GUERRA E RIVOLUZIONE (PREFAZIONE)

gen 25th, 2023 | Di | Categoria: Recensioni

GUERRA E RIVOLUZIONE 

PREFAZIONE

 

Il testo che anticipo in questo post è la Prefazione del libro “Guerra  e rivoluzione” il cui primo volume, “Le macerie dell’impero” sarà in libreria fra pochi giorni per i tipi di Meltemi, mentre il secondo, “Elogio dei socialismi imperfetti” seguirà fra un paio di mesi.        

 

L’autore del lavoro che vi apprestate a leggere verrà verosimilmente accusato di eccessiva ambizione: sia per le dimensioni dell’opera (due volumi per un totale di diverse centinaia di pagine), sia per la vastità dei temi trattati (presa di distanza da certi dogmi cari alla tradizione marxista; impatto della controrivoluzione neoliberale sulla mutazione dei sistemi politici e della composizione di classe, nonché sulla morte delle sinistre in Occidente; rinascita del progetto socialista in Oriente e nel Sud del mondo; abbozzo di linee strategiche per la ricostruzione di un movimento comunista occidentale). Forse l’accusa non è priva di fondamento, tuttavia ritengo che la mia vera colpa consista nel non essere stato abbastanza ambizioso, considerato che la situazione del movimento anticapitalista in Occidente è oggi talmente tragica da poter essere affrontata solo coltivando un’ambizione smisurata. A discolpa del fatto di essere rimasto al di sotto di quanto richiederebbe la situazione, posso addurre due giustificazioni: in primo luogo, i miei limiti soggettivi mi hanno impedito di approfondire ulteriormente l’analisi; inoltre, quand’anche le mie capacità fossero state maggiori, le sfide con cui ardisco qui misurarmi richiederebbero l’apporto di una mente collettiva che oggi, dopo decenni di sistematico smantellamento di partiti, istituzioni, centri di ricerca (nonché di frammentazione organizzativa di quanto ne restava), non esiste più.

Perché mi sono imbarcato in cotanta impresa? Perché sono convinto che sia urgente trovare il coraggio (non dubito che molti lo definiranno piuttosto arroganza) di porvi mano. Mi si potrebbe obiettare che non mancano corposi – e ben più autorevoli del mio – contributi sugli argomenti sopra citati: da Gyorgy Lukács e Costanzo Preve sui fondamenti del marxismo a Giovanni Arrighi, David Harvey, Samir Amin e molti altri sull’evoluzione del capitalismo; da Alvaro Linera sulle rivoluzioni latinoamericane a Domenico Losurdo sulle chance di rinascita di un comunismo occidentale, per tacere delle decine di autori che troverete citati nel libro, fra cui Vladimiro Giacché, Onofrio Romano, Alessandro Somma e Alessandro Visalli, ai quali sono debitore per i loro suggerimenti e contributi critici (Giacché è autore della Postfazione, Romano, Somma e Visalli dei saggi pubblicati in Appendice al Secondo Volume). Cionondimeno rivendico il merito di essermi impegnato a fondo per interpretare criticamente le teorie, le analisi e le ipotesi di tutti questi autori  (aggiungendovi spero non poco del mio) per costruire una visione coerente della grande transizione epocale che stiamo vivendo in questo primo quarto di secolo. In che misura vi sia riuscito giudicherà il lettore.

 

Passo a una sommaria descrizione dei contenuti. Il primo capitolo ragiona sulla cassetta degli attrezzi indispensabili per condurre un’analisi del presente, e sulla esigenza di tagliare certi rami secchi (1) che appesantiscono il plurisecolare albero del marxismo. In particolare, seguendo le lezioni di Lukács e Preve (2), viene messa in discussione l’idea del socialismo come esito necessario di presunte leggi immanenti alla storia, una visione che nasce da una lettura “economicista” del marxismo che, da un lato sopravvaluta il peso di fattori oggettivi quali lo sviluppo delle forze produttive, la legge della caduta tendenziale del saggio di profitto, ecc. e subisce l’influenza del progressismo e dello scientismo positivista borghesi, dall’altro lato sottovaluta il ruolo del fattore soggettivo, il solo in grado di sfruttare la possibilità (non la necessità) di trasformazione sistemica associata alle situazioni di crisi radicale, economica, politica e culturale.

