Marx e la Gemeinwesen
gen 4th, 2023 | Di Thomas Munzner | Categoria: Cultura e societàGrundrisse,
Prefazione a Urtext
di Jacques Camatte
È nel Frammento del testo originario (Urtext, 1858) e nei Grundrisse, opere incompiute o abbozzi di Marx, che si trovano piú possibili, che il sistema è aperto.1 È un momento di legame essenziale con le opere dette «filosofiche», giovanili. Non che Marx abbia successivamente abbandonato ogni contatto con la filosofia, tutt’altro. Il Libro primo del Capitale è pienamente comprensibile solo se si conosce almeno ciò che Aristotele ha scritto nella sua Metafisica a proposito della forma e della materia, e la logica di Hegel. In non poche pagine del Capitale si ha inoltre un’innegabile eco spinoziana. Nell’Urtext è ad un Hegel giovane che Marx si collega, un Hegel che gli era sconosciuto, quello che s’interrogò a fondo sulla Gemeinwesen, in particolare quella greca; e al di là di Hegel, Marx si collega sotterraneamente a una quantità di uomini come Gioacchino da Fiore, Niccolò da Cusa ecc.2
Autonomizzazione del valore di scambio, comunità, rapporto Stato-equivalente generale, definizione del capitale come valore in processo, tali sono i punti essenziali affrontati nell’Urtext. Non gli sono esclusivi, perché li si ritrovano nei Grundrisse e nel Capitale. Tuttavia in questo testo lo studio è piú sintetico e i diversi argomenti sono affrontati simultaneamente; ed essi sono rilevanti, soprattutto per ciò che riguarda l’autonomizzazione e la comunità. Nel Libro primo del Capitale invece l’esposizione è piú analitica.
Nel complesso, per quanto riguarda la comunità, Marx fa, nelle opere pubblicate mentre era in vita, il seguente ragionamento: la distruzione della vecchia comunità a causa dell’autonomizzazione del valore di scambio, distruzione che permette pure l’autonomizzazione dei diversi elementi costitutivi (individuo, politica, religione, Stato), costituisce il punto di partenza di un ampio movimento, del quale profitta la borghesia per svilupparsi.
Ma non sembra che, per Marx, essa possa veramente fondare un’altra comunità. Ancor meno la questione è affrontata per ciò che concerne il capitale. Solo il proletariato può, distruggendo quest’ultimo — momento ultimo del movimento-divenire del valore, della società di classe — fondare una nuova comunità, la comunità umana.
Nelle opere postume quali l’Urtext e i Grundrisse (e tenendo conto che non sono ancora state pubblicate tutte), si constata invece che Marx pone la possibilità di formazione di una comunità, sia grazie all’oro che grazie al capitale. Tale è l’interesse fondamentale di questi testi. A partire da essi, si può mettere in evidenza l’impossibilità in cui si trovò l’oro di porsi a fondamento di una comunità, e l’accesso, al contrario, del capitale alla comunità materiale.
Nell’insieme dell’opera di Marx, vi è dunque giustapposizione tra l’individuazione di un movimento del capitale che si costituisce in comunità materiale e l’affermazione della sua impossibilità, legata alla folle speranza che il proletariato si ribelli a tempo e distrugga il modo di produzione capitalistico (MPC). Ora, la comunità capitale esiste; ciò comporta l’abbandono di ogni teoria classista e la comprensione del fatto che un’immensa fase storica si è conclusa.
I lavori di Marx sulla comunità sono stati lasciati da parte.3 In Germania, i teorici come Weber e Tönnies non fanno affatto riferimento alle varie opere che abbiamo appena citato. Nel constatare questo, non ci proponiamo di ricomporre un Marx nuovo, ma di far semplicemente notare fino a che punto la riflessione marxiana sulla comunità sia un’asse fondamentale di tutta la sua opera.
Per capire l’importanza, il significato di questo approccio marxiano al divenire sociale, occorre collegare l’Urtext al capitolo dei Grundrisse «Formen, die der kapitalistischen Produktion vorhergehen» (Forme che precedono la produzione capitalistica). Marx vi studia i vari periodi storici che precedono il capitale, a partire dalle forme di comunità; lavoro immenso, come attestano i vari studi che egli fece sull’etnologia e sull’età preistorica. Non si tratta, anche qui, di voler organizzare in modo diverso quanto ci è dato, né cercar di dislocare un capitolo in rapporto a un altro. Si deve semplicemente affrontare i diversi approcci dello studio e, malgrado le lacune, cogliere la direzione a cui tendeva lo sforzo di riflessione di Marx. È allora che ci si rende conto quanto l’Urtext sia un punto di articolazione privilegiato per tale comprensione. Si pone allora la questione di sapere come si sarebbe potuto presentare il capitolo sullo Stato, uno dei sei che Per la critica dell’economia politica doveva contenere. Sembra che, come per il capitale, Marx si sia reso conto della difficoltà di trattarlo isolatamente, in quanto lo Stato può essere concepito solo a partire dalla comunità e inoltre il divenire dello Stato si mescola intimamente a quello del valore, poiché esso tende a costituirsi come comunità in due momenti storici: con l’oro, senza riuscirvi, e poi con il capitale, quando riesce.
La questione dello Stato non si pone negli stessi termini che nelle opere politiche. Di conseguenza vi è coesistenza di due discorsi: 1° il valore di scambio che perviene all’autonomia e nel suo movimento crea la comunità, e per farlo si assoggetta lo Stato; 2° lo Stato prodotto della lotta delle classi, la classe dominante erigendosi a Stato per dominare la classe avversa della società.
Nell’Urtext vi è tendenza ad una sintesi dei due discorsi. Tuttavia Marx non affronta realmente il tempo e il luogo della nascita delle classi. Ciò l’avrebbe condotto a relativizzare il suo schema dell’evoluzione sociale ancora di piú di quanto lo fece nella discussione con i populisti russi. Le classi si manifestano effettivamente solo in Occidente, giacché è solo in esso che si produce l’autonomizzazione dell’individuo. Ma il fenomeno Stato non gli è peculiare. È qui che l’analisi marxiana è insufficiente. In «Formen…» Marx ha intuito certe realtà quando ha trattato della società inca, a proposito della quale egli parla di uno Stato nell’ambito di una società comunista, ma non mette abbastanza in evidenza che lo Stato è un’astrazione dalla Comunità, che è piú o meno autonomizzato, separato dall’antico corpo sociale legato alla natura.
Le ricerche posteriori a Marx hanno talvolta rivelato e soprattutto accertato l’esistenza di Stati non ancora separati dalla comunità e dalla natura. Cosí tra i Sumeri, si ha, come dice Thorkild Jacobsen, «il cosmo in quanto Stato».4 L’organizzazione del cosmo dètta quella della comunità, definisce la gerarchia e dunque lo Stato. È un momento in cui la separazione tra interiorità ed esteriorità non si è ancora compiuta, non è ancora trascorsa. A posteriori, possiamo dire che è un dato tipo di comunità che implicava un tale rapporto col cosmo che attribuiva ad esso una funzione determinante; ma è chiaro che un simile ragionamento, giusto, non vale assolutamente per il momento in cui uomini e donne di quella comunità vivevano. Per essi, vi era un tutto comunitario.
