SULLA CRISI DEL MOVIMENTO COMUNISTA IN ITALIA
gen 18th, 2023 | Di Thomas Munzner | Categoria: Dibattito PoliticoCarlo Formenti
SULLA CRISI DEL MOVIMENTO COMUNISTA IN ITALIA
Un anno e mezzo fa (maggio 2021) spiegavo su questa pagina le ragioni per cui, dopo qualche decennio in cui, pur non avendo mai smesso di professarmi comunista, non ho svolto militanza attiva, sentivo l’esigenza di impegnarmi concretamente in un progetto politico. A sollecitare tale scelta, scrivevo, era lo spettacolo degli effetti che quarant’anni di controrivoluzione liberale hanno prodotto in termini di degrado della qualità della vita e dei livelli di coscienza civile e politica di miliardi di esseri umani. Dopodiché esprimevo la convinzione che, per cambiare le cose , non occorresse ricostruire una “sinistra”, termine che ha perso ogni valenza positiva agli occhi delle masse popolari, ma rilanciare l’obiettivo del superamento della società capitalista verso il socialismo.
Nello stesso post analizzavo le ragioni del fallimento delle esperienze ascrivibili all’area dei populismi e sovranismi di sinistra, un’area che, per motivi che ho descritto in alcuni miei libri, mi era parsa più vitale delle formazioni neo/post comuniste residuate dal tracollo del PCI prima e di Rifondazione Comunista poi (1). Infine, interrogandomi su quali requisiti minimi avrebbe a mio avviso dovuto avere una formazione politica all’altezza delle sfide del nostro tempo, ne elencavo cinque: 1) un forte impegno nella ricostruzione dell’unità del proletariato distrutta da decenni di guerra di classe dall’alto, a partire dal lavoro teorico di ridefinizione del concetto stesso di classe finalizzato ad analizzare le nuove forme dell’oppressione e dello sfruttamento capitalistici, ma soprattutto non fine a sé stesso ma alla ricostruzione del partito di classe; 2) una radicale presa di distanza dalle sinistre liberali e/o presunte “radicali”, a partire dal ripudio dell’ideologia antistatalista e antipolitica che è il tratto distintivo della cultura dei movimenti post sessantottini – un’ideologia demenziale che rinuncia alla lotta per il potere politico (bollato come l’incarnazione del male) e sogna di poter cambiare il mondo “a partire da sé”; 3) una chiara consapevolezza della incompatibilità fra quel cosmopolitismo borghese che è oggi la cifra del progressismo di sinistra, e l’internazionalismo proletario da intendere come rapporto di solidarietà attiva fra proletari e popoli oppressi e sfruttati, il che implica che la sovranità popolare e la democrazia non possono prescindere dalla sovranità nazionale, perché nessun popolo privato della sua sovranità può decidere liberamente del proprio futuro (l’opposizione più radicale alla Ue è corollario imprescindibile di tale punto); 4) Una coerente posizione antimperialista che identifichi negli Stati Uniti il nemico principale, in quanto superpotenza incapace di gestire il proprio declino egemonico e di accettare un mondo multipolare, e disposta, onde evitare tale declino, a scatenare una nuova guerra mondiale contro Cina, Russia e tutti i Paesi che non accettano i diktat occidentali. Nessuna aggressione imperialista – motivata con la difesa dei “diritti umani” da parte di potenze che quei diritti hanno sempre calpestato – contro qualsiasi Paese può essere tollerata. Ciò vale per la Russia, l’Iran, la Siria, che socialisti non sono, ma vale a maggior ragione per i Paesi socialisti come Cuba, il Vietnam, la Bolivia, il Venezuela e – soprattutto – quella Cina che le sinistre liberal progressiste considerano un Paese autoritario e neocapitalista (dal punto in questione deriva, da un lato, una chiara presa di posizione in favore della Russia nello scontro in corso con il regime neonazista ucraino e il rilancio della parola d’ordine dell’uscita dell’Italia dalla Nato, dall’altro lato una ridefinizione del concetto stesso di transizione al socialismo a partire dall’esperienza cinese e dagli insegnamenti che essa offre in merito alle ragioni del fallimento dell’Urss); 5) il rifiuto di assumere una posizione “codista” nei confronti del movimento femminista (e più in generale della cultura del politicamente corretto) nella misura in cui del femminismo anticapitalista delle origini è rimasto poco o nulla, laddove l’attuale femminismo mainstream mette al centro della propria agenda politica il riconoscimento dei diritti individuali ed è divenuto parte integrante dell’establishment neoliberale (2). Concludevo scrivendo che il Partito Comunista guidato da Marco Rizzo mi sembrava la formazione politica che più si avvicinava a soddisfare i requisiti appena elencati. Dopodiché in un post pubblicato pochi giorni dopo, annunciavo di avere accettato di presentarmi come capolista del PC alle elezioni comunali di Milano.
