Costanzo Preve (Valenza, 14 aprile 1943 – Torino, 23 novembre 2013)
nov 23rd, 2022 | Di Thomas Munzner | Categoria: Primo Piano
VOGLIAMO RICORDARLI COSI
COSTANZO PREVE – RIPENSARE MARX OLTRE LA DESTRA E LA SINISTRA
Intervista con il Prof. COSTANZO PREVE a cura di LUIGI TEDESCHI
1) La conflittualità con il capitalismo è il tema dominante che rappresenta l’origine e la ragion d’essere della sinistra. Evocare la sinistra significa, sia storicamente che psicologicamente riferirsi ad un complesso di culture ed ideologie che si contrappongono ad uno stato di rapporti economici e politici prestabiliti nella società capitalista. La sinistra è nata storicamente a seguito delle contraddizioni interne del capitalismo, in tema di eguaglianza sociale, produzione e redistribuzione della ricchezza, stratificazione della società in classi. Le crisi ricorrenti del capitalismo hanno posto storicamente in risalto il ruolo critico e antagonista della sinistra, in funzione di una alternativa che prefigurasse l’avvento di una nuova società che sostituisse quella capitalista. Il fondamento economicista della società capitalista avrebbe quindi dovuto essere rovesciato in senso rivoluzionario con la creazione di una società socialista prima e comunista poi. Il fenomeno rivoluzionario comunista si rivelò, oltre che illusorio, un clamoroso fallimento. L’economia del socialismo reale non seppe competere con quella capitalista, né, tantomeno, fu in grado di sostituirsi ad essa. Il socialismo reale, anzi, nell’intento di emulare e superare il capitalismo fordista, ne esasperò gli aspetti negativi, quali l’esasperato produttivismo, la centralizzazione pianificatrice, l’omologazione di massa, la rigidità gerarchica delle strutture, senza conseguire gli stessi risultati. L’economia, vista l’impossibilità di creare nuovi sistemi che sostituissero il capitalismo, fu emarginata dai temi ideologici di una sinistra che, visto il fallimento dell’esperienza sovietica, si guardò bene dal riproporre la ricetta dell’economia pianificata in occidente, ma, nello stesso tempo, non fu in grado nell’ovest capitalista di elaborare modelli alternativi che non fossero socialdemocratici, cioè ispirati ad un riformismo moderato, quali correttivi istituzionali interni alla logica dell’economia di mercato. In realtà, a mio parere, l’ideologia marxista ha impostato il conflitto di classe basandosi unicamente sui rapporti di produzione e di redistribuzione della ricchezza non tenendo in dovuto conto la dinamica dei processi produttivi, della ripartizione tecnica delle funzioni specifiche nell’ambito di un processo produttivo estremamente parcellizzato e specializzato. La ricchezza, prima che essere ridistribuita diffusamente, dovrebbe essere prodotta secondo criteri ispirati alla massima diffusione. La sinistra ha obbedito ai dogmi ideologici, senza dimostrarsi adeguatamente sensibile alle trasformazioni evolutive dei processi di produzione che hanno creato tante nuove categorie di lavoratori e tanti poteri interni nell’ambito dell’azienda, dato l’estremo moltiplicarsi delle funzioni specifiche. Questa evoluzione ha condotto alla frammentazione della classe lavoratrice. In mancanza di una teoria unitaria in cui trovassero la loro sintesi gli interessi e le aspirazioni delle singole categorie produttive, le categorie stesse sono diventate o succubi inermi del capitale finanziario, oppure si sono costituite in corporazioni interne chiuse e autoreferenti, in organismi cioè di interessi particolari spesso in lotta fra di loro (tecnici, managers), nell’ambito dell’economia, comunque funzionali alla logica del capitale finanziario.
