Al capezzale del Capitale
dic 29th, 2022 | Di Thomas Munzner | Categoria: Capitale e lavoroAl capezzale del Capitale
di Tomasz Konicz
Parte prima. La politica monetaria è sull’orlo della bancarotta?
**Una sintesi delle contraddizioni della politica di crisi borghese, vista nell’attuale fase di stagflazione (Prima parte di una serie sull’attuale scoppio della crisi)
Possiamo dire di avere ancora dei soldi? Ovvero, detto in altri termini: Riuscirà finalmente la politica a tenere sotto controllo l’inflazione? All’inizio di novembre, dopo molti mesi di inflazione in costante aumento, il New York Times aveva percepito un barlume di speranza per la politica monetaria [*1]. Secondo gli ultimi dati, l’inflazione negli Stati Uniti si è ora leggermente moderata, il che è «una notizia gradita tanto alla Federal Reserve quanto alla Casa Bianca». Secondo i dati, l’inflazione ha rallentato, dall’8,2% di settembre al 7,7% dello scorso ottobre; le previsioni parlavano del 7,9%. Anche l’«inflazione di base», che esclude gli aumenti dei prezzi dell’energia e dei generi alimentari, ha subito un rallentamento, passando in quello stesso periodo dal 6,6 al 6,3%. Aumentare i tassi di interesse da parte della Federal Reserve statunitense, che quest’anno ha portato il tasso di riferimento dallo 0,25% al 4%, sembra perciò avere avuto un effetto [*2]. E in termini monetari, il punto finale non è stato ovviamente ancora raggiunto. I banchieri centrali della Fed, hanno dichiarato che i tassi di riferimento dovranno essere portati a un livello compreso tra il 4,75 e il 5,25%, per poter riportare finalmente l’inflazione sotto controllo [*3] Nel rapido aumento dei tassi – il più rapido dalla lotta contro la stagflazione nei primi anni ’80 [*4] - non è prevista alcuna «pausa», hanno dichiarato i funzionari della Fed ai media statunitensi [*5].
Ciò sembra rivedere quella che è stata la tendenza di lungo periodo alla riduzione dei tassi di interesse iniziata negli anni ’80 [*6], con la quale la politica monetaria doveva stimolare e stabilizzare l’economia e la sfera finanziaria.
L’ultima volta che il tasso di riferimento della Fed ha superato il 5% è stato nel 2008, all’apice della bolla immobiliare negli Stati Uniti e nell’UE. In seguito ha poi prevalso una politica di tassi di interesse che di fatto è stata pari a zero, attuata come parte della risposta alla crisi dopo lo scoppio della bolla. I tentativi di aumentare il tasso di riferimento (a oltre il 2%, nel 2019) dopo lo scoppio della pandemia (2020) sono stati abbandonati. Oltre ai rapidi aumenti del tasso di riferimento, dovrebbe essere la «stretta monetaria» della Fed, a contribuire a riportare negli Stati Uniti l’inflazione sotto controllo. Ricordiamo che dopo i principali episodi di crisi del XXI secolo, il sistema finanziario globale ha dovuto essere stabilizzato attraverso il famigerato quantitative easing, a partire dal quale le banche centrali hanno effettivamente stampato denaro acquistando titoli di Stato e obbligazioni sui mercati finanziari, per poter così fornire loro una liquidità aggiuntiva. La liquidità che è stata generata dagli acquisti sul mercato finanziario, ha provocato un aumento dei prezzi nella sfera finanziaria. La portata che hanno avuto queste iniezioni di liquidità – che nell’ultimo decennio hanno contribuito in modo significativo alla temporanea stabilizzazione del sistema finanziario globale intrappolato in una bolla di liquidità – è facilmente visibile nei totali dei bilanci delle banche centrali.
Breve storia del «capitalismo delle banche centrali»
L’inizio del «capitalismo delle banche centrali» [*7], è stato segnato dallo scoppio della bolla immobiliare, avvenuto negli Stati Uniti e in Europa nel 2008 [*8], allorché il sistema finanziario globale è stato inondato di titoli garantiti da dei mutui spazzatura, e che – dopo il fallimento della Lehman Brothers – è entrato in uno stato di crisi che ha minacciato l’intero sistema globale. Che fare? Per necessità, a partire dal febbraio del 2009 la Fed ha iniziato ad acquistare dal mercato finanziario tutta questa spazzatura, in modo da poter poi ricominciare a concedere prestiti nella sfera finanziaria «congelata». A metà 2010, la Fed aveva già «stampato», e immesso nella sfera finanziaria, più di 1000 miliardi di dollari per acquistare questi «titoli garantiti da ipoteca» (Mortgage Backed Securities – MBS), cui, quando si era all’apice della bolla immobiliare erano stati aggregati ipoteche che avevano un diverso rating creditizio. E questa reazione quasi spontanea alla crisi, simile alla politica dei tassi d’interesse zero, si è consolidata come una nuova linea guida politica, quasi una nuova costante politica, nella quale vediamo le banche centrali che detengono quantità sempre maggiori di «titoli» nei loro bilanci [*9]. Gli MBS – nonostante i numerosi tentativi di liberarsene – non sono mai scomparsi dal bilancio della Fed . Nel lungo periodo, il valore nominale di queste cartolarizzazioni di mutui ipotecari è addirittura aumentato, passando da circa 1.100 miliardi nel 2010 a oltre 1.700 miliardi nel 2016 e a 2.700 miliardi nella primavera del 2022. I tentativi di ridurre gli MBS presenti nel bilancio della Fed, hanno destabilizzato i mercati finanziari, al punto da dover essere abbandonati, o quanto meno – con lo scoppio della pandemia – sono stati interrotti a causa della crisi. Le banche centrali sono così diventate di fatto prigioniere della bolla di liquidità [*10] che esse stesse hanno creato in reazione allo scoppio della crisi del 2007/2008. L’imminente collasso