Dopo diciannove mesi, molta acqua politica è passata sotto i ponti. Sul piano internazionale, abbiamo assistito allo scoppio della guerra in Ucraina e alla sua rapida degenerazione nel prodromo della Terza guerra mondiale, con gli Stati Uniti, l’Europa e la Nato direttamente impegnati al fianco del regime neonazista di Kiev (mentre la tensione nei mari prospicienti la Cina è pericolosamente aumentata). Abbiamo avuto la più clamorosa conferma del ruolo subalterno della Ue nei confronti degli Usa: pur pagando il prezzo più alto della guerra tanto in termini di contraccolpi economici, quanto in termini di ridimensionamento del proprio ruolo geopolitico (con Germania e Francia ridotte a muoversi al traino del blocco anticomunista e russofobo dei Paesi est europei), l’Europa non è stata capace di ritagliarsi il minimo margine di autonomia nei confronti degli Stati Uniti, mentre i suoi media e i suoi partiti di destra, centro e sinistra (a partire da quelli di casa nostra) sono più impegnati di quelli d’oltreoceano ad alimentare una forsennata campagna bellicista. Sul piano nazionale, il governo “tecnico” del proconsole atlantista Draghi (remake ancora più ferocemente antidemocratico di quello di Monti) ha lasciato il posto al governo Meloni, il primo governo dichiaratamente di destra radicale dalla fine della Seconda guerra mondiale (che incarna una sorta di neoliberalismo in salsa Tatcher de noantri più che un regime neofascista, come una certa retorica di “sinistra” va predicando). Ciò è avvenuto dopo una tornata elettorale anticipata che ha visto, a destra il trionfo della Meloni a spese di Salvini e Berlusconi, a “sinistra” il tracollo del PD e una timida ripresa dell’M5S. E all’estrema sinistra?
Purtroppo ho avuto ragione – contro l’infondato ottimismo di alcuni amici e compagni – nel prevedere che la somma di tutti i partitini neo comunisti (camuffati dietro sigle para populiste/para sovraniste o neo arcobaleno) non avrebbe raggiunto il 3%. Ma il punto non è questo, almeno per chi come il sottoscritto da tempo va predicando che compito principale di un partito comunista nell’attuale contesto storico dovrebbe essere impegnare le sue esigue risorse nell’affondare radici nel corpo di classe, invece di sprecarle in velleitarie campagne elettorali. Il vero punto è il marasma teorico e ideologico che ha accomunato tutti i protagonisti di questa poco nobile gara. Sorvolo su ciò che resta di Rifondazione, su Unione Popolare e sul Partito Comunista Italiano guidato da Alboresi, ultime incarnazioni della deriva inarrestabile in cui sono affondati i resti del PCI negli ultimi vent’anni. Mi preme invece accennare ai motivi della mia profonda delusione nei confronti del PC di Rizzo, nel quale avevo riposto qualche speranza per le ragioni sopra esposte. In due post usciti sul mio profilo Facebook ho espresso la mia radicale perplessità in merito all’operazione Italia Sovrana e Popolare: mi è parsa sbagliata la scelta di sacrificare l’identità simbolica del partito a una mini-coalizione che, non solo ha riproposto la fallimentare logica delle liste arcobaleno, ma lo ha fatto alleandosi con una forza dagli ambigui connotati ideologici; mi è parso sbagliato il tentativo di intercettare i confusi fermenti di scontento di strati piccolo borghesi, con la motivazione che oggi sono i soli ad agitarsi mentre le classi lavoratrici sonnecchiano, per tacere della motivazione ancora peggiore – frutto di uno scoraggiante pressapochismo teorico che rinuncia a priori a qualsiasi serio tentativo di analisi di classe – secondo cui questi strati sarebbero oggi compiutamente “proletarizzati” (3); mi è parso sbagliato proseguire su questa strada ignorando lo sfascio organizzativo che ha provocato, causando la fuoriuscita di molti compagni; mi è parso sbagliato “annacquare” quei temi di politica internazionale che mi avevano indotto a vedere in quel partito un’alternativa credibile agli altri “cespugli”; mi è infine parso sbagliato compiere l’ennesimo infruttuoso investimento di tutte le energie sul terreno elettorale invece di concentrarle sulla costruzione del partito di classe.
