Marx e la Gemeinwesen

gen 4th, 2023 | Di | Categoria: Cultura e società

marx two

Grundrisse,

Prefazione a Urtext

di Jacques Camatte

È nel Frammento del testo originario (Ur­text, 1858) e nei Grundrisse, opere in­compiute o abbozzi di Marx, che si tro­vano piú possibili, che il sistema è aperto.1 È un momento di legame essen­ziale con le opere dette «filosofi­che», giovanili. Non che Marx abbia successi­va­mente abbandonato ogni con­tatto con la filosofia, tut­t’altro. Il Libro primo del Capitale è pienamente com­pren­sibile solo se si conosce almeno ciò che Aristotele ha scritto nella sua Meta­fisica a proposito della forma e della materia, e la logica di Hegel. In non po­che pagine del Capi­tale si ha inoltre un’innega­bile eco spinozia­na. Nell’Urtext è ad un Hegel giovane che Marx si collega, un Hegel che gli era sconosciuto, quello che s’interrogò a fondo sulla Gemeinw­esen, in particola­re quella greca; e al di là di Hegel, Marx si collega sotterranea­mente a una quantità di uomini come Gioac­chino da Fiore, Niccolò da Cusa ecc.2

Autonomizzazione del valore di scam­bio, comunità, rap­porto Stato-equivalente genera­le, definizione del capitale come valore in pro­cesso, tali sono i punti essen­ziali affrontati nell’Ur­text. Non gli sono esclusivi, perché li si ritrovano nei Grundrisse e nel Capitale. Tutta­via in questo testo lo studio è piú sintetico e i diver­si argomenti sono affrontati simultanea­mente; ed essi sono rilevanti, soprattutto per ciò che riguarda l’autonomizzazione e la co­munità. Nel Libro primo del Ca­pitale invece l’esposizione è piú analitica.

Nel complesso, per quanto riguarda la co­munità, Marx fa, nelle opere pubblicate men­tre era in vita, il seguente ra­gionamento: la di­struzione della vecchia comunità a causa del­l’au­tonomizzazione del valore di scambio, di­struzione che permette pure l’autonomizzazio­ne dei diversi elementi costi­tutivi (individuo, politica, religione, Stato), costituisce il punto di partenza di un ampio movimen­to, del quale profitta la borghesia per svilupparsi.

Ma non sembra che, per Marx, essa possa veramente fondare un’altra comunità. Ancor meno la que­stione è affrontata per ciò che concerne il capi­tale. Solo il proletariato può, distruggendo quest’ultimo — mo­mento ultimo del movi­mento-divenire del valore, del­la so­cietà di classe — fondare una nuova comunità, la co­munità umana.

Nelle opere postume quali l’Urtext e i Grundrisse (e te­nendo conto che non sono an­cora state pubblicate tutte), si con­stata invece che Marx pone la possibilità di formazione di una comunità, sia grazie all’oro che grazie al capitale. Tale è l’interesse fondamentale di questi testi. A partire da essi, si può mettere in evidenza l’impossibilità in cui si trovò l’oro di porsi a fonda­mento di una comunità, e l’acces­so, al contra­rio, del capitale alla comunità ma­teriale.

Nell’insieme dell’opera di Marx, vi è dun­que giustappo­sizione tra l’individua­zione di un movimento del capitale che si costituisce in co­munità materiale e l’affermazione della sua im­possibilità, le­gata alla folle speranza che il pro­letariato si ribelli a tempo e distrugga il modo di produzione capitalisti­co (MPC). Ora, la co­munità capitale esiste; ciò comporta l’abbando­no di ogni teoria classista e la comprensione del fatto che un’immensa fase storica si è conclusa.

I lavori di Marx sulla comunità sono stati lasciati da par­te.3 In Germania, i teorici come Weber e Tönnies non fanno affatto riferimento alle varie opere che abbiamo appena cita­to. Nel constatare questo, non ci proponiamo di ri­comporre un Marx nuovo, ma di far semplice­mente notare fino a che punto la ri­flessione marxiana sulla comunità sia un’asse fondament­ale di tutta la sua opera.

Per capire l’importanza, il significato di questo approc­cio marxia­no al divenire sociale, occorre collegare l’Urtext al capitolo dei Grundrisse «Formen, die der kapitalistischen Pro­duktion vorhergehen» (Forme che precedono la produzione capitalistica). Marx vi studia i vari periodi storici che prece­dono il capitale, a par­tire dalle forme di comunità; lavoro im­menso, come attestano i vari studi che egli fece sull’etno­logia e sull’età preistorica. Non si tratta, anche qui, di voler organizzare in modo diverso quanto ci è dato, né cercar di dislocare un capitolo in rapporto a un altro. Si deve sem­plicemente affrontare i diversi ap­procci dello studio e, malgrado le lacune, cogliere la dire­zione a cui tendeva lo sforzo di ri­flessione di Marx. È allora che ci si rende conto quanto l’Urtext sia un punto di articolazione privile­giato per tale comprensione. Si pone allora la questione di sapere come si sarebbe potuto pre­sentare il capitolo sullo Stato, uno dei sei che Per la critica dell’economia politi­ca doveva con­tenere. Sembra che, come per il capitale, Marx si sia reso conto della difficoltà di trattarlo iso­latamente, in quanto lo Stato può es­sere conce­pito solo a partire dalla comunità e inoltre il dive­nire dello Stato si mescola intimamente a quello del valore, poiché esso tende a costituirsi come comunità in due momen­ti storici: con l’oro, senza riuscirvi, e poi con il ca­pitale, quando riesce.

La questione dello Stato non si pone negli stessi termini che nelle opere politiche. Di con­seguenza vi è coesistenza di due discorsi: 1° il valore di scambio che perviene all’autono­mia e nel suo movimento crea la comunità, e per far­lo si as­soggetta lo Stato; 2° lo Stato prodotto della lotta delle classi, la classe do­minante eri­gendosi a Stato per dominare la classe avversa della società.

Nell’Urtext vi è tendenza ad una sintesi dei due discorsi. Tuttavia Marx non affronta real­mente il tempo e il luogo della nascita delle classi. Ciò l’avrebbe condotto a relativiz­zare il suo schema dell’evoluzione sociale ancora di piú di quanto lo fece nella discussione con i po­pulisti russi. Le clas­si si manifestano effettiva­mente solo in Occiden­te, giacché è solo in esso che si produce l’autono­mizzazione dell’indivi­duo. Ma il fenomeno Stato non gli è peculiare. È qui che l’analisi marxiana è insufficiente. In «For­men…» Marx ha in­tuito certe realtà quan­do ha trattato della società inca, a pro­posito della quale egli parla di uno Stato nell’ambito di una società comunista, ma non mette abba­stanza in evidenza che lo Stato è un’astrazione dalla Comunità, che è piú o meno autonomiz­zato, se­parato dall’antico corpo sociale legato alla natura.

Le ricerche posteriori a Marx hanno talvol­ta rivelato e soprattutto accertato l’esistenza di Stati non ancora separati dalla comunità e dal­la natura. Cosí tra i Sumeri, si ha, come dice Thorkild Jacobsen, «il cosmo in quanto Sta­to».4 L’organizzazione del cosmo dètta quella della co­munità, de­finisce la gerarchia e dunque lo Stato. È un momento in cui la separa­zione tra interiorità ed esteriorità non si è ancora compiuta, non è ancora trascorsa. A posteriori, possiamo dire che è un dato tipo di comunità che implicava un tale rappor­to col cosmo che attribuiva ad esso una funzione determinant­e; ma è chiaro che un simile ragionamento, giu­sto, non vale assolutamente per il momento in cui uomini e don­ne di quella comunità viveva­no. Per essi, vi era un tutto co­munitario.

Gli uomini e le donne non ave­vano ancora abbandonato la vecchia rappresentazione-conc­ezione del mondo dei po­poli che non sono se­dentarizzati. L’esplosio­ne di quel tutto che essi formano insie­me al pezzo di terra su cui vivono non si è ancora avverata. Non si può dunque parlare di Stato, di classi, di religione, di arte ecc. Siamo noi che, in funzione di quanto avve­nuto nel corso degli ultimi secoli, astraiamo tali elementi in tali co­munità.

Con determinazioni diverse, si rileva una si­mile assenza di separa­zione nell’antico Egitto. Tuttavia in esso lo Stato presenta una certa au­tonomizzazione.

Nel caso della Cina la separazione, per quanto ini­ziata, non si è effettuata. Colui che gli europei hanno chia­mato Im­peratore era in­fatti il «figlio del cielo» che da esso riceveva il suo man­dato. Certe manifestazioni naturali pos­sono talvolta significare che il suo mandato deve essergli revocato: il che in­dica appunto il rapporto dell’«imperato­re» col cosmo e la sua funzione in seno ad esso. In particolare, assicu­rando un ordine sociale, egli garantisce nello stes­so tempo un’acquisi­zione basilare, la sepa­razione dell’uomo dall’animalità. Quando re­gna il disordine, si ha ritorno ad essa. Cosí l’impe­ratore regge il rapporto tra il co­smo e l’ambiente sociale.