del sistema finanziario globale, sulla scia del crollo immobiliare (fallimento di Lehman Brothers nel 2008 e conseguente «congelamento» dei mercati finanziari globali), avrebbe potuto quindi essere evitato solo al prezzo di una nuova ulteriore formazione di bolle, in ultima analisi attraverso un trasferimento di bolle, dalla bolla immobiliare alla bolla della liquidità. Così facendo, la politica monetaria, che ha sostenuto il mercato immobiliare attraverso l’acquisto di MBS, è diventata anche il pilastro centrale dell’economia, dal momento che gli immobili sono un importante fattore economico. Gli eccessi speculativi nella sfera finanziaria, fungono pertanto da motore ciclico per l’economia reale, se si considera che, ad esempio, la bolla immobiliare negli Stati Uniti e nell’UE è stata accompagnata da un’economia forte, finanziata in ultima analisi dal credito nel settore delle costruzioni. In Spagna, al culmine della febbre speculativa, si è verificata una vera e propria carenza di manodopera, che ha offerto a centinaia di migliaia di lavoratori immigrati dalla Bulgaria e dalla Romania delle opportunità di guadagno nel settore edile spagnolo. Per contro, dopo lo scoppio di queste bolle, la disoccupazione nella Penisola Iberica ha superato il 20% [*11]. Questo legame tra la politica monetaria espansiva delle banche centrali e le dinamiche cicliche dell’economia reale, diventa ancora più chiaro nel quadro della grande bolla di liquidità [*12], che ora ha sostituito la febbre immobiliare transatlantica. Gli acquisti di titoli garantiti da ipoteca da parte delle banche centrali, sono stati rapidamente superati dai programmi di acquisto di titoli di Stato. A partire dal 2010, la Federal Reserve ha iniziato ad acquistare massicciamente i «Treasuries» del governo statunitense, consentendo così alla sfera finanziaria di decollare nuovamente in modo speculativo [*13] e a Washington di attuare gli stimoli economici e i tagli fiscali dell’ultimo decennio. I numeri parlano chiaro [*14]: nel 2007, poco prima del crollo della bonanza immobiliare, la Fed deteneva circa 700 miliardi di dollari di titoli di Stato; nel 2012 ne deteneva più di 1,200mila miliardi e nel 2016 quasi 2,500mila miliardi. (La situazione è simile anche nell’Eurozona, dove gli acquisti di titoli di Stato da parte della BCE sono stati oggetto di controversie politiche tra la RFT e la periferia meridionale)[*15]. E questa montagna di debito pubblico costituisce quello che la politica monetaria statunitense ha voluto ridurre lentamente a partire dal 2018, in modo che nel 2019 i Treasury nel bilancio della Fed ammontassero «solo» a poco più di 2.000 miliardi di dollari. Poi è arrivata la pandemia, che ha nuovamente creato scompiglio nel settore finanziario globale – già gonfiato dalle iniezioni di liquidità e destabilizzato dalla stretta monetaria iniziata nel 2018 – e ha provocato un blocco dell’economia mondiale dovuto al parziale congelamento delle catene di approvvigionamento globali. La politica monetaria non ha avuto altra scelta che quella di portare all’estremo la stampa di moneta: a metà del 2022, nel bilancio della Fed erano presenti 5.700 miliardi di dollari di debito pubblico statunitense. Nel contempo, gli MBS sono stati nuovamente acquistati in misura crescente, tanto che il loro volume è quasi raddoppiato, passando da 1.400 miliardi, alla fine del 2019, agli oltre 2,7mila miliardi della metà del 2022. Proprio l’espandersi della stampa di moneta, ha generato sia una domanda governativa (Treasuries) sia una domanda privata (MBS), stimolando così tanto l’economia quanto la sfera finanziaria. A metà del 2022, il bilancio della Fed era cresciuto fino a un totale di novemila miliardi di dollari (principalmente titoli di Stato e titoli garantiti da ipoteca) [*16]. Le «iniezioni di liquidità» che hanno contribuito a trasformare la Fed in una sorta di discarica per il sistema finanziario globale, hanno dato impulso all’economia. E hanno temporaneamente stabilizzato i mercati finanziari, al costo di sempre nuovi eccessi speculativi; fino all’assurdo affair Gamestop sul mercato azionario [*17]. Ciò è stato possibile, solo perché l’inflazione nell’area del dollaro, che funziona ancora come valuta di riserva mondiale, è rimasta bassa. E i tassi di inflazione sono rimasti bassi solo perché la stampa di moneta da parte delle banche centrali ha portato a un’inflazione dei prezzi delle obbligazioni nei mercati finanziari nel contesto della suddetta bolla di liquidità, la quale ha avuto bruscamente fine solo grazie allo scoppio della pandemia e all’inflazione emergente (a proposito: La «Teoria Monetaria Moderna» neokeynesiana [*18] , una sorta di setta di pensiero trasversale degli economisti, ha partorito la sua assurda ideologia della crisi proprio durante la bolla della liquidità, sfruttando questo legame malinteso tra la politica monetaria espansiva e l’inflazione del mercato finanziario, secondo cui la stampa di moneta è possibile quasi all’infinito finché non prevale la piena occupazione). L’inflazione di cui si parlava all’inizio è quindi dovuta non solo alla pandemia, all’aggravarsi della crisi climatica e alla guerra in Ucraina [*19], ma anche alla fine di questa bolla di liquidità, dove la liquidità generata dai programmi di acquisto sfugge alla sfera finanziaria e cerca opportunità di investimento tangibili e resistenti alla crisi nel mondo reale [*20]; e laddove i rialzi dei tassi di riferimento sono l’unico strumento che è rimasto alla politica monetaria per poter combattere questo aumento dei prezzi.
