Giovanni Arrighi, dalla critica dell’imperialismo alla teoria dell’egemonia1
gen 28th, 2023 | Di Thomas Munzner | Categoria: Teoria e criticaGiovanni Arrighi, dalla critica dell’imperialismo alla teoria dell’egemonia1
di Giulio Azzolini*
Da Materialismo Storico, Rivista Di Filosofia, Storia E Scienze Umane, V. 13 N. 2 (2022)
1. La critica all’imperialismo (1963-1969)
Tra il 1963 e il 1969 Arrighi è in Africa, dove insegna prima all’Università di Harare, allora Rhodesia oggi Zimbabwe, e poi all’Università di Dar es Salaam, in Tanzania. L’Africa subsahariana è in bilico tra decolonizzazione e neocolonialismo. E lui lavora su due piani, scientifico e politico, come attesta il suo primo libro, Sviluppo economico e sovrastrutture in Africa, che, pubblicato nel 1969 per la serie viola di Einaudi, raccoglie tutti i suoi primi saggi di africanista.
Arrighi, nato a Milano nel 1937, aveva studiato economia alla Bocconi, formandosi in un ambiente improntato alle dottrine neoclassiche, sordo al keynesismo e tanto più al marxismo. Ma Veconomics gli parve da subito inadeguata ad affrontare il problema economico-politico che l’Africa gli spalancò sotto gli occhi: le disuguaglianze indotte dall’estensione del capitalismo o, per usare la formula coniata all’epoca da Andre Gunder Frank, la «sviluppo del sottosviluppo»2. In altre parole, il giovane Arrighi è impegnato nella critica al neoimperialismo, inteso, secondo l’indicazione di Paul Sweezy, non tanto come ampliamento del mercato aperto alle merci prodotte dagli Stati dominanti, bensì come rafforzamento degli investimenti diretti all’estero da parte delle corporations legate alla potenza statunitense.
Ma il periodo africano è determinante anche per la formazione politica e personale di Arrighi. Nato in una famiglia borghese antifascista, egli partecipa alle lotte di liberazione nazionale, lotte che nel 1966 gli costano il carcere e l’espulsione dalla Rhodesia. A quella fase risale inoltre l’amicizia con esponenti di rilievo della New Left, come Samir Amin, Immanuel Wallerstein, Walter Rodney e John Saul.
2. L’uso politico di Gramsci (1971-1973)
Nel 1969 Arrighi rientra in Italia, per insegnare alla Facoltà di Sociologia di Trento, allora cuore pulsante della contestazione studentesca. Non taglia però i ponti con la sua città natale, Milano, che diventa il centro del suo impegno politico. Nel 1971 aderisce al Gruppo Gramsci, un’organizzazione della sinistra extraparlamentare fondata da Romano Madera, dopo la scissione del movimento studentesco milanese e la crisi del Partito Comunista d’Italia (marxista-leninista)3.
Il Gruppo Gramsci è un esperimento piuttosto originale: quello di un soggetto rivoluzionario che si colloca per così dire “all’estrema destra dell’estrema sinistra”, assumendo come punto di riferimento l’autore emblematico del Partito Comunista Italiano. Il pensiero gramsciano – questa è l’intuizione di partenza del Gruppo – non va considerato patrimonio esclusivo del partito di Berlinguer. Va indagato, valorizzando e combinando in special modo tre idee: quella di autonomia, lemma legato al Gramsci soviettista e parola chiave dell’epoca, e quelle di educazione e traducibilità, termini sviluppati soprattutto nei Quaderni del carcere e allora sospetti nell’ambiente della sinistra radicale. In estrema sintesi, il Gruppo Gramsci si caratterizza rispetto agli altri gruppi che insieme compongono la variegata galassia della sinistra rivoluzionaria per una peculiare concezione della soggettività, della cultura e della storicità.
