derive Approdi, a cinquant’anni dall’occupazione della Fiat Mirafiori da parte dei cosiddetti «fazzoletti rossi». Il libro propone una ricostruzione storica delle vicende che hanno portato all’occupazione dello stabilimento, punto più alto del ciclo di lotte operaie iniziato nella seconda metà degli anni Sessanta.
Il 17 marzo fin dall’ingresso del primo turno in tutte le sezioni Fiat gli operai reagiscono negativamente e con rabbia alle notizie sulla bozza di accordo con l’Intersind e a nulla è valso il tentativo di militanti sindacali e del Pci presenti in massa alle porte distribuendo un volantino in cui si invitava alla calma, affermando che quella firmata è solo una bozza e non il contratto vero e proprio. Così al primo e al secondo turno si susseguono fermate cortei interni. Al centro dell’attenzione e dell’iniziativa operaia c’è soprattutto la questione della richiesta della pregiudiziale sui licenziamenti per rappresaglia (quattro solo nell’ultima settimana) da porre nella trattativa. Su questo tema passa la differenza e la spaccatura fra la linea meramente rivendicativa, oltretutto al ribasso, delle centrali sindacali e il punto di vista dell’autonomia operaia che fa della questione della lotta al dispotismo di fabbrica la questione centrale e decisiva per stabilire i rapporti di forza nelle officine e nei reparti. Molto significativo è anche che la critica operaia alla bozza contrattuale non viene esercitata tanto sulla parte salariale quanto piuttosto sugli arretramenti sull’inquadramento unico e sui mancati automatismi dei passaggi di categoria. Qui non si tratta solo di un generico egualitarismo, pur fortemente radicato nella classe operaia, ma di una critica radicale all’organizzazione tayloristica del lavoro e al dispotismo di fabbrica che la impone. In nome dell’egualitarismo viene messa in crisi la frammentazione dei lavoratori fissati in categorie definite e rigide. I sindacati agitano la parola d’ordine della ricomposizione delle mansioni come superamento dell’organizzazione tayloristica del lavoro basata su una ripartizione scientifica dei carichi di lavoro che, attraversola parcellazione delle mansioni esecutive, permette di assegnare compiti elementari a ogni lavoratore, riducendo i tempi di apprendimento dei lavoratori, aumentando la loro capacità di esecuzione della microfrazione del processo produttivo assegnato a ciascuno e scomposto e ridotto a poche e ripetitivi gesti e movimenti. L’autonomia operaia non era ostile alla tematica della ricomposizione delle mansioni ma si concentrava piuttosto sulla rigida ripartizione assicurata dal ventaglio delle qualifiche come strumento di divisione della classe operaia. Ma, soprattutto, i mancati automatismi nei passaggi da una categoria all’altra lasciavano ampi spazi discrezionali alla gerarchia aziendale che gestiva tali passaggi con logica premiale e quindi ricattatoria. Se i licenziamenti e le misure disciplinari erano il bastone, il passaggio di categoria era la carota da assegnare ai meritevoli. Dal 22 marzo ’73 la lotta si estende a tutto il torinese intensificandosi ogni giorno di più. Il 28 marzo si attua uno sciopero autonomo di8 ore contro i licenziamenti, il giorno successivo un corteo interno di 10.000 operai, bloccando l’entrata e l’uscita dei camion, riesce afermare completamente la produzione. Il 29 la Fiat Mirafiori viene occupata per tre giorni, il giorno successivo il blocco si estende alLingotto, alla Bertone, alla Pininfarina, alla Spa Stura, alla Carello, alle Fonderie di Carmagnola, alla Sicam di Grugliasco. Il 