Gli uomini e le donne non avevano ancora abbandonato la vecchia rappresentazione-concezione del mondo dei popoli che non sono sedentarizzati. L’esplosione di quel tutto che essi formano insieme al pezzo di terra su cui vivono non si è ancora avverata. Non si può dunque parlare di Stato, di classi, di religione, di arte ecc. Siamo noi che, in funzione di quanto avvenuto nel corso degli ultimi secoli, astraiamo tali elementi in tali comunità.
Con determinazioni diverse, si rileva una simile assenza di separazione nell’antico Egitto. Tuttavia in esso lo Stato presenta una certa autonomizzazione.
Nel caso della Cina la separazione, per quanto iniziata, non si è effettuata. Colui che gli europei hanno chiamato Imperatore era infatti il «figlio del cielo» che da esso riceveva il suo mandato. Certe manifestazioni naturali possono talvolta significare che il suo mandato deve essergli revocato: il che indica appunto il rapporto dell’«imperatore» col cosmo e la sua funzione in seno ad esso. In particolare, assicurando un ordine sociale, egli garantisce nello stesso tempo un’acquisizione basilare, la separazione dell’uomo dall’animalità. Quando regna il disordine, si ha ritorno ad essa. Cosí l’imperatore regge il rapporto tra il cosmo e l’ambiente sociale.
Si potrebbero citare vari altri esempi, che appaiono come casi particolari che non si può disporre in maniera unilineare in quanto il processo di autonomizzazione non ha operato in modo identico nelle diverse comunità. Lo studio delle società africane e amerinde rivelerebbe tutti i possibili. In La società contro lo Stato, Clastres ha messo in evidenza i meccanismi che impedivano l’autonomizzazione del potere, della gerarchia, dello Stato.5
È in Grecia che si ha separazione, autonomizzazione, e che si ha uno Stato, individui, classi, nel momento stesso della separazione dal pensiero «mitico», nascita della scienza, della logica e, ci torneremo piú ampiamente in altri lavori, della terapeutica. Lo Stato vi è ancora espressione sensibile dell’antica Gemeinwesen; il movimento del valore non ha ancora raggiunto un eccessivo sviluppo. Con l’Impero romano si afferma la necessità di uno Stato che deve dominare, sovrastare, controllare una miriade di comunità, da cui il tentativo di confluenza per dissoluzione di tutte le comunità nella romanità, con perdita della diversità (tentativo già fatto dai Greci: l’ellenizzazione dei barbari). Qui, il cristianesimo svolse un grande ruolo. È lui che perverrà a realizzare l’omogeneizzazione o distruzione, domesticazione di gruppi umani ove la forza non fosse stata efficace; per esempio, è quanto avvenne coi sardi.
Nel Rinascimento si fa strada in maniera piú netta lo Stato come equivalente generale (cfr. Marx nell’Urtext): accentuazione del fenomeno di passaggio dalla verticalità del movimento del valore alla sua orizzontalità. Il punto di arrivo non è piú un dio, e dunque un tempio, ma, a seguito della scomparsa della tesaurizzazione sacra, i movimenti si fanno in tutti i sensi orizzontali; si ha da allora necessità di un elemento di regolazione e di controllo.
Con lo sviluppo della società borghese la lotta delle classi diventerà determinante, se non altro perché i protagonisti del dramma non ragionano piú in funzione di una comunità o, se si vuole, perché questa si ridurrà entro i limiti di una classe. È in questo momento che le classi saranno realmente determinanti, operative. Si avranno le varie rivoluzioni che dal secolo XVI ai nostri giorni segnano le tappe dell’instaurarsi del MPC e, adesso, della comunità capitale.
Lo Stato è considerato come un «artificio», un’istituzione necessaria per unire i diversi elementi sociali; da qui la sua importanza, la sua possibile autonomizzazione e il fatto che esso possa divenire piú forte della società (Marx). Oggi la sua importanza resta sempre considerevole, ma esso tende ad essere assorbito nella comunità-capitale.
Ho trattato altrove6 il movimento di formazione della comunità materiale e i suoi caratteri fondamentali; comunità materiale perché è un elemento morto, cristallizzato, opera di milioni di esseri umani esteriorizzati sotto forma di capitale fisso che fonda la comunità. È il momento essenziale in cui il capitale rimpiazza i suoi presupposti con le sue condizioni di sviluppo, quello dell’accesso alla comunità; ma ciò non indica tutto ciò che è la comunità capitale. Ho mostrato l’importanza che pure aveva il capitale circolante nella realizzazione di questa. Tuttavia essa non avrebbe potuto instaurarsi, né a maggior ragione riprodursi, se la mentalità degli uomini e delle donne non fosse stata modificata al fine ch’essa corrispondesse alle nuove esigenze del modo di vita determinato dal capitale.
In un primo momento sono le ideologie di classe che permettono ai diversi attori di rappresentarsi piú o meno adeguatamente il proprio ruolo nel processo di vita del capitale, anche quando a lui si oppongono (caso della limitazione della giornata lavorativa): successivamente è il movimento stesso del capitale — il capitale che si pone in quanto rappresentazione — che fonda le rappresentazioni degli esseri umani e li guida nella loro prassi. A questo livello, voler definire quello che viene prima o dopo equivale a discutere del famoso problema dell’uovo e della gallina. Ciò che è innegabile è la forza apparentemente indistruttibile della rappresentazione. Il divenire di ciò che è in atto appare eterno.
Ironia vuole che sia appunto in questo momento che il materialismo storico trionfi, ponendosi come adeguata rappresentazione del mondo capitalista che è a uno stadio assai lontano da quello che l’ha generato! La realizzazione della comunità capitale e la fine della fase storica iniziatasi col sorgere del valore di scambio si traduce nell’apparizione di nuove discipline: teoria dei sistemi (Bertalanffy), semantica generale (Korzybski), una «teoria di altissima complessità» (Morin), e nell’importanza di certi termini: struttura, totalità, organizzazione,, sistema, codice ecc…Da cui la preponderanza della semiotica: occorre conoscere il significato di un sistema, quello delle sue diverse parti; occorre cogliere i suoi significanti ove l’uomo non ha piú alcun significato.
In un mondo che perde sempre piú i suoi punti di riferimento, i suoi vincoli (tutto è possibile; occorre notare a questo proposito che vi è una certa contraddizione tra un’evanescenza dello Stato centrale come punto di riferimento, sede dell’equivalente generale, e la necessità di un organismo di repressione piú o meno centralizzato) s’impone l’esigenza di una scienza del significato dell’informazione Tutto è esteriorizzato, autonomizzato. Uomini e donne hanno davanti a sé la comunità della loro spoliazione. Occorre davvero un codice per comprendere cosa accade, e il codice è la riduzione della comunicazione. Non è piú possibile parlare in termini di antipatia o di simpatia; gli esseri sono particelle neutre di registrazione d’informazione e di rinvio di essa. L’antica fede che era cosi importante nelle epoche passate, è stata sostituita dal credito che è la fede in un sistema nel quale l’uomo è ancora un referente, e poi dall’inflazione che è la fede del capitale in se stesso.7 L’accettazione di ciò avvia l’umanità su una strada sempre piú assurda: ogni essere umano non sarà altro che un esistente «gettato» nella comunità capitale e messo in movimento dal divenire di questa.