 

Veniamo agli altri quattro capitoli della Prima Parte (che occupa interamente il Primo Volume). Nel secondo vengono descritti gli scenari della guerra di classe dall’alto (3) che, a partire dagli anni Ottanta, le élite capitalistiche occidentali hanno scatenato contro le classi subalterne, i cui effetti devastanti si sono evidenziati con particolare evidenza e crudezza durante la crisi del 2008, hanno subito un ulteriore aggravamento con la pandemia del Covid19 e hanno trovato una prevedibile conseguenza in quella guerra russo-ucraina che, mentre segna la fine della globalizzazione, minaccia di essere il prodromo di una nuova guerra mondiale. Il terzo ricostruisce le radici storico ideali del neoliberalismo moderno dalla fine della Prima guerra mondiale ad oggi, un avversario che le sinistre occidentali sono state incapaci di fronteggiare, prima perché lo hanno scambiato per una recrudescenza del liberalismo classico, senza coglierne il potenziale dirompente e innovativo, poi perché si sono arresi alla sua fascinazione, al punto di sposarne i principi teorici e i valori ideologico-culturali. Nel quarto capitolo si respingono le tesi di coloro che hanno abbandonato la categoria dell’imperialismo, ritenendola superata dal processo di globalizzazione, dopodiché si ricostruisce il ciclo egemonico dell’imperialismo americano dalle origini al trionfo degli anni Novanta che, grazie alla caduta dell’Unione Sovietica, sembrava averne decretato l’irreversibile e incontrastato dominio. Si descrive poi come questo nemico dell’umanità stia reagendo alla sfida mortale lanciatagli dall’ascesa cinese, vale a dire cementando un blocco occidentale con le ex colonie britanniche e la UE per imporre con la forza delle armi la continuazione del proprio ciclo egemonico. Quanto al processo di unificazione europea, ne viene evidenziata la natura di progetto anti popolare e antisocialista, finalizzato a espropriare le classi subalterne dei singoli Paesi degli  strumenti istituzionali per difendere i propri interessi. Un progetto ispirato all’ordoliberalismo tedesco che, mentre è riuscito a ridurre le nazioni mediterranee allo status di semi periferia, ha fallito l’obiettivo di costruire un blocco imperiale autonomo dagli interessi statunitensi, come conferma il ruolo subalterno che la Ue sta svolgendo nel conflitto russo-ucraino.

 

Il quinto capitolo avanza una tesi radicale: per le classi lavoratrici, e per tutti i soggetti interessati a ricostruire una prospettiva comunista, le sinistre occidentali, – sia quelle socialdemocratiche, che oggi sarebbe più corretto definire social-liberali, sia quelle “radicali – sono a tutti gli effetti dei nemici. Nemici di classe, in quanto rappresentano gli interessi materiali degli strati sociali medio alti che abitano i centri delle grandi metropoli gentrificate, nemici ideologici in quanto alimentano culture – femminismo liberale, pacifismo ed ecologismo depurati da qualsiasi velleità anticapitalista, retorica del politicamente corretto, priorità dei diritti individuali e civili sui diritti sociali, celebrazione della democrazia borghese quale unico modello possibile di democrazia, ecc. – che appaiono non solo compatibili con, ma perfettamente funzionali alla, conservazione dell’esistente. Per tale motivo non è più possibile considerare tali forze come compagni di strada (e nemmeno come alleati, se non per limitate e contingenti esigenze tattiche) di un progetto di emancipazione dal dominio del capitale.

 

Mentre la Prima Parte rappresenta la pars destruens dell’opera, la Seconda e la Terza (che nell’indice del Secondo Volume compaiono in realtà come Prima e Seconda Parte) ne rappresentano, assieme alla Postfazione e ai tre saggi in Appendice, la pars construens, nella misura in cui analizzando lo stato attuale, le prospettive di tenuta e le possibilità di sviluppo futuro del processo di costruzione del socialismo nel mondo attuale.