30 marzo tutte le fabbriche di Torino sono in mano agli operai: bandiere rosse a Mirafiori, migliaia di operai picchettano i cancelli. Mirafiori è rimasta bloccata per tutta la mattinata, completamente in mano agli operai. Alle Carrozzerie i sindacati avevano proclamato 2 ore di sciopero a partire dall’inizio del turno ma la logica con cui gli operai decidono in questi giorni della loro lottaè ormai tutta un’altra: nessuno ha attaccato a lavorare, dopo un corteo di 10.000 persone, gli operai a gruppi di centinaia si sono divisi alle diverse porte. Tutti i 12 cancelli hanno avuto ognuno il loro picchetto: dall’interno i compagni hanno impedito l’entrata e l’uscita delle merci. Il presidio è stato esteso anche alla palazzina degli impiegati. Gli operai ammassati ai cancelli hanno risolto brillantemente, inassenza di qualsiasi iniziativa da parte del sindacato, relegato ai margini della lotta, i difficili problemi organizzativi che il blocco di una fabbrica come Mirafiori comporta. Fra tutte le porte sono stati stabiliti collegamenti continui, con staffette in bicicletta. Gli operai hanno riempito i cancelli di bandiere rosse e striscioni. «I licenziati in fabbrica con noi», e un altro:«salario garantito». Su un drappo rosso sono stati scritti i nomi di tutte le avanguardie epurate dalla Fiat. Alla porta 9 è stato messo il manichino di un impiccato con sotto scritto: «questa è la fine dei nemici degli operai». Le Carrozzerie sono state il centro della forza operaia, lo sciopero è continuato ininterrottamente fino alla fine del turno. A nessuno è venuto neppure in mente di andare a lavorare. Alle Meccaniche gli operai hanno staccato alle 9.20, ora di inizio delle tre ore indette dal sindacato. Cortei enormi hanno attraversato la Meccanica due, sono usciti da via Plava, e dopo aver fatto il giro di tutta la fabbrica da fuori sono rientrati sfondando il cancello 15 e invadendo le Presse. Mentre la maggioranza degli operai era in corteo, gli altri sono rimasti dentro a fare blocchi delle merci fra le diverse officine. Centinaia e centinaia di operai sono raccolti davanti ai cancelli a discutere sulle forme di lotta dei prossimi giorni,tutti decisi ad andare fino in fondo. Sindacalisti e burocrati del Pci cercano di farsi notare il meno possibile, isolati come sono dalla forza operaia. Dove possono fanno i pompieri, nella maggioranza dei casi stanno zitti. Verso mezzogiorno un’assemblea di un migliaio di operai ha discusso come andare avanti: è stato deciso di continuare il blocco delle merci anche per domani. E se le trattative continuano per le lunghe o se addirittura i padroni rompono, gli operai hanno deciso per acclamazione, con un boato di approvazione, che si deve andare a corso Marconi. Alle Carrozzerie intanto continuano i picchetti a tutte le porte in attesa del secondo turno. In tutta la mattinata non è uscito praticamente nessuno. I pochissimi che se ne sono andati hanno dovuto eludere la sorveglianza di decine e decine di operai arrampicati sui muri, sui cancelli. Alle Meccaniche lo sciopero è finito alle 12.30.
Al cambio turno le migliaia di operai che bloccavano le porte non hanno tolto i picchetti fino a quando non sono entrati tutti i compagni del secondo turno per sostituirli. Chi arrivava, però, è stato attentamente controllato: i capi e tutti i crumiri e i fascisti conosciuti sono stati tenuti fuori. È stato un processo popolare di massa che ha filtrato, giudicato, e selezionato uno per uno gli amici e i nemici degli operai.
La cronaca di quei giorni nel racconto di un operaio.