Stretto è innanzitutto il nesso tra autonomia e pedagogia. Secondo il Gruppo Gramsci, lo spontaneismo di Lotta continua e l’operaismo di Potere operaio celavano entrambi la pretesa di “essere la testa” delle masse, provocando così una situazione in cui l’autonomia della soggettività operaia risultava scissa e subordinata alla cultura politica e alle sue ingenue pretese avanguardistiche. In modo esattamente speculare, il Movimento studentesco e Avanguardia operaia, proponendo di “mettersi alla testa” delle masse, conferivano il primato al momento dell’autonomia, eccessivamente separato dal momento dell’educazione. Ebbene, il Gruppo Gramsci riteneva che fosse essenziale stabilire un legame tanto organico quanto equilibrato tra autonomia e pedagogia, tra soggettività e cultura. Detto altrimenti, il loro proposito consisteva nel “formare la testa” delle masse operaie4. Ed è esattamente in questa prospettiva che il Gruppo Gramsci lavora insieme alla sinistra sindacale.
Un altro motivo di originalità del Gruppo Gramsci è l’idea di traducibilità, intesa in senso prettamente politico. La tesi del Gruppo è che la “guerra manovrata”, in Occidente, debba lasciare il posto alla “guerra di posizione”. Sia chiaro: il Gruppo Gramsci resta un gruppo rivoluzionario. Il Pei è oggetto di una polemica asperrima – per essersi piegato al compromesso consociativo e per aver rinunciato alla spinta rivoluzionaria – ma viene sfidato non solo sul terreno ideale bensì anche sul terreno programmatico. Un riformismo radicale avrebbe dovuto fungere da base anche per un nuovo rapporto con gli altri movimenti della sinistra extraparlamentare. Il proposito, senza dubbio velleitario, era quello di accantonare le divisioni ideologiche a vantaggio di un’unione programmatica. Ma le ideologie che Arrighi credeva di poter mettere da canto si riveleranno assai più rigide e consistenti di quanto sperava. E quando nel 1973 il Gruppo Gramsci si avvicina all’area autonoma guidata da Toni Negri5, Arrighi presagisce l’esito tragico del lungo Sessantotto italiano, abbandona la politica attiva e si trasferisce all’Università della Calabria. Da allora rimarrà sempre convinto che nel 1973 si chiude una fase storica, di lotte operaie e studentesche, ma anche e soprattutto di espansione materiale del capitalismo mondiale a guida statunitense.
3. La critica alle teorie dell’imperialismo (1969-1978)
Il periodo calabrese di Arrighi dura sei anni, dal 1973, in cui prosegue gli studi sui nessi tra proletarizzazione, conflitto e migrazione, ma soprattutto porta a termine una delle sue opere più importanti e oggi trascurate, La geometria dell’imperialismo, che esce nel 1978 da Feltrinelli e contemporaneamente in inglese da Verso. La scintilla era scoccata quasi dieci anni prima, nel 1969, in un seminario all’Università di Oxford, quando Arrighi si accorse che, a forza di riempire di “vino nuovo” le “bottiglie vecchie”, cioè dei contenuti più disparati le teorie del cosiddetto imperialismo, il dibattito era entrato in una condizione di grave confusione.
Di qui l’obiettivo del libro: non costruire una nuova teoria, con tanto di premesse, ipotesi e validazione empirica, ma ricostruire le teorie dell’imperialismo, e in particolare in quella di Lenin, analizzandone le premesse nascoste e chiarendo il suo rilievo storico.
Com’è noto, Lenin era convinto che l’imperialismo, come tendenza alla guerra tra Stati economicamente dominanti e politicamente rivali, rappresentasse lo stadio ultimo del capitalismo. Ebbene, nel 1977 Arrighi sostiene che il paradigma leniniano è ormai inservibile per intendere il ruolo di crescente supremazia economica e politica che gli Stati Uniti hanno assunto nel sistema internazionale dopo il 1945. Perché, da allora, il mercato capitalistico è stato riorganizzato e non vive una fase di anarchia e guerra.
Attraverso una raffinata analisi di John Hobson (che, insieme a Rudolf Hilferding, costitutiva la fonte principale di Lenin), La geometria dell’imperialismo si presenta come un breve trattato teorico, storico e comparativo.