Si potrebbero citare vari altri esempi, che appaiono come casi particolari che non si può disporre in maniera unilineare in quanto il pro­cesso di autonomizzazione non ha operato in modo identico nelle diverse comunità. Lo stu­dio delle società africane e amerinde rivelereb­be tutti i possibili. In La società contro lo Stato, Clastres ha messo in evidenza i meccanismi che impedivano l’autono­mizzazione del potere, del­la gerar­chia, del­lo Stato.5

È in Grecia che si ha separazione, autono­mizzazione, e che si ha uno Stato, individui, classi, nel momento stesso del­la separazione dal pen­siero «mitico», nascita della scienza, del­la logica e, ci torneremo piú ampiamente in altri lavori, della terapeutica. Lo Stato vi è an­cora espressione sensibile dell’antica Gemein­wesen; il movimento del valore non ha an­cora raggiunto un ec­cessivo sviluppo. Con l’Impero romano si afferma la necessità di uno Stato che deve dominare, sovra­stare, controllare una mi­riade di comunità, da cui il tentati­vo di con­fluenza per dissoluzione di tutte le comunità nella ro­ma­nità, con perdita del­la diversità (tentativo già fatto dai Greci: l’ellenizzazione dei barbari). Qui, il cristianesimo svol­se un grande ruolo. È lui che perverrà a realizzare l’o­mogeneiz­za­zio­ne o distruzione, domestica­zione di gruppi u­ma­ni ove la forza non fosse stata efficace; per esempio, è quanto avvenne coi sardi.

Nel Rinascimento si fa strada in maniera piú netta lo Stato come equivalente gene­rale (cfr. Marx nell’Urtext): ac­centuazione del fenome­no di passaggio dalla verti­calità del movimento del valore alla sua orizzontalità. Il punto di ar­rivo non è piú un dio, e dunque un tempio, ma, a seguito della scomparsa della tesaurizzazione sa­cra, i movimenti si fanno in tutti i sensi oriz­zontali; si ha da allora necessità di un ele­mento di regolazione e di controllo.

Con lo sviluppo della società borghe­se la lotta delle clas­si diventerà determi­nante, se non altro perché i pro­tagonisti del dramma non ragionano piú in funzione di una comunità o, se si vuo­le, perché questa si ridurrà entro i li­miti di una classe. È in questo momento che le classi sa­ranno realmente determinanti, operati­ve. Si avranno le varie rivoluzioni che dal secol­o XVI ai nostri giorni segnano le tappe dell’instau­rarsi del MPC e, adesso, della comu­nità capitale.

Lo Stato è considerato come un «artificio», un’istituzio­ne necessaria per uni­re i diversi ele­menti sociali; da qui la sua importanza, la sua possibile autonomiz­zazione e il fatto che esso possa divenire piú forte della società (Marx). Oggi la sua importanza resta sempre considerev­ole, ma esso tende ad es­sere assorbito nella comunità-capitale.

Ho trattato altrove6 il movi­mento di forma­zione della comunità ma­teriale e i suoi caratteri fondamentali; comunità materiale perché è un elemento morto, cristallizzato, opera di milio­ni di esseri umani esteriorizzati sotto forma di capita­le fisso che fonda la co­munità. È il mo­mento essenziale in cui il capitale rimpiazza i suoi presupposti con le sue condizioni di svi­luppo, quello dell’accesso alla comunità; ma ciò non in­dica tutto ciò che è la comunità capi­tale. Ho mostrato l’importanza che pure aveva il capitale circo­lante nella rea­lizzazione di questa. Tutta­via essa non avrebbe potuto in­staurarsi, né a maggior ragione riprodursi, se la mentalità degli uomini e delle donne non fosse stata modificata al fine ch’essa corrispondesse alle nuove esigenze del modo di vita determi­nato dal capitale.

In un primo momento sono le ideologie di classe che permettono ai diversi attori di rap­presentarsi piú o meno adeguatamente il pro­prio ruolo nel processo di vita del capi­ta­le, an­che quando a lui si oppongono (caso della limi­tazione della giornata lavorativa): successiva­mente è il movimento stesso del capitale — il capitale che si pone in quanto rap­presentazione — che fonda le rappresentazioni degli esseri umani e li guida nella loro prassi. A que­sto li­vello, voler defi­nire quello che viene prima o dopo equivale a discutere del famoso problema dell’uovo e della gallina. Ciò che è innega­bile è la forza apparentemente indi­struttibile della rappre­sentazione. Il dive­nire di ciò che è in atto appare eterno.

Ironia vuole che sia appunto in questo mo­mento che il materialismo stori­co trionfi, po­nendosi come adeguata rap­presentazione del mondo capitalista che è a uno stadio assai lon­tano da quello che l’ha generato! La realizza­zione della comuni­tà capitale e la fine della fase storica ini­ziatasi col sor­gere del valore di scambio si traduce nell’apparizione di nuo­ve discipline: teoria dei sistemi (Bertalanffy), se­mantica ge­nerale (Korzybski), una «teoria di altissima complessità» (Morin), e nell’impor­tanza di certi termini: struttura, totali­tà, orga­nizzazione,, sistema, codice ecc…Da cui la pre­ponderanza della semiotica: occorre conoscere il significato di un sistema, quello delle sue di­verse parti; occorre cogliere i suoi significanti ove l’uomo non ha piú alcun significato.

In un mondo che perde sempre piú i suoi punti di riferi­mento, i suoi vincoli (tutto è pos­sibile; occorre notare a que­sto proposito che vi è una certa contraddizione tra un’evane­scenza dello Stato centrale come punto di riferimento, sede dell’equivalente generale, e la necessità di un organismo di repressione piú o meno cen­tralizzato) s’impone l’esigenza di una scienza del significato dell’informazione Tutto è este­riorizzato, autonomizzato. Uomini e donne hanno davanti a sé la comunità della loro spo­liazione. Occorre davvero un codi­ce per com­prendere cosa accade, e il codice è la riduzione della comunicazione. Non è piú possibile par­lare in termini di anti­patia o di simpatia; gli es­seri sono particelle neutre di registrazione d’informazione e di rinvio di essa. L’antica fede che era cosi importante nelle epoche passa­te, è stata sostituita dal credito che è la fede in un si­stema nel quale l’uomo è an­cora un referente, e poi dall’inflazione che è la fede del capi­tale in se stesso.7 L’accettazione di ciò avvia l’umanità su una strada sempre piú assurda: ogni esse­re umano non sarà altro che un esistente «getta­to» nella comunità capitale e messo in movi­mento dal divenire di questa.

Per affrontare la realtà attuale, non si tratta piú di ragio­nare in termini di modo di produ­zione. Non c’è piú un modo di produzione ca­pitalista, bensí la comu­nità capitale nella quale lo Stato è sempre piú immerso.

Piú in generale si può affermare che c’è un modo di pro­duzione definito quando la produ­zione costituisce real­mente un problema, tanto a causa di difficoltà materiali, tecniche, che so­ciali. Il ca­pitale produce tutto, anche ciò che sembra essere al di fuori della sfera di produ­zione industria­le, in se­rie, e riduce gli esse­ri umani alla stessa situazione di dipen­den­za di fronte a lui. È l’aliena­zione compiuta. Gli esse­ri umani sono totalmente divenuti altri o, il che è lo stesso, gli schiavi hanno a tal punto accet­tato il potere del padrone da esserne divenuti il simulacro. Con ciò, è finita ogni dialettica dei concetti di forze produt­tive e dei rapporti di produzione di cui parla­va Marx nell’«Introdu­zione» del 1857; d’altra parte la produzione non è piú semplicemente produzione per la produzione, bensí pro­duzione per la riprodu­zione del ca­pitale. Essa ritrova un soggetto e cosí perde il suo carattere di oggetto.

Tutti i concetti della dialettica delle forze produttive di­ventano evanescenti e operano tutt’al piú come momenti di comprensione del movimento del capitale. Già Marx scriveva:

Il risultato al quale perveniamo non è che produzio­ne, distribuzione, scam­bio, consumo siano identici, ma che essi co­stituiscono tutti i membri di una totali­tà («Introduzione» del 1857).

In particolare, quei concetti che erano cen­trati, articola­ti intorno all’attività umana: la­voro-riposo, tempo di lavoro-tempo libe­ro, va­lore-plusvalore, come pure quelli che si sono svincolati da essa: profitto— perdita, ecc…, perdono ogni ope­ratività. Ed evidentemente è la coppia penuria-ricchezza sottesa al concet­to di bisogno, quella che piú nettamente sva­nisce. Quando gli esseri umani ven­gono strappati alla loro comunità, sorgono le real­tà che fondano i concetti di biso­gno, di pe­nuria, di tempo lavo­rativo ecc…, ma nella misura in cui una comu­nità è ri­costituita da tutti gli elementi che si erano individualizzati e autonomizzati, essi vengono riassor­biti, e si constata che essi sono solo momenti di articolazione di un dive­nire alla comunità capitale.

Queste sono le determinazioni del compor­tamento uma­no, una volta che uomini e donne si siano staccati dalla loro comunità.

Piú in generale, è la fine dell’economia poli­tica, soprat­tutto se ci si riferisce a questa affer­mazione di Marx:

La vera economia — risparmio — con­siste in rispar­mio di tempo di lavoro… (Grun­drisse, p. 599).