Per affrontare la realtà attuale, non si tratta piú di ragionare in termini di modo di produzione. Non c’è piú un modo di produzione capitalista, bensí la comunità capitale nella quale lo Stato è sempre piú immerso.
Piú in generale si può affermare che c’è un modo di produzione definito quando la produzione costituisce realmente un problema, tanto a causa di difficoltà materiali, tecniche, che sociali. Il capitale produce tutto, anche ciò che sembra essere al di fuori della sfera di produzione industriale, in serie, e riduce gli esseri umani alla stessa situazione di dipendenza di fronte a lui. È l’alienazione compiuta. Gli esseri umani sono totalmente divenuti altri o, il che è lo stesso, gli schiavi hanno a tal punto accettato il potere del padrone da esserne divenuti il simulacro. Con ciò, è finita ogni dialettica dei concetti di forze produttive e dei rapporti di produzione di cui parlava Marx nell’«Introduzione» del 1857; d’altra parte la produzione non è piú semplicemente produzione per la produzione, bensí produzione per la riproduzione del capitale. Essa ritrova un soggetto e cosí perde il suo carattere di oggetto.
Tutti i concetti della dialettica delle forze produttive diventano evanescenti e operano tutt’al piú come momenti di comprensione del movimento del capitale. Già Marx scriveva:
Il risultato al quale perveniamo non è che produzione, distribuzione, scambio, consumo siano identici, ma che essi costituiscono tutti i membri di una totalità («Introduzione» del 1857).
In particolare, quei concetti che erano centrati, articolati intorno all’attività umana: lavoro-riposo, tempo di lavoro-tempo libero, valore-plusvalore, come pure quelli che si sono svincolati da essa: profitto— perdita, ecc…, perdono ogni operatività. Ed evidentemente è la coppia penuria-ricchezza sottesa al concetto di bisogno, quella che piú nettamente svanisce. Quando gli esseri umani vengono strappati alla loro comunità, sorgono le realtà che fondano i concetti di bisogno, di penuria, di tempo lavorativo ecc…, ma nella misura in cui una comunità è ricostituita da tutti gli elementi che si erano individualizzati e autonomizzati, essi vengono riassorbiti, e si constata che essi sono solo momenti di articolazione di un divenire alla comunità capitale.
Queste sono le determinazioni del comportamento umano, una volta che uomini e donne si siano staccati dalla loro comunità.
Piú in generale, è la fine dell’economia politica, soprattutto se ci si riferisce a questa affermazione di Marx:
La vera economia — risparmio — consiste in risparmio di tempo di lavoro… (Grundrisse, p. 599).
Ora, il capitale si è accaparrato durata e tempo umani.8
L’economia nel senso di risparmio è possibile solo quando il tempo è autonomizzato, è contato; d’altra parte Marx, nel Capitale, insiste proprio sul rapporto tra misura del tempo e sviluppo dell’economia, sviluppo del capitale fisso; economizzare, risparmiare, può condurre a una situazione tale che l’individuo faccia anche l’economia della propria vita dal momento in cui avrà contratto un’assicurazione sulla vita e si sarà acquistato un loculo al cimitero. È un modo grottesco d’indicare una realtà: l’economia è un escamotage della nostra vita.
Per Marx l’economia di tempo di lavoro è in definitiva il punto essenziale ed egli ne fa quasi la determinante dell’evoluzione umana. Ora, come egli stesso dimostra, è con lo sviluppo del capitale nel secolo XV che apparirà veramente questo imperativo che genera una lotta secolare tra capitalisti e operai, che arriverà al parossismo in Inghilterra nel secolo XIX, con la lotta per la regolamentazione della giornata lavorativa, che fu una vera e propria guerra civile che durò 50 anni (Marx). In altri paesi essa si produsse piú tardi, tuttavia essa prosegue ancora benché sotto altre forme. Il risultato ne è lo strutturarsi della comunità capitale, l’assoggettamento degli esseri umani al tempo quantificato, l’accettazione di condurre la propria vita entro un quadro rigido. Si è arrivati all’organizzazione del tempo per il capitale ed è a partire da ciò che esso può mettere a punto la programmazione di tutti i momenti della vita umana. Questa viene sezionata in porzioni di tempo, nel corso delle quali dobbiamo compiere determinate funzioni. effettuare certi processi vitali. O meglio, ora in virtú di questo ritaglio, vi è, per uomini e donne crocifissi su questi quanta di tempo, una produzione che è loro appropriata, per i giovani con le sue numerose suddivisioni, per gli adulti, per le persone della terza età (in previsione la quarta), per i defunti (la tanatologia: la morte è per il capitale la capitalizzazione assoluta del tempo, il tempo omogeneo che non include alcuna opposizione).
Il capitale è accumulazione di tempo; esso lo riassorbe, lo assorbe (si può avere entrambe le modalità) e perciò si pone come eternità. Marx affronta tale questione dell’eternità dal lato formale. Parla di Unvergänglichkeit che esprime l’idea di qualcosa d’imperituro e nel contempo l’idea che non si può passare ad altro:
L’eternità — durata del valore nella sua forma capitale — è posta soltanto tramite la riproduzione che è essa stessa duplice: riproduzione in quanto merce, riproduzione in quanto denaro e unità di questi due processi di riproduzione (Grundrisse, p. 539).
Sviluppata dal punto di vista della sostanza, l’eternità del capitale implica anche l’evanescenza degli uomini, vale a dire tanto la loro scarsa durabilità quanto la loro insignificanza. Il capitale sottrae all’uomo il tempo — elemento del suo sviluppo, secondo Marx. Esso crea un vuoto nel quale il tempo si abolisce; l’uomo perde un riferimento importante, non può piú riconoscersi, percepirsi. E il tempo congelato gli sta di fronte.
Fine dell’economia in quanto scienza della ricchezza che è sia accumulazione di valori d’uso sia accumulazione tesaurizzazione di valori di scambio (denaro, capitale). Ora si è mostrato che col capitale non sono piú i valori d’uso per l’uomo ad essere essenziali, bensí il movimento di valorizzazione-capitalizzazione nel cui ambito ogni differenza tra valore d’uso e valore di scambio si abolisce. La ricerca della ricchezza è diventata ricerca di una posizione privilegiata all’interno del processo di vita del capitale, al fine di poter profittare della sua comunità materiale.
Tale ricerca della ricchezza era abbinata alla lotta contro la penuria.9 Ora, questa comincia realmente solo con l’autonomizzazione del valore di scambio. Le «comunità primitive» non la conoscevano, come del resto non conoscevano l’assillo del tempo libero. Inoltre la penuria attuale riguarderebbe ormai la vita stessa, essendone gli esseri umani sempre piú privati… quando se ne rendono conto., cioè quando mettono in questione il diktat del capitale, altrimenti quest’ultimo sembra appagarli immediatamente o almeno in un futuro non lontano.
L’economia in quanto scienza degli scambi svanisce anch’essa. Ho mostrato altrove come il capitale tendesse a superare lo scambio e come vi sia pervenuto (cfr. K. Marx, Grundrisse, pp. 456 e 491). Non c’è piú scambio, ma attribuzione. Fatto significativo: gli economisti moderni parlano di flussi economici.