La tua domanda invita a riflettere sulle cause storiche e sociali profonde della dinamica di progressiva integrazione nel capitalismo della sinistra, storicamente sede della conflittualità e della tensione al superamento integrale dei capitalismo stesso, e suggerisce però anche una spiegazione delle ragioni di questa integrazione, e cioè la dinamica di frammentazione della classe lavoratrice, dinamica che ha smentito le frettolose speranze in vista di una sua unificazione, sociale e politica, unificazione che è stata ad un tempo la prognosi e la speranza della sinistra specificatamente “marxista”, da non confondere con la sinistra nel suo complesso. Tutto questo richiede anche una periodizzazione storica, in quanto la cosiddetta “sinistra” è una realtà estremamente metamorfica, e senza impadronirsi concettualmente delle sue dinamiche metamorfiche non è possibile intendersi. Cercherò di esprimere analiticamente la mia opinione su entrambi i punti. Prima, però, dal momento che questa è la prima domanda, “scoprirò le mie carte” su due questioni largamente preliminari, in cui esporrò subito in modo “numerico” le mie due tesi di fondo:
I) Viviamo in un’epoca storica che potremmo definire, sulla scorta di Alain Badiou (cfr. Il Secolo, Feltrinelli, Milano 2006, p.39), come l’Epoca della Seconda Restaurazione, ove la prima sia quella apertasi dopo il 1815 ed il congresso di Vienna, e chiusasi soltanto dopo il 1848. Anche se le analogie storiche sono quasi sempre ingannatrici, in questo caso faremo un’eccezione, ed useremo questa analogia in modo comparativo. Il presente richiede infatti sempre un detour attraverso il passato. II) Sulla base di questa diagnosi storica preliminare, per cui viviamo appunto nell’epoca della Seconda Restaurazione, non ritengo opportuno riproporre gli schieramenti e le dicotomie precedenti a questa seconda restaurazione stessa. Nella fattispecie che ci interessa, non ritengo opportuno riproporre il programma della rifondazione della vera, autentica, buona “sinistra” (oppure – ma è lo stesso – della rifondazione della vera, autentica, buona, nuova “destra”, eccetera), ma mi colloco personalmente nell’ottica del progressivo superamento della dicotomia Destra/Sinistra, almeno nel contesto europeo occidentale in cui viviamo (non parlo di paesi come l’India o il Venezuela, in cui la dicotomia storica e sociale funziona ancora a pieno regime). Dopo aver discusso i due punti preliminari, passerò alle due questioni da te poste nella domanda.
Se assumiamo allora l’ottica del presente come storia, e cioè del tentativo di pensare “storicamente” non solo il passato, ma anche il presente in cui viviamo, presente che è l’arco temporale mobile che lega il passato ed il futuro, ritengo che gli ultimi due decenni del novecento hanno aperto un periodo storico, tuttora in corso e di cui non si intravede affatto la fine, che Badiou ha felicemente connotato come Seconda Restaurazione. Essa si distingue però dalla prima, quella del 1815, per due ragioni di fondo. Primo, questa restaurazione è globalizzata, concerne lo Spazio geografico del mondo intero, anche se in questo spazio vi sono resistenze (Irak, Afghanistan, Palestina, eccetera) e vi sono connivenze (Europa in primo luogo), e su questa dicotomia non solo politico-militare ma anche “morale” Resistenza/Connivenza bisognerà tornare. Secondo, la prima restaurazione del 1815 vedeva la temporanea riscossa tattica di una classe sociale destinata alla sconfitta strategica, e cioè la nobiltà tardofeudale europea, mentre questa restaurazione vede invece la formazione di gruppi ultracapitalistici con probabile base di massa (new global middle class globalizzata, eccetera), che non sembrano in alcun modo costituire una classe sorpassata o in “decadenza”.