Non è mio costume esprimere il dissenso con dichiarazioni e gesti ”teatrali”, che servirebbero solo a esacerbare i rapporti con compagni nei confronti dei quali continuo a nutrire amicizia e rispetto, mi limito quindi a formalizzare la mia decisione di defilarmi rispetto a qualsiasi organizzazione pretenda di rappresentare il nucleo di un nuovo partito comunista. D’ora in poi il mio impegno sarà rivolto a contribuire ai difficili, faticosi ma indispensabili tentativi di costruire una rete di relazioni fra gli spezzoni della diaspora comunista che lo sfascio degli ultimi anni si è lasciato alle spalle. Non si tratta di fondare un ennesimo partitino, né tanto meno un ennesimo mini cartello elettorale, ma di gettare le basi di un lungo, paziente lavoro di costruzione di un’avanguardia di classe. Nelle pagine che seguono trovate un estratto di alcune pagine dell’ultima parte del secondo volume di Guerra e rivoluzione (il primo sarà in libreria il prossimo 27 gennaio per i tipi di Meltemi) nelle quali abbozzo un’analisi delle radici lontane della crisi del movimento comunista italiano (in questa anticipazione ho effettuato alcuni tagli, segnalati dai puntini di sospensione fra parentesi, cambiato alcune brevi frasi rispetto al testo originale e introdotto due titoli di paragrafo che nel libro non esistono).
Sull’eredità eurocomunista
Ciò che più colpisce della galassia dei partitini nati dalla dissoluzione del PCI (…) è il loro scarso, per non dire inesistente, impegno nell’indagare le cause di un evento sorprendente: come mai il più grande partito comunista occidentale ha potuto trasformarsi, praticamente dalla sera alla mattina, nemmeno in un partito socialdemocratico, bensì direttamente in un partito liberale. Al posto delle riflessioni ci sono state rabbia, delusione, risentimento, accuse di tradimento nei confronti del gruppo dirigente. Ma quali fattori politico culturali hanno favorito la selezione di quel gruppo dirigente? A confermare che su ciò si è ragionato poco o nulla è il fatto che, discutendo con i compagni, capita di ascoltare nostalgici panegirici di un leader come Enrico Berlinguer, vale a dire dell’uomo che ha officiato il compromesso storico con la DC; che, dopo avere proclamato l’esaurimento della “spinta propulsiva” della Rivoluzione d’ottobre, ha dichiarato di sentirsi al sicuro sotto l’ombrello protettivo della NATO; che, prima di presentarsi ai cancelli della Fiat nell’80, quando la battaglia era già persa, aveva benedetto la svolta opportunista di Lama – svolta che nei decenni successivi è divenuta aperta resa nei confronti di tutte le “riforme” volute dai padroni e dai loro rappresentanti politici.