 

 

 

La Seconda Parte si articola su tre capitoli. Il primo è interamente dedicato alla Cina ed è finalizzato a rovesciare l’immagine di questo Paese che la cultura occidentale, senza distinzione fra destre e sinistre, si sforza di accreditare attraverso le narrazioni di leader politici, media ed “esperti” di ogni risma, vale a dire l’immagine di un esperimento socialista fallito, regredito a forme di capitalismo selvaggio e sfociato in un regime oppressivo e totalitario. Partendo dalle straordinarie intuizioni di Giovanni Arrighi (4) e avvalendomi delle analisi di altri autori, sia cinesi che occidentali, cerco di dimostrare come le riforme degli anni Settanta, che per gli “esperti” di cui sopra hanno segnato l’inizio della fine del progetto socialista, siano stati viceversa il punto di partenza di un grandioso esperimento che, pur fra successi e sconfitte, avanzate e ritirate, contraddizioni e conflitti di ogni genere, ha saputo raccogliere i frutti dell’era maoista superandone gli errori e la ricerca di scorciatoie illusorie, dando vita a una originale forma di economia mista in cui ai capitalisti viene lasciata la libertà di accumulare profitti evitando tuttavia che possano tradurre la loro ricchezza in potere politico. Questa impresa, che ha consentito di riscattare 800 milioni di cittadini dalla povertà, è stata possibile mantenendo il ferreo controllo del Partito sullo Stato, e di quest’ultimo sui settori strategici dell’economia (a partire dalle banche). Il tutto senza rinunciare a garantire – contrariamente a quanto ventilato dalla propaganda occidentale – ampi margini di partecipazione democratica a livello locale. L’esperimento cinese impone ai teorici marxisti di analizzare scientificamente le dinamiche di formazioni sociali in cui la politica mantiene il controllo e il comando sull’economia. È quanto ha tentato di fare Rita Di Leo (5) nella sua indagine sulle ragioni del crollo dell’Unione Sovietica. Delle sue riflessioni mi avvalgo nel secondo capitolo per abbozzare un tentativo (necessariamente embrionale) di analisi storica del socialismo reale, con l’obiettivo di farla finita  con la damnatio memoriae - tutta ideologica – del grandioso esperimento della Rivoluzione bolscevica e di avviare una indagine scientifica sulle radici lontane della tragedia dell’89-91.

 

Nel terzo capitolo vengono prese in esame le rivoluzioni bolivariane in America Latina, con particolare attenzione ai casi di Venezuela, Bolivia ed Ecuador e al contributo teorico dell’ex vicepresidente boliviano Alvaro G. Linera (6). Prendendo spunto da queste esperienze, cerco  di aggiornare il dibattito sull’opposizione fra via rivoluzionaria e via riformista al socialismo (un tema “classico” che, fra fine Ottocento e primo Novecento, ha visto la partecipazione, fra gli altri, di Federico Engels e Rosa Luxemburg, e successivamente ha provocato la rottura di Lenin con la Seconda Internazionale) ragionando sulle differenti sfide che devono affrontare regimi come quelli latinoamericani, nati dalla conquista del potere per vie legali, rispetto a quello cinese, frutto della vittoria militare sul nemico di classe.

 

La Terza Parte credo sia quella destinata a suscitare più controversie, nella misura in cui affronta l’impegnativo compito di definire le premesse teorico-pratiche di una possibile ricostruzione del movimento comunista occidentale. Finché si parla del resto del mondo la discussione può restare nei limiti di un confronto di idee relativamente pacato, ma quando de te fabula narratur, non appena cioè si mettono i piedi nel piatto, affrontando le cause e gli errori soggettivi, e non le cause oggettive (o presunte tali) della disastrosa sconfitta del movimento comunista in Europa, il dibattito è destinato a surriscaldarsi, tanto più se chi lo innesca non esita a mettere in discussione consolidati articoli di fede teorico-ideologici e a chiamare in causa responsabilità ed errori di intellettuali e leader storici “canonizzati”. Ciò premesso, passo a riassumere il contenuto dei quattro capitoli che lo compongono.

