Dai mercenari ai contractor. Il diritto internazionale e l’ipocrisia dell’ONU

mar 13th, 2023 | Di | Categoria: Politica Internazionale

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Dai mercenari ai contractor. Il diritto internazionale e l’ipocrisia dell’ONU

di Giovanna Cracco

Il neoliberismo trasforma la sicurezza in merce, lo Stato perde il monopolio della forza e l’ONU privatizza le missioni di pace: storia di un’ascesa favorita dal diritto internazionale

 

 

“Esprimiamo serie preoccupazioni per il reclutamento, il finanziamento, l’u­so e il trasferimento di mercenari e attori legati ai mercenari dentro e fuori le diverse situazioni di conflitto in tutto il mondo. In molti casi, la pre­senza di questi attori privati prolun­ga il conflitto, agisce come fattore de­stabilizzante e mina gli sforzi di pace. Gli esperti sono anche preoccupati dal fatto che il reclutamento e l’invio di mercenari e attori legati ai merce­nari nelle zone di conflitto esacerba il rischio che i conflitti si diffondano in altre regioni. [...] Il Gruppo di La­voro ha ampiamente evidenziato i mo­delli di gravi abusi e violazioni com­messi impunemente da questi attori, come esecuzioni extragiudiziali, spa­rizioni forzate, stupri, violenze ses­suali e di genere, detenzioni arbitra­rie e torture.”

Sono parole del Working Group on the use of mercenaries as a means of violating human rights and impeding the right of peoples to self-determination (“Gruppo di Lavoro sul­l’uso dei mercenari come mezzo per violare i diritti umani e impedire il di­ritto dei popoli all’autodeterminazio­ne”, indicato d’ora in poi con ‘Grup­po di Lavoro’), istituito nel 2005 dalla Commissione per i Diritti Umani del­l’ONU; parole espresse nella dichia­razione rilasciata il 4 marzo 2022 (1), che si conclude ribadendo, per l’en­nesima volta: “Tutti dovrebbero aste­nersi, in ogni circostanza, dall’utilizzare, reclutare, finanziare o addestra­re mercenari o attori legati ai merce­nari. [...] gli Stati dovrebbero attuare un’efficace regolamentazione interna­zionale e nazionale. Gli abusi dei di­ritti umani e le violazioni del diritto umanitario da parte dei mercenari non devono restare impuniti”.

 

Il Gruppo di Lavoro dell’ONU

Nel 1987 la Commissione per i Diritti Umani delle Nazioni Unite (oggi Con­siglio per i Diritti Umani) nomina un “Relatore speciale sull’uso dei mer­cenari come mezzo per impedire l’e­sercizio del diritto dei popoli all’auto­determinazione”.

Precedentemente il Consiglio di sicurezza ONU aveva e­messo Risoluzioni sull’utilizzo di mer­cenari per rovesciare i governi della Repubblica Democratica del Congo (1967), della Repubblica popolare del Benin (1977) e della Repubblica delle Seychelles (1981), e per tutti gli anni ‘60 l’Assemblea Generale aveva a­dottato diverse Risoluzioni che chie­devano l’attuazione del diritto all’au­todeterminazione nel contesto coloniale africano; la delibera che istitui­sce il Relatore speciale riconosce che il mercenarismo è una minaccia alla pace e alla sicurezza internazionali.

Nel 2005 al Relatore speciale su­bentra il Gruppo di Lavoro, incaricato di studiare attraverso missioni co­noscitive, studi tematici e singole de­nunce le violazioni dei diritti umani commesse da mercenari e dalle So­cietà Militari e di Sicurezza Private (Private Military and Security Companies, PMSC); sono infatti queste ul­time, come vedremo, e non il tradi­zionale mercenarismo, ad avere mu­tato la dinamica dei conflitti a partire dagli anni ‘90. Il mandato evolve dun­que, riconoscendo e focalizzando due attori e non più uno, e pone tra gli obiettivi la creazione di una regola­mentazione internazionale vincolan­te per le PMSC e il miglioramento di quella già esistente sul mercenari­smo (2).

Oggi possiamo dire che qualche risultato è stato raggiunto, soprattut­to sul piano della consapevolezza e della denuncia, ma praticamente nul­la su quello fattuale. Se i mercenari sono ora ridotti a essere una figura marginale, infatti, è solo perché, in linea con i cambiamenti politici ed e­conomici degli ultimi trent’anni, so­no stati sostituiti da efficienti azien­de private che li ‘regolarizzano’, as­sumendoli a contratto e vendendoli a ‘clienti’ sotto forma di ‘servizi’. Si sono trasformati nei contractor, nel­l’alveo di un diritto internazionale umanitario che permette loro di agi­re tra le righe di normative lasciate intenzionalmente inadeguate rispet­to ai mutamenti avvenuti. È in atto un tentativo di regolamentazione da parte delle Nazioni Unite, ma mostra a sua volta forti limiti. D’altra parte la stessa ONU utilizza le PMSC nelle o­perazioni di peacekeeping, e tutto as­sume il profilo del paradossale.