Se non si riesce a fare i conti con la figura del fondatore dell’eurocomunismo, figurarsi se ci si possono aspettare riflessioni critiche nei confronti dell’eredità teorico politica del “migliore”. Eppure la discutibile interpretazione del concetto gramsciano di “nazional popolare” elaborata da Palmiro Togliatti, è senza dubbio alla radice di molti errori successivi. Per decenni la base del partito si è illusa che la tesi della “lunga marcia attraverso le istituzioni” fosse un diversivo tattico. In realtà si trattava di una svolta che cambiava le regole del gioco rispetto allo storico dibattito sull’alternativa riforme-rivoluzione (…). Per contestualizzare tale dibattito nell’attuale fase storica, occorre chiarire che il punto non è l’alternativa fra rivoluzione violenta e presa del potere attraverso le elezioni, bensì è il seguente: si va al potere per governare il sistema esistente, sia pure “democratizzandone” certi dispositivi, oppure perché lo si concepisce come il primo passo verso un cambiamento sistemico? Rivoluzioni come quelle venezuelana e boliviana sono del secondo tipo, come confermano le Costituzioni alle quali hanno dato vita; l’ascesa al potere del PCI immaginata da Togliatti, prevedeva viceversa una cogestione con i partiti borghesi (a partire dalla DC), che mai avrebbe consentito di avviare un cambio di sistema (ritenuto impossibile anche a causa della collocazione geopolitica del Paese (…). Si tratta di capire come e perché quel riformismo, che non metteva in discussione la natura, le funzioni e gli obiettivi di questo Stato, limitandosi a rivendicare un’applicazione più rigorosa dei principi della Costituzione, abbia ispirato infiniti compromessi con il nemico di classe (…).
Questo mix di elettoralismo ed opportunismo è il marchio indelebile che i partitini neocomunisti hanno ereditato dal PCI. A mano a mano che perdevano voti ed iscritti, riducendosi a “cespugli”, secondo l’ironica definizione degli avversari, cresceva il loro spasmodico impegno per conquistare uno straccio di deputato, senatore, consigliere regionale o municipale. Le scarse risorse organizzative ed economiche venivano spese per realizzare tale obiettivo, piuttosto che per ricostruire il partito di classe. Questa ossessione, associata alle piccole ambizioni di un personale politico di qualità decrescente, in quanto non più forgiato dal fuoco delle lotte, ha innescato la competizione che ha alimentato la frammentazione, fino all’esito grottesco della pletora di marchi con la falce e il martello che ci siamo abituati a vedere sulle schede elettorali. Inutile aggiungere che l’abbassamento del livello culturale di quadri e gruppi dirigenti ha fatto sì che, oltre a ereditare i difetti del vecchio PCI, queste formazioni non hanno mai avviato una seria riflessione sul rinnovamento teorico del marxismo, sulle ragioni del crollo sovietico e del successo cinese, sull’evoluzione del sistema capitalistico globale, sulla sua crisi, né tanto meno, sulle trasformazioni sociali e culturali subite dalle classi lavoratrici occidentali.
In una certa misura, anche i partitini della sinistra extraparlamentare degli anni Settanta, poi confluiti nei movimenti “post politici” dei decenni successivi, sono il prodotto della svolta eurocomunista. Dopo averla contrastata riproponendo pappagallescamente i principi del marxismo leninismo (in forme che Lenin avrebbe liquidato come estremino infantile), e dopo essere stati asfaltati dal riflusso delle lotte operaie e dalla controffensiva capitalista, si sono convertiti a loro volta al neoliberalismo, sia pure in versione “progressista” (…). Una parabola che si sovrappone in buona parte a quella di Rifondazione comunista, esperienza politica che, non fosse oggi ridotta a un patetico e ininfluente residuo, meriterebbe una riflessione ad hoc, nel senso che rappresenta un originale (qui l’aggettivo non ha connotati elogiativi) tentativo di far confluire in un unico calderone i peggiori difetti del vecchio PCI (elettoralismo e tatticismo opportunistico) con i peggiori difetti del movimentismo postsessantottino (estremismo parolaio, individualismo, democraticismo piccolo borghese, autoreferenzialità delle classi medie “riflessive”).