Il clima culturale di questa seconda restaurazione vede il fenomeno della demonizzazione e dell’esorcizzazione delle ideologie novecentesche di mobilitazione politica (il comunismo, in primo luogo, ma anche ovviamente i fascismi ed i populismi carismatici di redistribuzione sociale del reddito), ideologie raccolte tutte sotto il cappello categoriale del cosiddetto “totalitarismo”, esattamente come il clima culturale della prima restaurazione vedeva il fenomeno della demonizzazione e dell’esorcizzazione delle ideologie settecentesche di tipo illuministico. L’analogia è in questo caso del tutto calzante: la rabbia restauratrice della seconda restaurazione se la prende con le ideologie novecentesche esattamente come la rabbia restauratrice della prima restaurazione se la prendeva con le ideologie settecentesche. Mi limito a constatare questo interessante fenomeno, senza che questo implichi la mia personale adesione a tutte le varianti dell’illuminismo settecentesco né tantomeno a tutte le varianti del comunismo storico novecentesco. I restauratori devono cancellare tutto il passato, la loro demonizzazione deve essere totale ed integrale, e non deve restare pietra su pietra. La cancellazione del novecento deve essere integrale, e in questo non c’è nessuna differenza fra il “destro” Augusto del Noce ed il “sinistro” Marco Revelli. In opposizione a questi signori, chi scrive intende subito affermare: “Viva il Novecento!”. E soprattutto: “Viva un secolo che ha almeno tentato – sia pure senza riuscirci – di contrapporre la sovranità della politica al dominio incontrollato e smisurato dell’economia feticizzata e divinizzata!”.
La restaurazione impone però un mutamento qualitativo delle forme ideologiche di resistenza che avevano caratterizzato il precedente scenario, che non può in alcun modo essere “riproposto”. La prima restaurazione (1815) mostrò ben presto che era impossibile riproporre il giacobinismo, il russovianesimo, il giusnaturalismo egualitario, il contrattualismo democratico, il comunismo utopistico della ripartizione (Morelly, Babeuf, eccetera), il luddismo di distruzione delle macchine e di restaurazione dell’artigianato manuale, eccetera, e dopo alcuni decenni di fisiologica oscillazione sorsero infatti nuove correnti politiche, di destra (Donoso Cortes) e di sinistra (Marx). Ed è proprio ispirandomi a questa analogia, e prendendola sul serio come merita, che personalmente ritengo che in questa seconda restaurazione dobbiamo fare come i nostri progenitori di metà ottocento, i quali non riproposero le vecchie forme settecentesche, ma proposero forme politiche ed ideologiche completamente nuove. Nel nostro specifico contesto storico (primo decennio del ventunesimo secolo) e geografico (Europa occidentale sottomessa ad una occupazione militare USA accettata dagli attuali governi fantocci, che appunto per questa ragione considero del tutto illegittimi, non importa se sanzionati o meno da elezioni manipolate), ritengo la dicotomia Destra/Sinistra la forma vecchia di ideologia politica orientativa, ed il suo superamento, per ora lento, incerto e graduale ma da non lasciare certo cadere, il principale compito culturale del nostro tempo. Per quanto riguarda la Destra, io approvo la posizione di Alain de Benoist che sostiene il superamento della dicotomia (e per questa ragione gli ho dedicato un saggio, cfr. Il Paradosso de Benoist, Editrice Settimo Sigillo, Roma 2006), e critico spietatamente tutte le posizioni (un solo nome: Marcello Veneziani) che ne ripropongono invece il mantenimento. Tuttavia, questo riguarda gli ambienti di “destra”, di cui non faccio parte, e ad ognuno il suo compito. Per quanto riguarda invece la “sinistra”, di cui faccio parte dall’età di 18 anni (ora ne ho 64), sono contrario ad ogni ipotesi di ricostruzione o di rifondazione della “vera” sinistra, sempre contrapposta da almeno due secoli alla “falsa” sinistra, quella che avrebbe tradito, si sarebbe integrata nel sistema e si sarebbe fatta “comprare” con emolumenti parlamentari spropositati, assunzioni superpagate in apparati