 

Dai mercenari alle PMSC

Su 28 guerre civili scoppiate in Africa tra il 1950 e il 2002, tredici hanno vi­sto la partecipazione conclamata di mercenari: Katanga (ora Repubblica democratica del Congo) e Biafra (Ni­geria) tra le più documentate sotto questo aspetto, con Francia, Belgio e Gran Bretagna impegnate nell’ingag­gio ufficioso di bande di cani sciolti di ogni nazionalità e di esperti ex mi­litari passati al mercenarismo. L’o­biettivo è sempre stato economico: mantenere il controllo sulle risorse naturali anche dopo la fase di deco­lonizzazione (3). Governi occidentali, governi dei neo-Stati africani, oppo­sitori interni, compagnie minerarie, gruppi di interesse privati… tutti han­no utilizzato mercenari negli anni ‘60, ‘70 e ‘80, soprattutto nel continente africano ma anche in Asia e in Ame­rica Latina. Parliamo di figure indivi­duali, generalmente veterani della se­conda guerra mondiale o dei conflitti regionali successivi, non organizzati fra loro e spesso reclutati per passa­parola; in cambio di denaro offriva­no, soprattutto, ciò che nessun eser­cito regolare poteva dare: difendere interessi illegittimi nascondendo i mandanti. Fare insomma il lavoro sporco.

A partire dagli anni ‘90 la realtà muta: nascono le Private Military and Security Companies, la cui principale funzione non è celare l’identità di chi le ingaggia che comunque resta un plus e una possibilità ancora utilizza­ta ma affiancare gli eserciti regolari alla luce del sole. Fare direttamente la guerra, semplicemente. Nei soli an­ni ‘90 le PMSC addestrano i soldati di 42 Stati e partecipano a più di 700 conflitti (4). Tre sono gli elementi che nel decennio si compenetrano ren­dendone possibile la configurazione e l’ascesa.

Primo: la fine della guerra fred­da. Il crollo del Muro porta al pro­gressivo globale ridimensionamento delle forze militari nazionali: il nume­ro di soldati effettivi passa da 28,7 milioni nel 1988 a 22,3 milioni nel 1997, con una riduzione del 22%. Il calo avviene soprattutto negli Stati Uniti, in Europa e nei Paesi dell’ex blocco sovietico (5). Accanto, si regi­stra un surplus di armamenti che vengono resi disponibili alla vendita.

Secondo: l’attuazione di politiche neoliberiste. Dagli Stati Uniti (Reagan) e dalla Gran Bretagna (Thatcher) soffia il vento del “meno Stato, più mercato”, che diviene pensiero dominante nelle società capitalisti­che. I Paesi avviano privatizzazioni ed esternalizzazioni: welfare, industria, settore bancario, energia, trasporti… il pubblico arretra a favore dei priva­ti.

Terzo: l’imporsi dagli USA della co­siddetta Revolution in Military Affairs (RMA). Gli sviluppi tecnologici richie­dono maggiore competenza tecnica, e prende piede la teoria che un nu­mero relativamente piccolo di perso­ne ben addestrate e dotate di armi a tecnologia avanzata possa facilmen­te avere la meglio su una forza mili­tare più numerosa ma scarsamente addestrata e dotata di attrezzature meno sofisticate.

Muta la visione complessiva. Dal­l’essere considerata “Pace, Guerra, bene pubblico”, la sicurezza diviene una merce acqui­stabile sul mercato sotto forma di servizio: quando serve, come serve, a prezzi ritenuti vantaggiosi grazie al­la concorrenza. Nasce un settore com­merciale aperto a una nuova tipolo­gia di azienda privata, che va a pren­dere possesso di un terreno fino a quel momento indisponibile perché monopolio esclusivo dello Stato: l’u­so della forza. Con tutto ciò che ne consegue, come vedremo.

 

Le PMSC

Non esiste una definizione univoca e ufficiale delle PMSC. Sulla carta, so­no due diverse tipologie di società: le Private Military Companies (PMC) forniscono servizi militari, le Private Security Companies (PSC) di sicurez­za. Le prime quindi dovrebbero muo­versi in teatri di guerra, le seconde nello spazio delle pratiche di polizia. Il fatto stesso che l’acronimo gene­ralmente usato le tenga insieme (PMSC), mostra quanto la distinzione sia inconsistente e fuorviante, per­ché quasi tutte le imprese sicura­mente le più grandi e quotate for­niscono entrambi i servizi, e perché molti di quelli classificati come ‘sicu­rezza’ si svolgono in situazioni con­flittuali, anche quando non aperta­mente dichiarate. Il Gruppo di Lavo­ro dell’ONU definisce dunque “una società militare e/o di sicurezza pri­vata come un’entità aziendale che fornisce, a scopo di lucro, a realtà pubbliche o private, servizi militari e/o di sicurezza” (6).

Il ventaglio è estremamente am­pio: pianificazione strategica, adde­stramento, intelligence, investigazio­ne, comunicazioni; ricognizione ter­restre, marittima o aerea; operazioni di volo di ogni tipo, con o senza equi­paggio (droni); supporto logistico, materiale e tecnico; sorveglianza sa­tellitare, qualsiasi genere di trasferi­mento di conoscenze con applicazio­ni militari o di polizia; sorveglianza armata o protezione di edifici, instal­lazioni, proprietà e persone; combat­timento e sicurezza nelle zone di conflitto.