Partito di massa/partito di quadri
Se è vero che costruzione della classe e costruzione del partito dovrebbero essere processi intrecciati, mi sembra chiaro che porre la questione del blocco sociale rivoluzionario prima che questi due processi abbiano raggiunto un adeguato livello di maturazione è sbagliato e controproducente, in quanto rischia di regalare l’egemonia agli strati superiori di classe media, creando le condizioni per una rivoluzione passiva. Il successo delle rivoluzioni socialiste realizzate da alcuni movimenti populisti latinoamericani sembrerebbe smentire tale tesi. La contraddizione è però apparente, in quanto i movimenti in questione sono il prodotto di condizioni socioeconomiche, culturali e storiche ben diverse dalle nostre. In particolare: 1) si tratta di rivoluzioni antiliberiste, antimperialiste e di emancipazione nazionale e razziale, realizzate in contesti regionali che hanno favorito la convergenza di interessi fra masse contadine di etnia india, classe operaia e sottoproletariato urbani, piccola e media borghesia progressiva su obiettivi radicali di riforma costituzionale, redistribuzione della ricchezza e cambiamento di matrice produttiva; 2) a guidarle sono stati leader rivoluzionari di grande capacità politica come Chávez; Morales e Linera, temprati da lunghe e dure esperienze di lotta, i quali hanno saputo innovare creativamente la teoria socialista e mobilitare avanguardie politiche altrettanto esperte e affidabili; 3) infine il processo rivoluzionario ha potuto usufruire di strutture di democrazia diretta e partecipativa sorte nel corso di lotte precedenti. Per inciso: i partiti comunisti locali, caratterizzati da posizioni teoriche e ideologiche dogmatiche, sono stati incapaci di assumere un ruolo egemonico, finendo per venire assorbiti e integrati in nuovi partiti rivoluzionari come il PSUV venezuelano e il MAS boliviano.
Il progetto di replicare queste esperienze nei Paesi a capitalismo avanzato messo in atto da movimenti populisti di sinistra come Podemos, è fallito perché ispirato al tentativo del filosofo argentino Ernesto Laclau di “universalizzare” il modello delle rivoluzioni latinoamericane: si è puntato a “costruire un popolo”, cioè un blocco sociale rivoluzionario, prima di lavorare all’unificazione delle classi lavoratrici e alla costruzione d’un partito rivoluzionario radicato nel sociale; si è tentato di egemonizzare i movimenti di massa contro le politiche neoliberiste attraverso l’uso dei nuovi media e non reclutandone e organizzandone politicamente le avanguardie; si è mirato a ottenere in tempi brevi una maggioranza elettorale in grado di conquistare il governo, senza capire che la guida del governo in assenza di un progetto di mutamento sistemico sarebbe stata di breve durata, né avrebbe consentito di modificare i rapporti di forza fra le classi. Questa linea politica, oltre a produrre gravi compromessi su temi strategici, come l’atteggiamento nei confronti del blocco atlantico e delle sue guerre imperialiste e la mancata tutela degli interessi nazional popolari nei confronti delle politiche neoliberiste della UE, ha progressivamente eroso il consenso delle masse popolari fino ad azzerare le velleità maggioritarie. Anche in questo e altri casi, i comunisti organizzati nei partiti tradizionali hanno svolto un ruolo marginale, muovendosi a rimorchio dei populisti.
In Italia, a fronte della riduzione delle sinistre nella migliore delle ipotesi a opposizione del re nella peggiore a agenti diretti degli interessi delle élite dominanti, lo spazio politico liberato dal loro fallimento è stato per alcuni anni occupato da un movimento come l’M5S, il quale, più che una sinistra populista è stato, sul piano organizzativo il collettore delle velleità “sovversive” di strati piccolo borghesi vecchi e nuovi, penalizzati dalla crisi e in stato di agitazione permanente fin dai tempi di Tangentopoli, sul piano elettorale e dell’opinione pubblica, un megafono della rabbia delle classi subalterne schiacciate dalla crisi. Allorché questa falsa alternativa si è ridimensionata a causa delle sue grottesche contorsioni di linea politica, nella galassia dei partitini neo comunisti sì è diffusa l’illusione di poterne ereditare l’effimero consenso popolare.