mediatici, eccetera. Si può infatti arrivare al massimo – se si segue questa via senza uscita – alle famose Due Sinistre Alleate, quella detta in modo americanizzante “radicale” e quella detta in modo vetero–europeo “riformista”, in cui per ragioni di logica sistemica elettorale il baricentro programmatico cade necessariamente sulla seconda componente, ed allora i “radicali” diventano i portatori d’acqua dei “riformisti”, che sono poi sempre gli esponenti politici degli interessi strategici del grande capitale finanziario, i cultori della nuova religione sionista del complesso di colpa eterno dell’Europa e gli agenti proconsolari locali dell’impero americano potentemente armato. Ho dunque messo così le “carte in tavola”: viviamo in un’epoca triste e grottesca di Seconda Restaurazione, dobbiamo sopportare i lagnosi demonizzatori del novecento, dobbiamo accettare di essere rintronati dallo stucchevole coro dei virtuosi accusatori del totalitarismo, siamo nelle mani di un circo mediatico ignorante, asservito e corrotto, assistiamo al massacro ambientale del pianeta da parte di oligarchie finanziarie incontrollabili, e vediamo ripresentarci in tavola minestre riscaldate di “vere” destre reazionarie e tradizionalistiche e di “vere” sinistre radicali e rivoluzionarie. Di fronte a questo c’è soltanto la visualizzazione del quadro del norvegese Munch denominato L’Urlo. E con questo “urlo” passerò a discutere i due punti da te proposti nella domanda. Veniamo al primo punto, e cioè alle dinamiche di integrazione progressiva messe in atto dalla riproduzione capitalistica. Bisogna subito dire che queste dinamiche non hanno coinvolto soltanto la sinistra cosiddetta “rivoluzionaria”, prima popolare – democratica (1815-1871, e cioè sconfitta della Comune di Parigi), poi socialdemocratica (1871-1914, e cioè bagno di sangue della prima guerra mondiale con annessa “approvazione” delle miserabili direzioni politiche e sindacali), ed infine comunista (1917-1991, e cioè tragicomica dissoluzione del baraccone). Queste dinamiche hanno coinvolto tutte le forme di resistenza, da quelle tradizionalistiche a quelle anarchiche, da quelle autogestionarie e cooperativistiche a quelle populistiche o “fasciste di sinistra”, eccetera. Non è dunque storiograficamente corretto parlare del solo fallimento della sinistra. Per ora, il fallimento ha coinvolto tutte le forme di resistenza al dominio totalitario della merce, il solo totalitarismo meritevole di questo nome, non certo quello di cui parlano lamentosamente i superpagati intellettuali pagliacci tipo accademici americani o nouveaux philosophes francesi. L’etica religiosa cristiana è infatti stata sconfitta almeno quanto è stata sconfitta l’etica egualitaria comunista. Soltanto i famosi polli di Renzo Tramaglino di cui parla il Manzoni sono talmente stupidi da beccarsi fra di loro mentre vengono portati in pentola. Per quanto mi riguarda, ho chiuso con questa Polleria Tramaglino da tempo, e gli scontri fra polli di estrema sinistra e polli di estrema destra hanno smesso di interessarmi. Gli esseri umani sono forse intelligenti, ma i polli evidentemente non lo sono. Io comunque dal pollaio sono uscito. La dinamica sistemica di integrazione nel sistema capitalistico deve dunque diventare l’oggetto privilegiato di studio comune per tutti coloro che considerano “alienata” l’attuale società capitalistica. Su questo punto ha però ragione Georges Sorel: senza odiare (ho scelto volutamente questo scandaloso verbo incompatibile con il buonismo pecoresco oggi dominante, che ricopre uno dei maggiori “cattivismi” della storia dell’umanità, il cattivismo della disuguaglianza capitalistica) le attuali oligarchie al potere non si caverà un ragno dal buco. Non esiste oggi una teoria sistemica complessiva che abbia come oggetto specifico l’integrazione capitalistica, ma disponiamo per ora solo di brandelli sparsi (pensiero di Marx, marxismi successivi, interpretazione di Heidegger dell’esito tecnico della metafisica occidentale, rivendicazione di Guenter Anders della fisiologica “antiquatezza” umana, Debord, Baudrillard, Christopher