Crepe alla base
È solo in un simile contesto storico contemporaneo, che il fondamentale re-orientamento della politica monetaria intrapreso dalla banca centrale statunitense, diventa pienamente comprensibile. Se la Fed proseguirà su tale strada, si tratterà di un cambiamento di paradigma che porrà fine a un’epoca di politica monetaria espansiva durata circa 14 anni. I rialzi dei tassi di interesse da parte della Fed, si accompagnano a una riduzione della «montagna di obbligazioni» che la Fed stessa ha accumulato. Nel frattempo, il bilancio della Fed è stato ridotto dal picco di 8,93mila miliardi del maggio 2022 a 8,62mila miliardi [*21]. Ciò è stato realizzato, non attraverso vendite attive sui mercati finanziari, ma riducendo i nuovi acquisti di obbligazioni e gli MBS in scadenza. In tal modo, 60 miliardi di dollari di titoli di Stato al mese non verranno sostituiti da dei nuovi acquisti da parte della Fed; il che, secondo la banca centrale, dovrebbe causare una riduzione «prevedibile e regolare» del totale del bilancio [*22]. Nel caso degli MBS, si tratta di circa 35 miliardi di dollari al mese. Ma per quella che di fatto è la spina dorsale del sistema finanziario globale [*23] - vale a dire, per il mercato obbligazionario statunitense – che cosa significa se la Fed comincia a comprare meno titoli di Stato americani? A metà novembre, ad esempio, il Financial Times (FT) ha riferito circa le crescenti «crepe nel mercato obbligazionario statunitense», che stavano diventando visibili in seguito alla svolta di politica monetaria della Fed [*24]. Secondo il FT, il più importante mercato obbligazionario del mondo, con un volume di 24.000 miliardi di dollari, stava ora mostrando delle instabilità simili a quelle viste poco dopo lo scoppio della pandemia, quando «i timori di un crollo economico globale» portarono a un crollo di «prezzi e liquidità». In parole povere: nessuno voleva comprare più debito pubblico statunitense, perciò la Fed è dovuta intervenire con il suo «quantitative easing». Il Financial Times cita quali sono i due indicatori che hanno raggiunto un livello critico di crisi, che è stato simile a quello del marzo 2020. La liquidità del mercato obbligazionario è diminuita, rendendo difficile l’esecuzione di operazioni di grande entità. Di conseguenza, i broker hanno ora difficoltà a negoziare pacchetti obbligazionari per un valore di 400 milioni, le quali in precedenza potevano invece essere trattati facilmente attraverso l’E-commerce. Inoltre, la profondità del mercato è diminuita rapidamente. Questo misura il volume delle transazioni al di sopra del quale il prezzo di mercato può essere influenzato. Nella primavera del 2020, quando il sistema finanziario aveva subito un breve shock a causa della pandemia, le transazioni inferiori a 200 milioni di dollari potevano influenzare il prezzo delle obbligazioni. Dopo l’ultima tornata di programmi di acquisto di obbligazioni da parte della Fed, la profondità del mercato è salita nuovamente a oltre 500 milioni di dollari per transazione, per poi scendere a meno di 200 milioni di dollari dopo l’inizio della «stretta monetaria» attuata dalla Fed. Simultaneamente, nel 21° secolo il volume totale del mercato dei Treasury statunitensi si è moltiplicato: da circa tremila miliardi nel 2000, fino a oltre quattromila miliardi poco prima dello scoppio della bolla immobiliare nel 2007, e poi a quasi 16mila miliardi alla vigilia della pandemia nel 2019. Attualmente, il volume del mercato, come detto, è di circa 24mila miliardi. I mercati obbligazionari sono ora «uno spazio fragile», con una «liquidità terribile» – ha lamentato un banchiere d’investimento parlando con il FT – che aumenta le «probabilità di un crollo finanziario». In altre parole, la vulnerabilità alle crisi del sistema nel suo complesso, sta rapidamente aumentando, ora che è stato privato delle «iniezioni di liquidità» delle banche centrali. Tuttavia, questo «senso di vulnerabilità» nel mercato dei titoli di Stato statunitensi rappresenta un grosso problema per gli investitori istituzionali – come i fondi pensione o i governi stranieri – i quali normalmente investono i loro soldi nei Treasury, considerati sicuri e stabili, spiega il FT. Il mercato dei titoli di Stato statunitensi, funge effettivamente da base del sistema finanziario globale, laddove il denaro viene investito con la prospettiva di rendimenti bassi ma sicuri da parte di grandi investitori – come i fondi pensione o le compagnie di assicurazione – che fanno affidamento su rendimenti affidabili. E ora, secondo il FT, queste fondamenta stanno mostrando sempre più «crepe». Se ormai, nel mercato obbligazionario statunitense non c’è più «liquidità», ciò «implica anche qualcosa in termini di stabilità generale dei mercati finanziari», ha dichiarato un analista al quotidiano economico londinese. Secondo il Financial Times, qualsiasi crisi di rilievo nel mercato obbligazionario richiederà l’intervento delle banche centrali, ma questo non «comunicherebbe quel tipo di stabilità e di certezza da cui dipendono gli investitori di tutto il mondo». Cosa ancora più importante, tale «intervento» equivarrebbe a sospendere la «stretta monetaria» descritta in precedenza; e quindi si tornerebbe alla stampa di moneta, che si suppone andrebbe aggirata, e proprio a causa dell’inflazione. Le banche centrali sembrano quindi intrappolate nella loro stessa bolla di liquidità [*25], dal momento che l’imminente fine della stampa di moneta inflazionistica sta causando delle crepe proprio nelle fondamenta del sistema finanziario globale.