 

Il primo parte da un assunto a mio avviso irrinunciabile: se è vero che il partito comunista deve essere un partito di classe, e se è vero che decenni di controrivoluzione neoliberale e di tradimenti delle organizzazioni tradizionali del movimento operaio hanno ridotto il proletariato occidentale a un coacervo di soggetti sociali espropriati di qualsiasi identità condivisa e anzi in conflitto reciproco (generazionale, di genere, etnico, culturale, ideologico, ecc.) se non addirittura a una massa indistinta fatta di singolarità individuali, è chiaro che costruire il partito di classe è un compito  indistinguibile da quello di ricostruire un’identità e una coscienza di classe. Di tale compito si discute tanto nel primo quanto nel quarto capitolo, ma con taglio differente. Nel primo si abbozza un ritratto schematico della composizione di classe emersa da decenni di offensiva del nemico. Si tratta necessariamente di primi appunti, preliminari a una ricerca scientifica che potrà essere realizzata solo da un intellettuale collettivo a stretto contatto con l’oggetto della ricerca (cioè con la classe stessa: è quanto un tempo si chiamava conricerca). Nel quarto – di cui dirò più avanti – si mettono sotto accusa quei micropartiti che, invece di dedicarsi alla costruzione del partito di classe, preferiscono spendere le proprie energie in fallimentari imprese elettorali, anche stringendo alleanze spurie e praticando in modo spregiudicato l’arte del compromesso per conquistare a ogni costo “un posto al sole” nelle pieghe del sistema istituzionale borghese.

 

Il secondo capitolo smonta i concetti di populismo e sovranismo, che la narrazione del partito unico neoliberale e dei media sotto il suo controllo sfrutta per demonizzare le forme che il conflitto politico e sociale tende ad assumere in assenza di forze capaci di elaborare una strategia antisistema. Polemizzando con le tesi di Ernesto Laclau (ma anche riconoscendone il contributo di analisi empirica delle forme che il conflitto tende ad assumere nell’attuale contesto postdemocratico), sostengo che il populismo è una forma spuria di lotta di classe senza coscienza di classe, il che la espone al costante rischio di convertirsi in “rivoluzione passiva” (7). Analoga considerazione vale per il cosiddetto sovranismo che, più che una ideologia che ripropone anacronistiche velleità nazionaliste, rappresenta una forma di reazione popolare all’uso capitalistico delle istituzioni sovranazionali per sottrarre alle classi subalterne la capacità/possibilità di utilizzare lo stato-nazione come terreno di contrattazione delle proprie condizioni di lavoro e di vita. Contestualmente il capitolo ritorna su alcuni nodi della discussione teorica sulla questione nazionale che ha attraversato l’intera storia del marxismo, da Marx ai giorni nostri passando per Lenin.

 