Ora, il capitale si è acca­parrato durata e tem­po umani.8

L’economia nel senso di risparmio è possibi­le solo quan­do il tempo è autono­mizzato, è contato; d’altra parte Marx, nel Capitale, insi­ste proprio sul rapporto tra misura del tempo e sviluppo dell’econo­mia, sviluppo del capitale fis­so; econo­mizzare, risparmiare, può condurre a una situazio­ne tale che l’individuo faccia an­che l’economia della propria vita dal momen­to in cui avrà contratto un’as­sicurazione sulla vita e si sarà acquistato un loculo al cimitero. È un modo grottesco d’indi­care una realtà: l’econo­mia è un escamotage della nostra vita.

Per Marx l’economia di tempo di la­voro è in definitiva il punto essenzia­le ed egli ne fa quasi la deter­minante dell’evo­luzione umana. Ora, come egli stesso dimostra, è con lo svi­luppo del capitale nel secolo XV che apparirà veramente questo imperativo che genera una lotta secolare tra capitalisti e operai, che arriverà al parossi­smo in Inghilterra nel secolo XIX, con la lotta per la regolamentazione della gior­nata lavorat­iva, che fu una vera e propria guerra civile che durò 50 anni (Marx). In altri paesi essa si produsse piú tar­di, tuttavia essa prosegue anco­ra benché sotto altre forme. Il risultato ne è lo strutturarsi della comunità capita­le, l’assogget­tamento degli esseri umani al tempo quantifi­cato, l’accettazione di condurre la propria vita entro un quadro rigi­do. Si è arrivati all’orga­nizzazione del tempo per il capitale ed è a par­tire da ciò che esso può mettere a punto la pro­grammazione di tutti i momenti della vita uma­na. Questa viene sezionata in porzio­ni di tem­po, nel corso delle quali dobbiamo compiere deter­minate funzioni. effettuare certi proces­si vitali. O meglio, ora in virtú di questo ritaglio, vi è, per uomini e donne crocifissi su questi quanta di tempo, una produzione che è loro appro­priata, per i giovani con le sue numerose suddivisioni, per gli adulti, per le persone della terza età (in previsione la quarta), per i defunti (la tana­tologia: la morte è per il capitale la ca­pitalizzazione assoluta del tempo, il tempo omogeneo che non include alcuna opposizion­e).

Il capitale è accumulazione di tempo; esso lo riassorbe, lo assorbe (si può avere entrambe le modalità) e perciò si pone come eternità. Marx affronta tale que­stione dell’eterni­tà dal lato formale. Parla di Unvergänglichkeit che esprime l’idea di qualcosa d’imperituro e nel contempo l’idea che non si può passare ad al­tro:

L’eternità — durata del valore nella sua forma capi­tale — è posta soltanto tra­mite la riproduzione che è essa stessa duplice: riprodu­zione in quanto merce, ri­produzione in quanto denaro e unità di questi due processi di riproduzio­ne (Grundrisse, p. 539).

Sviluppata dal punto di vista della so­stanza, l’eternità del capitale implica anche l’evane­scenza degli uomini, vale a dire tanto la loro scarsa durabilità quanto la loro insignificanza. Il capitale sottrae all’uomo il tempo — ele­mento del suo svi­luppo, secondo Marx. Esso crea un vuoto nel quale il tempo si abo­lisce; l’uomo perde un riferimento impor­tante, non può piú riconoscersi, percepirsi. E il tempo congelato gli sta di fronte.

Fine dell’economia in quanto scienza della ricchezza che è sia accumulazio­ne di valori d’uso sia accumulazione tesau­rizzazione di va­lori di scambio (denaro, capitale). Ora si è mo­strato che col capitale non sono piú i valori d’uso per l’uomo ad essere essenziali, bensí il mo­vimento di valorizza­zione-capitalizzazione nel cui ambito ogni dif­ferenza tra va­lore d’uso e valore di scam­bio si abolisce. La ricerca della ricchezza è diventata ricerca di una posizione privilegiata all’interno del processo di vita del capita­le, al fine di poter profittare della sua co­munità materiale.

Tale ricerca della ricchezza era abbinata alla lotta con­tro la penuria.9 Ora, questa co­mincia realmente solo con l’autonomizzazione del valore di scam­bio. Le «comunità pri­mitive» non la conoscevano, come del resto non cono­scevano l’assillo del tempo libero. Inoltre la penu­ria attuale riguarde­rebbe ormai la vita stessa, essendone gli esseri umani sempre piú privati… quando se ne rendo­no conto., cioè quando met­tono in que­stione il diktat del capi­tale, altrimenti quest’ulti­mo sembra appagarli imme­diatamente o almeno in un futuro non lontano.

L’economia in quanto scienza degli scambi svanisce anch’essa. Ho mostrato altro­ve come il capitale tendesse a superare lo scambio e come vi sia pervenuto (cfr. K. Marx, Grundris­se, pp. 456 e 491). Non c’è piú scambio, ma at­tri­bu­zio­ne. Fatto significativo: gli economisti moder­ni parlano di flussi economici.

Vi è un fondamento dell’economia che anch’esso perde la sua operatività: la divisio­ne del lavoro. Questa è stata spes­so messa in paral­lelo con i diversi modi di produzione. Ora, con il capitale, essa diventa una semplice differen­ziazione tra momenti di esso, un rapporto tra mezzi di produzione e mez­zi di consumo. Infi­ne scompare anche l’economia nel senso di ge­stione (come già l’usava Senofonte), tanto pri­vata che pubblica, poiché la gestione implica un soggetto che gestisce e un og­getto da gesti­re. Ciò è valido finché gli uomini hanno ancora un potere d’inter­vento, mentre ora è solo la ra­zionalità del capitale a imporsi. Gli uomini che vogliono gestire devono semplicemente rico­noscere il movimento del capita­le. Nella misu­ra in cui vogliono intervenire, essi possono solo ostacolare transitoriamente il movimento. Non gestiscono piú, regi­strano.

Qualcuno ha voluto estendere le cate­gorie dell’economia politica ad ambiti che le erano prima estranei, da cui le teorie sull’economia libidinale (Lyotard), sulle macchine desiderant­i ove il de­siderio sostituirebbe il bisogno (Deleu­ze-Guat­tari). Ora, a partire dal momen­to in cui si verifica l’incapaci­tà della teoria marxista a cogliere i fenomeni sociali (la sua aporia! secondo i nuovi teorici), come si può trasporla nella psicologia, per esempio, e par­tendo da qui costruire una teo­ria globale? Si può muovere una critica analoga agli autori di Apocalisse e rivoluzione al­lorché parlano di «economia del­l’in­terio­rità».10

Nella misura in cui un concetto tende a in­vadere ambiti che all’origine gli sono estranei, ciò significa l’estensione del fenomeno che esso rappresenta e la perdita degli esatti limiti, di determinazioni rigorose che permettevano di caratteriz­zarlo, di definirlo. Economia, ne vie­ne a significare organizz­azione di qualcosa, di un tutto, un processo funzionale; il modo in cui ven­gono organizzate proposizioni, affermazion­i per pervenire a stabilire un certo senso. Cosí è in questa frase di Fesquet:

Questa è l’economia del Vangelo: Gesú ha liberato l’uomo dal suo peccato. L’u­manità è stata riscat­tata dal suo amore. («Sens et défen­se du péché», in Le Monde del 6 marzo 1976).

L’economia come scienza dell’organizza­zione di un cer­to ambito geografico, tende ad essere soppianta­ta dall’ecolo­gia dato i proble­mi dell’inquinamento e il rarefarsi delle ma­terie prime (ma questa non è una pe­nuria per gli es­seri uma­ni, e poi si profila sempre la possibilità di un surrogato!). La sfera dell’economia si di­lata fino a non avere piú consistenza reale, il concetto si diluisce sempre piú. La Terra viene pro­spettata come un ecosistema totale che il capitale deve sfrut­tare, attraverso gli uomini in una misura sempre minore.

Si trova un’ottima espressione nella defini­zione che certi economisti danno della scienza eco­nomica (non si parla piú di eco­nomia politi­ca): una scienza dell’adatta­mento. Tale conce­zione integra le vec­chie categorie: ricchezza, scam­bio, prezzo, utilità ecc… Il che le permette pure di tener conto di ciò che è la «natura uma­na». L’essere umano ha un «bisogno di infini­to» che urta sul «finito della creazione» (H. Guitton nella voce «Science économique» dell’En­cyclopedia Univer­salis), da cui i bisogni sono innumerevoli e i mezzi per soddi­sfarli sono limitati. D’altra parte questi possono non trovarsi nel momento giusto al posto giusto.