La festa della liquidità è finita
La grande svolta nella politica monetaria, da parte delle banche centrali che devono abbandonare l’era del quantitative easing per passare alla stretta monetaria, sta lasciando il segno anche sui mercati immobiliari. La festa decennale, che i proprietari di case hanno potuto celebrare grazie alla politica dei tassi d’interesse di fatto pari a zero delle banche centrali, secondo quanto riportato dal Financial Times in ottobre sta per finire. Le vendite, nei mercati immobiliari di quasi tutte le aree metropolitane degli Stati Uniti e della Gran Bretagna, si trovano ora in una spirale discendente, mentre il rapido aumento dei tassi di interesse fa temere anche un aumento delle insolvenze [*26]. In Germania, secondo uno studio del DIW [*27], i prezzi delle case dovrebbero scendere del dieci per cento. Previsioni simili – di una perdita di valore «superiore al dieci per cento» – sono state fatte per molte grandi città degli Stati Uniti, della Gran Bretagna e persino della Grande Londra. Il problema, con il calo apparentemente moderato dei prezzi, è che esso si sta verificando in un contesto inflazionistico. A causa di un’inflazione generale di circa l’11% nel Regno Unito, il calo reale dei prezzi degli immobili si è sommato per circa il 25%, cosa che così sarebbe superiore «alla dolorosa correzione dopo la crisi finanziaria» del 2007/08, ha spiegato il FT. Al contrario, la differenza più importante rispetto allo scoppio della crisi di allora riguarda i cosiddetti titoli garantiti da mutui subprime, con i quali gli acquirenti di case con un cattivo rating creditizio hanno potuto negoziare ipoteche che sono state poi impacchettate con altri prestiti per la casa, e scambiate sui mercati come MBS. Queste cartolarizzazioni di mutui ipotecari, sono state il fattore principale che ha esacerbato la crisi finanziaria globale, dal 2008 in poi; e questa volta non sono di certo nella sfera finanziaria. In tal senso, la maggiore stabilità del mercato immobiliare si riflette nella percentuale inferiore al dieci per cento dei mutui per l’acquisto di abitazioni con basso capitale proprio: all’apice della bonanza immobiliare era il sette per cento nel Regno Unito, mentre ora è il quattro per cento. Tuttavia, l’inversione di tendenza dei tassi d’interesse aumenterà la vulnerabilità del settore immobiliare in espansione e della corrispondente sfera finanziaria, poiché l’aumento dei tassi d’interesse aumenterà l’onere finanziario per la classe media e la flessione del mercato immobiliare è questa volta solo un momento parziale della crisi – interagendo con altre dinamiche. Milioni di mutuatari di mutui a tasso variabile si trovano quindi ad affrontare spese più elevate a causa dell’aumento dei tassi d’interesse, mentre il rallentamento economico generale porta a una rapida diminuzione dei redditi. In Gran Bretagna, ad esempio, si prevede che il tenore di vita diminuisca del 7,1% nei prossimi due anni, il che rappresenterebbe il più grande calo degli ultimi sei decenni [*28]. Gli alti tassi di interesse e la minaccia di recessione a seguito della stretta monetaria, stanno pertanto destabilizzando l’intera sfera finanziaria, che negli ultimi dieci anni è stata mantenuta in crescita solo grazie all’inondazione di denaro da parte delle banche centrali. Nell’eurozona, dove le dispute sulla politica monetaria tra il centro tedesco e la periferia meridionale sono una tradizione fin dalla crisi dell’euro, di fronte a queste contraddizioni la BCE ha dovuto effettuare una sorta di speciale spurgo monetario: i rialzi dei tassi d’interesse [*29], e la fine dei programmi di acquisto di obbligazioni della BCE [*30] sono stati accompagnati dal lancio di un nuovo programma di crisi, il Transmission Protection Instrument (TPI). In caso di necessità – quando il differenziale dei tassi d’interesse tra le obbligazioni tedesche e quelle dell’Europa meridionale tornerà a crescere e si profilerà una nuova minaccia di disgregazione dell’eurozona – il TPI consentirà alla BCE di riacquistare, in misura illimitata, titoli di Stato e titoli di debito del settore privato, al fine di stabilizzare l’euro. Pertanto, in questo modo i guardiani monetari europei osano inasprire la loro politica monetaria solo grazie a una sorta di polizza assicurativa, che se necessario consente loro di stampare nuovamente moneta. A rischiare di crollare sotto il peso del debito accumulato, soprattutto nell’Eurozona [*31], non sono solo i mercati del debito sovrano, ma anche i mercati delle obbligazioni societarie cominciano a non funzionare più, diventando sempre più instabili e vulnerabili agli shock esterni. A metà novembre il New York Times ha riferito sulla situazione di tensione nel mercato delle obbligazioni societarie, dove le previsioni indicano che il 7,5% di tutte le obbligazioni con basso rating potrebbero andare in default l’anno prossimo [*32]. La situazione non è migliore per i debiti delle famiglie, i quali, nell’attuale stagflazione statunitense, sono aumentati del 15% [*33]. Generalmente, le numerose bolle del debito e le instabilità nella sfera finanziaria, sono solo espressione dell’aumento globale dell’onere del debito, il quale è passato da circa il 200% della produzione economica mondiale, all’inizio del secolo, a oltre il 350% nello scorso anno. Nei Paesi dell’OCSE, questa montagna di debito ammonta al 420% del PIL, in Cina al 330% [*34]. A ogni bolla speculativa globale, questo debito ha continuato a crescere fortemente, e gran parte di questi prestiti non sono stati utilizzati per investimenti redditizi, ma per spese di consumo. Il sistema funzionava semplicemente a credito – ed è stata proprio la politica monetaria espansiva a permettere la costruzione di questa torre del debito sui mercati finanziari globali. Decisiva per il corso dell’attuale crisi, è l’interazione che si sta sviluppando tra inflazione, rallentamento economico e instabilità della sfera finanziaria. La svolta della politica monetaria verso l’inasprimento monetario, paralizzerà l’economia nella misura in cui il costo del credito aumenterà, riversandosi a sua volta sul settore finanziario sotto forma di rischio di insolvenza dei prestiti. L’economia reale e la sfera finanziaria, possono quindi destabilizzarsi a vicenda (per non parlare di fattori di crisi esterni, quali nuovi eventi meteorologici estremi o la minaccia di una grande guerra).