Sempre più, nelle analisi critiche, viene a cadere anche la distinzione tra ‘funzioni passive’ di difesa/protezione e ‘funzioni attive’ di combatti­mento offensivo sul campo: perché le prime possono trasformarsi nelle seconde al rapido mutare della situa­zione sul terreno (la protezione di un sito o un convoglio diventa azione offensiva non appena viene attacca­to), ma soprattutto perché attività come consulenza e addestramento dei soldati influiscono sostanzialmen­te sulle loro capacità in battaglia; co­sì come intelligence, sorveglianza, o­perazioni di volo sempre più con droni intervengono attivamente ne­gli scontri armati, modificandoli; e non si può definire estraneo al com­battimento nemmeno il supporto lo­gistico. Ogni funzione insomma, in una situazione di conflitto, sostiene e concorre alla guerra, anche se non preme il grilletto.

Le PMSC sono società commer­ciali private come ogni altra: sono re­golarmente inscritte nel Registro del­le Imprese dei Paesi dove hanno la sede legale e/o operativa, sono quo­tate in Borsa, hanno una struttura organizzativa tipicamente aziendale, sono finalizzate al profitto e compe­tono apertamente fra loro sul merca­to internazionale per aggiudicarsi le gare d’appalto indette da Stati, istitu­zioni e organizzazioni di vario tipo, pubbliche o private, come ONU, Unione europea, Ong o associazioni umanitarie, nonché imprese spes­so minerarie ed estrattive, ma non solo. Possono essere multinazionali e avere la sede in paradisi fiscali e, a loro volta, subappaltare servizi ad altre società. Attingono a un baci­no di reclutamento tramite database di professionisti (generalmente ex militari) disponibili a chiamata e of­frono contratti individuali di breve o lunga durata e ben pagati i numeri sono riservati, ma pare che le retri­buzioni superino da due a dieci volte quelle delle forze armate: un dato che spesso provoca la fuoriuscita di soldati e ufficiali dal pubblico a favo­re del privato. Muovendosi in tal mo­do, sono in grado di mettere insieme squadre operative in breve tempo.

 

È il business, bellezza!

Nel 2021 il mercato mondiale dei ser­vizi militari e di sicurezza ha raggiun­to 241,7 miliardi di dollari; si preve­de che arriverà a quota 366,8 miliar­di entro il 2028, a un tasso di crescita annuo del 7,2%. Gli analisti indivi­duano nella lotta al terrorismo sia in­terno che esterno, nelle tensioni geo­politiche tra USA, Europa, Cina e Rus­sia e negli appalti già pianificati per l’ammodernamento delle forze ar­mate, un grande potenziale di cresci­ta (7). Dall’altra parte, il pubblico con­tinua a retrocedere. Non si può certo affermare che viviamo in un’epoca pacificata, eppure il numero globale di militari effettivi persiste nella di­minuzione. L’ultimo report USA del 2021 riporta i dati del 2019: sono 20,4 milioni (8) (erano 28,7 milioni nel 1988 e 22,3 nel 1997, come ab­biamo visto).

Non ha alcun senso dare la caccia ai più cattivi, sia in termini di aziende che di Stati: tutte le principali azien­de si equivalgono, offrendo i medesi­mi servizi, e tutti gli Stati le utilizza­no. Con poco timore di essere smen­titi, si può dichiarare che non c’è oggi terreno che si tratti di guerra aperta, di conflitto a bassa intensità o di situazione di rischio che non veda qualche PMSC in azione. Di fat­to impossibile avere i numeri che possano tracciare un quadro com­plessivo: i contratti di appalto sono confidenziali, in nome della sicurez­za. Sappiamo dalle cronache locali che i privati sono presenti in Yemen, Libia, Siria, Bielorussia, Afghanistan e Ucraina e sono stati determinanti nel conflitto del Nagorno-Karabakh. So­no attivi anche nelle guerre dei car­telli in Messico e nel Golfo di Aden contro la pirateria. Il gruppo Wagner, collegato agli interessi russi, è in U­craina, Africa, Medio Oriente e Ame­rica Latina e il settore è in crescita anche in Cina. Ci sono poi aziende che lavorano per gruppi considerati terroristi, come Malharma Tactical, una PMSC con sede in Uzbekistan che si rivolge esclusivamente agli estre­misti jihadisti (9).

I gruppi societari maggiori resta­no quelli statunitensi e britannici, che hanno inaugurato il settore Constellis, di cui fa parte Academi (ex Blackwater, nota per il massacro di Nisour Square in Iraq, nel 2007: 17 morti e 20 feriti, tutti civili), G4S, DynCorp, Military Professional Re­sources (MPRI), Erinys International, Allied Universal, Aegis Defense Servi­ces ma aumentano le società in Israele, Sudafrica e Colombia terra di mercenari addestrati dagli Stati Uniti ai tempi della guerra al narco­traffico: oggi i colombiani sono rite­nuti professionalmente preparati ed economicamente convenienti rispet­to alle PMSC nordamericane, e han­no il pregio di essere numerosi: la maggior parte di loro proviene dalla fascia più povera della popolazione, con ben poche prospettive sociali ed economiche (10).

Se vogliamo qualche numero dob­biamo andare indietro nel tempo: a distanza di anni, sappiamo qualcosa sulle guerre in Iraq e Afghanistan re­lativamente agli Stati Uniti. Nel pri­mo conflitto il picco è stato nel 2008: 160.000 contractor ingaggiati, in un rapporto di 1 a 1 con le forze arma­te. Nel secondo il livello massimo si è toccato nel 2012: c’erano più privati che truppe regolari: quasi 114.000 contractor contro 85.600 soldati, il 57% (11). Tra il 2003 e il 2016 il Di­partimento di Stato USA ha speso 196 miliardi di dollari in appalti a PMSC per la guerra in Iraq (12), e 108 mi­liardi per quella in Afghanistan tra il 2007 e il 2016 (13). Denaro pubblico con cui le Private Military and Security Companies hanno fatto profitti, facendo la guerra.