Lasch, Zygmunt Bauman, scuola di Francoforte, eccetera). Questi brandelli non fanno ancora una convincente teoria complessiva. Sono però cautamente ottimista in proposito: sarà la stessa globalizzazione ultracapitalistica a produrre gradatamente delle teorie unificate a livello mondiale di critica del nuovo capitalismo. Per il momento abbiamo soltanto anticipazioni caricaturali di queste teorie, prima fra tutte la teoria del nesso Impero/Moltitudini del profeta padovano-parigino Toni Negri, che recentemente lo stesso allievo di Althusser Etienne Balibar ha definito simile alle grida che fanno i bambini nel buio per farsi coraggio. Un’ultima questione, quella della dinamica di frammentazione del lavoro che la teoria di Marx non avrebbe previsto, e che è stata invece la causa principale del fallimento delle ottimistiche previsioni del comunismo novecentesco. Ritengo che tu colga qui il centro della questione, e me ne congratulo, perché tutti i discorsi di tipo moralistico (tradimento dei dirigenti, insufficiente educazione ideologica, tentazioni corruttive dovute al consumismo, eccetera) non solo lasciano il tempo che trovano, ma danno anche un retrogusto disgustoso a tutti coloro che sono abituati a ben altri cibi ed a ben altre bevande di migliore qualità. E’infatti vero che la teoria originale di Marx (che non è affatto derivata dalla “sinistra” del tempo – come molti erroneamente ritengono – ma che è sorta da una scandalosa “eresia” all’interno di questa sinistra, che era moralistico-pauperistica e non certo “filosofica”) non riponeva le proprie speranze rivoluzionarie strategiche sull’impoverimento progressivo della gente, ma le riponeva al contrario sulla formazione progressiva di un soggetto rivoluzionario epocale, che non era – come quasi tutti erroneamente credono – la vecchia buona classe operaia, salariata e proletaria, ma era invece (e vedi il noto Capitolo VI inedito del primo libro del Capitale di Marx) il lavoratore collettivo cooperativo associato, dal direttore di fabbrica all’ultimo manovale, alleato con le potenze produttive sprigionate dalla stessa produzione capitalistica, potenze produttive che Marx aveva definito con il termine inglese di General Intellect. Questo soggetto non si è costituito, e non si è costituito probabilmente perché Marx ne aveva ipotizzato la costituzione al livello di fabbrica, e cioè di singola unità produttiva separata, ma il livello della connessione mercantile fra imprese non è evidentemente assimilabile al livello dell’unità produttiva isolatamente concepita. La produzione capitalistica non è assimilabile ad un’unica grande fabbrica mondiale (anche se così l’hanno concepita sia il vecchio marxismo di Kautsky sia il nuovo operaismo di Toni Negri, oggi dominante presso tutti i confusionari del globo), ma ad una rete conflittuale di imprese in conflitto strategico.
Un’ultima osservazione: non è vero che il marxismo critico non si è mai accorto di questo. Ad esempio, il marxista italiano Gianfranco La Grassa, in particolare in alcune opere recenti, non solo se ne è accorto, ma ha anche prodotto riflessioni molto acute in proposito. Il fatto che sia stato “silenziato” dalle bande mediatiche futuriste della sinistra chic non riguarda infatti il severo piano della riflessione critica sul mondo, che procede senza e contro queste irrilevanti e rumorose bande mediatiche.
2) La sinistra marxista e post marxista, sin dalle sue origini, ha avuto un ruolo storico antagonista al capitalismo. Essa ha rappresentato il termine opposto del capitalismo nell’ambito della dialettica borghesia – proletariato in una perenne conflittualità in cui uno dei due termini eliminasse l’altro, dimodoché, ciascuno fosse di per sé un assoluto autoreferente che, in una visione univoca della realtà storica, concepisse la storia come funzionale al realizzarsi del proprio primato. Sono dunque borghesia e proletariato due termini necessari, complementari e inscindibili di una dialettica dalla sintesi impossibile, perché entrambi sono classi derivate da una impostazione