La trappola della crisi
La grande differenza tra il crollo finanziario globale del 2008/09 e l’esplosione della crisi pandemica del 2020, è l’inflazione, la quale ora impedisce la consueta politica di crisi. Finora le banche centrali potevano semplicemente abbassare i tassi di interesse, e iniettare nuova liquidità nel settore finanziario attraverso il quantitative easing per attutire le conseguenze di una crisi. In inglese esiste l’espressione «to kick the can further down the road» [“prendere a calci il barattolo, spingendolo più lontano lungo la strada“], che descrive assai bene quale sia stata la politica di crisi del capitalismo degli ultimi due decenni. La contraddizione interna di un sistema globale tardo-capitalista che, di fatto, funziona a credito e soffoca la propria produttività, è stata prorogata per mezzo di una dinamica speculativa sempre nuova, spinta ad assumere dimensioni sempre più grandi. Ogni bolla del debito e dei mercati finanziari, dopo il suo inevitabile scoppio, è stata trasferita traslocandola, grazie a tassi di interesse a zero e una politica monetaria espansiva, in un altro boom speculativo ancora più grande: dalla bolla delle azioni di internet che è scoppiata nel 2000, alla bolla immobiliare del 2008, alla bolla della liquidità che ha collassato nel 2020 in seguito alla pandemia. Non essendo questo più possibile, la politica si trova ora in un vicolo cieco, in una trappola di crisi [*35], a causa del fatto che la lotta all’inflazione richiede una politica monetaria restrittiva, mentre invece la crescente instabilità dei mercati finanziari e l’incombente recessione suggeriscono nella realtà una politica monetaria allentata e in espansione. Le banche centrali dovrebbero perciò perseguire simultaneamente una politica monetaria che sia allo stesso tempo espansiva e restrittiva; cosa che non fa altro che evidenziare quale sia l’aporia della politica borghese della crisi, nella crisi sistemica che, nel contesto della finanziarizzazione neoliberale del capitalismo, viene sopraffatta dagli eccessi speculativi e del debito. Nel frattempo, questa fondamentale autocontraddizione della politica della crisi, dominata dall’economia delle bolle di questi ultimi decenni, si esprime anche nei conflitti in seno alle élite capitalistiche funzionali [*36]. Mentre i “falchi” monetaristi danno la priorità alla lotta contro l’inflazione, ecco che le “colombe” chiedono invece un allentamento dei tornelli monetari da fare per mezzo di rapidi tagli dei tassi d’interesse, in modo da limitare così le conseguenze della crisi ed evitare un’escalation. Entrambi gli schieramenti hanno pertanto ragione in quelle che sono le loro diagnosi al capezzale del capitale: gli elevati tassi di interesse e la politica monetaria restrittiva, strangolano l’economia e destabilizzano il sistema, mentre la politica monetaria espansiva e il quantitative easing alimentano ulteriormente l’inflazione. In questo modo, però, le “terapie” di entrambe le fazioni diventano obsolete. Stavolta, questa trappola della crisi [*37] della politica che dura da anni, e che è stata travolta dalle bolle dei mercati finanziari, potrebbe chiudersi, facendo sì che la classe politica potrà solo determinare il corso della crisi sistemica: l’inevitabile svalorizzazione del capitale assumerà la forma di deflazione o di inflazione? Finora, le élite del capitalismo funzionale sono sempre riuscite a trasformare ogni scoppio di crisi in una nuova formazione di bolle, ritardando la svalutazione del capitale (il barattolo è stato calciato più in là). Ma questo non significa che la strategia di ritardare palesemente la crisi avrà successo anche questa volta, soprattutto a causa della pressione inflazionistica. A un certo punto, il castello di carte della finanza globale crolla, il che, come detto, può avvenire anche in interazione con fattori esterni, climatici o geopolitici. Che stavolta possa esserci un forte impatto economico, lo suggerisce un attendibile indicatore precoce: il coefficiente di stupidità della sinistra, secondo il quale, nella sinistra tedesca il grado di marginalizzazione della teoria della crisi è proporzionale al grado di sviluppo latente del prossimo focolaio di crisi. Poco prima di quella che sarà la prossima crisi economica, nessuno dei presenti sulla scena vuole sentir parlare di crisi [*38]. E adesso è proprio così. Dagli snob del mondo accademico fino ai leader sindacali di sinistra, tutti quanti vogliono parlare solo di redistribuzione e di demagogia sociale, nel mentre che il limite interno del capitale, il quale sta soffocando nella sua stessa produttività [*39], viene ora semplicemente negato, dal momento che esso impedirebbe la desiderata partecipazione opportunistica. Il prossimo scoppio di crisi economica, quindi, è probabile che stia proprio dietro l’angolo, a partire dal fatto che l’ignoranza opportunistica [*40] della sinistra tedesca è sempre stata affidabile.
Note della prima parte
1 https://www.nytimes.com/2022/11/10/business/economy/october-inflation-data.html
2 https://de.statista.com/statistik/daten/studie/419455/umfrage/leitzins-der-zentralbank-der-usa/
3 https://www.cnbc.com/2022/11/16/feds-daly-sees-rates-rising-at-least-another-percentage-point-as-pausing-is-off-the-table.html
4 https://www.konicz.info/2021/11/16/zurueck-zur-stagflation/
5 https://www.statista.com/statistics/1338105/volcker-shock-interest-rates-unemployment-inflation/
6 https://www.statista.com/statistics/247941/federal-funds-rate-level-in-the-united-states/
7 https://www.bpb.de/shop/zeitschriften/apuz/geldpolitik-2022/507732/zentralbankkapitalismus/
8 https://www.konicz.info/2006/11/30/platzt-die-blase-2/
9 https://www.stlouisfed.org/open-vault/2022/may/how-will-fed-reduce-balance-sheet
10 https://www.konicz.info/2018/02/05/gefangen-in-der-liquiditaetsblase/
11 https://www.konicz.info/2010/03/11/spanische-krankheit/
12 https://www.konicz.info/2015/09/09/anatomie-einer-liquiditaetsblase/