Sul piano teorico, Arrighi si prefigge di decifrare la «struttura tipico- ideale» presupposta dalla nozione hobsoniana di imperialismo. E, a questo scopo, isola l’imperialismo in senso stretto, come espansione di uno Stato al di fuori del proprio territorio e di conseguenza, in un’epoca di nazionalismi, come crescente contrapposizione politica e militare tra le nazioni, da altre tipologie di relazioni internazionali: il colonialismo, come espansione della nazione al di là dei confini dello Stato di riferimento; l’impero formale, come ordine gerarchico tra Stati funzionale alla pace universale; e l’impero informale, che si prefigge di assicurare la pace attraverso l’interdipendenza economica tra le nazioni, a sua volta garantita da uno Stato prevalente.
Sul piano storico, Arrighi collega queste quattro tipologie alle vicende del Regno Unito, che tra Sei e Settecento vive la sua fase coloniale e di impero formale, che tra il 1830 e il 1870, grazie alle politiche liberoscam- biste, realizza il proprio impero informale e che infine, in ragione delle pressioni del capitale finanziario, sperimenta quella condizione imperialistica di anarchia, che culminerà nella Grande guerra.
Sul piano comparativo, Arrighi cerca di cogliere analogie e differenze tra la supremazia inglese e quella statunitense nel corso del Novecento. Secondo lui, gli Stati Uniti avrebbero replicato il percorso che va dal colonialismo all’impero formale (’50-’60) a quello informale. Tuttavia, l’impero informale americano degli anni Settanta si basa, non sul libero mercato, ma sulla libera impresa. L’instabilità, dunque, dipende più dall’in- gigantirsi di imprese multinazionali e poi transnazionali, che dalla progressiva autonomia di un capitale finanziario sovranazionale.
A questo punto dovrebbe essere chiaro quanto Arrighi esplicita nel 1983, nel Poscritto alla seconda edizione inglese: La geometria dell’imperialismo è essenzialmente «una prefazione a una teoria dell’egemonia mondiale»6. Sappiamo che, nella seconda metà degli anni Settanta, è rapido il passaggio dall’«età dell’oro» nella fortuna italiana di Gramsci (con l’edizione critica Gerratana nel 1975 e il convegno di Firenze e il seminario di Frattocchie nel 1977) alla cosiddetta «crisi del marxismo»7. Arrighi non segue questa traiettoria: come confessa nella Premessa scritta nel settembre 1977, diventa tuttavia «consapevole dell’incompatibilità di fondo delle regole del lavoro politico con quelle del lavoro scientifico»8.
Scottato dall’uso politico di Gramsci, egli non abbandona l’autore sardo, anzi. Ma d’ora in avanti il suo sarà un uso scientifico.
Prima negli anni Ottanta, e poi con crescente sicurezza negli anni Novanta e Duemila, Arrighi rielabora il concetto gramsciano di egemonia, che diventa uno strumento imprescindibile per la sua rappresentazione dell’età moderna. Un’operazione che compie negli Stati Uniti, poiché nel 1979 raggiunge Immanuel Wallerstein e Terence K. Hopkins al Fernand Braudel Center dell’università di Binghamton, a New York. Arrighi continua a leggere Gramsci, ormai però da studioso dei sistemi-mondo.
E probabilmente l’appartenenza a questa corrente teorica a spiegare come mai il contributo che Arrighi ha fornito agli studi gramsciani delle relazioni internazionali sia stato a lungo sottovalutato. Perché, mentre la scuola canadese di Robert Cox e Stephen Gill compie un lavoro pressoché tutto metodologico, volto a marcare un approccio dichiaratamente «gramsciano» nella teoria delle relazioni internazionali, Arrighi mette alla prova Gramsci, e rielabora alcune sue categorie per comprendere autonomamente la storia delle relazioni internazionali.
4. La teoria dell’ egemonia (1994-2007)
Nella sua più nota trilogia - Il lungo ventesimo secolo (1994, ma preparato sin dagli anni Ottanta), Caos e governo del mondo (1999, con Beverly Silver), Adam Smith a Pechino (2007) – Arrighi teorizza la storia globalizzante del capitalismo moderno come una successione di grandi cicli economico-politici, ciascuno guidato da una grande potenza, in grado di esercitare una egemonia mondiale e di sopportare conflitti interni ed esterni.
4.1 I cicli egemonici
Durante ogni «ciclo sistemico di accumulazione del capitale»9, una potenza egemonica diversa ha costituito di volta in volta il centro del sistema-mondo capitalistico, intorno al quale orbitavano una periferia e una semi-periferia composte da paesi più o meno subalterni.