Vi è un fondamento dell’economia che anch’esso perde la sua operatività: la divisione del lavoro. Questa è stata spesso messa in parallelo con i diversi modi di produzione. Ora, con il capitale, essa diventa una semplice differenziazione tra momenti di esso, un rapporto tra mezzi di produzione e mezzi di consumo. Infine scompare anche l’economia nel senso di gestione (come già l’usava Senofonte), tanto privata che pubblica, poiché la gestione implica un soggetto che gestisce e un oggetto da gestire. Ciò è valido finché gli uomini hanno ancora un potere d’intervento, mentre ora è solo la razionalità del capitale a imporsi. Gli uomini che vogliono gestire devono semplicemente riconoscere il movimento del capitale. Nella misura in cui vogliono intervenire, essi possono solo ostacolare transitoriamente il movimento. Non gestiscono piú, registrano.
Qualcuno ha voluto estendere le categorie dell’economia politica ad ambiti che le erano prima estranei, da cui le teorie sull’economia libidinale (Lyotard), sulle macchine desideranti ove il desiderio sostituirebbe il bisogno (Deleuze-Guattari). Ora, a partire dal momento in cui si verifica l’incapacità della teoria marxista a cogliere i fenomeni sociali (la sua aporia! secondo i nuovi teorici), come si può trasporla nella psicologia, per esempio, e partendo da qui costruire una teoria globale? Si può muovere una critica analoga agli autori di Apocalisse e rivoluzione allorché parlano di «economia dell’interiorità».10
Nella misura in cui un concetto tende a invadere ambiti che all’origine gli sono estranei, ciò significa l’estensione del fenomeno che esso rappresenta e la perdita degli esatti limiti, di determinazioni rigorose che permettevano di caratterizzarlo, di definirlo. Economia, ne viene a significare organizzazione di qualcosa, di un tutto, un processo funzionale; il modo in cui vengono organizzate proposizioni, affermazioni per pervenire a stabilire un certo senso. Cosí è in questa frase di Fesquet:
Questa è l’economia del Vangelo: Gesú ha liberato l’uomo dal suo peccato. L’umanità è stata riscattata dal suo amore. («Sens et défense du péché», in Le Monde del 6 marzo 1976).
L’economia come scienza dell’organizzazione di un certo ambito geografico, tende ad essere soppiantata dall’ecologia dato i problemi dell’inquinamento e il rarefarsi delle materie prime (ma questa non è una penuria per gli esseri umani, e poi si profila sempre la possibilità di un surrogato!). La sfera dell’economia si dilata fino a non avere piú consistenza reale, il concetto si diluisce sempre piú. La Terra viene prospettata come un ecosistema totale che il capitale deve sfruttare, attraverso gli uomini in una misura sempre minore.
Si trova un’ottima espressione nella definizione che certi economisti danno della scienza economica (non si parla piú di economia politica): una scienza dell’adattamento. Tale concezione integra le vecchie categorie: ricchezza, scambio, prezzo, utilità ecc… Il che le permette pure di tener conto di ciò che è la «natura umana». L’essere umano ha un «bisogno di infinito» che urta sul «finito della creazione» (H. Guitton nella voce «Science économique» dell’Encyclopedia Universalis), da cui i bisogni sono innumerevoli e i mezzi per soddisfarli sono limitati. D’altra parte questi possono non trovarsi nel momento giusto al posto giusto.
Nondimeno lo sviluppo economico ha accresciuto le possibilità, per cui si pone a tutti i livelli il problema di saper scegliere prodotti, dei mezzi di produzione e cosí via. L’atto economico sarebbe l’atto di scegliere. Da cui l’importanza del calcolo che rimpiazza il semplice giudizio che era legato al concetto di valore: e questo atto di scegliere implica evidentemente l’adattamento degli esseri umani al sistema economico. Saper scegliere, è saper adattarsi. Non è questo nello stesso tempo il credo di tutti i futurologi? Occorre adattarsi allo shock del futuro, che è quello del capitale che sfugge a ogni costrizione, a ogni riferimento, e si dispiega per proprio conto e incalzando a frustate il piú lento modo di vita della specie che lo ha generato.11
Ritroviamo la convergenza con l’ecologia che si può definire semplicemente come la scienza delle condizioni di esistenza e delle interazioni tra gli esseri viventi e le condizioni ambientali, e che è fondamentalmente una scienza dell’adattamento dell’individuo e della specie al suo ambiente. La scienza economica è la scienza dell’adattamento dell’uomo a un preciso ambiente, quello del capitale.12
L’economia politica è stata la scienza del divenire del capitale alla sua totalità; per far ciò essa non solo ha inventariato i fenomeni puramente economici concernenti il valore di scambio, l’utilità, il capitale ecc…, ma ha descritto in modo piú o meno esplicito anche come gli uomini interiorizzassero i fenomeni, diventando ad essi sempre piú compatibili… a seguito di collisioni, di lotte che facevano loro abbandonare le loro antiche concezioni. Con il realizzarsi della comunità materiale, il capitale esiste in quanto mondo. Rimane solo da studiare come gli esseri umani che hanno interiorizzato il capitale si adattino al suo processo di vita: è il compito della scienza economica.
Il capitale s’impadronisce della dimensione del cosmo e riscopre lo spazio che tendeva a distruggere («la distruzione dello spazio grazie al tempo», K. Marx, Grundrisse, p. 423), ma questo sempre secondo il suo modo di essere: dopo che per esteriorizzazione essi sono stati carpiti agli esseri umani. L’economia è stata riflessione sui fenomeni che si svolsero a partire dall’autonomizzarsi del valore di scambio. e un tentativo d’intervenire al loro interno, al fine di conciliarli con i rapporti sociali vigenti. Essa è sempre stata piú o meno impregnata di ideali umanitari.
Con l’instaurarsi del modo di produzione capitalista, il movimento sociale e il movimento economico confluiscono. La lotta del proletariato all’interno di questo modo di produzione ha permesso di strutturare tale unità-unificazione. Da allora l’economia non può essere piú altro che un discorso del capitale il quale. nell’accedere alla comunità materiale, rende caduco l’intero contenuto dell’economia politica.
L’economia traduce un certo comportamento di una parte della specie sulla Terra. Al momento in cui essa perde la sua realtà, significa che questo comportamento tende ad abolirsi: moltiplicarsi indefinitamente (si constata un calo della natalità in tutti i paesi piú capitalizzati), porsi sempre piú differenti dal resto del mondo vivente, considerare la Terra come oggetto di sfruttamento, abbandonarsi alla tecnica e all’esaltazione delle forze produttive, al progresso.
Una via dell’evoluzione della specie è stata totalmente percorsa. Ne consegue che deve finire l’autopercezione del comportamento adottato come pure la riflessione su di esso; dunque fine della filosofia, poiché essa è tra l’altro riflessione sui valori, sul valore. Comportamento teorico che gerarchizza il mondo degli esseri e delle cose nella dicotomia esteriorità-interiorità.
