Il “gioco” del capitale non ammette passaggi comunitari
mar 13th, 2023 | Di Thomas Munzner | Categoria: Cultura e societàIl “gioco” del capitale non ammette passaggi comunitari
di Salvatore Bravo
Jean-Claude Michéa: Il goal più bello è stato un passaggio. Scritti sul calcio, Neri Pozza editore
Il modo di produzione capitalistico non è solo un modello economico, è una pratica di vita. Esso incorpora ogni gesto e ogni comportamento nell’economicismo. Deve imperare la sola libertà del valore di scambio, nessun vincolo etico o giuridico, ma piena e illimitata libertà di perseguire solo i propri interessi personali. L’esistenza e le relazioni umane che ne sono consustanziali perdono di valore, sono solo occasione per l’accumulo crematistico. Si opera per sottrazione della gioia e del donarsi. Il nuovo uomo hobbesiano prodotto nei laboratori della propaganda delle multinazionali uccide lo spirito dionisiaco per la razionalità calcolante. Nessuna stella deve danzare, nessun gesto creativo e nessun legame donativo deve limitare la logica dell’incorporamento assoluto. La mutilazione nella prassi traduce gli esseri umani in “aziende” che vendono al miglior offerente le “proprie competenze”. La gioia di vivere, conoscere e giocare è inquinata nel suo fondamento, la vita è avvelenata dalla malinconia depressiva dell’accumulo che gradualmente isola, atomizza e rende incapaci di provare la gioia profonda della condivisione.
In tale contesto di pubblica tristezza l’intelligenza divergente arretra, in quanto le passioni che stimolano l’intelligenza creativa e la conoscenza di sé intristiscono sotto il giogo della “cultura degli affari”. Si calcola, ma non si pensa, ci si omologa nella quantità, l’inferno in terra è la perenne lotta per il saccheggio e l’accumulo che desertificano il pianeta, la vita interiore e relazionale.
Il turbocapitalismo si è impossessato anche del gioco, la libertà di scambio ha cannibalizzato ogni attività ludica, l’ha trasformata in affare personale, ha congelato i processi di formazione che hanno nel libero gioco un fondamento imprescindibile:
“La pratica e lo spettacolo del calcio, nella misura in cui si basano fin dall’origine sui concetti di gioco e di piacere, stimolano effettivamente un registro particolare di emozioni. In primo luogo, come lei stesso ha appena ricordato, quelle che attengono da un lato alla «bellezza del gioco», e dall’altro alla «drammaturgia dell’incontro» – in altre parole, al copione imprevedibile che le due squadre scrivono in diretta ogni volta. Naturalmente, quando queste due squadre sono organizzate sul piano tattico per produrre del gioco, è raro che l’elemento drammatico risulti assente (ricordo ancora con emozione le partite tra Reims e Racing della mia infanzia!)1.”
L’azienda-squadra
Il calcio è un esempio del declino della gioia in nome del capitale. I tornei sono affari, i giocatori sono aziende che scalciano nel campo, per cui perdere la partita, implica una vertiginosa perdita di introiti, di conseguenza, non si deve perdere. Il gioco diventa monotono, prevale la difesa sull’attacco, in modo da contenere le potenziali sconfitte e le conseguenti perdite economiche. I giocatori in campo devono difendere gli interessi dell’azienda e, in primis, i propri interessi, pertanto la creatività del gioco lascia spazio ad un gioco monotono e asfittico:
“In effetti, mano a mano che il calcio si trasformava in una poderosa industria che metteva in gioco interessi finanziari considerevoli, perdere una partita o un torneo diventava sempre di più un dramma economico inaccettabile (per non dire, a un livello differente, delle ricadute negative sul morale dei cittadini nel caso di una pessima prestazione della Nazionale). È in tale contesto molto particolare che l’attenzione per il buon calcio («pura utopia», secondo il noto giudizio di Aimé Jacquet) ha via via ceduto il posto all’idea, ritenuta più realista, secondo la quale una squadra doveva innanzitutto essere organizzata per non prendere nemmeno un goal – anche se questo implicava di ridurre il numero di giocatori con vocazione d’attacco (a cominciare dalle due ali) allo scopo d’intensificare difesa e centrocampo2”.