Nondimeno lo sviluppo economico ha ac­cresciuto le possibilità, per cui si pone a tutti i livelli il problema di saper sce­gliere prodotti, dei mezzi di produzione e cosí via. L’atto eco­nomico sarebbe l’atto di scegliere. Da cui l’im­portanza del calcolo che rimpiaz­za il sem­plice giudizio che era legato al concetto di va­lore: e questo atto di scegliere implica evident­emente l’adattamento degli esseri umani al si­stema eco­nomico. Saper scegliere, è saper adat­tarsi. Non è questo nello stesso tempo il credo di tutti i futuro­logi? Occorre adattarsi allo shock del futuro, che è quello del capitale che sfug­ge a ogni costrizione, a ogni riferimento, e si dispiega per proprio conto e incalzan­do a frustate il piú lento modo di vita della specie che lo ha generato.11

Ritroviamo la convergenza con l’ecologia che si può de­finire sempli­cemente come la scienza delle condizioni di esi­stenza e delle in­terazioni tra gli esseri viventi e le condizioni ambientali, e che è fondamentalmente una sci­en­za dell’adat­tamento dell’individuo e della specie al suo ambiente. La scienza economica è la scienza dell’adattamento dell’uomo a un preciso ambiente, quello del capitale.12

L’economia politica è stata la scienza del di­venire del ca­pitale alla sua totalità; per far ciò essa non solo ha inventa­riato i fe­nomeni pura­mente economici concernen­ti il valore di scambio, l’utilità, il capitale ecc…, ma ha de­scritto in modo piú o meno esplicito anche come gli uomini interiorizz­assero i fenomeni, diventando ad essi sempre piú compatibi­li… a seguito di collisioni, di lotte che facevano loro abban­donare le loro antiche concezio­ni. Con il realizzarsi della comunità ma­teriale, il capitale esiste in quanto mondo. Ri­mane solo da studia­re come gli esseri umani che hanno interiorizz­ato il capitale si adattino al suo processo di vita: è il compito della scienza economica.

Il capitale s’impadronisce della dimen­sione del cosmo e riscopre lo spazio che tendeva a di­struggere («la distruzione dello spazio grazie al tempo», K. Marx, Grundrisse, p. 423), ma que­sto sempre secondo il suo modo di essere: dopo che per esteriorizzazione essi sono stati carpiti agli esseri umani. L’econo­mia è stata riflessione sui fenomeni che si svolsero a partire dall’auto­nomizzarsi del valore di scambio. e un tenta­tivo d’in­tervenire al loro interno, al fine di conci­liarli con i rapporti sociali vigenti. Essa è sem­pre stata piú o meno im­pregnata di ideali uma­nitari.

Con l’instaurarsi del modo di produ­zione capitalista, il movimento sociale e il movimen­to economico confluiscono. La lotta del prole­tariato all’interno di questo modo di produzion­e ha permesso di strut­turare tale unità-unifi­cazione. Da allora l’economia non può essere piú altro che un discor­so del capitale il quale. nell’accedere alla comunità materia­le, rende caduco l’intero contenuto dell’economia poli­tica.

L’economia traduce un certo comportamen­to di una parte della specie sulla Terra. Al mo­mento in cui essa perde la sua realtà, significa che questo comportamento tende ad abolirsi: moltiplicarsi indefinitamente (si constata un calo della natalità in tutti i paesi piú capitaliz­zati), porsi sempre piú differenti dal resto del mondo vivente, consi­derare la Terra come og­getto di sfrutta­mento, abbandonarsi alla tecnic­a e all’esaltazione delle forze produttive, al progresso.

Una via dell’evoluzione della specie è stata totalmente percorsa. Ne consegue che deve fi­nire l’autopercezione del comportamento adot­tato come pure la riflessione su di esso; dunque fine della fi­losofia, poiché essa è tra l’altro riflessio­ne sui valori, sul valore. Com­porta­men­to teorico che gerarchiz­za il mondo degli esseri e delle cose nella dicotomia esterio­rità-in­te­riorità.

Per Marx l’economia era la scienza che per­metteva di descrivere come le «comunità pri­mitive» erano state distrut­te, di rivelare il de­terminismo dell’evolu­zione delle differenti so­cietà umane, di spiegarne le rivoluzioni e, nella misura in cui faceva una criti­ca dell’economia politica, egli poteva in­dividuare le contraddi­zioni del MPC che dovevano portare alla rivo­luzione proletaria che avrebbe permesso l’e­manci­pa­zio­ne-liberazione di tutta una classe di uomini e quella dell’umanità. Ora, lo si è vi­sto, la dinamica dell’emancipazione-liberazione ­è quella del capitale. È lui il grande rivoluzionario e di tutte le rivoluzioni ha profittato. La serie delle rivoluzioni è dunque finita, si è conclusa con la realiz­zazione della comunità capitale. Il dive­nire umano non può piú esse­re legato alla rivoluzione.

Cosí ha termine il movimento di esterioriz­zazione-autonomizzazione e di libe­razio­ne-e­man­cipa­zione che abbiamo ana­lizzato a parti­re dal dissolversi delle «co­munità primiti­ve» nel­l’area occidentale e si abolisce la dialettica, rappre­sentazione di questo movimento, quella del padrone e dello schiavo per la scomparsa del­le classi e, da ciò, è la scomparsa del movi­mento dell’aliena­zione poiché, nella comunità capi­tale, si ha spesso giustapposizione tra l’es­sere che è stato spo­gliato e ciò di cui egli è stato spogliato; essi possono essere riuniti, ma in quanto realtà separate; la comunità terapeutica le ha cicatrizzate meglio che può. La religione stessa perde in funzionalità, poiché non è piú lei a legare gli esseri (il suo ca­rattere comunita­rio si attenua sem­pre piú), ma il capitale— rappresentazione. Esso, distruggendo sempre piú le radici umane, distrugge il ricor­do di qualcosa che la religione con­servava e che la conservava. Tutte le religioni della salvezza sono fondate sul ricordo. E come, ancora una volta, può es­serci alienazione quando non si ha piú ricordo di uno stato altro? Il limite as­surdo del movimento del capitale è una co­munità umana senza uomini che realizza cosí, in ma­niera esasperata il soggetto-automa di cui, dopo Ure e Owen, par­lava Marx nel Capitale.

Di conseguenza lo studio storico dello svi­luppo della specie nel corso del tempo dopo il suo sorgere per­mette di conservare o ritrovare il ricordo di uno stato altro, non per restau­rare tale stato ma per dimostrare che l’eternizzazio­ne del capitale si realizza solo nella misura in cui viene abolita la nostra memoria. Senza me­moria, niente comunità umana. Si potrebbe credere che il passaggio da una comunità ad un’al­tra, se pone problemi pratici e provo­ca molteplici lace­razioni, possa almeno essere colta, compresa dagli uomini e dalle donne. Ora, e questo è un apporto essenziale del­l’Ur­text, Marx mo­stra fino a qual punto il movimento del valore di scambio che dissolve le vec­chie comunità e tende a porre se stesso come co­munità, falsifichi per gli esseri uma­ni ogni comprensione. Ciò che essi credono de­terminanti sono i rapporti tra di loro, o le isti­tuzioni che si son date sulla base di rap­porti economici che essi non hanno compreso. Marx svela la falsa coscienza storica. Cosí i borghesi francesi pen­savano di limitare, egualizzare la ricchezza e non si rendeva­no conto di come in­vece, con il loro intervento, rimuovessero tutti gli ostacoli al proprio libero sviluppo in forma di capital­e.

Nella Sacra Famiglia, Marx aveva già af­frontato questa «illusione», senza darle il reale fondamento economi­co:

Questa illusione si manifesta tragica­mente quando Saint-Just, nel giorno del­la sua esecuzione, indican­do la gran­de tavola dei Diritti dell’uomo appesa nella sala della Conciergerie dichiara: «C’est pourtant moi qui ai fait cela». Quella tavola proclamava il diritto di un uomo che non può es­sere l’uomo del­l’an­tica Ge­meinwesen (comunità), cosí come gli attuali rapporti econo­mico-politici e industriali non possono essere quelli della società anti­ca.

Essi non avevano percepito che l’attività esteriorizzata degli uomini pervenisse ad una propria autonomia sulla quale essi non avevano alcuna presa. Questa falsa coscienza bor­ghese fon­da la democrazia rappresentativa, parlam­entare, la credenza che con istitu­zioni si va a costituire la nazione (nuova comunità che rin­serrerà tutti i pro­cessi economici e sociali); essa fonda allo stesso modo il fascismo (i nazisti vo­levano la Volksgemeinschaft, la comuni­tà del popolo!), che è comunque un movimento che con la sua azione ha permesso alla comunità capitale d’impiantarsi.

Per quanto riguarda la democrazia po­litica, è vero che essa ha avuto il merito di limitare gli eccessi della violenza. In effetti — ed è l’importante argomento al quale si aggrap­pano tutti gli attuali de­mocratici, e tutti quelli che, inorriditi dal nazismo e dallo stalinismo, consi­derano la democrazia come un male minore — si deve notare che nei paesi dove le vecchie co­munità sono crollate e dove la democrazia non ha potuto impiantarsi, non viga alcuna rego­la, alcuna istituzio­ne per imbrigliare il fenomeno sociale, non vi sia alcun freno alla violenza. Ciò che era umano, definito dalla co­munità, era crollato, e da allora dove trovare un punto di riferimen­to?

Cosí un gran numero di atrocità sono state commesse in URSS a seguito dell’impossibilità dell’instaurazione di una democrazia parla­mentare, e a seguito del fallimento della rivol­uzione proletaria mondiale. È di tale scatena­mento che avevano paura vari rivoluzionari russi, Dostoev­skij — ciò che gli faceva odiare la rivo­luzione, come a piú riprese ri­corda Ber­diajev nel suo libro dedicato a questo au­tore— e lo stesso Lenin poiché, secondo Victor Serge, egli paventava l’esplosione ge­neralizzata della lotta di classe, il che do­veva verificarsi in segui­to alla rivolta dei cecoslovacchi.