Per Marx l’economia era la scienza che permetteva di descrivere come le «comunità primitive» erano state distrutte, di rivelare il determinismo dell’evoluzione delle differenti società umane, di spiegarne le rivoluzioni e, nella misura in cui faceva una critica dell’economia politica, egli poteva individuare le contraddizioni del MPC che dovevano portare alla rivoluzione proletaria che avrebbe permesso l’emancipazione-liberazione di tutta una classe di uomini e quella dell’umanità. Ora, lo si è visto, la dinamica dell’emancipazione-liberazione è quella del capitale. È lui il grande rivoluzionario e di tutte le rivoluzioni ha profittato. La serie delle rivoluzioni è dunque finita, si è conclusa con la realizzazione della comunità capitale. Il divenire umano non può piú essere legato alla rivoluzione.
Cosí ha termine il movimento di esteriorizzazione-autonomizzazione e di liberazione-emancipazione che abbiamo analizzato a partire dal dissolversi delle «comunità primitive» nell’area occidentale e si abolisce la dialettica, rappresentazione di questo movimento, quella del padrone e dello schiavo per la scomparsa delle classi e, da ciò, è la scomparsa del movimento dell’alienazione poiché, nella comunità capitale, si ha spesso giustapposizione tra l’essere che è stato spogliato e ciò di cui egli è stato spogliato; essi possono essere riuniti, ma in quanto realtà separate; la comunità terapeutica le ha cicatrizzate meglio che può. La religione stessa perde in funzionalità, poiché non è piú lei a legare gli esseri (il suo carattere comunitario si attenua sempre piú), ma il capitale— rappresentazione. Esso, distruggendo sempre piú le radici umane, distrugge il ricordo di qualcosa che la religione conservava e che la conservava. Tutte le religioni della salvezza sono fondate sul ricordo. E come, ancora una volta, può esserci alienazione quando non si ha piú ricordo di uno stato altro? Il limite assurdo del movimento del capitale è una comunità umana senza uomini che realizza cosí, in maniera esasperata il soggetto-automa di cui, dopo Ure e Owen, parlava Marx nel Capitale.
Di conseguenza lo studio storico dello sviluppo della specie nel corso del tempo dopo il suo sorgere permette di conservare o ritrovare il ricordo di uno stato altro, non per restaurare tale stato ma per dimostrare che l’eternizzazione del capitale si realizza solo nella misura in cui viene abolita la nostra memoria. Senza memoria, niente comunità umana. Si potrebbe credere che il passaggio da una comunità ad un’altra, se pone problemi pratici e provoca molteplici lacerazioni, possa almeno essere colta, compresa dagli uomini e dalle donne. Ora, e questo è un apporto essenziale dell’Urtext, Marx mostra fino a qual punto il movimento del valore di scambio che dissolve le vecchie comunità e tende a porre se stesso come comunità, falsifichi per gli esseri umani ogni comprensione. Ciò che essi credono determinanti sono i rapporti tra di loro, o le istituzioni che si son date sulla base di rapporti economici che essi non hanno compreso. Marx svela la falsa coscienza storica. Cosí i borghesi francesi pensavano di limitare, egualizzare la ricchezza e non si rendevano conto di come invece, con il loro intervento, rimuovessero tutti gli ostacoli al proprio libero sviluppo in forma di capitale.
Nella Sacra Famiglia, Marx aveva già affrontato questa «illusione», senza darle il reale fondamento economico:
Questa illusione si manifesta tragicamente quando Saint-Just, nel giorno della sua esecuzione, indicando la grande tavola dei Diritti dell’uomo appesa nella sala della Conciergerie dichiara: «C’est pourtant moi qui ai fait cela». Quella tavola proclamava il diritto di un uomo che non può essere l’uomo dell’antica Gemeinwesen (comunità), cosí come gli attuali rapporti economico-politici e industriali non possono essere quelli della società antica.
Essi non avevano percepito che l’attività esteriorizzata degli uomini pervenisse ad una propria autonomia sulla quale essi non avevano alcuna presa. Questa falsa coscienza borghese fonda la democrazia rappresentativa, parlamentare, la credenza che con istituzioni si va a costituire la nazione (nuova comunità che rinserrerà tutti i processi economici e sociali); essa fonda allo stesso modo il fascismo (i nazisti volevano la Volksgemeinschaft, la comunità del popolo!), che è comunque un movimento che con la sua azione ha permesso alla comunità capitale d’impiantarsi.
Per quanto riguarda la democrazia politica, è vero che essa ha avuto il merito di limitare gli eccessi della violenza. In effetti — ed è l’importante argomento al quale si aggrappano tutti gli attuali democratici, e tutti quelli che, inorriditi dal nazismo e dallo stalinismo, considerano la democrazia come un male minore — si deve notare che nei paesi dove le vecchie comunità sono crollate e dove la democrazia non ha potuto impiantarsi, non viga alcuna regola, alcuna istituzione per imbrigliare il fenomeno sociale, non vi sia alcun freno alla violenza. Ciò che era umano, definito dalla comunità, era crollato, e da allora dove trovare un punto di riferimento?
Cosí un gran numero di atrocità sono state commesse in URSS a seguito dell’impossibilità dell’instaurazione di una democrazia parlamentare, e a seguito del fallimento della rivoluzione proletaria mondiale. È di tale scatenamento che avevano paura vari rivoluzionari russi, Dostoevskij — ciò che gli faceva odiare la rivoluzione, come a piú riprese ricorda Berdiajev nel suo libro dedicato a questo autore— e lo stesso Lenin poiché, secondo Victor Serge, egli paventava l’esplosione generalizzata della lotta di classe, il che doveva verificarsi in seguito alla rivolta dei cecoslovacchi.
Gli stessi orrori, con varianti folcloriche, si ripetono in Asia, America Latina, Africa. Nei paesi africani il trauma della distruzione delle comunità è ancora piú profondo: l’urto col mondo del capitale è per se stesso generatore di follia, nel senso di perdita assoluta di ogni riferimento ed impossibilità acuta di ritrovarsi in una comunità.
Ciò non significa affatto che i democratici occidentali non abbiano commesso alcuna violenza, alcuna tortura, alcun crimine…Certo, no. Ma essi hanno operato prima fuori d’Europa, nei paesi dove non erano «intralciati» dalle leggi democratiche. È per questo che la guerra del 1914-’18 e soprattutto il fascismo, portando all’Europa i metodi che erano stati riservati agli altri paesi, segnano la sentenza di morte della democrazia politica.
La scomparsa sempre piú accentuata di ogni ideale e di ogni regola democratica fa sí che, in un mondo in decomposizione, soprattutto quando la comunità capitale viene a essere rifiutata, la violenza non abbia piú alcun freno. Da cui l’invocazione ripetuta e vana per un ritorno alla democrazia politica, e le diverse proposte di rattoppo e rinvigorimento. Come se, dopo gli immensi fallimenti del 1914 e del 1933, essa potesse essere un qualche baluardo contro la marea di violenza che sale e che comincia a dilagare sul mondo… tanto piú che, già alle sue origini, essa non è stata altro che un accomodamento.13
Ritroviamo la stessa falsa coscienza nei socialisti francesi:14
Da ciò deriva l’errore di quei socialisti, soprattutto francesi, che vogliono dimostrare che il socialismo è la realizzazione delle idee borghesi [...] e che si sforzano di dimostrare che il valore di scambio è [...] un sistema di libertà e uguaglianza di tutti; ma sarebbe stato distorto dal denaro, dal capitale, ecc.. (Urtext)
Il movimento socialista mondiale ha conosciuto la stessa fine della democrazia politica. Cosa tanto piú inevitabile, in quanto si era posto spesso come la vera realizzazione di essa. Ma, lo stesso Marx non considera in definitiva che lo sviluppo delle forze produttive (dati neutri) sarebbe falsato dal movimento del capitale? Non vi è una falsa coscienza storica nel voler fondare il comunismo sulla base di uno sviluppo delle forze produttive che ha permesso l’instaurarsi del capitale? Da cui, evidentemente, per opporsi a tale deviazione delle forze produttive, la necessità di un intervento che permetterebbe di rigenerare un corso, di risanare, di guarire! Nello stesso tempo il comunismo sarebbe la vera coscienza del movimento della produzione in atto da millenni e attenderebbe un momento favorevole per manifestarsi.