 

Forze armate vs contractor

I sostenitori delle PMSC elencano una serie di caratteristiche che le rende­rebbero la scelta migliore da parte degli Stati. Il generale Fabio Mini ha lo sguardo pragmatico di chi la guer­ra la conosce per esperienza diretta, e dunque ci offre un’analisi partico­larmente utile sui singoli punti (14).

Flessibilità. È indubbia. Le azien­de private tendono ad assumere qual­siasi tipo di incarico e spesso firmano i contratti senza avere a portata di mano ciò che è necessario. “La rego­la generale è: tu chiedi e noi fornia­mo. Qualunque cosa possa essere”.

Competenza. Le società rivendi­cano maggiore qualità operativa ri­spetto alle forze armate e affermano di avere ereditato dal settore pubbli­co un immenso patrimonio di cono­scenze, tecnologie e formazione. “Se è vero, oltre ad aver perso quel pa­trimonio ora lo Stato deve pagare per averlo” afferma Mini; “se non è vero, le PMSC guadagnano un sacco di soldi per niente o per qualcosa già disponibile a livello pubblico”.

Convenienza economica. La pre­sunta economicità del settore priva­to è controversa e deve ancora esse­re dimostrata. Il servizio di per sé può essere più vantaggioso, se non si conta che lo Stato ha già sostenuto le spese per la formazione dei milita­ri, e l’evasione e l’elusione fiscale che la maggior parte delle PMSC realizza insediandosi nei paradisi fiscali.

Professionalità. Le PMSC attirano anche personale inesperto con grave instabilità psicologica. “Il processo di selezione è normalmente molto rigo­roso, tuttavia per le competenze re­lative a compiti violenti o altamente tecnici nonché a lavori banali, gli standard non sono stabiliti secondo requisiti etici” scrive Mini. E conti­nua: “Il fatto è che soldati normali e ben addestrati, che mantengono il loro equilibrio psicologico dentro e fuori dal servizio, sono difficili da ot­tenere, e quelli che lo hanno perso rappresentano un grande rischio. Quando le società private offrono davvero personale di alta qualità è perché hanno assunto professionisti militari, di sicurezza o d’élite di alta qualità. Questi individui vengono sot­tratti al circuito istituzionale e quindi per la collettività non sono un gua­dagno, ma una perdita”.

Esiste tuttavia una caratteristica su cui tutti concordano, annoveran­dola tra i punti che più fanno pende­re l’ago della bilancia a favore dei privati: le PMSC limitano o addirit­tura eliminano i costi politici della guerra: del dispiegamento di soldati all’estero, dei morti e dei feriti e dei funerali di Stato in televisione, delle eventuali accuse di abusi, irregolarità e violazione dei diritti umani. Con­sentono dunque anche di aumentare il numero di missioni militari e di al­zare l’asticella del grado di rischio che un Paese è disposto ad affronta­re. Lo stesso Mini riconosce che la “nebbia legale” nella quale le PMSC si muovono e che vedremo è sta­ta accolta con favore da chi affida loro gli appalti, siano governi o orga­nizzazioni internazionali, e “da molti comandanti militari che preferirebbe­ro trattare con società private non re­golamentate piuttosto che confron­tarsi con la varietà di vincoli legali e operativi sull’uso dei propri soldati. In un ciclo perverso, la mancanza di regolamentazione promuove un’ul­teriore espansione delle operazioni non regolamentate”.

 

Il monopolio della forza

Sappiamo che nel pensiero liberale, da Hobbes in poi, il contrattualismo ha affidato allo Stato il monopolio della forza. Che lo stato di natura dal quale gli uomini dovevano uscire fos­se considerato violento o pacifico, a seconda dei diversi pensatori, lo Sta­to moderno nasce come istituzione astratta, creata dall’Uomo e basata sul consenso. Nello Stato di diritto, la forza diviene legittima discostan­dosi quindi dalla violenza, per quan­to di violenza continui a trattarsi perché autorizzata da una norma: tutti i poteri anche quello deputato all’uso della forza sono sottoposti al rispetto della legge. La violenza privata cede quindi il passo alla for­za pubblica. Lo Stato costituzionale vede poi l’unione della forza e della giustizia: l’esercizio della prima deve essere finalizzato esclusivamente al­l’affermazione della seconda, scritta nei diritti e nelle libertà della Carta fondativa dello Stato.

Via via stratificandosi, il concetto di Stato moderno è dunque giunto fino a noi, ponendo alcune fonda­menta indiscutibili: la forza è esclusi­vamente pubblica, la violenza privata è sempre unicamente violenza.

Non è un cavillo in punta di dirit­to, come può sembrare. Perché se ci muoviamo all’interno dei confini trac­ciati dal contrattualismo, quella che le Private Military and Security Companies esercitano è una forma priva­ta di violenza organizzata, agita al fine di trarre un profitto economico: in uno Stato di diritto non è consen­tita, è un reato. Oltretutto, se la sicu­rezza di un cittadino non è più garan­tita da istituzioni pubbliche forze armate e polizia ma da aziende pri­vate, non si configura più come un diritto: divenendo merce, come ab­biamo visto, si trasforma concettual­mente in qualcosa disponibile solo a chi abbia denaro per acquistarla. O a chiunque abbia denaro per acqui­starla come le società minerarie ed estrattive. Le basi teoriche utilizzate fino a oggi ne escono stravolte e svuotate.