13 https://www.konicz.info/2021/04/13/oekonomie-im-zuckerrausch-weltfinanzsystem-in-einer-gigantischen-liquiditaetsblase/
14 https://www.stlouisfed.org/open-vault/2022/may/how-will-fed-reduce-balance-sheet
15 https://www.konicz.info/2022/06/11/fed-und-ezb-in-geldpolitischer-sackgasse/
16 https://fred.stlouisfed.org/series/WALCL
17 https://www.konicz.info/2021/01/30/hedge-fonds-gamestop-und-reddit-kleinanleger-die-grosse-blackrock-bonanza/
18 https://www.nd-aktuell.de/artikel/1146327.modernen-monetaeren-theorie-gelddrucken-bis-zur-vollbeschaeftigung.html
19 https://www.konicz.info/2022/07/27/ruhm-und-aehre/
20 https://www.konicz.info/2021/08/08/dreierlei-inflation/
21 https://fred.stlouisfed.org/series/WALCL
22 https://www.stlouisfed.org/open-vault/2022/may/how-will-fed-reduce-balance-sheet
23 https://www.konicz.info/2022/07/22/schuldenberge-in-bewegung/
24 https://www.ft.com/content/632411eb-c3fa-4351-a3b6-b0e30bdc0ef7
25 https://www.konicz.info/2018/02/05/gefangen-in-der-liquiditaetsblase/
26 https://www.ft.com/content/528500c8-7cfa-4aaf-9fca-7692aafeb9ce
27 https://www.faz.net/aktuell/finanzen/zinswende-immobilienwert-koennte-um-bis-zu-10-prozent-fallen-18482215.html
28 https://www.ft.com/content/5f081f77-ed30-4a06-864e-7e4cc3204017
29 https://www.ecb.europa.eu/press/pr/date/2022/html/ecb.mp221027~df1d778b84.de.html
30 https://www.derstandard.de/story/2000136438818/ezb-stoppt-ankaeufe-von-anleihen-was-sind-die-folgen
31 https://www.derstandard.de/story/2000136438818/ezb-stoppt-ankaeufe-von-anleihen-was-sind-die-folgen
32 https://www.nytimes.com/2022/11/10/business/economy/corporate-bonds-fed-interest-rates.html
33 https://www.cnbc.com/2022/11/16/credit-card-balances-jump-15percent-as-americans-fall-deeper-in-debt.html
34 https://www.marketwatch.com/story/high-debts-and-stagflation-have-set-the-stage-for-the-mother-of-all-financial-crises-11670004647
35 https://www.heise.de/tp/features/Politik-in-der-Krisenfalle-3390890.html
36 https://www.ft.com/content/2fc01b1e-fe5b-43b2-825f-bf6a3679a9fd
37 https://www.heise.de/tp/features/Politik-in-der-Krisenfalle-3390890.html
38 https://www.konicz.info/2020/12/09/der-linke-bloedheitskoeffizient/
39 https://oxiblog.de/die-mythen-der-krise/
40 https://www.konicz.info/2022/10/06/opportunismus-in-der-krise/
Parte seconda. Gran Bretagna: la prima a cadere?Brexit, Banche, Usura, Economia
- Il Regno Unito appare come l’anello più debole della catena dei paesi industrializzati occidentali
Senza la Brexit tutto questo non sarebbe accaduto: la soddisfazione con cui la stampa tedesca segue il declino economico del Regno Unito, viene a malapena mascherata. È raro che un servizio sulle crescenti turbolenze finanziarie ed economiche nelle isole britanniche, non citi degli economisti [*1] o dei banchieri centrali [*2] che attribuiscano tali turbolenze all’uscita del Regno Unito dall’UE. Secondo il tenore pessimistico della stampa economica di lingua tedesca, quello che si profila a nord della Manica è una recessione prolungata [*3] che lascerà l’economia britannica indietro rispetto ai suoi concorrenti europei [*4], e che vedrà il Regno Unito sempre più emarginato [*5]. In tutto questo c’è molto di vero. Nelle isole britanniche ci sono effettivamente molti salariati minacciati dal collasso sociale. A metà novembre, l’Office of Budget Responsibility (OBR) del Tesoro britannico ha pubblicato una previsione economica a lungo termine per i prossimi anni [*6] che non ne fa affatto mistero: secondo l’OBR, entro la fine del 2024 la popolazione britannica dovrà affrontare un calo del tenore di vita del 7%, che segnerà il più grande calo, da quando è iniziata negli anni ’50 la raccolta di materiale statistico corrispondente [*7]. Il reddito disponibile per le famiglie, già nell’anno fiscale 2022/23 appare destinato a diminuire del 4,3%, secondo l’OBR: anche questo è un record storico negativo [*8]. Nel frattempo, i guadagni di produttività che ci sono stati negli ultimi otto anni sono destinati a essere rivisti.
Sono diversi i fattori che contribuiscono all’incombente crisi sociale: l’inflazione britannica, trainata dall’aumento dei prezzi dell’energia e dei generi alimentari, è particolarmente elevata e ha raggiunto l’11,4% (ottobre 2022) [*9], mentre il Paese dovrà allo stesso tempo affrontare una recessione particolarmente lunga, nel corso della quale l’OBR prevede che circa 500.000 salariati diventeranno probabilmente disoccupati, con un tasso di disoccupazione che passerà dal 3,5% al 4,9%. Si prevede inoltre che entro il 2024 il prodotto interno lordo (PIL) del Regno Unito si contrarrà del 2%, e che il livello di PIL registrato prima della crisi, alla vigilia della pandemia avvenuto all’inizio del 2020, non verrà raggiunto nemmeno alla fine del 2024. La Banca d’Inghilterra ora parla della «più grande recessione dagli anni ’30» [*10]. Nelle isole britanniche, il rallentamento economico totale ha effettivamente avuto inizio lo scorso agosto, quando il PIL è sceso leggermente dello 0,3% [*11]. In tutto il terzo trimestre del 2022, il Regno Unito ha visto la produzione economica contrarsi dello 0,2% [*12] Inoltre, malgrado la svolta attuata dalla banca centrale sui tassi d’interesse, si prevede che nel medio termine l’inflazione rimanga elevata: e per il prossimo anno viene stimata al 7,4%. Al calo dei redditi reali indotto dall’inflazione e dalla recessione, si aggiungono le conseguenze della crisi del settore finanziario e del mercato immobiliare, nonché l’impatto della svolta riguardo la politica monetaria della banca centrale. Molti acquirenti di case e molti mutuatari si trovano ora ad affrontare ulteriori oneri finanziari a causa del rapido aumento dei tassi di interesse, mentre il valore reale delle loro case sta rapidamente diminuendo a causa del calo dei prezzi e dell’elevata inflazione. Il previsto calo medio del 10% dei prezzi delle case, dovrebbe così portare a una perdita di valore reale di circa il 25% nei prossimi due anni di crisi, e questo a causa di una dinamica dell’inflazione superiore all’11% [*13].