Lo stesso errore si riscontra nel fatto di aver pensato che il comunismo potrebbe svilupparsi sulla base della riduzione della giornata lavorativa. Con ciò, si conserverebbe ancora uno dei presupposti del capitale: la quantificazione del tempo, e si vorrebbe utilizzare quanto il capitale ha apportato; il che vuol dire che con lo sviluppo delle forze produttive un fenomeno sarebbe in corso, ma il capitale ne impedirebbe la piena espansione ed anche lo falserebbe. Da cui la necessità di un intervento, del quale ho già parlato. La falsa coscienza è intrappolata dal fenomeno immediato, connesso alla volontà di intervenire per far agire tale fenomeno nel senso degli interessi umani. La comunità non può edificarsi solo sul tempo, essa è possibile soltanto attraverso la ritrovata unione umanità-natura che inglobi spazio e tempo.
Infine, allorché Marx scrive: nessuna formazione sociale scompare fin quando non abbia esaurito le possibilità che ha in sè (cfr. la «Prefazione» a Per la critica dell’economia politica, 1859), egli ha creato un terreno fertile per il sorgere di illusioni, tra le quali quella consistente nel credere che vi sia decadenza del capitale a partire dal momento in cui un certo numero di possibilità, che gli sono state in partenza riconosciute, siano state realizzate e che quindi un intervento — quello del proletariato — sia sempre prevedibile in un avvenire piú o meno lontano. In realtà, se vi è decadenza è quella dell’umanità!
Falsa coscienza e recupero sono strettamente legati. Il secondo è in un certo modo la conseguenza della prima: se si è recuperati, è perché si è prodotta una coscienza erronea. Si è prospettato un fenomeno come potesse essere effettivamente antagonistico al capitale. Ora, si avvera in seguito che esso realizzi ciò che avrebbe dovuto di fatto distruggere. Ci troviamo qui di fronte, in altro modo, alla sua antropomorfosi.
È a partire da rappresentazioni inadeguate del movimento reale, a partire da false coscienze, che il capitale perviene a perfezionare ogni volta il suo dominio. Si può pensare che tale movimento possa arrivare fino al momento in cui il capitale si gonfierà di una sostanza che gli è estranea, e che cosí esploda, o si esaurisca. Se ciò è vero per diverse istituzioni, ciò che le rende poi inadeguate e non operative al punto da farle sprofondare al minimo urto (e la rivoluzione è stata realmente quel momento in cui tutto crolla e tutti sfuggono dalle varie istituzioni, ruoli ecc.), ma il capitale, lui, s’impadronisce di tutto e, antropomorfizzandosi, accresce sempre piú la sua potenza, dato che al limite essa può apparire umana.
Cosí il movimento di recupero può essere solo la causa di uno squilibrio che potrebbe introdurre una falla nella comunità capitale. Nondimeno un grave pericolo accompagna questa possibilità, è la perdita totale, l’esteriorizzazione completa e dunque lo svuotamento realizzato degli esseri umani, che arriva ad una comunità senza uomini. A maggior ragione non si può venire sul terreno del capitale forzandone il divenire, come pensa Baudrillard,:
La sfida che ci lancia il capitale nel suo delirio, liquidando senza vergogna la legge del profitto, il plusvalore, le finalità produttive, le strutture d potere, e ritrovando al termine del suo processo l’immoralità profonda (ma anche la seduzione) dei riti primitivi di distruzione, questa sfida, va raccolta e ripresa in un rilancio insensato.
Raccogliere la sfida sarebbe abbandonarsi allo sfuggimento integrale del capitale, per mai piú ritrovarsi: realizzazione della follia. Baudrillard coglie qui in maniera impressionante il movimento dell’inflazione.15
È al momento della distruzione della comunità esistente, che la falsa coscienza affiora piú nettamente; è allora che si fanno le piú sfrenate ricerche per la sua ricostituzione in forma piú o meno fantasiosa. Alcuni tentano di farlo attraverso un’attività da collezionisti o lanciandosi in una sfrenata sessualità, altri dedicandosi al misticismo, alla droga, o alla musica (fenomeno della musica pop).
Nel secondo e nel terzo secolo della nostra era, un immenso smarrimento s’impadroní di molti uomini e donne, a seguito al crollo delle antiche città (polis), nelle quali essi avevano un ruolo riconosciuto e concreto, poi a seguito del fallimento di un cosmopolitismo che l’Impero romano aveva prodotto, ma che non poteva rendere effettivo, per le stesse tensioni straordinarie che lo attraversavano e per i rapporti ignobili che allora regnavano. Da cui, per gli gnostici e i manichei, la problematica dell’uscita non solo dal mondo costituito dall’Impero romano, ma dal cosmo. Presso i greci, società umana e cosmo erano ancora in continuità,16 presso i romani questa sopravviveva in forma schematica, da cui la tematica gnostica del cosmo perverso.
La via «gnostica» fu, in particolare, adottata — come afferma R.M. Grant in Gnosticismo e cristianesimo primitivo — in seguito al fallimento dei tentativi di liberazione del popolo ebraico (essendo stato lo stesso Gesú Cristo un emancipatore che avrebbe fallito), quindi a quello delle profezie che avevano annunciato il momento di tale liberazione. Essa sorse al seguito del fallimento delle speranze apocalittiche.
Molto piú vicina a noi, la guerra 1914-’18 fu vissuta come un’apocalisse che non era stata profetizzata. Da cui la fascinazione che essa esercitò almeno al suo inizio, su un gran numero di spiriti, soprattutto in Germania, dove, in questo caso, essa tese a persistere fino all’avvento del nazismo (che ebbe un carattere profondamente religioso); né si può dire esattamente in quale misura essa non abbia impregnato di sé l’intero periodo del suo dominio. Essa fu vissuta come la manifestazione di un male minore, in fondo come il risolversi di certe tensioni che non potevano piú essere sopportate e come una lacerazione a partire dalla quale potrebbe intravedersi un’altra via.17
Ai giorni nostri, in maniera palpabile, fascinante e tragica, s’impone a tutti il fallimento della profezia apocalittica di Marx: l’emancipazione dell’umanità grazie all’assalto dei proletari alle cittadelle del capitale, sia che abbia fallito, sia non si sia presentata all’appuntamento della storia. La stessa cosa per quella di Bordiga che, riordinando l’insieme della previsione di Marx integrandovi il divenire di tutti i popoli di colore, messi in moto dalle scosse di due guerre mondiali, prevedeva l’apocalisse-rivoluzione nei nostri attuali anni.