Il giocatore decade a difensore dei personali interessi, il suo gioco ne è determinato al punto da cambiarne qualità e natura. Il gioco libero dagli interessi economici è plurale nelle sue tattiche e, specialmente, è di squadra, si condividono i passaggi, e le geometrie di gioco che sviluppano uno stile e formano il giocatore a sentirsi e a pensarsi come parte preziosa della comunità-squadra. La sconfitta, in tale cornice, era parte del gioco, e ciò insegnava anche agli spettatori il senso della sconfitta, anzi, quest’ultima era giudicata di secondaria importanza, in quanto la passione per il gioco era la vera gratificazione. Con la penetrazione della finanza nel gioco del calcio come in ogni attività la passione triste per l’accumulo ha contribuito a inoculare la passione triste della quantità che ha dequalificato il gioco in nome del risultato:
“Anche qui la risposta mi sembra evidente. Mano a mano che l’alta finanza si assicurava il controllo del calcio professionistico, il concetto di piacere del gioco e il corrispondente desiderio di offrire al pubblico popolare lo spettacolo più bello possibile non potevano che cedere progressivamente il posto a determinati piani e interessi più «realistici». Fino al giorno in cui, naturalmente, l’idea stessa di sconfitta (la cui accettazione aveva sempre definito il principio fondamentale dello spirito sportivo) sarebbe stata percepita come un male assoluto a causa delle sue ricadute negative – tanto sul piano dell’economia quanto su quello dell’immagine e della comunicazione (il cambio frequente degli allenatori è solo uno degli aspetti più evidenti di questa situazione). Questo nuovo assetto ormai autorizza – per contrasto col vecchio calcio popolare – a parlare di un calcio liberista3”.
Sentenza Bosman
La sentenza Bosman del 1995 nella lettura di Jean Michéa è il punto di svolta della finanziarizzazione integrale del gioco del calcio. I giocatori a fine contratto possono scegliere liberamente in quale squadra transitare senza incorrere in sanzioni. Il giocatore vende sul mercato del calcio le sue competenze, si offre al migliore offerente e persegue i suoi interessi personali. Diventa imprenditore di se stesso, non è più un calciatore, ma una macchina che produce quattrini. Ogni legame empatico ed etico con la squadra è sciolto, si educano i futuri giocatori e gli spettatori all’integralismo assoluto della finanza. I giocatori sono liberi solo di difendere i loro personali interessi, non sono parte di nessun progetto o storia. Gli spettatori in una partita di calcio assistono alla normalità della finanziarizzazione della vita. I futuri giocatori sognano denaro in quantità illimitata, si mette in moto un processo di addestramento in campo all’utile personale. La partita diventa spettacolo ed affari, al gioco di squadra si sostituisce l’affermazione proprietaria e narcisistica:
“Tuttavia, mano a mano che la rapida integrazione del calcio professionistico nell’economia capitalista produceva i primi effetti visibili (la sentenza Bosman – celebrata all’epoca come una vittoria dell’«antirazzismo» dalla stragrande maggioranza della sinistra – ha svolto un ruolo decisivo in questa integrazione suicida), lo sguardo delle élite ha cominciato a cambiare. In effetti, a partire dal momento in cui le stelle del calcio professionistico hanno iniziato a diventare delle celebrità a tutto tondo, a fare i testimonial pubblicitari, e hanno iniziato a frequentare soubrette e modelle, e a guadagnare cifre astronomiche e indecenti quanto quelle dei grandi predatori del mercato globale, il mondo artistico e intellettuale ha dovuto necessariamente iniziare a considerarle con occhio diverso. Evidentemente, uno sport che ormai permetteva alle sue stelle di «concedersi un Rolex prima dei cinquant’anni» non poteva più essere assimilato così facilmente all’universo dei beauf di Cabu (perché in genere è così che coloro che «nascono bene» immaginano le classi popolari). È dunque principalmente in questo specifico contesto che conviene situare la recente infatuazione di una parte dell’élite culturale (e dei media più «di moda») per il calcio4”.