Certo, se usciamo dal pensiero li­berale e adottiamo lo sguardo di Marx, l’aporia si sana. Per Marx lo Stato è borghese. Non è affatto quel­l’istituzione neutrale legittimata a esercitare la forza in quanto afferma­zione della giustizia, ma la sovra­struttura che favorisce e protegge gli interessi della borghesia, ossia del Capitale; ed esercita violenza, che è violenza di classe. Davanti alle PMSC, questa lettura mantiene logica e coerenza: il neoliberismo inaugurato negli anni ‘90 ha smantellato il mo­nopolio della violenza dello Stato aprendo il ‘settore’ al libero mercato, di modo che il capitalismo ne potes­se trarre profitti.

Il diritto internazionale umanitario La prima definizione di ‘mercenario’ è del 1977 ed è contenuta nell’art. 47 del I Protocollo aggiuntivo alle Convenzioni di Ginevra del 1949, con­siderate la base del diritto interna­zionale umanitario (15). Mercenario è colui che: a) sia appositamente re­clutato, localmente o all’estero, per combattere in un conflitto armato; b) di fatto prenda parte diretta alle ostilità; c) prenda parte alle ostilità spinto dal desiderio di ottenere un profitto personale, e al quale sia sta­to effettivamente promesso, da una Parte in conflitto o a suo nome, una remunerazione materiale nettamen­te superiore a quella promessa o cor­risposta ai combattenti aventi rango e funzioni similari nelle forze armate di detta Parte; d) non sia cittadino di una Parte in conflitto, né residente di un territorio controllato da una Parte in conflitto; e) non sia membro delle forze armate di una Parte in conflit­to; f) non sia stato inviato da uno Stato non Parte nel conflitto in mis­sione ufficiale quale membro delle forze armate di detto Stato. Queste sei caratteristiche sono cumulative: tutte devono essere soddisfatte.

È immediatamente evidente che la definizione non può essere appli­cata al personale di una PMSC, il qua­le può non avere direttamente un ruolo attivo nel combattimento ma funzioni di logistica, addestramento, intelligence ecc.; oppure può essere di nazionalità di una parte in conflit­to (come i contractor statunitensi nel­la guerra USA in Afghanistan e Iraq); dimostrare poi che la retribuzione sia “nettamente superiore” è praticamen­te impossibile, vista la riservatezza dei contratti; infine, è sufficiente in­corporare i contractor nelle forze ar­mate, limitatamente al tempo del conflitto, per escluderli dalla catego­ria del mercenario. Oltretutto, il Pro­tocollo si applica ai soli conflitti ar­mati internazionali e non vieta il mer­cenarismo: il suo obiettivo è negare alla figura del mercenario lo status di combattente e di prigioniero di guer­ra che certo non è un dettaglio da poco: traccia la separazione tra mili­tare e civile, con tutto ciò che ne con­segue in termini di diritto internazio­nale umanitario e di giurisdizione.

Per la criminalizzazione occorre aspettare la “Convenzione interna­zionale contro il reclutamento, l’uso, il finanziamento e l’addestramento dei mercenari”, adottata dall’ONU nel 1989 (16). Come esplicitato nel titolo stesso, considera reato non solo il mercenarismo in sé ma tutte le atti­vità collegate (reclutamento, uso, fi­nanziamento e addestramento); si ap­plica inoltre non solo a un conflitto armato internazionale ma “in ogni altra situazione”, e obbliga gli Stati firmatari a perseguire o estradare i presunti autori dei reati. È indubbia­mente un passo avanti anche se non è stato creato alcun organismo internazionale con il compito di mo­nitorare, controllare e guidare l’at­tuazione della Convenzione ma di contro la definizione di mercenario sostanzialmente ricalca quella del Pro­tocollo del 1977: l’attività delle PMSC e dei contractor non può quindi es­sere qualificata come reato.

A livello regionale, nel 1977 vede la luce la “Convenzione per l’elimina­zione del mercenarismo in Africa” redatta dall’Organizzazione per l’Uni­tà Africana (oggi Unione Africana) (17). Segnati fortemente dall’uso dei mercenari sul proprio territorio nella fase di decolonizzazione, come ab­biamo visto, i Paesi del continente a­fricano pongono particolare atten­zione al mercenarismo e lo crimina­lizzano nello stesso anno in cui il I Protocollo delle Convenzioni di Gine­vra si limita a connotarlo. Tuttavia ne incorporano la definizione con solo una modifica al punto c): deve esser­ci compenso materiale ma non ne­cessariamente “nettamente superio­re” a quello delle forze armate. An­che questo trattato internazionale quindi non può essere applicato al personale delle PMSC.