Gli operai si sono resi conto che bisognava trovare forme di lotta che mostrassero la propria forza. È cominciato con l’articolazione che ha diviso i cortei e le officine, ognuno faceva un giretto e poi basta. Allora abbiamo cominciato a proporre una «pulizia» dei delegati, e fare fuori quelli che non ci stanno. Sono cinque mesi che lottiamo, li conosciamo tutti e cene sono stati tanti di delegati che non ho mai visto tranne quando c’è da fare una mozione contro gli estremisti. Abbiamo preso una serie di contatti con le Meccaniche perché venissero da noi. Lunedì dopo aver fatto il corteo siamo arrivati alla porta 11, che è quella più importante dove entrano i Tir, i container, la dogana. E lì abbiamo trovato le macchine. Abbiamo chiesto le chiavi ai guardioni. C’era il capo che telefonava in direzione ma le macchine non hanno aspettato. Ci siamo ritirati un po’, i guardioni hanno telefonato: «pronto passo e chiudo» e se la sono filata. Poi è saltato il cancello, si è spalancato, e c’è stato l’incontro di Teano con baci e abbracci. C’è stato un po’ di sbandamento perché non si sapeva dove andare, parte dei delegati e gli operai volevano andare alle Meccaniche perché c’era una linea che tirava. Allora sono salito su una montagnola d’erba dove c’è un alberello che la Fiat mantiene per far vedere che all’ecologia ci tiene, sono ciuffi d’erba in mezzo al cemento. Ho detto che adesso se erano unite le due sezioni bisognava continuare e fare il blocco ai cancelli, perlomeno a quelli carrai. E ho ribadito nuovamente che bisogna eliminare quelli che non tengono conto delle esigenze della massa, e gli ho detto che non continuino con la storia degli 8 livelli, perché noi lottiamo per i 5 livelli con gli scatti automatici e questo ha fatto imbestialire due o tre delegati delle Meccaniche. I compagni hanno preso le direttive e si sono divisi le porte, lì abbiamo fatto il blocco un paio d’ore e abbiamo capito subito, dal numero dei camion che rimanevano intasati fuori dalle porte, l’efficacia della nostra lotta. Alla fine dello sciopero sindacale siamo tornati dentro e abbiamo spazzato dove c’erano sparute minoranze che lavoravano, e abbiamo spiegato a quelli che erano rimasti dentro la nuova forma di lotta e la nostra soddisfazione. Mercoledì il primo turno ha fatto le tre ore normali di sciopero, il secondo turno al montaggio alle 14.30 non ha neanche cominciato a lavorare, ha fatto un corteo interno, poi alle 15.30 la Fiat ha mandato a casa tutta la Verniciatura. La Verniciatura ha fatto anche lei il corteo, ed è arrivata l’ora dello sciopero sindacale. L’indicazione del giorno prima era quella di trovarsi direttamente alle 16.00 al cancello 11, era una indicazione che avevo dato il giorno prima, non ero tanto convinto che sarebbe riuscita così bene. Sono uscito dall’officina alle 16.00 e c’era già una porta bloccata dai cassoni, operai che bloccavano i camion con le macchine cariche, discussioni con gli autisti, mille gruppettini, gente sdraiata in questi famosi praticelli, insomma tutto un fermento. Siamo andati a bloccare alla confluenza dei viali interni che portano al cancello 11. È arrivato un altro troncone di corteo che era rimasto dentro a girare. Ci siamo divisi i compiti, si è deciso che anche la Lastro ferratura prolungava lo sciopero fino alle 11.00. Lo ha deciso un delegato della sinistra sindacale. Brillava l’assenza dei quadri del Pci. Sono saltate fuori le biciclette, non sapevamo bene di chi erano, poi abbiamo capito che erano quelle dei crumiri, gli operai non avevano fatto altro che toglierle dalla rastrelliera. Abbiamo organizzato le staffette. Io sono partito con una serie di compagni per andare nei refettori per spiegare a quelli che stavano mangiando la nuova forma di lotta. Erano un gruppo di compagni molto giovani e combattivi. Abbiamo fatto il giro dei refettori, tavolo per tavolo, a raccogliere le adesioni e ci dicevano: «Era ora! Ci sono voluti 5 mesi