Il mondo del calcio è diventato gradualmente “un fiume di denaro”, improvvisamente anche gli intellettuali di “regime” se ne occupano, anche loro subodorano la possibilità di fare affari e di apparire ad un pubblico vastissimo. Negli ultimi anni l’uguaglianza di genere, ovvero di vendersi egualmente, ha coinvolto il calcio femminile, il quale si è trasformato in occasione ghiotta per estendere “il campo degli affari”. Le giocatrici rivendicano il diritto alla parità di genere e di rilevanza, dietro lo strato delle parole si cela la banale logica dell’incorporamento negli affari del calcio. Parità di genere significa eguali opportunità di apparire e vendersi sul mercato. Nessuna voce dissenziente tra le femministe o la politica si è elevata. La parità di genere è lo strumento con cui il capitale si estende e non lascia spazi di libertà creativa. Tutto dev’essere un affare, il mercato religiosamente comanda, i giocatori uomini o donne egualmente si inchinano, gli intellettuali benedicono il nuovo corso con le solite passerelle.
Gioco e formazione
Il gioco è sempre stato un’attività di formazione, mediante di esso si insegnava il gioco di squadra che affinava e consolidava il senso della comunità e formava all’armonia del corpo. Platone ne descrive l’alto valore educativo nelle “Leggi”. Una comunità senza il valore del gioco non è più tale, è solo un comitato d’affari, tradisce il senso naturale dell’attività ludica, la rende perversa, poiché ne tradisce “il senso ultimo”:
“ATENIESE: E allora parlo, e dico che chi vuole diventare eccellente in qualsiasi cosa, fin da giovane deve esercitarsi in essa, e sia quando gioca sia quando si applica deve cercare quei singoli aspetti che si riferiscono a quella cosa. Ad esempio, chi vuole diventare un bravo contadino o un bravo architetto, bisogna che giochi, uno a costruire quelle case che i fanciulli amano costruire, l’altro a coltivare la terra, e chi li educa dovrà procurare ad entrambi piccoli strumenti che imitano quelli veri. E ancora, è necessario che essi apprendano tutte le nozioni che bisogna apprendere da fanciulli, ad esempio, per l’architetto il misurare e l’usare il filo a piombo, per il militare il cavalcare giocando, o compiere qualche altro esercizio del genere, in modo da cercare di volgere, mediante il gioco, i piaceri e i desideri dei fanciulli verso il punto in cui un giorno dovranno giungere e realizzarsi. E noi diciamo che il punto essenziale dell’educazione consiste in un corretto allevamento che, tramite il gioco, diriga il più possibile l’anima del fanciullo ad amare quello che, divenuto uomo, dovrà renderlo perfetto nella virtù propria della sua professione. Vedete dunque se quello che ho detto fino ad ora vi piace5”.
Il modo di produzione capitalistico con la sua neutralità etica vorrebbe sottrarsi al giudizio qualitativo, in modo da rendere assoluta la logica dell’azienda: ogni individuo- un’azienda questo è il suo imperativo, a tale logica bisogna opporre l’esame etico delle conseguenze di tale processi e del senso dell’agire. La competizione in funzione degli affari alberga ovunque, nelle istituzioni educative si addestrano mediante “la valorizzazione degli sport” i futuri giocatori che imparano ad usare se stessi e il proprio corpo come una merce da immettere sul mercato degli affari. Smascherare tali logiche e l’ingannevole linguaggio che le precede è fondamentale per conquistare spazi di libertà e di emancipazione dalla reificazione del nuovo totalitarismo dell’azienda.