Gli stessi orrori, con varianti folclori­che, si ripetono in Asia, America Lati­na, Africa. Nei paesi africani il trauma della distruzione delle comunità è ancora piú profondo: l’urto col mondo del capitale è per se stesso generatore di follia, nel senso di perdita assoluta di ogni rife­rimento ed im­possibilità acuta di ritrovarsi in una comunità.

Ciò non significa affatto che i demo­cratici occidentali non abbiano commesso alcuna vio­lenza, alcuna tortura, al­cun crimine…Certo, no. Ma essi hanno operato prima fuori d’Euro­pa, nei paesi dove non erano «intralciati» dal­le leggi democratiche. È per questo che la guer­ra del 1914-’18 e so­prattutto il fascismo, portando all’Europa i metodi che erano stati riservati agli altri paesi, segna­no la sentenza di morte della democrazia politica.

La scomparsa sempre piú accentuata di ogni ideale e di ogni regola democratica fa sí che, in un mondo in decompo­si­zione, soprattutto quando la comunità capitale viene a essere ri­fiutata, la violenza non abbia piú alcun freno. Da cui l’invocazione ripe­tuta e vana per un ri­torno alla democrazia politi­ca, e le diverse proposte di rattoppo e rinvigorimento. Come se, dopo gli immensi fallimenti del 1914 e del 1933, essa potes­se essere un qualche baluardo contro la marea di violenza che sale e che co­mincia a dilagare sul mondo… tanto piú che, già alle sue origini, essa non è stata altro che un ac­como­damento.13

Ritroviamo la stessa falsa coscienza nei so­cialisti france­si:14

Da ciò deriva l’errore di quei socialisti, soprattutto francesi, che vogliono di­mostrare che il socialismo è la realizza­zione delle idee borghesi [...] e che si sfor­zano di dimostrare che il valore di scambio è [...] un sistema di libertà e uguaglianza di tutti; ma sarebbe stato distorto dal denaro, dal capitale, ecc.. (Urtext)

Il movimento socialista mondiale ha cono­sciuto la stessa fine della democrazia politica. Cosa tanto piú inevitabile, in quanto si era po­sto spesso come la vera realizzazione di essa. Ma, lo stesso Marx non consi­dera in definitiva che lo svilup­po delle forze produt­tive (dati neutri) sarebbe falsato dal mo­vimento del capi­tale? Non vi è una falsa coscienza storica nel voler fondare il comunismo sulla base di uno sviluppo delle forze produttive che ha permes­so l’instaurar­si del capitale? Da cui, evidente­mente, per opporsi a tale deviazione delle forze produttive, la necessità di un intervento che permette­rebbe di rigenerare un corso, di risa­nare, di guarire! Nello stesso tempo il comuni­smo sarebbe la vera coscienza del mo­vimento della produzione in atto da millenni e attende­rebbe un momento favo­revole per manifestarsi.

Lo stesso errore si riscontra nel fatto di aver pensato che il comunismo potrebbe svilupparsi sulla base della ridu­zione della giornata lavo­rativa. Con ciò, si conserverebbe ancora uno dei presupposti del capitale: la quantificazione del tem­po, e si vorrebbe utilizzare quanto il ca­pitale ha apportato; il che vuol dire che con lo sviluppo delle forze produttive un fenomeno sarebbe in corso, ma il capitale ne impedirebbe la piena espansione ed anche lo falserebbe. Da cui la ne­cessità di un intervento, del quale ho già parlato. La falsa coscienza è intrappolata dal fenomeno immediato, connesso alla volont­à di intervenire per far agire tale fenomeno nel senso de­gli interessi umani. La comunità non può edificarsi solo sul tempo, essa è possi­bile soltanto attraverso la ritrovata unione umanità-natura che inglobi spa­zio e tempo.

Infine, allorché Marx scrive: nessu­na for­mazione sociale scompare fin quando non ab­bia esaurito le possi­bilità che ha in sè (cfr. la «Prefazione» a Per la criti­ca dell’economia poli­tica, 1859), egli ha creato un terreno fertile per il sorgere di illusioni, tra le quali quella consi­stente nel credere che vi sia deca­denza del ca­pitale a partire dal mo­mento in cui un cer­to numero di possibilità, che gli sono state in par­tenza ricono­sciute, siano state realizzate e che quindi un inter­vento — quello del proletariato — sia sempre prevedibile in un avve­nire piú o meno lontano. In realtà, se vi è decadenza è quella dell’umanità!

Falsa coscienza e recupero sono strettament­e legati. Il secondo è in un certo modo la conseguenza della prima: se si è recuperati, è perché si è prodotta una coscienza erronea. Si è prospettato un fenomeno come potesse essere effettivamen­te antagonistico al capitale. Ora, si avvera in seguito che esso realizzi ciò che avrebbe dovuto di fatto distruggere. Ci troviam­o qui di fronte, in altro modo, alla sua an­tropomorfosi.

È a partire da rappresentazioni inade­guate del movimen­to reale, a partire da fal­se coscien­ze, che il capitale per­viene a perfezionare ogni volta il suo domi­nio. Si può pensare che tale movimento possa arrivare fino al momento in cui il capitale si gonfierà di una sostanza che gli è estranea, e che cosí esploda, o si esaurisca. Se ciò è vero per diverse istituzio­ni, ciò che le ren­de poi inadeguate e non operative al punto da farle sprofondare al minimo urto (e la rivolu­zione è stata realmente quel momento in cui tutto crolla e tutti sfuggono dalle varie istitu­zioni, ruo­li ecc.), ma il capitale, lui, s’impadron­isce di tutto e, antropomorfizzando­si, accre­sce sempre piú la sua po­tenza, dato che al limi­te essa può ap­parire uma­na.

Cosí il movimento di recupero può essere solo la causa di uno squilibrio che potrebbe in­trodurre una falla nella comu­nità capitale. Nondimeno un grave pericolo accompa­gna questa possibilità, è la perdita totale, l’esterio­rizzazione com­pleta e dunque lo svuota­mento realizzato degli esseri uma­ni, che arriva ad una comunità senza uo­mini. A maggior ragione non si può venire sul terreno del capitale forzando­ne il dive­nire, come pensa Baudrillard,:

La sfida che ci lancia il capitale nel suo delirio, liqui­dando senza vergogna la legge del profitto, il plusva­lore, le final­ità produttive, le strutture d pote­re, e ri­trovando al termine del suo pro­cesso l’immoralità profonda (ma anche la se­duzione) dei riti primitivi di distruzione, questa sfida, va raccolta e ripresa in un rilancio in­sensato.

Raccogliere la sfida sarebbe abbandonarsi al­lo sfuggi­mento integrale del capi­tale, per mai piú ritrovarsi: realizza­zione della follia. Bau­drillard coglie qui in ma­niera impres­sionante il movimento dell’inflazione.15

È al momento della distruzione della comu­nità esistente, che la falsa coscienza affiora piú nettamente; è allora che si fanno le piú sfrenate ricerche per la sua rico­stituzione in for­ma piú o meno fantasio­sa. Alcuni tentano di farlo attra­verso un’attività da collezionisti o lancian­dosi in una sfrenata ses­sualità, altri dedi­candosi al misticismo, alla droga, o alla mu­sica (fenome­no della musica pop).

Nel secondo e nel terzo secolo della nostra era, un im­menso smarrimento s’impadroní di molti uomini e donne, a seguito al crollo delle antiche città (po­lis), nelle quali essi avevano un ruolo riconosciuto e concreto, poi a se­guito del fallimento di un cosmopolitismo che l’Impero romano aveva prodotto, ma che non poteva rendere effettivo, per le stesse tensioni straordi­narie che lo attraversavano e per i rapporti ignobili che allora regnavano. Da cui, per gli gnostici e i ma­nichei, la problematica dell’usci­ta non solo dal mondo costi­tuito dall’Impero romano, ma dal cosmo. Presso i greci, so­cietà umana e cosmo erano ancora in continuità,16 presso i romani questa sopravviveva in forma schematica, da cui la te­matica gnostica del co­smo perverso.

La via «gnostica» fu, in particolare, adottata — come afferma R.M. Grant in Gnostici­smo e cristianesimo primitivo — in seguito al falli­mento dei tentativi di liberazione del po­polo ebraico (essendo stato lo stes­so Gesú Cristo un emanci­patore che avrebbe fallito), quindi a quello delle profezie che avevano annunciato il momento di tale li­berazione. Essa sor­se al se­guito del fallimento delle speranze apocalittic­he.

Molto piú vicina a noi, la guerra 1914-’18 fu vissuta come un’apocalisse che non era stata profetizzata. Da cui la fasci­nazione che essa esercitò almeno al suo inizio, su un gran numer­o di spiriti, so­prattutto in Germania, dove, in questo caso, essa tese a persistere fino al­l’avvento del nazismo (che ebbe un carattere profondamente religioso); né si può dire esat­tamente in quale misura essa non abbia impre­gnato di sé l’intero periodo del suo dominio. Essa fu vissuta come la ma­nifestazione di un male minore, in fondo come il risolversi di cer­te tensioni che non potevano piú essere soppor­tate e come una lacerazione a partire dalla qua­le potrebbe intravedersi un’altra via.17

Ai giorni nostri, in maniera palpabile, fasci­nante e tragi­ca, s’impone a tutti il fal­limento della profezia apocalittica di Marx: l’emanci­pazione dell’umanità gra­zie all’assalto dei pro­letari alle cittadelle del capitale, sia che abbia fallito, sia non si sia presentata all’appunta­mento della storia. La stessa cosa per quella di Bordiga che, riordinando l’insieme della previ­sione di Marx integrandovi il divenire di tutti i popoli di colore, messi in moto dalle scosse di due guerre mon­diali, prevedeva l’apocalisse-rivoluzione nei nostri attuali anni.