Ciascun ciclo avrebbe conosciuto prima un’espansione materiale, con l’allargamento della produzione e del commercio, e poi una crisi di sovraccumulazione. Senonché, il centro del sistema-mondo capitalistico ha sempre risposto a quest’ultima con un’espansione finanziaria, capace di rilanciare sì l’accumulazione ma solo temporaneamente, fino a una crisi di sovrapproduzione, ogni volta preliminare a un riassetto politico ed economico generale. L’inizio delle espansioni finanziarie, dunque, ha storicamente coinciso con la crisi spia delle potenze egemoniche, mentre la loro fine con la crisi terminale di queste ultime.
Queste regolarità sono rinvenute da Arrighi in: un ciclo genovese-iberico, dal Quattrocento agli inizi del Seicento; un ciclo olandese, dalla fine del Cinquecento a buona parte del Settecento; un ciclo britannico, dalla seconda metà del Settecento agli inizi del Novecento; e in un ciclo statunitense, le cui premesse risalgono alla fine dell’ottocento e che nel primo trentennio del secondo dopoguerra raggiunge l’apice della propria espansione materiale. Le lotte di classe, la crescente competizione con Europa e Giappone e la difficoltà nel controllare i paesi della periferia accompagneranno una crisi di sovraccumulazione cui gli Stati Uniti risponderanno, a partire dagli anni Ottanta del Novecento, attraverso investimenti finanziari sempre più massicci, in cerca di rendimenti più immediatamente fruttuosi. L’espansione finanziaria avviata negli anni Ottanta e soprattutto Novanta del secolo scorso consente una momentanea ripresa dell’accumulazione, ma rappresenta al contempo il «segnale dell’autunno» del ciclo egemonico americano.
Tutte le fasi di transizione, dunque, hanno visto l’epicentro dell’accumulazione capitalistica dislocarsi in una diversa area geografica, in grado di promuovere una ulteriore fase di espansione materiale. E questo passaggio è stato ogni volta alimentato da un boom finanziario, durante il quale i capitali vengono trasferiti dai vecchi ai nuovi centri di accumulazione. Bisogna tenere a mente, però, che il caos può essere seguito dal consolidamento di un diverso ordine mondiale, ancorato a una nuova potenza egemonica, ma può anche non esserlo.
4.2 Le potenze egemoniche
Quando si parla di egemonia nella teoria delle relazioni internazionali, ci si riferisce generalmente ai rapporti tra Stati. Ebbene, l’eredità gramsciana e quella braudeliana portano Arrighi sia a pensare insieme ordine interstatale e sistema capitalistico, sia a fare attenzione, al di là degli Stati, a quelli che egli chiama «blocchi di agenti governativi e imprenditoriali»10 11. Blocchi che, legati a uno Stato territoriale, sono insieme “pubblici” e “privati”.
Nel tempo, le potenze egemoniche sarebbero diventate sempre più capaci sul piano militare, finanziario e politico, ma insieme sempre più fragili.
Ogni potenza egemonica ha compiuto un passo in avanti nel processo di internalizzazione dei costi. Le Province Unite hanno internalizzato i costi di protezione, grazie alla Compagnia Olandese delle Indie Orientali; il Regno Unito ha internalizzato anche i costi di produzione, grazie al forte coinvolgimento delle imprese capitalistiche nella razionalizzazione dei processi di produzione; gli Stati Uniti, infine, hanno internalizzato anche i costi di transazione, attraverso grandi imprese multinazionali in grado di pianificare a lungo termine tanto la produzione quanto la distribuzione su larga scala. Il futuro egemone mondiale avrà il compito inter- nalizzare i costi di riproduzione, tenendo conto del cambiamento climatico indotto dallo sfruttamento dei combustibili fossili.
Eppure, la durata dei cicli egemonici è sempre più breve. Arrighi nota che il tempo necessario affinché una potenza emerga dalla crisi del precedente regime, per divenire essa stessa egemonica e poi raggiungere i propri limiti (segnalati dall’avvio di una nuova espansione finanziaria), è stato meno della metà sia nel caso del regime britannico rapportato a quello genovese, sia nel caso del regime statunitense a confronto con quello olandese.