Nulla più. Qui termina il diritto inter­nazionale umanitario relativo al mer­cenarismo. I suoi limiti sono eviden­ti, dovuti principalmente all’epoca in cui è stato scritto: gli anni ‘70 e ‘80. È chiaro che i contractor delle PMSC nate negli anni ‘90 sono mercenari, ma sfuggono a una regolamentazio­ne che risulta datata. Anche se, di fatto, nemmeno i mercenari tradizio­nali sono stati messi al bando, per­ché la Convenzione del 1989 che li criminalizza è stata ratificata da ap­pena 36 Paesi su 193 e da nessuno dei cinque membri permanenti del Consiglio di sicurezza dell’ONU e quella regionale dell’organizzazione per l’Unità Africana da 30 Stati su 55.

In un blando quanto inconsisten­te tentativo di legittimarsi, PMSC, Stati e organizzazioni varie hanno sti­lato linee guida, codici di condotta e standard globali che richiamano il ri­spetto del diritto internazionale uma­nitario e dei diritti umani Voluntary Principles on Security and Human Rights (2000), Montreux Document (2008), International Code of Conduct for Security Service Providers (ICOC, 2010) ma si tratta di soft law, di auto-regolamentazione non vincolante.

La mancanza di un diritto inter­nazionale pone le PMSC sotto la giu­risdizione delle sole leggi nazionali, con quel che ne consegue: data la struttura sovrastatale, le aziende han­no gioco facile a impiantare le pro­prie sedi in Paesi che hanno vincoli legali meno stringenti, o disposti a non volerle perseguire in caso di vio­lazioni. La Relazione del 2021 del Gruppo di Lavoro dell’ONU (18) de­nuncia la “carenza di informazioni pubbliche sui dettagli operativi e sui contratti di queste società con i loro clienti, che rimangono riservati”; la “mancanza di chiarezza in merito alle gerarchie contrattuali, alle strutture aziendali e ai rapporti tra società madri, filiali e subappaltatori”; il fat­to che “queste società vengono spes­so costituite, sciolte, fuse e trasferite o operano attraverso più filiali: ciò è associato a molteplici livelli contrat­tuali e assicurativi in tutte le giurisdi­zioni, il che complica ulteriormente l’accertamento a quale livello dovreb­be ricadere la responsabilità quando si verificano violazioni dei diritti uma­ni”. È la stessa natura aziendale delle PMSC a rendere difficoltosa la rico­struzione della responsabilità: “L’o­pacità che circonda le condizioni in cui il personale è schierato, compresi i meccanismi di comando e controllo applicabili, oscura l’attribuzione di re­sponsabilità e ha consentito a tali at­tori di operare con apparente impu­nità”.

L’approfondimento del Gruppo di Lavoro del 2020 (19) ha stabilito che “sebbene la maggior parte degli Stati disponga di sistemi per il monitorag­gio delle PMSC che operano nel loro territorio, questi sistemi spesso non si estendono alle attività all’estero; mentre i processi di monitoraggio in­terno non riguardano generalmente il rispetto dei diritti umani e del dirit­to umanitario internazionale ma ten­dono piuttosto a concentrarsi sulle violazioni di ‘attività consentite, li­cenze, autorizzazioni, assunzioni e al­tri processi amministrativi’, con con­seguenti possibili sanzioni ammini­strative”. Oltretutto, “il perseguimen­to del personale PMSC dinanzi ai tri­bunali nazionali è impegnativo, a causa di fattori quali la giurisdizione, la raccolta e la conservazione delle prove, lo svolgimento di indagini nei territori d’oltremare, la volontà degli Stati di perseguire tali casi e il trasfe­rimento del personale”.

Senza contare che la riservatezza dei contratti può servire intenzional­mente a nascondere il coinvolgimen­to di un Paese in un conflitto, per­mettendogli di eludere le sue respon­sabilità in caso di violazione del dirit­to internazionale: “I rapporti condivi­si suggeriscono che, in alcuni casi, ciò viene fatto proprio con l’obiettivo infausto di fornire una ‘negabilità plausibile’”. Mentre “il Gruppo di La­voro continua a ricevere informazio­ni sul personale militare e di sicurez­za privato che sarebbe stato coinvol­to in violazioni dei diritti umani, comprese sparizioni forzate, esecu­zioni sommarie, uccisioni indiscrimi­nate, sfruttamento e abuso sessuale” (20).

 

L’ONU e la privatizzazione della pace

La relazione del Gruppo di Lavoro al­l’Assemblea Generale del 2014 (21) è focalizzata sull’utilizzo da parte dell’ONU delle PMSC, nelle operazioni di peacekeeping. I contractor assol­vono principalmente a compiti di protezione delle sedi, dei convogli e del personale dell’organizzazione; a training, consulenza e analisi del ri­schio; forniscono equipaggiamento militare e relativa manutenzione (eli­cotteri, veicoli ecc. comprensivi di autisti), attività di sminamento, co­municazioni e logistica. Tra le prime e più note missioni quella in Bosnia nel 1992, dove l’ONU ha ingaggiato quattro aziende con contratti che hanno coinvolto circa 2.000 contrac­tor per quattro anni.

Anche per le Nazioni Unite tutto comincia negli anni ‘90, e ricalca il percorso degli Stati. Sempre più spes­so il Paese ospitante la missione non è in grado di garantire la sicurezza al personale dell’ONU; in seconda bat­tuta, gli Stati vengono meno all’obbligo di mettere a disposizione mili­tari delle proprie forze armate per consentire l’operatività delle missio­ni; infine, la mancanza di capacità in­terna dell’organizzazione stessa: da una parte i Paesi si oppongono all’au­mento del personale, principalmente per ragioni finanziarie, dall’altra quel­lo esistente non è adeguatamente formato, difficile da ridistribuire tra le varie sedi, privo di una ‘unità di comando’ unica interna e, non ulti­mo, economicamente costoso.