Il fallimento della rivoluzione comuni­sta segna la fine della comunità-partito e del par­tito-comunità.

A partire da qui si comprende me­glio il va­sto smarrimen­to della nostra epoca connesso alla perdita di referente, alla permissività totale e alla fine delle comunità nate con la rivoluzion­e borghese: le nazioni e i loro Stati. Certo, vi è un’uni­tà superiore, l’ONU; ma proprio come sotto l’Impero roma­no, ogni cosmopolitismo è irrealizzabi­le, tanto piú che l’idea di cosmo è andata perduta. Nel secolo XIX e soprattutto du­rante la metà del XX l’internazionalismo ha giocato il ruolo del cosmopolitismo an­tico, e di quello del secolo XVIII. Nei tre casi si hanno effettivamente momenti di disaggregazione di comu­nità. Se l’internazionalismo proletario ha fallito, ciò è dovuto in gran parte anche al fatto che esso è stato incapace d’ingloba­re la diversi­tà, inquinato come fu assai rapidamente di eu­rocentrismo e minato da un malcelato naziona­lismo sciovinista. Cosí è logico che, sempre in Oc­cidente, prevalga la moda dell’orientalismo e che i temi e le pratiche messi in onore dagli gnostici e dalle varie correnti religiose dell’ini­zio della nostra era, ritrovino un’eco.18

Questo momento che stiamo vivendo è la fi­ne-esauri­mento di tutta un’evoluzione degli esseri umani. Il periodo pre-gnostico conosce un movi­mento in cui sacro e profano sono in connessione ed è in virtú di questi due ele­menti che uomini e donne si sollevano. Col trionfo del cristianesimo si ha secolarizzazione e sepa­razione dell’elemento sacro da quello profano: dai a Cesare quel che è di Cesare e a Dio quel che è di Dio. Tale secolarizzazione-profanaz­ione si accentua col movimento ri­voluzionario borghese, prima con la Riform­a, poi con le di­verse rivoluzioni fino al 1789, quando si ha la profanazione realizzata. Su questo piano il mo­vimento proletario non opera al­cuna disconti­nuità: l’elemento «sa­cro» viene definitivamente messo da parte; ciò che si postula è solo che gli esseri umani debbano crearsi un’altra comuni­tà.

L’impossibilità di un movimento pro­fano ad assicurare la liberazione degli es­seri umani ha rafforzato l’idea che la «sal­vezza» dell’umanità possa essere assi­curata solo da movimen­ti reli­giosi, sacri. Ma tutte le correnti reazionarie che hanno tentato di conservare l’elemento sacro, cos’altro hanno fatto se non partecipare alla tragedia di quanto si è svol­to, scen­dendo il piú spesso a patti col potere costituito? La soluzio­ne non è quindi dalla parte del sacro né da quella del profano. La comunità umana è al di fuori di questo mondo.

Si può collegare alla tematica comuni­taria il problema di sapere cos’è determi­nante nel­l’evo­luzione degli uomini. In effetti nel mo­mento attuale tende a prevalere una teoria mar­ginalista. Sarebbero cioè i marginali che inventerebbero le nuove condotte e le impor­rebbero progressivamente al resto della comu­nità. Co­me la teoria economica dello stesso nome, essa privilegia certi elementi: qui, l’élite! Essa effettua in ma­niera ancora piú netta la frattura che la teoria del rap­porto partito-mas­sa interpretava. In entrambi i casi, si ha una non-contemporaneità degli uo­mini che vivono in un momento dato. Gli sconvolgimenti che affèttano la comuni­tà sarebbero percepiti solo da alcuni elementi. Questi privile­giati farebbe­ro partecipi dei loro ap­porti gli altri.

Una tale teorizzazione è il riconoscimento della distru­zione di ogni Gemeinwesen, dato che vi sono solo esseri di­stinti gli uni in rappor­to agli altri e disposti fianco a fianco. Ora, nel­la misura in cui la dimensione Gemein­wesen persista per poco che sia tra gli esseri umani, questi possono assai realmente coesistere, per quanto la loro soglia di percezione dei fenome­ni sia differente.

Infine, per concludere su questo aspet­to della comunità in quanto raggruppa­mento umano, segnaliamo che vi sono al mondo due modalità determinanti del rap­porto essere in­dividuale-comunità: quella dell’Occidente ove l’indi­viduo si è autonomizzato. e cosí pure lo Stato; quella dell’Oriente ove la comunità è di­spotica e l’individuo non perviene all’autonom­ia. Si hanno varianti in Africa e nelle due Americhe. Tuttavia, adesso, con l’accesso del capitale alla comunità materiale, si ha conver­genza tra Occidente e Oriente. Il pri­mo ha in definitiva presen­tato un movimento intermedio per arrivare a un risultato identico ma molto piú potente. Cosí esso dà il cam­bio, sostituen­dola, all’antica comunità dispotic­a asiatica.

Non si può contentarsi di opporre la comu­nità all’indivi­duo e allo Stato come soluzione dei mali attuali. Il comuni­smo non è una sem­plice affermazione comunitaria; esso non può piú essere caratterizzato dalla proprietà comu­ne o col­lettiva perché sarebbe mantenere i pre­supposti del capitale stes­so: la proprietà e la se­parazione (nella misura in cui vari teorici so­cialisti ricardiani reclamavano una ri­partizione egualitaria). In una parola non è da prospettar­si in opposi­zione a qualcosa, perché si tratta di uscire da ogni dialettica che, presto o tardi, ri­porterebbe l’anta­gonismo per un po’ ri­mosso. Ciò che è in questione è l’essere degli uomini e delle donne e il loro rapporto con la totalità del mondo vivente impiantato sul nostro piane­ta, che non può essere concepito come appro­priazione, come Marx pensava, bensí come go­dimento. Quindi sarebbe meglio sostituire co­munismo con co­munità umana.

Come l’insieme umano non deve piú essere diviso per di­venire comunità, cosí l’individuo non deve piú essere diviso per divenire indivi­dualità, quindi fine della rottura Stato-individ­ui, partito-massa, spirito (cervello)-corpo. Per uscire da questo mondo, oc­corre acquisire un corpo tendendo ad una comunità, dunque non chiudendosi in un fenomeno indivi­duale, bensí ritrovando la dimensione della Gemeinwesen.

È qui che ritroviamo il tema fondamentale delle opere filosofiche di Marx: rendere espli­cito il rapporto individuo-società e come aboli­re il loro antagonismo. Piú che un essere socia­le, l’uomo è un essere che ha la dimensione del­la Gemein­wesen, vale a dire che ogni essere umano porta in sé, sogget­tivata, la Gemeinwe­sen. Il che viene espresso in maniera mol­to ri­duttiva, quando si afferma il carattere universa­le del pensiero di ogni essere umano.

Il capitale ha realizzato la comunità non solo in quanto insieme sociale, ma anche nella dimensione della Gemeinwe­sen, poiché ciò che fa il fondamento del pensiero e la condot­ta (etica) ecc.., è il capitale, grazie al suo divenire a rappre­sentazione esclusiva di tutte le altre. Nella co­munità capitale gli uomini sono uniti me­diante le tecniche, i famosi mass-media che sono tanto piú necessari quanto piú gli esseri uma­ni sono numerosi. Esse non arrivano a ren­derli coesistenti, contemporanei, poiché li rin­chiudono entro i loro limiti so­ciali, nazionali ecc..

Tutti gli elementi significanti la determinaz­ione fonda­mentale della Gemeinwe­sen sono stati distrutti: le potenzialit­à dette parapsicolo­giche come la telepatia, vari tipi di lin­guaggi come quello del corpo, mentre quello verbale è sem­pre piú impoverito, perdendo la dimensio­ne universale; esso è ridotto ad un codice che traduce la comunità capitale. Af­fin­ché vi sia una comunità umana, occorre una riduzione del­la popolazio­ne. Il numero eccessivo diluisce la di­mensione Gemeinwesen; essa non può piú effettuarsi nell’essere indivi­duale. Inoltre la co­munità sarà l’integrale di una miriade di picco­le comunità viventi unicamente nelle zone adatte ad un’espansione umana. La nostra spe­cie abbandoner­à per questo tutta una serie di regioni che sono state conquistate, ma dove gli esseri umani si sono perduti perché hanno do­vuto spendere troppa energia per poter sussi­stere, o perché sono divenuti troppo dipendenti dalla tecnica.

Comunità unitarie come comunità integrale non possono vivere semplicemente come rag­gruppamento di esseri umani. Occorre che fra tutti vi sia trama co­mune, sostanza comune, in quanto esse realizzino l’essere umano, e questo è accessibi­le solo se ogni essere realizza in sè la Gemeinwesen: essendo un elemento irriducibile e nello stesso tempo il modo che la comunità ha di realizzarsi in lui, e il modo che ha, lui, di per­cepirla in tutta la sua durata.