per capirlo?». Allora abbiamo fatto il discorso sul delegato, cioè che ci siamo organizzati con la nostra testa, dei delegati abbiamo tenuto quelli buoni, quelli che sono delegati di fatto, gli altri di fatto si sono emarginati da soli, quelli che prendevano ordini dalle varie centrali. È lì che abbiamo visto dei delegati che giocavano a carte, gli operai ce li presentavano: «Ecco il nostro delegato». Alle 9.00 sono arrivati gli operai delle Fonderie a chiedere informazioni. Allora abbiamo usato i telefoni dei guardioni e ci siamo dati appuntamento a fine turno davanti alla porta O per fare il punto della situazione. Alle porte sono arrivati alcuni bonzi sindacali a pompierare e gli operai gli dicevano di andare a fare i pompieri in un altro posto. Un sindacalista del Pci diceva che erano già state invitate le autorità, il Pci, il Psi, Donat Cattin, per l’occupazione simbolica del 3 aprile; e che figura ci facevamo se trovavano la fabbrica occupata non simbolicamente. Era molto interessato agli enti locali, gli interessavano molto di più le loro questioni per le sedie della Regione. L’assemblea: il delegato della sinistra, quello di prima, ha detto che questa lotta va bene, speriamo che abbiamo la forza per portarla avanti ecc. Io ho parlato dopo dicendo qualcosa di più, ho parlato anche dell’altro turno, che ero sicuro che continuava e che bisognava organizzare anche l’altro turno perché ha gli stessi bisogni. Alle 9.00 di giovedì dormivo, un compagno mi ha telefonato e ha detto che tutta Mirafiori era occupata, tutte le porte erano presidiate. Alle 10.30 arrivo con la moglie e il bambino, perché anche lei voleva sapere che cosa era un’occupazione, perché in casa io racconto sempre le lotte che avvengono. Mio figlio ha 6 anni, abbiamo fatto tutto il giro delle porte. C’era tutto lo sventolio delle bandiere. Lui mi chiedeva: «Ma chi sono quelli sui tetti con le bandiere?», e io: «Sono gli operai, vogliono battere il padrone». E lui: «Ma non c’è lì il padrone» e io «guarda che il padrone non c’è mai nelle fabbriche, può darsi che in questo momento sia nel suo elicottero personale che guarda dall’alto la sua fabbrica che gli sfugge dalle mani». Allora abbiamo incontrato un altro compagno col figlio, e li abbiamo fatti incontrare. Nel momento in cui la lotta diventa tua, è un momento di festa proletaria, dove tutti riescono ad acquistare la propria identità, non sono più rotelle, sono una serie di cervelli che si coordinano e dirigono se stessi e gli altri. Se no, che senso avrebbe occupare una fabbrica? C’erano i crumiri che sono talmente imbevuti delle favole del padrone che venivano a chiedere se c’era bisogno di un permesso scritto per uscire o rientrare. Io gli dicevo: «Guarda che qui non siamo mica caposquadra, gli ho spiegato che i nemici di classe li colpiamo direttamente, non utilizziamo come fa il padrone tutti i suoi strumenti, noi sospendiamo di fatto quelli che sono contro di noi. Al cambio turno c’è stato forse l’episodio più bello. Alle porte delle Carrozzerie hanno preso la decisione di dare il cambio ai blocchi dei cancelli per garantire che il blocco continuasse compatto per tutto il turno. Io non ho mai visto una cosa simile. Arrivavano gli operai e vedevano tutte le bandiere rosse, gli operai in tuta sui cancelli e su tutto il muro. Insomma una cosa un po’ diversa dal solito. Ma la cosa più entusiasmante, e quella che ti dà l’idea della forza e della coscienza degli operai, è stato il filtro. Si era deciso che entrassero solo gli operai e non i capi. Tutti alle porte dicevano: «Oggi solo i compagni dentro, i conigli fuori» e così il blocco è stato fatto anche per i crumiri. Dovevi vedere: c’erano tutti i compagni che controllavano i tesserini all’ingresso, col cancello socchiuso. Entravano uno per uno e tutti dovevano passare al giudizio degli operai in lotta. La voce si è sparsa su tutto il piazzale, mentre quelli ai cancelli e sul muro segnalavano alle