Suggestionata dalle sirene populiste, frammentata sul piano organizzativo e penalizzata dal mancato rinnovamento teorico, la piccola famiglia dei comunisti italiani tenta di mettere il carro davanti ai buoi, punta cioè alla costruzione di un blocco sociale prima di avere avviato la ricostruzione della classe e del suo partito; spera di utilizzare la base elettorale dei grillini come scorciatoia per bypassare i tempi necessari a selezionare le avanguardie presenti nei fronti di lotta, formarle come quadri politici, riunificare le disiecta membra del movimento comunista, elaborare un programma rivoluzionario e forgiare gli strumenti per metterlo in atto. Tornano i soliti vizzi – opportunismo, elettoralismo, codismo, demagogia, ecc. – aggravati dall’urgenza imposta dalla crisi economica e geopolitica mondiali. Così si gratta la pancia al movimento No Vax, evitando di depurare la sacrosanta rabbia che lo alimenta dalle scorie complottiste e dai deliri pseudoscientifici di alcuni esponenti; si strizza l’occhio ai movimenti sovranisti, senza storcere il naso di fronte ad alcune componenti chiaramente di destra; si tessono intese elettorali con reduci dell’M5S in cerca di sponde per riconquistare un seggio. Confondendo questi frammenti semi organizzati di ceto politico con i sentimenti di frustrazione e di rabbia delle masse popolari che costoro pretendono di rappresentare, si crede di poter costruire su simili fragili fondamenta un partito di massa, senza “perdere tempo” a costruire un partito di quadri.
Note
I libri in cui mi sono occupato delle potenzialità politiche del populismo e del sovranismo di sinistra sono Utopie letali (Jaka Book, Milano 2013); La variante populista, (DeriveApprodi, Roma 2016) e Il socialismo è morto. Viva il socialismo (Meltemi, Milano 2019) . Quanto alle esperienze di militanza cui mi riferivo nel post in questione si trattava di Eurostop, propaggine della Rete dei Comunisti riassorbita, di fatto, in Potere al Popolo e nel cartello elettorale di UP, ma soprattutto del progetto politico di Nuova Direzione che, dopo avere lasciato Eurostop in disaccordo con la scelta di confluire in PaP, avevo contribuito ad avviare assieme ad altri amici e compagni, scommettendo sull’esistenza di uno spazio politico per un movimento populista/sovranista di ispirazione esplicitamente socialista che si è rivelato inesistente.
(2) La letteratura sulla confluenza del femminismo mainstream nell’area del liberalismo “progressista” è ormai ampia: si vedano, in proposito, gli scritti di un’autrice come Nancy Fraser.
(3) Le tesi sulla cosiddetta proletarizzazione dei ceti medi riemergono ciclicamente. Si pensi al successo che ottennero fra la fine dei Sessanta e l’inizio dei Settanta, quando i movimenti della sinistra extraparlamentare le cavalcavano per legittimare il presunto ruolo rivoluzionario dei movimenti studenteschi (da cui proveniva la grande maggioranza dei loro militanti). La storia si è poi incaricata di dimostrare come la schiacciante maggioranza di quei “nuovi proletari” – esaurito il ciclo di lotte cui avevano partecipato - sia prontamente rientrata nei ranghi di una piccola media borghesia fatta di nuove professioni e nuovi strati tecnico-impiegatizi, se non addirittura manageriali, ben integrati nei valori, nei principi e nelle regole nell’emergente sistema neoliberista (vedasi in proposito L. Boltanski, E. Chiapello, Il nuovo spirito del capitalismo, Mimesis, Milano-Udine 2014). Oggi si tenta di riproporla, associandola all’effervescenza dei ceti medi impoveriti, impossibilitati a svolgere ruoli e mansioni all’altezza delle competenze professionali acquisite, o titolari di attività produttive messe a rischio dalla crisi economica, dagli effetti della pandemia del Covid19 e/o della guerra russo-ucraina, il tutto senza considerare che tali effervescenze sono motivate dalla speranza di riacquisire i propri privilegi più che dalla comprensione delle cause politico-economiche delle proprie paure, disagi e frustrazioni che non vengono attribuite al sistema neoliberale bensì al fatto che a tale sistema viene impedito di esercitare i suoi effetti benefici da politici disonesti e corrotti.
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