Il fallimento della rivoluzione comunista segna la fine della comunità-partito e del partito-comunità.
A partire da qui si comprende meglio il vasto smarrimento della nostra epoca connesso alla perdita di referente, alla permissività totale e alla fine delle comunità nate con la rivoluzione borghese: le nazioni e i loro Stati. Certo, vi è un’unità superiore, l’ONU; ma proprio come sotto l’Impero romano, ogni cosmopolitismo è irrealizzabile, tanto piú che l’idea di cosmo è andata perduta. Nel secolo XIX e soprattutto durante la metà del XX l’internazionalismo ha giocato il ruolo del cosmopolitismo antico, e di quello del secolo XVIII. Nei tre casi si hanno effettivamente momenti di disaggregazione di comunità. Se l’internazionalismo proletario ha fallito, ciò è dovuto in gran parte anche al fatto che esso è stato incapace d’inglobare la diversità, inquinato come fu assai rapidamente di eurocentrismo e minato da un malcelato nazionalismo sciovinista. Cosí è logico che, sempre in Occidente, prevalga la moda dell’orientalismo e che i temi e le pratiche messi in onore dagli gnostici e dalle varie correnti religiose dell’inizio della nostra era, ritrovino un’eco.18
Questo momento che stiamo vivendo è la fine-esaurimento di tutta un’evoluzione degli esseri umani. Il periodo pre-gnostico conosce un movimento in cui sacro e profano sono in connessione ed è in virtú di questi due elementi che uomini e donne si sollevano. Col trionfo del cristianesimo si ha secolarizzazione e separazione dell’elemento sacro da quello profano: dai a Cesare quel che è di Cesare e a Dio quel che è di Dio. Tale secolarizzazione-profanazione si accentua col movimento rivoluzionario borghese, prima con la Riforma, poi con le diverse rivoluzioni fino al 1789, quando si ha la profanazione realizzata. Su questo piano il movimento proletario non opera alcuna discontinuità: l’elemento «sacro» viene definitivamente messo da parte; ciò che si postula è solo che gli esseri umani debbano crearsi un’altra comunità.
L’impossibilità di un movimento profano ad assicurare la liberazione degli esseri umani ha rafforzato l’idea che la «salvezza» dell’umanità possa essere assicurata solo da movimenti religiosi, sacri. Ma tutte le correnti reazionarie che hanno tentato di conservare l’elemento sacro, cos’altro hanno fatto se non partecipare alla tragedia di quanto si è svolto, scendendo il piú spesso a patti col potere costituito? La soluzione non è quindi dalla parte del sacro né da quella del profano. La comunità umana è al di fuori di questo mondo.
Si può collegare alla tematica comunitaria il problema di sapere cos’è determinante nell’evoluzione degli uomini. In effetti nel momento attuale tende a prevalere una teoria marginalista. Sarebbero cioè i marginali che inventerebbero le nuove condotte e le imporrebbero progressivamente al resto della comunità. Come la teoria economica dello stesso nome, essa privilegia certi elementi: qui, l’élite! Essa effettua in maniera ancora piú netta la frattura che la teoria del rapporto partito-massa interpretava. In entrambi i casi, si ha una non-contemporaneità degli uomini che vivono in un momento dato. Gli sconvolgimenti che affèttano la comunità sarebbero percepiti solo da alcuni elementi. Questi privilegiati farebbero partecipi dei loro apporti gli altri.
Una tale teorizzazione è il riconoscimento della distruzione di ogni Gemeinwesen, dato che vi sono solo esseri distinti gli uni in rapporto agli altri e disposti fianco a fianco. Ora, nella misura in cui la dimensione Gemeinwesen persista per poco che sia tra gli esseri umani, questi possono assai realmente coesistere, per quanto la loro soglia di percezione dei fenomeni sia differente.
Infine, per concludere su questo aspetto della comunità in quanto raggruppamento umano, segnaliamo che vi sono al mondo due modalità determinanti del rapporto essere individuale-comunità: quella dell’Occidente ove l’individuo si è autonomizzato. e cosí pure lo Stato; quella dell’Oriente ove la comunità è dispotica e l’individuo non perviene all’autonomia. Si hanno varianti in Africa e nelle due Americhe. Tuttavia, adesso, con l’accesso del capitale alla comunità materiale, si ha convergenza tra Occidente e Oriente. Il primo ha in definitiva presentato un movimento intermedio per arrivare a un risultato identico ma molto piú potente. Cosí esso dà il cambio, sostituendola, all’antica comunità dispotica asiatica.
Non si può contentarsi di opporre la comunità all’individuo e allo Stato come soluzione dei mali attuali. Il comunismo non è una semplice affermazione comunitaria; esso non può piú essere caratterizzato dalla proprietà comune o collettiva perché sarebbe mantenere i presupposti del capitale stesso: la proprietà e la separazione (nella misura in cui vari teorici socialisti ricardiani reclamavano una ripartizione egualitaria). In una parola non è da prospettarsi in opposizione a qualcosa, perché si tratta di uscire da ogni dialettica che, presto o tardi, riporterebbe l’antagonismo per un po’ rimosso. Ciò che è in questione è l’essere degli uomini e delle donne e il loro rapporto con la totalità del mondo vivente impiantato sul nostro pianeta, che non può essere concepito come appropriazione, come Marx pensava, bensí come godimento. Quindi sarebbe meglio sostituire comunismo con comunità umana.
Come l’insieme umano non deve piú essere diviso per divenire comunità, cosí l’individuo non deve piú essere diviso per divenire individualità, quindi fine della rottura Stato-individui, partito-massa, spirito (cervello)-corpo. Per uscire da questo mondo, occorre acquisire un corpo tendendo ad una comunità, dunque non chiudendosi in un fenomeno individuale, bensí ritrovando la dimensione della Gemeinwesen.
È qui che ritroviamo il tema fondamentale delle opere filosofiche di Marx: rendere esplicito il rapporto individuo-società e come abolire il loro antagonismo. Piú che un essere sociale, l’uomo è un essere che ha la dimensione della Gemeinwesen, vale a dire che ogni essere umano porta in sé, soggettivata, la Gemeinwesen. Il che viene espresso in maniera molto riduttiva, quando si afferma il carattere universale del pensiero di ogni essere umano.
Il capitale ha realizzato la comunità non solo in quanto insieme sociale, ma anche nella dimensione della Gemeinwesen, poiché ciò che fa il fondamento del pensiero e la condotta (etica) ecc.., è il capitale, grazie al suo divenire a rappresentazione esclusiva di tutte le altre. Nella comunità capitale gli uomini sono uniti mediante le tecniche, i famosi mass-media che sono tanto piú necessari quanto piú gli esseri umani sono numerosi. Esse non arrivano a renderli coesistenti, contemporanei, poiché li rinchiudono entro i loro limiti sociali, nazionali ecc..