porte l’arrivo degli operatori, dei capi o dei conigli più conosciuti. Non c’è stato bisogno di fare violenza. Arrivava il capo e tutti in coro gli gridavano: «Fuori, fuori, oggi comandiamo noi qui dentro, entrano solo i compagni lavoratori». Quelli facevano un sorrisetto tirato e andavano via scuotendo la testa. C’è stato qualcuno che ha voluto fare la voce grossa ed è andato via a calci in culo. Coi crumiri invece era diverso, c’era anche il processo popolare, gli ricordavano tutto quello che hanno fatto in 5 mesi ai nostri danni. Quelli incalliti andavano via, quelli che ad esempio hanno fatto sciopero una volta sì e una no, venivano rieducati. C’erano tutti i compagni di squadra che gli ricordavano tutti gli episodi, perché gli operai hanno la memoria lunga, qualche volta gliele ricordavano nei modi bruschi. Poi gli chiedevano se avevano cambiato idea e, se sì, gli davano uno schiaffetto e lo facevano entrare, mentre quelli dicevano che non lo avrebbero fatto mai più. E giù applausi da tutti quelli sui muri e tutte le bandiere che sventolavano. C’è stato qualche delegato che brontolava e diceva che non era democratico, ma è stato sommerso. E poi l’altra cosa più bella è stata che tutti quelli che entravano sapevano che dovevano andare a bollare e poi venire ai cancelli, entravano coscienti e contenti di quello che facevano. Di sindacalisti non c’era proprio bisogno e ti assicuro che nessuno ne sentiva il bisogno. Nel pomeriggio è arrivato poi qualcuno ma poca roba, a fare i discorsi paternalisti che è una cosa più grande di noi, che bisogna fare attenzione. E gli operai gli dicevano, facendogli il segno con la mano: «Ma voi ci avete proprio l’inquadramento unico nella testa», e ridevano.
Nella tarda serata di lunedì 2 aprile la Flm e la Federmeccanica raggiungevano un accordo i cui punti salienti erano: abolizione delle categorie e delle qualifiche mediante l’inquadramento unico; aumento salariale di 16.000 lire al mese uguale per tutti; riduzione dell’orario di lavoro settimanale a 39 ore mediante la concessione di una giornata di riposo ogni otto settimane lavorative; una settimana in più di ferie; riconoscimento del diritto allo studio mediante l’ottenimento delle 150 ore retribuite. Anche se ci fu chi lo considerò un «contratto bidone», fu un buon contratto. L’ultima grande vittoria operaia. Conquistata con la forza. Quello che si conclude nella primavera del ’73 non è solo un ciclo di lotta operaia: per un lustro, dal ’68 al ’73 il proletariato di fabbrica è stato non solo classe per sé ma classe generale, capace di produrre allineamento di ampi settori sociali, dagli studenti asettori di piccola e media borghesia, e di esprimere autorità sociale. Nei paesi della cintura torinese, o nelle valli bergamasche, il delegato di reparto di Mirafiori o della Breda o della Falck contava come e forse più del sindaco, del parroco e del farmacista. Di fronte all’evidente impossibilità di ricondurre la classe operaia all’ordine e al dispotismo padronale la risposta è quella di fare a meno della classe operaia mettendo in campo giganteschi processi di ristrutturazione e delocalizzazione delle produzioni.
Ora, dove sorgevano gli stabilimenti sorgono centri commerciali che beffardamente conservano gli antichi nomi: Lingotto o Vulcano nell’area dove sorgeva l’omonimo stabilimento della Falck, a Sesto San Giovanni. Cosa resta di tutto ciò? Forse il lascito è che è con la forza che si vince.
Chicco Galmozzi è stato operaio e militante di Lotta Continua. Nel ’74 ha partecipato alla costituzione dei Comitati comunisti per il potere operaio legati al giornale «Senza tregua» e nel ’76 è stato tra i fondatori di Prima linea. Arrestato nel maggio del ’77, ha conseguito maturità e laurea durante i dodici anni di detenzione. Affascinante narratore, nel catalogo DeriveApprodi figura il suo: Figli dell’officina. Da Lotta continua a Prima linea: le origini e la nascita (1973-1976) (2019).