È qui che sorge la difficoltà che si è imposta per millen­ni: gli uomini e le donne, non sapen­do chi sono, non cono­scendo i propri possibili, si sono rinchiusi in ghetti che essi dicevano es­sere raggruppamenti umani, umanità, definiti da distinguo che permettevano di escludere le altre. Cosí, per gli anti­chi egiziani, gli stranieri non erano uomini. Si poteva sa­crificarli agli dei. Erano stranieri perché non vivevano come loro, determinati com’erano da un’altra geo­gra­fia, un’altra storia, perché avevano svilup­pato altri possibili. L’accesso alla comunità im­plica dun­que una conoscenza-riconosci­mento di tutti gli altri, la loro accettazione nella loro diver­si­tà. Non una gnosi intellettuale o spiri­tuale, ma una gnosi to­tale; la cono­scenza deve farsi attraverso l’intero essere, proprio grazie alla riunifi­cazione di ogni essere.

Non si tratta di escamotare il male! La spe­cie umana ha anche sviluppato i possibili del male, spesso il piú orribile, il piú ignobile, non giustificabile da alcuna escatologia storica. In concreto ciò significa che non si può accettare coloro che uccidono, tortu­rano, vogliono do­minare gli altri ecc.. Questo rifiuto della «via del male» può essere raggiunto solo a parti­re dal momento in cui, come diceva Marx con la sua termi­nologia ancora impregnata di econo­mia: la maggior ricchez­za per l’uomo è l’altro uomo.

La dimensione Gemeinwesen si perce­pisce anche in quel­lo che Marx ha chia­mato il lavoro universale (espressione ri­presa da Bordiga), cervello so­ciale che sotto altra forma si trova teorizzato da Leroi-Gourhan in Il gesto e la pa­rola. Noi pensiamo col nostro proprio cervello, ma anche con quello della specie in quanto somma di tutti gli esseri che ci circon­dano o che ci precedono. È per questo che il sentimen­to del­la spe­cie svelato da Bordiga è un’altra af­ferma­zione della Gemeinwesen.

Infine, l’essere presente al mondo di ciascu­no di noi nel mondo si afferma in una specie di coscienza di essere indivi­dualizzato della specie e nella specie. Con l’accesso alla co­munità, gli esseri umani avranno infine trovato il loro mon­do. In effetti al contrario delle altre specie che hanno una re­lazione immediata es­sere-mondo perché hanno assegnata loro una por­zione del pianeta (la famosa nicchia ecologica), l’uomo non ne ha alcuna. Da quando ha avuto luogo la mu­tazione che ha «gettato» fuori dalla foresta l’essere bipede di­venente uomo, tale es­sere cerca angosciosamente un mondo nel qua­le possa essere sicuro della sua esistenza, della sua realtà. Dopo millenni, questa ricerca deve concludersi realiz­zando infine ciò che egli è nella sua diversità intraspe­cifica e nel suo lega­me col mon­do vivente; cosí egli troverà il suo po­sto nel continuum della vita. Il suo mondo è l’essere umano definito nella continuità con essa.

Ho detto che tale ricerca deve con­cludersi, e non che si concluderà, in quanto non vi è un de­terminismo rigo­roso che presieda alla sua fine, il che porterebbe a giustificare il movi­mento intermedio tra comunità im­mediata e comunità umana a venire. No. La storia, in quanto insieme di esperienze vis­sute dagli uo­mini e dalle donne, può essere solo un dato di fatto; si posso­no spiegare di­versi divenire, ad esempio quello del ca­pitale, e questo in modo determinista, ma da ciò non è possibile dedurre un determinismo piú globale che ci riguarder­ebbe tutti, quello della nostra realizzazione, alla fine, in quanto es­seri umani. A posteriori, a fenomeno umano avve­nuto, sarà possibile tro­vare ne­gli avvenimenti precedenti un determi­nismo che vi con­duceva ineluttabilmente. Ma questo ne­gherà i diversi possibili che si saranno manifestati, e il fatto che la spe­cie, attualmente demente, avrà compiuto il salto solo costretta e for­zata. Non è detto che ciò si verifichi; la sua scomparsa sotto diverse forme l’incalza in un futuro non lontano. Ecco perché c’è un dover essere.

Si è rimproverato a vari filosofi del­la storia, e a Marx in particolare, di avere una concezio­ne escatologica e soteriolo­gica della storia (es­sendo il proletariato il sal­vatore che si salva non in quanto proletariato ma divenendo uma­nità): correlativamente si può aggiungere che per lui il «cosmo so­ciale» aveva un senso (En­gels vi aggiunse la sua «filosofia della natura», che era un tentativo di dare un senso al cosmo nella sua totalità). Al contrario ai giorni nostri il «cosmo so­ciale» viene prospettato come neu­tro, non ha in se stes­so al­cun significato, alcun senso, per esempio quello di un divenir­e al co­munismo. Da cui la per­dita di prospettiva e di ogni certezza. La paura della storia di cui parla Mircea Eliade non può essere compensata dal­la percezione di un dato sote­riologico insito nel cosmo sociale. In realtà si può individua­re un senso alla co­munità dispotica del capitale: un di­venire all’assurdo, alla distruzio­ne degli uo­mini. Ciò non può es­sere di alcun conforto per gli esseri uma­ni né dar loro energia per soppor­tare la loro situazione, se non un’energia suici­daria. Da cui l’ingiunzione: occorre abbando­nare questa comunità e tutti i suoi presupposti. È il rifiuto di un’erranza millenaria…

Dopo gli anni sessanta, la comunità capitale è divenuta sempre piú intollera­bile a un gran numero di uomini e di don­ne, essenzialmente i giovani. Si è avuta una vasta rivolta della gio­ventú, che è ricer­ca della comunità umana. Essa è ac­compagnata da una miriade di feno­meni che non si può qui esaminare, ma che te­stimoniano fratture, spesso parcellari ma co­munque fratture con la comunità capitale. La rivolta ha manifestato una sensibilità nuova, es­sendo capace di per­cepire diverse alienazioni, ingiustizie che era­no state accura­tamente ca­muffate dai vari rackets politici. Tale movi­mento è ora mascherato da una certa rivitaliz­zazione della politica, ma va maturando in profondità. Gli uomini e le donne devo­no ren­dersi conto fino a che punto possano tendere a realiz­zare la comunità umana solo rompendo totalmente con la di­namica di questo mondo e con la dialettica rivoluzione-controrivoluzione.­ Da allora salterà il lucchetto che impedisce ogni creatività e che inibisce la crea­zione di un nuovo modo di vita. La paura che ci attanaglia verrà abolita e entreremo nel nostro divenire.


Ottobre 1976
Traduzione di Gabriella Rouf.
Ultima revisione 19 novembre 2022.