Tutti gli elementi significanti la determinazione fondamentale della Gemeinwesen sono stati distrutti: le potenzialità dette parapsicologiche come la telepatia, vari tipi di linguaggi come quello del corpo, mentre quello verbale è sempre piú impoverito, perdendo la dimensione universale; esso è ridotto ad un codice che traduce la comunità capitale. Affinché vi sia una comunità umana, occorre una riduzione della popolazione. Il numero eccessivo diluisce la dimensione Gemeinwesen; essa non può piú effettuarsi nell’essere individuale. Inoltre la comunità sarà l’integrale di una miriade di piccole comunità viventi unicamente nelle zone adatte ad un’espansione umana. La nostra specie abbandonerà per questo tutta una serie di regioni che sono state conquistate, ma dove gli esseri umani si sono perduti perché hanno dovuto spendere troppa energia per poter sussistere, o perché sono divenuti troppo dipendenti dalla tecnica.
Comunità unitarie come comunità integrale non possono vivere semplicemente come raggruppamento di esseri umani. Occorre che fra tutti vi sia trama comune, sostanza comune, in quanto esse realizzino l’essere umano, e questo è accessibile solo se ogni essere realizza in sè la Gemeinwesen: essendo un elemento irriducibile e nello stesso tempo il modo che la comunità ha di realizzarsi in lui, e il modo che ha, lui, di percepirla in tutta la sua durata.
È qui che sorge la difficoltà che si è imposta per millenni: gli uomini e le donne, non sapendo chi sono, non conoscendo i propri possibili, si sono rinchiusi in ghetti che essi dicevano essere raggruppamenti umani, umanità, definiti da distinguo che permettevano di escludere le altre. Cosí, per gli antichi egiziani, gli stranieri non erano uomini. Si poteva sacrificarli agli dei. Erano stranieri perché non vivevano come loro, determinati com’erano da un’altra geografia, un’altra storia, perché avevano sviluppato altri possibili. L’accesso alla comunità implica dunque una conoscenza-riconoscimento di tutti gli altri, la loro accettazione nella loro diversità. Non una gnosi intellettuale o spirituale, ma una gnosi totale; la conoscenza deve farsi attraverso l’intero essere, proprio grazie alla riunificazione di ogni essere.
Non si tratta di escamotare il male! La specie umana ha anche sviluppato i possibili del male, spesso il piú orribile, il piú ignobile, non giustificabile da alcuna escatologia storica. In concreto ciò significa che non si può accettare coloro che uccidono, torturano, vogliono dominare gli altri ecc.. Questo rifiuto della «via del male» può essere raggiunto solo a partire dal momento in cui, come diceva Marx con la sua terminologia ancora impregnata di economia: la maggior ricchezza per l’uomo è l’altro uomo.
La dimensione Gemeinwesen si percepisce anche in quello che Marx ha chiamato il lavoro universale (espressione ripresa da Bordiga), cervello sociale che sotto altra forma si trova teorizzato da Leroi-Gourhan in Il gesto e la parola. Noi pensiamo col nostro proprio cervello, ma anche con quello della specie in quanto somma di tutti gli esseri che ci circondano o che ci precedono. È per questo che il sentimento della specie svelato da Bordiga è un’altra affermazione della Gemeinwesen.
Infine, l’essere presente al mondo di ciascuno di noi nel mondo si afferma in una specie di coscienza di essere individualizzato della specie e nella specie. Con l’accesso alla comunità, gli esseri umani avranno infine trovato il loro mondo. In effetti al contrario delle altre specie che hanno una relazione immediata essere-mondo perché hanno assegnata loro una porzione del pianeta (la famosa nicchia ecologica), l’uomo non ne ha alcuna. Da quando ha avuto luogo la mutazione che ha «gettato» fuori dalla foresta l’essere bipede divenente uomo, tale essere cerca angosciosamente un mondo nel quale possa essere sicuro della sua esistenza, della sua realtà. Dopo millenni, questa ricerca deve concludersi realizzando infine ciò che egli è nella sua diversità intraspecifica e nel suo legame col mondo vivente; cosí egli troverà il suo posto nel continuum della vita. Il suo mondo è l’essere umano definito nella continuità con essa.
Ho detto che tale ricerca deve concludersi, e non che si concluderà, in quanto non vi è un determinismo rigoroso che presieda alla sua fine, il che porterebbe a giustificare il movimento intermedio tra comunità immediata e comunità umana a venire. No. La storia, in quanto insieme di esperienze vissute dagli uomini e dalle donne, può essere solo un dato di fatto; si possono spiegare diversi divenire, ad esempio quello del capitale, e questo in modo determinista, ma da ciò non è possibile dedurre un determinismo piú globale che ci riguarderebbe tutti, quello della nostra realizzazione, alla fine, in quanto esseri umani. A posteriori, a fenomeno umano avvenuto, sarà possibile trovare negli avvenimenti precedenti un determinismo che vi conduceva ineluttabilmente. Ma questo negherà i diversi possibili che si saranno manifestati, e il fatto che la specie, attualmente demente, avrà compiuto il salto solo costretta e forzata. Non è detto che ciò si verifichi; la sua scomparsa sotto diverse forme l’incalza in un futuro non lontano. Ecco perché c’è un dover essere.
Si è rimproverato a vari filosofi della storia, e a Marx in particolare, di avere una concezione escatologica e soteriologica della storia (essendo il proletariato il salvatore che si salva non in quanto proletariato ma divenendo umanità): correlativamente si può aggiungere che per lui il «cosmo sociale» aveva un senso (Engels vi aggiunse la sua «filosofia della natura», che era un tentativo di dare un senso al cosmo nella sua totalità). Al contrario ai giorni nostri il «cosmo sociale» viene prospettato come neutro, non ha in se stesso alcun significato, alcun senso, per esempio quello di un divenire al comunismo. Da cui la perdita di prospettiva e di ogni certezza. La paura della storia di cui parla Mircea Eliade non può essere compensata dalla percezione di un dato soteriologico insito nel cosmo sociale. In realtà si può individuare un senso alla comunità dispotica del capitale: un divenire all’assurdo, alla distruzione degli uomini. Ciò non può essere di alcun conforto per gli esseri umani né dar loro energia per sopportare la loro situazione, se non un’energia suicidaria. Da cui l’ingiunzione: occorre abbandonare questa comunità e tutti i suoi presupposti. È il rifiuto di un’erranza millenaria…
Dopo gli anni sessanta, la comunità capitale è divenuta sempre piú intollerabile a un gran numero di uomini e di donne, essenzialmente i giovani. Si è avuta una vasta rivolta della gioventú, che è ricerca della comunità umana. Essa è accompagnata da una miriade di fenomeni che non si può qui esaminare, ma che testimoniano fratture, spesso parcellari ma comunque fratture con la comunità capitale. La rivolta ha manifestato una sensibilità nuova, essendo capace di percepire diverse alienazioni, ingiustizie che erano state accuratamente camuffate dai vari rackets politici. Tale movimento è ora mascherato da una certa rivitalizzazione della politica, ma va maturando in profondità. Gli uomini e le donne devono rendersi conto fino a che punto possano tendere a realizzare la comunità umana solo rompendo totalmente con la dinamica di questo mondo e con la dialettica rivoluzione-controrivoluzione. Da allora salterà il lucchetto che impedisce ogni creatività e che inibisce la creazione di un nuovo modo di vita. La paura che ci attanaglia verrà abolita e entreremo nel nostro divenire.