economicista della società, data come presupposta alla contrapposizione di forze sociali antagoniste. In tale ambito è infatti impossibile l’elaborazione di un principio superiore che presieda ad una struttura sociale in cui trovino la loro composizione interessi altrimenti inconciliabili. Tale dialettica si è rivelata autodistruttiva sia per la borghesia che per il proletariato. Il capitalismo globale ha infatti assorbito le classi sociali nella massa informe del consumismo globale, in cui esistono classi differenziate dai livelli di reddito e consumo, comunque inglobate e funzionali alla logica di produzione capitalista e private di ogni potere contrattuale nei confronti delle élites. La sinistra socialdemocratica ha rappresentato una fase del processo di transizione della lunga marcia della sinistra verso il liberalismo, che ha comportato l’assimilazione delle masse proletarie alla piccola borghesia, mediante la diffusione del consumismo e del benessere diffuso. L’attuale sinistra post–marxista costituisce la fase terminale della definitiva confluenza della sinistra nella cultura e nella struttura sociale della società capitalista. Tuttavia la sinistra, per quanto degenerata, non è una razza in via di estinzione. Per quel principio di azione–reazione che governa tutti i fenomeni storico – politici assicurandone sia la stabilità che la continuità, mentre la destra neocon assume il ruolo di forza conservatrice e stabilizzatrice dei fondamenti sia economiche morali dell’ordine capitalista globale, la sinistra radicale svolge invece un ruolo di innovazione culturale e di impulso verso lo sviluppo di stadi successivi dell’evoluzione progressiva connaturata alla globalizzazione capitalista, delineando le nuove tendenze culturali, morali e di costume, oltre alle nuove sfide che costituiscono obiettivi di incessante progresso della società del futuro. In questa chiave di lettura debbono essere comprese, a mio avviso, le tematiche della sinistra odierna, inerenti al villaggio globale, il pacifismo, il melting pot, i diritti umani. L’attuale sinistra è stata integrata nella società capitalista, non nelle vesti di una mera sovrastruttura culturale, ma come una forza propulsiva e innovativa essenziale al progresso illimitato della società capitalista.
Nella mia risposta precedente ho già fatto notare che la tradizione marxista non ha effettivamente saputo comprendere in tempo le ragioni delle dinamiche profonde di integrazione delle classi oppresse nel capitalismo, dinamiche che non devono essere fatte risalire ad un generico “consumismo”, ma che trovano la loro ragion d’essere profonda nella mancata costituzione del lavoratore collettivo cooperativo associato, di cui la classe operaia, salariata e proletaria avrebbe dovuto essere soltanto l’avanguardia politica e sindacale, e non certo il “soggetto sostitutivo”, come tutto il marxismo “operaistico” ha sempre creduto per più di un secolo. Questa tua seconda domanda ripropone la questione dell’ “integrazione”, in cui tu vedi evidentemente (se non ti sto fraintendendo) l’experimentum crucis della falsificazione epistemologica definitiva della teoria di Marx. In proposito, colgo allora l’occasione in questa seconda risposta per esporre non certo il “marxismo” (che è un “ismo” inesistente, in quanto è in realtà un campo conflittuale di “ismi” interpretativi fra i quali non c’è collaborazione, ma guerra senza fine), quanto il mio personale “marxismo”, o più esattamente la mia personale ed irripetibile elaborazione autonoma ed indipendente dell’eredità filosofica e scientifica di Marx. Io non rispondo infatti di un fantomatico “marxismo”, ma rispondo solo di me stesso, di quanto dico e di quanto penso. D’altronde, so bene che è la stessa cosa per te, e che su questa base di libertà interpretativa assoluta si è consolidata la nostra stima reciproca, laddove i “duelli” fra Destra e Sinistra ci hanno sempre lasciati giustamente del tutto indifferenti. Questi “duelli” da talk-show sono infatti sempre e soltanto ingredienti della simulazione mediatica per spettatori passivizzati.