Un ulteriore fattore di inflazione, è costituito dalla debolezza della valuta britannica, la quale negli ultimi mesi si è deprezzata nei confronti del dollaro USA – la valuta di riserva globale nella quale si svolge gran parte del commercio di beni ed energia – a causa del fatto che anche la Federal Reserve statunitense si sta muovendo rapidamente con la sua svolta sui tassi di interesse [*14]. All’inizio del 2022, la sterlina era ancora a 1,36 dollari, mentre a fine settembre era solo a 1,08 dollari. Solo dopo che Londra ha annunciato una politica di austerità fiscale in ottobre, la valuta britannica si è stabilizzata all’attuale livello di 1,22 dollari. L’apprezzamento del dollaro USA porta pertanto all’importazione di inflazione nel Regno Unito, che non ha quasi nessuna industria di esportazione significativa che possa trarre vantaggio da una valuta debole, mentre l’inflazione costringe anche i guardiani monetari di Londra a “stringere” la politica monetaria. L’aumento del tasso di base, da parte della Banca d’Inghilterra, al 3% all’inizio di novembre [*15] , cui farà seguito un ulteriore inasprimento dei tassi d’interesse, per cercare di contenere l’inflazione sotto le due cifre [*16] , sta a sua volta facendo salire i tassi d’interesse su prestiti e mutui, mentre molti mutuatari e detentori di mutui devono far fronte a un calo dei redditi. Nei prossimi due anni di crisi, circa due milioni di acquirenti di case dovranno affrontare costi ipotecari più elevati, con conseguente necessità di vendita di case e ulteriore pressione sui prezzi del mercato immobiliare. Inoltre, molte delle misure di sostegno e dei programmi di stimolo finanziati dal governo stanno per terminare, mentre la nuova amministrazione del Primo Ministro Rishi Sunak sta attuando misure di austerità e aumenti delle tasse per controllare il deficit di bilancio. Gli aumenti di tasse e i tagli alla spesa del governo britannico ammontano a 55 miliardi di sterline, e comprendono anche un’estensione dell’aliquota fiscale massima da parte dell’amministrazione conservatrice: la soglia dell’aliquota massima scenderà da 150.000 a 125.140 sterline di reddito annuo [*17]. Per inciso, l’ammontare del pacchetto di austerità corrisponde al precedente deficit di bilancio annuale di Londra, dove 30 miliardi di sterline dovevano essere risparmiati attraverso tagli alla spesa, e 25 miliardi di sterline dovevano essere raccolti attraverso l’aumento delle tasse [*18].
Al di là di tutto questo, la politica di austerità è finalizzata a scongiurare una crisi fiscale che, secondo le previsioni dell’OBR – se l’attuale corso della politica economica attiva finanziata dal debito dovesse continuare nei prossimi – sarebbe una minaccia. A partire dal 2026 in poi, il deficit di bilancio del Regno Unito sarebbe aumentato fino ad arrivare a oltre 100 miliardi di sterline. In ogni caso, la maggior parte delle misure di austerità entrerà in vigore solo dopo le «elezioni generali del 2024», le quali – ha osservato il Financial Times (FT) [*19] - dai politici dell’opposizione socialdemocratica (laburista) sono state interpretate come una «trappola». Inoltre, alla politica di austerità esiste un’eccezione: è stata mantenuta la sovvenzionare ai prezzi dell’energia; cosa che dovrebbe garantire ai consumatori un prezzo massimo, ma che ha aumentato il debito pubblico di 13,5 miliardi di sterline a novembre: 4,4 miliardi di sterline in più rispetto allo stesso mese nell’anno precedente [*20]. Tuttavia, questo pacchetto di austerità, insieme all’aumento delle tasse, rappresenta un cambiamento fondamentale della politica, in quanto il precedente governo di breve durata dello sfortunato Primo Ministro Liz Truss avrebbe voluto ancora implementare un programma completo di tagli alle tasse [*21]. I tagli fiscali, soprattutto per i ricchi e le imprese, avrebbero dovuto portare a un calo delle entrate di 45 miliardi di sterline. Lo scorso settembre, Truss voleva addirittura abolire del tutto l’aliquota fiscale massima. Ora, circa tre mesi dopo, Londra sta decidendo di aumentare le tasse di 55 miliardi di sterline. Secondo il FT, il più grande taglio delle tasse in 50 anni è stato ora, sotto il Primo Ministro Sunak, sostituito dal «più grande aumento delle tasse in 30 anni». La patria del neoliberismo sta perciò dicendo addio alla politica dei tagli fiscali e alla famigerata dottrina della Trickle-Down-Economics; secondo la quale le entrate aggiuntive per le imprese e per i ricchi sarebbero finite per «sgocciolare» verso le classi medie e basse. Invece, secondo l’OBR, l’aliquota fiscale salirà al 37,1% del PIL britannico; un record del dopoguerra. E alla fine, in ultima analisi, sono stati anche i «mercati» a segnare la fine di questa politica di crisi, comune ai centri del sistema mondiale, per mezzo della quale finora i governi erano stati in grado di attutire qualsiasi crisi per mezzo di misure di crisi finanziate dal debito e con una politica monetaria espansiva.
Alla fine di settembre, durante i «sette giorni che hanno scosso la Gran Bretagna» – come ha scritto il FT [*22] - Londra è stata letteralmente costretta a una drastica inversione di rotta fiscale. Il mercato dei titoli di Stato britannici ha subito delle gravi turbolenze, in risposta ai tagli fiscali del governo Truss, mostrando così i primi segni di un «crollo nucleare finanziario» (FT), vale a dire, di un collasso del sistema finanziario. Nel giro di pochi giorni, i tassi d’interesse obbligazionari sono letteralmente esplosi, passando dal 3,5% al 5% sulle obbligazioni trentennali, riflettendo in tal modo il calo dei prezzi delle azioni. I prezzi sono scesi solo perché c’era poca domanda di obbligazioni britanniche, visto che a molti operatori di mercato non era chiaro come Londra potesse finanziare i tagli alle tasse a fronte di un debito pubblico in rapido aumento. Un gestore di fondi si è lamentato con il FT, dichiarando che in 21 anni di carriera non aveva mai vissuto una situazione così drammatica, dato che a volte era semplicemente impossibile trovare degli acquirenti per i titoli di Stato britannici, o Gilt [N.d.T: Gilt:titoli di stato emessi dal Regno Unito di Gran Bretagna e Irlanda del Nord, con scadenze da 1 a 50 anni e prevedono generalmente un tasso fisso, pagato con cedole semestrali. Vi sono anche Gilts irredimibili, che cioè non prevedono data di rimborso]. Anche durante la crisi finanziaria del 2008, «c’è sempre stato un mercato per i gilt». Per porre fine all’emergente «panico del mercato» (FT), la Banca d’Inghilterra