Note
1Ho affrontato la questione della Gemein­wesen in vari studi: «Origine e funzione della forma par­tito»;« Caratte­ri del movimento operaio fran­cese»; «Il Capitolo VI inedito del Capitale e l’opera eco­nomica di Marx» (che, inte­grato dalle note, sarà ri­stampato con il titolo Capitale e Gemeinwesen ;) infi­ne in diversi articoli di Invariance, se­rie II, e in par­ticolare nel №4.
2Certo sarebbe da farsi uno studio per mo­strare tutti questi legami. Al­lora ci si renderebbe conto che il famoso sche­ma dialettico che si svol­ge in tre tem­pi era già stato esposto dagli gnostici e dai manichei. 1° tempo: separazione dei due «regni» della luce e del­le tenebre; 2º tem­po: in seguito a una cata­strofe co­smica, si ha mescolanza della luce e delle tenebre; 3º tempo: è quel­lo della redenzione, in cui si ha una de­fin­itiva separazione della luce e delle tenebre. Gli uomini sono salvati, ma il dio ascoso lo è a sua volta tramite gli uomini, poiché essi sono particelle divi­ne di luce. ¶ Per i mani­chei, solo coloro che avran­no perduto ogni ricor­do del fatto che sono luce, e dei quali nessuno potrà ricordarsi, saranno irrime­diabilmente perduti.
3Per quanto ne so, in Francia l’unico approccio inte­ressante alla que­stione della comunità è stato fatto da Raoul Brémont, che fece parte del «gruppo di Marsiglia» della Sini­stra Comunista internazionale for­mata dalle frazioni belga, italiana e france­se, tutte in realtà provenien­ti dalla Si­nistra Italiana che si era delimitata a partire dall’opposizione all’orientamento leninista in seno all’Internaziona­le Comunista; Bré­mont pubblicò nel 1938 un ciclo­stilato: La commu­nauté. Tale testo è stato stampato nel 1975 dalle edizioni L’Oubli (2, rue Wurts, 75013 Paris). ¶ Il suo merito è stato di affermare la «comunità marxi­sta» nel momento stesso in cui i na­zisti facevano trionfare la loro ideolo­gia del­la Volksgemeinschaft (comunità del popolo). Egli si basa sui testi giova­nili di Marx; tende ad una visione aclassista pur conservando lo sche­ma classista. Da ciò derivano le difficoltà che incontra quando tenta di delineare ciò che è esattamente il proletariato del suo tempo. Sembra che sia proprio perché non può ormai proporre una teoria puramente classista, che egli giunga ad affermare la comunità. D’altra parte egli non si rivolge agli operai o ai proletari, bensí ai produttori.
4Cfr. H. et H. A. Frankfort, John A. Wilson, Thorkild Jacobsen, Wil­liam A. Irwin, La filo­sofia prima dei greci. Concezione del mondo in Mesopotam­ia, nell’antico Egitto, presso gli ebrei, Einaudi, Tori­no, 1963, tra­duzione di The Intel­lectual Adventure of Ancient Man. An Essay on Speculative Thought in the Ancient East, Chicago, 1946.
5Torneremo in seguito sull’importanza di quest’ope­ra che mette in evi­denza — in negativo — il pro­blema della Gemein­wesen e affronta quello dell’«in­dividuazione», cosí come sulla validità dell’assioma di Lévi-Strauss: la società si fonda su un triplice scambio di beni, di don­ne, di parole, con tutte le conseguenze che ciò comporta.
6Vedi nota 1.
7Cfr. «C’est ici qu’est la peur, c’est ici qu’il faut sau­ter!», in Invariance, №6, serie II, 1975
8Tutto il discorso che segue costituisce in gran parte la risposta a una lettera di Bernard Toumoud del 24 febbraio 1976; di cui ecco un pas­saggio essenziale ¶ «Ogni economia poggia sul tempo. Credo Marx l’abbia detto, che non era stupido, e non sempre co­sciente della pro­fondità delle proprie formulazio­ni. Si deve oggi aggiungere questo: il capitale è l’ulti­mo stadio dell’economia che rac­coglie e condensa tutte le forme passate. Non c’è alcun avvenire per un’altra economia, poiché il capitale è radicalmente un’economia dell’avvenire (vedi credito e inflazion­e). ¶ Se, nella sua prima forma, l’economia è costi­tuzione di ri­serve per lottare contro il tempo della distruzione e della perdita (le catastrofi naturali, l’ostilità dell’ambiente ecc.), essa (l’economia) nella sua forma ultima (il capitale) è una tendenza alla di­struzione e alla perdita del tempo. ¶ L’econo­mia comincia quando l’umano prende il tempo di eco­nomizzare. L’economia è al suo termine quando la forma credito s’impadronisce del tem­po globale dell’umano. ¶ Se gli umani hanno dapprima orga­nizzato il loro mondo in previsione del tempo della penuria e della fame, il mondo del capitale è l’orga­nizzazione — che nessuna coscienza dirige — della penuria e della fame del tempo. ¶ La tendenza all’abolizione della temporalità e la tendenza all’aboli­zione dell’umano sono una sola e identica cosa. Il tempo è l’uma­no stesso. Nella forma ultima dell’economia non si tratta piú, come nelle epoche precedenti, di economizzare del tempo, bensí di eco­nomizzare il tempo stesso. Il capitale è una ten­denza alla fissità e alla costanza as­solute, una ten­denza alla permanenza, una tendenza all’immobile che mira a fare l’economia globale del divenire, del transeunte. Una ten­denza all’eternità. ¶ Nel mon­do del capitale, il solo divenire è l’eterno Ritorno dello Stesso, il ritorno del quantitativo che, per quanto tra­sformato nella sua quantità, resta identi­co a se stesso per quanto ri­guarda la sua qualità: la qualità del non-umano. ¶ La dottrina nie­tzschiana dell’Eterno Ritorno dell’Uguale è questa parola delirante che racconta — senza saperlo e sotto ma­schere — la verità del capita­le. ¶ Da ciò deriva l’attua­lità di Nietzsche». ¶ Sono lontano dall’essere d’accordo con l’insieme di quanto sopra, in partico­lare per ciò che ri­guarda l’unilaterale approccio al tempo separato dallo spazio. Penso tuttavia che sia bene far co­noscere la provenienza di certi nostri impul­si. Inoltre, a loro volta, i lettori potranno ri­ceverne altri, e cosí via…
9Questa svolge un ruolo-chiave nella giu­stificazione dell’esistenza del capitale. In definitiva, sarebbe solo col suo sviluppo che l’umanità sa­rebbe uscita dalla penuria. Attualmente il capitale non è piú giu­sti­fi­cato da questo momento origi­nario divenuto troppo lontano, ma da qual­cosa di piú vicino: la ca­tastrofe. Secondo vari teorici, sarebbe grazie a lui che l’umanità potrebbe evi­tarla. È essenziale notare che è il capitale che genera penuria e catastro­fe, sia come realtà che elementi mitici. Di volta in volta ciascuno di essi è necessario per mantenere una cer­ta ten­sione di vita negli esseri umani. Non può es­servi riposo. Appena appar­sa, la «vera vita», è mi­nacciata dal­l’abisso che si profila al nostro orizzont­e prossimo. Solo eliminando questo si potrà al­lora trovare un altro ostacolo alla vita, che il dive­nire del capitale provvederà a togliere… Da ele­mento mitico-reale al­l’altro il capitale assicura la perennità. La nostra vita ci sfugge sempre piú. Non resta che l’angoscia che esso ha generato in noi e che deve sempre scongiurare. In ciò il capitale è pro­fondamente religioso.
10Occorre aggiungere che in un primo tempo si è trattato di completare Marx grazie all’apporto del­la psicolo­gia e della sociologia (cfr., per esem­pio, O. Rühle, Zur Psychologie der proletarischen Kinder, K. Marx, Per­spektiven einer Revolution in hochin­dustrialisierten Ländern), poi ci si è preoccupati di estrarre dalla sua opera un metodo e di traspor­lo in altri ambiti. Si può avere anche una mescolanza dei due, come nel mo­vimento della Kapi­tallogik, nato in Germania e svilup­patosi soprattutto in Danimarca.
11La lettura di Lo choc del futuro di Alvin Toffler op­pure quella di Der Jahrtausend Mensch (L’uomo del mil­lennio) di Robert Jungk permette di rendersi conto della fine dell’utopia.
12Prospettare un’altra dinamica del divenire umano implica una valuta­zione approfondita di ciò che la scienza rappresenta nel periodo che va dal suo sor­gere nella Ionia fino ai giorni nostri. È allora che si potrà esplicitare fino a che punto il con­cetto di adattamento sia tautologico e giustifica­tivo. Sarà possibile mettere in evidenza come lo sviluppo scientifico abbia soprattutto per obiettivo di trasfor­mare i rapporti tra gli uomini stessi, il che facilita la loro inte­grazione nella comunità ca­pitale. L’influenza sulla «interiorità» degli esseri umani consiste essenz­ialmente nello svuotarla di ogni con­tenuto. Da qui effettivamente lo scandalo per tutti gli scientisti i quali pensano che la scienza debba dare una soluzione ai problemi attuali, e che con­statano che le nuove concezioni del mondo in fisica, in chimica, in biologia ecc. sfiorano appena la vita sociale e politica.
13Ho già affrontato in vari testi uno studio della de­mocrazia, in partico­lare in La révolution communi­ste. Thèses de travail, nel №6, serie I, di Invarian­ceLa mystification démocratique. Aggiungerei questo: la de­mocrazia è la realizzazione della separazione totale e della non-comu­nicazione. Il diritto che la fonda risulta dalla distruzione dei dati im­mediati della vita. Cosí ai nostri giorni si parla di un diritto alla pro­creazione, di un diritto all’aria pura, quan­do la procreazione diventa impossibile (vedi l’India, la Cina, casi limite) e l’aria è diventata irre­spi­rabile a seguito dell’invasione del pianeta da parte del ca­pitale. Ogni diritto è una mutilazione; la sanzione di essa. E, ciò che vi è di piú ignobile, è che s’impo­ne il dovere di ricono­scere tale mutilazione, san­cirla e ricrearla indefinitamente. In seguito esaminerò come ciò fondi gli ideali di tolleranza e di relativi­smo!
14Ho esaminato ciò in «Les caractères du mouvement ouvrier français», Invariance, serie I, №10.
15Fin dal 1957, Guy Debord vagheggiava una sfida del genere: «La sfi­da situazionista al passaggio delle emozioni e del tempo sarebbe la scom­messa di vin­cere sempre sul cambiamento, andando sempre piú lontano nel gioco della moltiplicazio­ne dei periodi di turbamento». (Rap­port sur la constitution des si­tuations et sur les conditions de l’organisation et de l’action de la tendance situation­niste internationale.) Ma la sfida non era già il progetto del divino mar­chese de Sade, che esplose nel momento in cui scompariva la vecchia comunità?
16A proposito di tale questione, si veda H. Jonas, Gnosis und spätantiker Geist (traduzione ita­liana: Lo gnosticismo, SEI, Torino).
17Occorre assolutamente tener conto di questo stato d’animo (Gesin­nung) per comprendere la storia del­la Germania dal 1913 al 1945. Non è difficile com­prenderla nella misura in cui esso non è del tutto estra­neo alle preoccu­pazioni attuali. Si manifesta. ad esempio, nell’aforisma situazionista:. «Meglio una fine spaventosa che uno spavento senza fine» In cosa può sfocia­re questo, se non in una giustifica­zione di qua­lunque apocalisse?
18I libri di Jacques Lacarrière lo testimoniano ampia­mente: Les gnos­tiques (Gallimard, 1973); Les hommes ivres de Dieu (Fayard, 1975). Cosí come il libro L’Ange di Guy Lardreau e Christian Jambet, (Gras­set, Paris. 1976).

IL COVILE

Tags: , ,

Lascia un commento