4.3 Egemonizzare il mondo
Come si caratterizza il potere globale degli Stati guida e, in particolare, dei loro «agenti governativi e imprenditoriali»? La loro funzione essenziale è organizzare il sistema-mondo capitalistico attraverso un particolare «modo di regolazione» relativo a uno specifico «regime di accumulazione» – espressioni che Arrighi mutua dalla scuola della regolazione francese, scuola a sua volta ispirata a Gramsci e, specialmente, al Quaderno 22 su “americanismo e fordismo”12. Lo sviluppo dell’accumulazione mondiale ha bisogno di politiche pubbliche che assicurino i profitti regolando i mercati e agevolando gli investimenti.
Perché la regolazione dei processi mondiali di accumulazione capitalistica può essere considerata espressione di un potere egemonico? Arrighi rielabora la formulazione gramsciana dell’egemonia che Fabio Frosini ha chiamato «standard»13. Egli insiste soprattutto sul «potere addizionale»14 che alcuni Stati dominanti traggono dalla loro capacità di guidare altri Stati subordinati verso una direzione (progressiva) che non sia semplicemente funzionale ai propri interessi, ma venga accettata (sulla base del consenso) perché percepita come finalizzata a un interesse più generale (universale).
Arrighi rilegge l’idea gramsciana di egemonia, come «combinazione della forza e del consenso»15, alla luce della sociologia di Talcott Parsons. Il sociologo statunitense parlava di «deflazione del potere» per indicare le situazioni in cui, per governare la società in carenza di consenso, diventa necessario un impiego sistematico della violenza16. Quando manca la fiducia dei governati nei confronti dei governanti, questi ultimi sono in qualche modo costretti a usare la forza. Ebbene, Arrighi raccomanda di leggere l’egemonia nei termini di un’«inflazione di potere», consentita dalla capacità dei blocchi governativo-imprenditoriali dominanti di presentare persuasivamente le proprie scelte come favorevoli al perseguimento progressivo degli interessi dei gruppi e degli Stati subordinati. Se viene meno il consenso intorno a un progresso generale, si legge in Adam Smith a Pechino, «l’egemonia si “sgonfia” trasformandosi in semplice dominio»17.
Secondo Arrighi, una potenza economico-politica è propriamente egemonica solo se, oltre a ricevere consenso intorno a un progresso generale, riesce ad aumentare il potere complessivo del sistema, rispetto a terzi o rispetto alla natura. Lungi dall’indicare una relazione a somma zero, in cui un attore può aumentare il proprio potere solo a spese degli altri, l’egemonia implica una relazione a somma positiva. L’interesse generale di un sistema interstatale, allora, non dipende dalla diversa distribuzione del potere tra gli Stati stessi del sistema, ma piuttosto dall’aumento del potere complessivo di quello che, in riferimento all’Europa, Arrighi chiama, senza adeguati sviluppi, «sistema statale allargato»18.
L’adozione del concetto di egemonia è una delle ragioni sostanziali che impedisce ad Arrighi di concepire il sistema-mondo capitalistico in modo deterministico. Proprio perché fondato su una nozione che implica insieme movimento, conoscenza e volontà politica, il sistema che egli definisce non si configura come una totalità che si auto-organizza, come un ordine chiuso al riparo dal caos.
4.4 Egemonia e conflitto
Se Arrighi non cede al determinismo, tuttavia, non è solo perché il sistema-mondo capitalistico, per come egli lo concepisce, è esposto a crisi di varia natura, senza la garanzia che esse verranno risolte da un nuovo ordine egemonico emergente. Se il sistema è aperto, ciò si deve anche all’effetto dei conflitti sociali e politici. Pur avendo dedicato i propri studi prevalentemente ai processi di accumulazione capitalistica e di egemonia mondiale, e pur avendo accennato all’opportunità di intendere i cicli eco- nomico-politici come forme di «rivoluzione passiva»19, perché privi di partecipazione popolare e portatori di elementi insieme progressivi e regressivi, Arrighi ha sempre assegnato un ruolo di primo piano tanto ai fattori contingenti quanto alle azioni individuali e collettive20.