è dovuta intervenire e – nel bel mezzo di una fase di inflazione a due cifre – ha acquistato 65 miliardi di sterline di titoli di Stato britannici; cioè ha finito per stampare moneta. Questo «programma di liquidità» della banca centrale britannica è finito solo a metà ottobre, dopo la svolta finanziaria di Londra [*23]. Il nuovo bilancio di austerità, ha pertanto anche lo scopo di stabilizzare il mercato dei gilts, dato che un’«economia del G7» è stata colta dal panico di mercato, secondo il FT. In passato questo genere di cose era più comune nel Sud globale, o nella periferia meridionale dell’UE, ad esempio in Grecia, Spagna o Portogallo all’inizio della crisi dell’euro. Ora la crisi sta esplodendo nei centri del sistema globale. I mercati obbligazionari sovrani sono di solito molto appetibili [*24], poiché vengono considerati una «banca sicura», nella quale gli investitori istituzionali, come le compagnie di assicurazione o i fondi pensione, vogliono investire il denaro in modo sicuro a lungo termine. E sono stati proprio molti fondi pensione britannici quelli che hanno dovuto invece subire una pressione crescente, a causa delle scosse finanziarie del mercato obbligazionario [*25]. Con un collasso del mercato obbligazionario, a perdere i loro soldi non sono solo alcuni speculatori: milioni di pensioni di tutta un’intera generazione di salariati vengono bruciate. Le onde d’urto di una vera e propria crisi del mercato obbligazionario scuoterebbero quindi non solo la sfera finanziaria, ma l’intera economia, attraverso il crollo della domanda e la contrazione del credito. Ed è per questo che la brusca svolta nella politica fiscale di Londra – con la revisione a metà ottobre di quasi tutti i tagli alle tasse – va interpretata come un tentativo di «calmare» i “mercati” agitati, che come hanno detto i media americani quasi non volevano più comprare titoli del debito britannico [*26]. Tuttavia, alla luce della rapida crescita del debito del Regno Unito [*27], queste «rassicurazioni» sembrano essere estremamente necessarie. Attualmente, il peso del debito pubblico britannico equivale oggi a quasi il 101,9% della produzione economica annuale del Regno Unito; mentre prima dello scoppio della pandemia era solo dell’84,4%. Il Regno Unito ha un onere del debito pubblico che è superiore alla media dell’UE, il quale è pari all’86% del PIL. Anche Francia e Spagna hanno un onere del debito più elevato, rispettivamente al 113 e al 116%.
Le costose misure anticrisi, adottate da Londra in seguito allo scoppio della pandemia e alla guerra in Ucraina, si trovano ora a essere accompagnate da una recessione che, rispetto alla forza economica in declino, sta facendo crescere una montagna di debiti. Di conseguenza, appare quindi lecito chiedersi se i «pacchetti di austerità» di Londra possano davvero contribuire a ridurre il debito pubblico. Le economie nazionali non sono «casalinghe sveve». I programmi di austerità provocano un calo della domanda che può sfociare in una recessione, e a fronte di un PIL in calo, la cosa rende l’onere del debito ancora maggiore. Inoltre, l’austerità porta a una diminuzione del gettito fiscale e a un aumento della spesa sociale; così come avviene con la sicurezza sociale o con i sussidi di disoccupazione. Il fenomeno di quello che è un vero e proprio «salvataggio nel fallimento» è ben noto già a partire dalla crisi dell’euro, come è stato esemplificato in Grecia dal sadismo dell’austerità dell’allora ministro delle Finanze tedesco Schäuble in Grecia. Ciò che ora si sta manifestando pienamente nel Regno Unito, è semplicemente la trappola della crisi fondamentale [*28] della politica borghese, che ormai non sembra avere più alcuna via d’uscita sistemica per ritardare la crisi. Per quel che riguarda lo sviluppo futuro della crisi, il Regno Unito può scegliere tra due strade: Londra può emulare Schäuble, e imboccare la strada deflazionistica dei programmi di austerità, che potrebbe in ultima analisi portare alla delineata «bancarotta salvifica», oppure il governo britannico può costringere la banca centrale a continuare a stampare denaro fresco attraverso l’acquisto di titoli di debito britannici, cosa che trasformerebbe l’attuale inflazione in iperinflazione. Anche sul Tamigi, l’era neoliberale del capitalismo zombie finanziato dal debito [*29] sta per finire. La grande differenza con la tragedia dell’Europa meridionale – che durante la crisi dell’euro [*30] è stata quasi spinta al collasso sociale da Berlino – risiede nel fatto che, nel caso della Gran Bretagna, si tratta di un Paese del centro, si tratta di uno Stato del G7 che ora si trova ad affrontare la totale penetrazione delle dinamiche di crisi. La crisi globale del capitale [*31], che negli ultimi decenni ha già devastato ampie zone della periferia del sistema mondiale [*32], sembra perciò aver ora finalmente raggiunto i centri. E in primo luogo, si manifesterà soprattutto nel «declino degli standard di vita» dei salariati – cosa di cui si è parlato all’inizio di questo articolo – contro il quale l’attuale movimento di sciopero nelle isole britanniche [*33] continuerà a essere impotente, almeno fino a quando non svilupperà una prospettiva anticapitalista e trasformatrice [*34].
A seguito della Brexit, la Gran Bretagna è diventata, in un certo senso, l’anello più debole nella catena degli Stati centrali del sistema tardo-capitalista in erosione. L’Italia, che solitamente viene trattata come il grande candidato alla crisi in Europa, ha un debito del 150% del PIL; superiore a quello del Regno Unito. Ma nei suoi sforzi di stabilizzazione, Roma può contare sulle risorse della BCE e dell’Eurozona, a condizione che Berlino conservi un interesse fondamentale a mantenere la moneta unica europea. Le dimensioni dell’area valutaria europea fanno sì che essa possa rimanere stabile per un periodo di tempo più lungo e sia in grado di assorbire meglio gli shock da crisi rispetto alle economie isolate. Dopo la Brexit, Londra rimane solo la Banca d’Inghilterra e un PIL non superiore al 19% di quello dell’UE – e questo non è sufficiente per evitare che nel medio termine si trasformi in una seconda Turchia, dove l’inflazione potrebbe ben presto raggiungere cifre a tre zeri [*35]. Tuttavia, anche la soddisfazione tedesca menzionata all’inizio rischia di svanire presto. La Gran Bretagna, che ora è appena solo più avanti, potrebbe essere forse il primo paese del centro occidentale a cadere, ma è inevitabile che la crisi si manifesterà pienamente anche in tutti gli altri.