Il terzo capitolo, dopo una discussione introduttiva in merito alla necessità di riformulare in termini più realisti e concreti il processo di transizione al socialismo, sfrondandolo dell’afflato profetico che lo ha spesso caratterizzato, si addentra in due questioni strettamente intrecciate fra loro: il rapporto fra socialismo e democrazia e quello fra ideologia comunista e ideologia liberale. In particolare, viene rigettata l’idea secondo cui alla rivoluzione socialista spetterebbe il compito di attuare le promesse di emancipazione umana già formulate ma mai messe in atto dalle rivoluzioni borghesi, idea cui oppongo la tesi della sostanziale incommensurabilità fra i due processi rivoluzionari: mentre la borghesia conquista il potere politico dopo essersi già impadronita di quello economico, sociale e culturale, il proletariato, non essendo nella condizione di far crescere progressivamente il proprio controllo su economia, società e cultura nell’ambito dei rapporti di produzione capitalistici fino a consentire una transizione relativamente indolore a un nuovo tipo di formazione sociale, è indotto a perseguire una discontinuità radicale del processo storico; il che comporta, fra le altre cose, che la democrazia socialista debba assumere forme necessariamente diverse da quella borghese. Infine contesto la tesi secondo cui il movimento comunista dovrebbe riconoscere e far proprie le conquiste e i valori della miglior tradizione liberale, a partire dall’affermazione dei diritti universali dell’uomo e della necessità di una rigorosa tutela della libertà individuale. Contro tale visione richiamo l’irriducibile differenza fra libertas minor, l’idea di libertà sulla quale si fonda l’ideologia liberale, e libertas maior, l’idea di libertà propria di un movimento come quello comunista, che dà maggior peso alla rivendicazione dei diritti collettivi rispetto a quella dei diritti individuali; un punto di vista più volte ribadito da Marx, il quale metteva in luce come porre al centro la libertà individuale significhi non saper guardare al di là di una società di imprenditori privati. È per avere rimosso questa verità che i comunisti occidentali hanno creato le premesse della propria disfatta: stipulando alleanze e compromessi con le destre liberali per sbarrare la strada alle destre estreme (una scelta assurda in una fase storica in cui la vera minaccia è il potere oligarchico delle élite neoliberali); sposando i principi e i valori individualisti dei nuovi movimenti (femministe, ecologisti, pacifisti generici, Lgbt, ecc.) nell’illusione di poterli egemonizzare e finendo al contrario per venirne egemonizzati; associandosi al coro dei partiti liberali e dei media occidentali che definisce totalitari Paesi come Cina, Cuba; Venezuela, Bolivia, Corea e Vietnam; infine non riuscendo, di fronte alla guerra imperialista che Stati Uniti, Ue e NATO stanno conducendo contro la Russia e tutti i Paesi che non accettano l’egemonia occidentale, ad andare al di là di un generico pacifismo e a schierarsi senza ambiguità con il fronte mondiale della resistenza antimperialista.

 

Torno al quarto capitolo e a quanto ne avevo anticipato poc’anzi. Denunciando i vizi di elettoralismo e opportunismo dei partitini sedicenti comunisti, sostengo che si tratta di deviazioni  che hanno radici lontane, nella misura in cui non risalgono solo alla svolta eurocomunista, ma chiamano in causa le contraddizioni intrinseche alla visione togliattiana del partito di massa e ai concetti di democrazia progressiva e di lunga marcia attraverso le istituzioni. In particolare, a proposito dell’alternativa partito di massa/partito di quadri, parto dalla già citata tesi secondo cui costruzione del partito e ricostruzione della classe sono processi intrecciati. L’idea di costruire la classe può apparire controintuitiva a chi è abituato a concepirla come un’entità astratta, che esiste a priori, ma ciò significa ignorare gli effetti della radicale destrutturazione cui il proletariato occidentale è stato sottoposto. Per essere all’altezza dell’impresa il partito dovrebbe nascere e crescere reclutando i soggetti più coraggiosi e capaci fra i nuclei di resistenza che permangono malgrado lo stato di arretramento delle lotte. Ciò non significa teorizzare una costruzione “dal basso”, perché la concezione leninista (e gramsciana) del partito resta sostanzialmente valida, significa però che il vertice del partito, fatto di intellettuali organici e dirigenti organizzativi, dovrà poggiare su una solida base di quadri intermedi di estrazione quanto più possibile proletaria (8). Partito di quadri e non partito di massa dunque, almeno nelle sue prime fasi di vita (per inciso: tutti i partiti comunisti che hanno vinto una rivoluzione sono diventati partiti di massa dopo la vittoria).Ma soprattutto non è il caso di nutrire velleità di costruzione di un blocco sociale prima che la classe abbia raggiunto livelli di unità e autocoscienza politica sufficienti a garantirne l’egemonia nei confronti di eventuali alleati: i populismi di sinistra hanno fallito proprio perché si sono posti quale  obiettivo prioritario l’alleanza con le classi medie, finendone sistematicamente egemonizzati.