Il capitale in cerca di accumulazione e il sistema di Stati bramosi di potere non sono gli unici protagonisti della scena mondiale. Come Arrighi ha argomentato in Antisyst ernie Movements2{}, scritto nel 1989 insieme a Hopkins e a Wallerstein, lo sviluppo capitalistico genera i propri antagonisti: un movimento operaio che dal 1848 in poi si è organizzato stabilmente in sindacati e partiti, sia nella variante socialdemocratica sia in quella comunista. La stessa gerarchia del sistema-mondo, inoltre, crea forme di resistenza, tra le quali spiccano i movimenti di liberazione nazionale21.
Arrighi non ha mai creduto al Gramsci teorico del partito politico come «moderno principe»22. Fin dai primi anni Settanta, egli ha anzi denunciato la tendenza dei partiti sia alla burocratizzazione oligarchica, sia all’integrazione in un sistema internazionale gerarchizzato dagli Stati Uniti. D’altro canto, però, e qui riemerge un altro elemento gramsciano, in lui è sempre stata salda l’opposizione allo spontaneismo, percepito come un pericolo da evitare a tutti i costi. Perché a suo avviso, dietro la retorica spontaneista si annida sempre, in modo più o meno consapevole, l’ideologia, di cui egli è stato un critico inflessibile23.
Così, dialogando con i movimenti anti-sistemici, fautori a partire dai primi anni Duemila di un progetto di “globalizzazione dal basso” antitetico al modello neoliberale, Arrighi mette in guardia dalla pervasività delle ideologie patriarcali, razziste e nazionaliste24. Per vincere questo pericolo, che tende a disgregare le classi lavoratrici sulla base di differenze di genere, etnia, nazione, l’interlocuzione arrighiana con i nuovi movimenti si è sempre articolata su due livelli: quello delle rivendicazioni specifiche, per migliorare le condizioni di lavoro e di vita, e quello di istanze generali, come la giustizia globale, il pacifismo, l’ecologismo. Sempre in cerca di quella via stretta, che sfugga tanto all’oligarchia quanto all’ideologia.
4.5 “Egemonia di tipo nuovo”?
Alla metà degli anni Novanta, con un’impressionante capacità predittiva, Arrighi sosteneva che il fenomeno più rilevante dell’ultima decade del ventesimo secolo non fosse la vittoria della Guerra fredda da parte degli Stati Uniti, come la gran parte dei commentatori allora riteneva e oggi continua a credere25. Il boom finanziario di Wall Street altro non era che una cortina fumogena, che oscurava la decadenza degli Stati Uniti e lo spostamento dell’epicentro dell’accumulazione capitalistica dall’Occidente al Sudest asiatico. Reagendo all’attentato dell’11 settembre, gli Stati Uniti sarebbero poi entrati, secondo Arrighi, in una fase di «dominio senza egemonia».
Adam Smith a Pechino presenta tre scenari futuri: il primo è un indefinito prolungamento di quello che il suo amico Riccardo Parboni chiamava «conflitto economico mondiale»26; il secondo è una nuova egemonia capitalistica e occidentale27; il terzo è una globalizzazione non capitalistica centrata sull’Asia orientale e in particolare sulla Cina28.
Arrighi si augura precisamente che la Cina (sui cui tratti autoritari sorvola completamente) possa diventare il baricentro di un sistema mondiale più pacifico, pluralistico ed egualitario, basato sulla globalizzazione di un mercato non capitalistico. Occorre quindi domandarsi, infine, se il concetto di egemonia – senz’altro utile per comprendere la storia moderna, quando l’Europa e poi l’Occidente si sono imposti sul resto del mondo30 - sia ancora adeguato a descrivere un orizzonte non capitalistico. Arrighi non sostiene a chiare lettere che il post-capitalismo vada pensato in chiave post-egemonica. Di certo, però, in Adam Smith a Pechino non si trova nemmeno una occorrenza di «egemonia cinese», e si parla pochissimo persino di «Peijing Consensus». Se l’egemonia potrà qualificare anche un ordine mondiale regolato tramite un mercato non capitalistico, allora dovrà trattarsi, per così dire, di una “egemonia di tipo nuovo”. Dovrà essere una egemonia non occidentale e priva di quello che sembra il suo inevi tabile complemento, la subalternità. Diffìcile, forse troppo.