Di nuovo, conoscere i dati per a­vere un quadro non è facile. Tra l’al­tro, i contractor si possono trovare anche tra le fila del contingente mes­so a disposizione dagli Stati, che in missione inviano i privati anziché le proprie forze armate. Lo stesso Grup­po di Lavoro denuncia la mancanza di pubblicità e trasparenza dei con­tratti, lamentando il fatto che otte­nere qualche numero dal Diparti­mento ONU per la Sicurezza e la Pro­tezione è stato un “compito impe­gnativo”. Sappiamo così che nel mag­gio 2014 le Nazioni Unite utilizzava­no circa 30 aziende private, tra ope­razioni di peacekeeping e missioni po­litiche; ipotizziamo che i numeri non possano essere che aumentati.

Ovviamente, il tema del rispetto del diritto internazionale e dei diritti umani si pone ancor più prepotente­mente quando le PMSC si muovono in missioni di peacekeeping sotto la bandiera delle Nazioni Unite; e regi­stra enormi deficit. La Relazione de­nuncia la mancanza di controllo da parte dell’ONU di ciò che avviene sul campo: spesso le PMSC ingaggiano personale locale, e si verificano casi come quello in Somalia nel 2012: “Il Gruppo di Lavoro è stato informato che diversi fornitori di servizi di sicu­rezza locali erano milizie basate su clan, che operavano dietro una fac­ciata corporativa al fine di nasconde­re il coinvolgimento di singoli signori della guerra. [...] quando si stipulano accordi per la fornitura di sicurezza privata questo modello è stato ri­scontrato in altri Paesi, incluso, im­plicitamente, il rischio di essere visti come parziali ostacolando la perce­zione dell’indipendenza e dell’impar­zialità delle Nazioni Unite agli occhi delle popolazioni locali”.

Priva di una regolamentazione in­ternazionale, anche l’ONU ha fissato policy e linee guida per l’utilizzo del­le PMSC, nel 2012; ma siamo al pun­to che “è opinione del Gruppo di La­voro che le linee guida non affronti­no la questione della responsabilità in caso di violazioni dei diritti umani commesse da società militari e di si­curezza private”, non prevedendo “in­dagini penali, cause civili e/o interdi­zioni” nei confronti delle aziende né la “pubblicazione di queste informa­zioni, ove possibile”. Senza tenere conto che “un’ulteriore preoccupa­zione per l’uso di società militari e di sicurezza private nelle operazioni di pace è che sono entità guidate dal mercato e la continua instabilità so­stiene il settore. Ciò lascia aperte do­mande sugli interessi di queste so­cietà private nei risultati del proces­so di pace” (22).

Esiste infine un altro aspetto, più nascosto ma tutt’altro che seconda­rio. La crescente dipendenza dalla si­curezza privata porta a un ruolo si­gnificativo delle PMSC nel plasmare sia la ‘politica di protezione’ delle missioni umanitarie comprese quel­le di Ong e organizzazioni varie che le ‘politiche di sicurezza’ dell’ONU: lo spazio umanitario è trattato come carico di minacce, e la concettualiz­zazione dei problemi di sicurezza in­fluenza e ridefinisce direttamente l’ambiente in cui le missioni interven­gono.

 

La resa

Nel 2010 il Gruppo di Lavoro ha pre­sentato una proposta di regolamen­tazione delle PMSC, sulla quale il Consiglio per i Diritti Umani tuttora discute (23). Tra gli aspetti più rile­vanti la rivendicazione del monopo­lio della forza dello Stato: “Ci sono funzioni coerenti con il principio del monopolio statale dell’uso legittimo della forza che uno Stato non può esternalizzare o delegare alle PMSC, in nessun caso. Tra queste vi sono: la diretta partecipazione alle ostilità, allo svolgimento di operazioni di guerra e/o di combattimento; alla cattura di prigionieri, all’elaborazio­ne di leggi, allo spionaggio, all’intelligence, al trasferimento di conoscen­ze con applicazioni militari, di sicu­rezza e di polizia; l’uso e attività cor­relate alle armi di distruzione di mas­sa; l’uso e attività correlate ai poteri di polizia, in particolare i poteri di ar­resto o di detenzione, compreso l’in­terrogatorio dei prigionieri”. Include poi prescrizioni che obbligano i Paesi a uno stretto controllo sulle PMSC (registro, licenze, monitoraggio dell’import/export di servizi militari e di sicurezza, training sul diritto interna­zionale umanitario e norme sull’uso della forza e delle armi da fuoco), e l’adozione di una legislazione che ga­rantisca la punibilità del personale delle società per le violazioni del di­ritto internazionale e dei diritti uma­ni.

È facilmente ipotizzabile che la proposta non diverrà diritto interna­zionale, o se accadrà, sarà ratificata da ancora meno Paesi della Conven­zione del 1989, che vietava l’uso del mercenarismo. Le ragioni sono evi­denti: diversi Stati su tutti USA e Gran Bretagna hanno smantellato intere funzioni all’interno delle forze armate, e si ritiene che ormai non potrebbero combattere una guerra senza le aziende private (24). Nessu­no può dunque permettersi di crimi­nalizzare l’attività delle PMSC.