 

Ragionare sul programma politico di un partito che oggi non esiste, rischia di essere un esercizio puramente letterario. Tuttavia in quest’ultimo capitolo ho ugualmente voluto tratteggiare alcune linee possibili (generalissime) di un programma di transizione a una primissima fase socialista (pensate per il contesto italiano, ma soprattutto ancorate alla visione pragmatica che emerge dalle esperienze di costruzione del socialismo nel mondo non occidentale). Qui di seguito ne sintetizzo alcune: 1) puntare a un’economia mista in cui lo Stato detenga il controllo pieno e diretto sulla Banca centrale, sui movimenti di capitale, sui settori produttivi strategici e sui servizi essenziali; programmazione flessibile orientata alla realizzazione della piena e buona occupazione; politica fiscale fortemente progressiva e potenziamento del welfare con priorità a sanità, educazione e sistema assistenziale; 2) un’Assemblea Costituente che riscriva la Carta fondamentale approfondendo, ampliando e aggiornando i principi di quella del 48 e depurandola dalle pseudo riforme introdotte dai regimi liberali; 3) promuovere istituzioni di democrazia diretta e partecipativa e tornare a un sistema elettorale fondato sul sistema proporzionale; 4) uscire dalla NATO e dalla UE per recuperare quella piena autonomia nazionale che è condizione irrinunciabile sia per difendere la sovranità popolare e la democrazia, sia per riscattare la nostra economia dalla colonizzazione di cui è stata oggetto negli ultimi decenni. Si tratta di punti inspirati in particolare dalle esperienze delle rivoluzioni pacifiche avvenute in America Latina, la cui praticabilità presuppone una crisi sistemica tanto radicale da impedire alle élite dominanti di stroncare sul nascere il processo di trasformazione. Parliamo ovviamente di tempi lunghi, caratterizzati dal rischio permanente di una riconquista del potere da parte delle classi dominanti, che quindi presuppongono una formidabile capacità egemonica necessaria a conservare il consenso popolare anche nei momenti critici, capacità che solo un partito forte, organizzato e radicato nella società sarebbe in grado di garantire.

 

Per sintetizzare, le tesi avanzate in questo lavoro possono essere raggruppate in tre grandi aree tematiche. In primo luogo: a 175 anni dalla pubblicazione del Manifesto di Marx ed Engels, e dopo una lunga sequenza di rivoluzioni socialiste fallite (tutte quelle avvenute nei Paesi sviluppati) e riuscite (tutte avvenute in Paesi in via di sviluppo ed ex coloniali) dovrebbero indurci a prendere atto del fatto che la rivoluzione ha vinto (Lenin docet) solo negli anelli più deboli della catena del mondo capitalista, mentre nei punti più alti di sviluppo delle forze produttive le élite dominanti sono riuscite a mantenere l’egemonia sulle classi subalterne (anche e soprattutto grazie ai sovraprofitti garantiti dall’oppressione e dallo sfruttamento dei Paesi periferici e semiperiferici). Ciò impone di abbandonare definitivamente sia il dogma che associa la possibilità di trasformazione rivoluzionaria a “condizioni oggettive” di natura prevalentemente, se non esclusivamente, economica (economicismo), sia quel groviglio di evoluzionismo, progressismo, eurocentrismo (giustificabili ai tempi di Marx, demenziali nella attuali condizioni storiche) che sostanzia l’illusione di un processo storico orientato da una sorta di necessità immanente. Non avendo compiuto questo passo, le sinistre occidentali, tanto moderate che radicali, da un lato non hanno capito letteralmente nulla del salto storico compiuto dal capitalismo contemporaneo (considerando irreversibile il processo di globalizzazione, non comprendendo che l’imperialismo non era finito ma aveva solo cambiato forma e sottovalutando sia la novità ideologica che la potenza manipolatoria del  neoliberalismo); dall’altro lato hanno intensificato piuttosto che superato la propria vocazione eurocentrica (riconoscendo la democrazia liberale quale unica forma possibile di democrazia; condannando come totalitari i regimi socialisti dell’Est e del Sud del mondo; sposando senza riserve tutti i diversivi ideologici che le élite dominanti hanno adottato per dividere le classi subalterne: femminismo liberale; ecopacifismo depurato da ogni velleità antisistemica; linguaggio politicamente corretto; retorica del “diritto di avere diritti” (9)). Secondariamente: contrariamente a chi le considera fallite in quanto “degenerate” in regimi autoritari, rivoluzioni come quella cinese, vietnamita, cubana, venezuelana e boliviana, pur non potendo essere assunte a modello (dato che ogni Paese può e deve costruire il proprio processo rivoluzionario in base alle sue concrete caratteristiche storiche, sociali e culturali) ci offrono insegnamenti fondamentali sia sul piano teorico che pratico. In particolare: la transizione al socialismo è un processo lungo complesso e contraddittorio, in cui permangono la lotta di classe e in cui l’economia di mercato può svolgere un ruolo positivo, a condizione che resti sotto il controllo dello Stato; il proletariato non è necessariamente l’unico soggetto rivoluzionario ma anche le grandi masse contadine, i popoli oppressi e altre classi subalterne possono giocare un ruolo strategico, a condizione che il partito comunista sia in grado di egemonizzarle; infine, nell’attuale contesto di scontro frontale fra l’imperialismo americano e il suo vassallo europeo e il resto del mondo, i Paesi socialisti – e in particolare la Cina – devono essere difesi e sostenuti con ogni mezzo. In terzo luogo: il movimento comunista occidentale va ricostruito letteralmente da zero, e il suo primo compito sarà  ricostruire un’avanguardia delle lotte in grado di incarnare l’unità e la coscienza di strati di classe riscattati dalla condizione di frammentazione dovuta a decenni di sconfitte. Ciò significa liquidare i vizi di elettoralismo e opportunismo ereditati dalla deriva eurocomunista e superare la mentalità di piccola setta degli attuali micropartiti; significa non accodarsi a movimenti di massa a carattere prevalentemente piccolo-medio borghese, nell’illusione di egemonizzarli pur non avendone la capacità né la possibilità; significa assumere una chiara posizione antimperialista in campo geopolitico, schierandosi senza se senza ma a fianco di tutte le forze che lottano contro il progetto di conservare con la forza l’egemonia mondiale di Stati Uniti ed Europa; significa infine impegnarsi in un serio lavoro di analisi e ricerca scientifica sull’attuale composizione di classe, sulle prospettive programmatiche di una transizione nella concreta situazione storica dei Paesi occidentali e sulle riforme istituzionali che dovrebbero accompagnarne il processo.

 

Post scriptum. In merito ai commenti, agli arricchimenti e alle osservazioni critiche contenute nei contributi di Vladimiro Giacché, Onofrio Romano, Alessandro Somma e Alessandro Visalli, che ancora ringrazio, rinvio alla mia Postilla finale inserita nell’Appendice al Secondo Volume.

 

Carlo Formenti

 

Genova, Novembre 2022   

 

Note

(1) Cfr. C. Formenti, O. Romano, Tagliare i rami secchi, DeriveApprodi, Roma 2019.

(2) Vedi, in particolare, G. Lukács, Ontologia dell’essere sociale, Pigreco, Milano 2012 (una nuova edizione dell’opera è in via di pubblicazione presso Meltemi con una mia Prefazione) e C. Preve, La filosofia imperfetta, Franco Angeli, Milano 1984.

(3) Cfr. L. Gallino, La lotta di classe dopo la lotta di classe, Laterza, Roma-Bari 2012.

(4) G. Arrighi, Adam Smith a Pechino. Genealogie del XX secolo, Feltrinelli, Milano 2008.

(5) Cfr. R. Di Leo, L’esperimento profano, Futura, Roma 2011; Cent’anni dopo. 1917-2017 da Lenin a Zuckerberg, Futura, Roma 2017; L’età della moneta, Il Mulino, Bologna 2018.

(6) Cfr. Á.G. Linera, Democrazia, stato, rivoluzione, Meltemi, Milano 2020.

(7) Questo concetto, coniato da Gramsci, si riferisce a quei moti sociali delle classi subalterne che, in quanto privi di una prospettiva rivoluzionaria, finiscono egemonizzati dalle élite dominanti e sortiscono effetti contrari ai loro stessi interessi.

(8) Vedi quanto scrive in merito Alvaro Cunhal ne Il partito dalle pareti di vetro, La Città del Sole, Napoli-Potenza 2020.

(9) Cfr. S. Rodotà, Il diritto di avere diritti, Laterza, Roma-Bari 2012.

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