Proprio per questo, a ben vedere, la regolamentazione avanzata delu­de. Persa per persa, il Gruppo di La­voro dell’ONU poteva permettersi maggiore coerenza e onestà intellet­tuale. Perché se la proposta è positi­va in ottica liberale nel rimettere al centro la questione del monopolio statale della forza, tuttavia si inseri­sce nell’aleatoria distinzione tra fun­zioni attive (combattimento offensi­vo) e funzioni passive (difesa/protezione), vietando l’esternalizzazione delle prime e consentendo quella delle seconde quando abbiamo vi­sto come ogni attività contribuisca alla guerra, dall’addestramento alla logistica, dalla comunicazione al pilo­taggio dei droni da ricognizione. Non solo. C’è un aspetto forse ancora più fondamentale. Se regolamentare le PMSC è preferibile al vuoto legale nel quale operano da trent’anni, è anche vero che significa legittimarle. Significa legalizzare un settore che ha tutta la convenienza ad alimenta­re i conflitti e l’insicurezza; in grado di moltiplicarli offrendo i propri ser­vizi a chi ha denaro per comprarli. Si­gnifica accettare la trasformazione in merce di un ‘bene pubblico’, ac­cettare l’entrata della guerra e del­le missioni di peacekeeping nel libe­ro mercato dei profitti. È una resa all’esistente invece di una caparbia resistenza contro ogni conflitto.


* Una versione di questo articolo è stata pubblicata nel 20° Rapporto sui diritti globali 2022, a cura di Associazione Società Informazione Onlus

Note
1 UN Working Group, Statement by the UN Working Group on the use of mercenaries warns about the dangers of the growing use of mercenaries around the globehttps://www.ohchr.org/en/statements/2022/03/statement-un-working-group-use-merce- naries-warns-about-dangers-growing-use, 4 marzo 2022
2 Cfr. UN Working Group, Mercenarism and Private Military and Security Companies, apri­le 2018
3 Cfr. Nihal El Mquirmi, Private Military and Security Companies: A New Form of Mercena­rism? /Presence of Foreign Fighters: Concessions forSecurity?, in Policy Center for the New South, febbraio/marzo 2022
4 Cfr. Fabio Mini, An Analysis of Private Military and Security Companies, in European Uni­versity Institute, luglio 2010
5 Cfr. U.S Department of State, Bureau of Verification and Compliance, World Military Expenditures and Arms Transfers 1998 (WMEAT), https://2009-2017.state.gov/documents/orga- nization/110701.pdf, aprile 2000
6 UN Working Group, Report of the Working Group on the use of mercenaries as a means of violating human rights and impeding the exercise of the right of peoples to self-determination, 5 luglio 2010
7 Cfr. Vantage Market Reasearch, Private Military Security Services Market, https://www.- vantagemarketresearch.com/industry-report/private-military-security-services-market1578, maggio 2022
8 Cfr. U.S Department of State, Bureau of Verification and Compliance, World Military Expenditures and Arms Transfers 2021 (WMEAT), https://www.state.gov/world-military-ex- penditures-and-arms-transfers-2021-edition/, 30 dicembre 2021
9 Cfr. Matthew Sutherland, Market for Force: The Emerging Role of Private Military and Security Companies, in Security Distillery, 17 marzo 2021
10 Cfr. Pietro Orizio, L’assassinio di Jovenel Moise ed il “business” dei golpe improvvisati in America Latina, in Analisi Difesa, https://www.analisidifesa.it/2021/09/lassassinio-di-jove- nel-moise-ed-il-business-dei-golpe-improvvisati-in-america-latina/, 21 settembre 2021
11 Cfr. US Congressional Research Service, Department of Defense. Contractor and Troop Levels in Iraq and Afghanistan: 2007-2017, 28 aprile 2017
12 Cfr. US Congressional Budget Office, Contractors’ Support of US Operations in Iraq, ago­sto 2008 e USA Congressional Research Service, Department of Defense. Contractor and Troop Levels in Iraq and Afghanistan: 2007-2017, 28 aprile 2017
13 Cfr. US Congressional Research Service, Department of Defense. Contractor and Troop Levels in Iraq and Afghanistan: 2007-2017, 28 aprile 2017
14 Fabio Mini, op. cit.
15 Cfr. Convenzioni di Ginevra, Protocollo aggiuntivo alle Convenzioni di Ginevra del 12 agosto 1949 relativo alla protezione delle vittime dei conflitti armati internazionali, 1977
16 Cfr. ONU, Convenzione internazionale contro il reclutamento, l’uso, il finanziamento e l’addestramento dei mercenari, 1989
17 Cfr. Organizzazione per l’Unità Africana, Convenzione per l’eliminazione del mercenari­smo in Africa, 1977
18 UN Working Group, Impact of the use of private military and security services in humanitarian action, 2 luglio 2021
19 UN Working Group, Use of mercenaries as a means of violating human rights and impeding the exercise of the right of peoples to self-determination, 28 luglio 2020
20 UN Working Group 2021, op. cit.
21 Cfr. UN Working Group, Use of mercenaries as a means of violating human rights and impeding the exercise of the right of peoples to self-determination, 21 agosto 2014
22 UN Working Group 2021, op. cit.
23 Cfr. UN Working Group 2010, op. cit.
24 Cfr. Fabio Mini, op. cit.

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