Una premessa micro autobiografica. Sono cresciuto a Torino, città che una infondata vulgata autopromozionale ha fatto passare per una “città colta”, la città di Gobetti e di Gramsci. Nulla di più infondato. Come ha scritto in modo definitivo e lapidario lo storico Romolo Gobbi, “se uno volesse indicare in tutto il mondo una società chiusa, Torino è la più rappresentativa (cfr. AAVV, Gli operaisti, Derive e Approdi, Roma 2005, p.176). Ma a cosa è dovuta questa peculiare “chiusura” sorda e malvagia tipicamente torinese, che produce impazzimenti alla Nietzsche e suicidi alla Cesare Pavese? Difficile dirlo, ma credo che alla base di tutto ci stia il passaggio di Torino da una prima fase di feudalesimo nobiliare, monarchico e savoiardo ad una seconda fase di feudalesimo industriale, fabbrichista, aziendalista ed agnellesco. Si ricorderà che le società feudali erano divise in tre ceti ben distinti, i nobili ed i signori (bellatores), il clero, i pretoni e gli intellettuali (oratores) ed infine il popolo lavoratore (laboratores). Su scala torinese queste tre classi feudali si sono riprogrammate in senso capitalistico, in quanto i bellatores sono diventati il ceto dominante aziendalistico-agnellesco, gli oratores sono diventati il gruppo intellettuale prima positivistico e poi azionista-antifascista, ad infine i laboratores sono diventati l’asfissiante tribù livellatrice operaistico-comunista specificatamente torinese. Gli azionisti-antifascisti (Bobbio, Antonicelli, eccetera) hanno fatto da mediatori fra l’Avvocato Principe circondato da calciatori e la Tribù Operaia con i suoi intellettuali “organici” in preda ad un urlo continuo, prima di tipo illusorio e poi di tipo delusorio, ma sempre regolarmente idiota.
In questo ambiente aziendalistico-feudale il solo modo di elaborare una propria visione critica del mondo era la scelta di una rigorosa solitudine metodologica, che comportava prima di tutto il distacco dal sistema delle tre tribalità stratificate (ripeto: le tribalità aziendalistico-agnellesca, la tribalità azionista-antifascista ed infine la tribalità operaistico-comunistica, ove il termine “comunista” non c’entri assolutamente nulla con il Marx veramente esistito). Recensendo un mio libro sulla rivista “Indice” Marco Revelli definì il senso del mio lavoro Marxismo in solitudine (sic!). Probabilmente il tribalista-operaista Revelli non intendeva farmi un complimento, ma io lo presi come il complimento più grande che mi abbiano mai fatto. Si agisce sempre comunitariamente, infatti, pena l’irrilevanza della propria azione ed il suo inevitabile insuccesso testimoniale, ma si pensa, si elabora e si scrive sempre in solitudine. Se qualche studioso futuro di prevologia (mai porre limiti alla divina provvidenza!) vorrà studiare la genesi non solo psicologica ma anche teorica della mia produzione intellettuale, sappia che essa si è sviluppata – in assoluta e rivendicata solitudine – in opposizione ad uno degli ambienti più chiusi e stratificati della galassia in cui ci troviamo. Ed ora chiudiamo con questa innocua parentesi microbiografica di tipo inevitabilmente narcisistico. Senza questa “solitudine” radicale non sarei quello che sono, buono o cattivo che sia. Passiamo dunque non al “marxismo” in generale, ma al mio particolare “marxismo in solitudine” che ho autonomamente elaborato, e sulla base del quale cercherò di rispondere a questa tua seconda domanda. Tu hai infatti ragione nel rilevare che la riproduzione capitalistica complessiva ha integrato entrambe le classi, e non soltanto il proletariato, come credono in generale gli sciocchi. Solo chi identifica economicisticamente la classe borghese con l’insieme statistico ed anagrafico-catastale di tutti i proprietari privati dei mezzi di produzione, dalla FIAT al piccolo ufficio di fotocopiatrici, e di tutti i titolari della cosiddetta Partita-IVA, può pensare in modo calcistico che la “borghesia” abbia vinto mentre il “proletariato” ha perso ed è stato “retrocesso” in serie B. Mi congratulo anzi con questa tua comprensione dell’essenziale della questione, perché ti assicuro che almeno il 95% della restante comunità intellettuale marxista -una struttura assai più conservatrice dello stesso clero zoroastriano- non ci è ancora arrivata, e pensa invece che appunto la borghesia sia risultata “vincitrice” della lotta bisecolare (1789-1989) contro il proletariato, che dovrà allora “riorganizzarsi”, ovviamente in una “vera sinistra radicale” pacifista, femminista, buonista e belante.
Non è così. E tuttavia lo stesso metodo dialettico di Marx, ove si decida di rielaborarlo “in solitudine”, ci insegna a distinguere fra la Borghesia, intesa come classe-soggetto storicamente costituita, ed il Modo di Produzione Capitalistico, che è invece un “processo senza soggetto” (Althusser), un sistema anonimo ed impersonale, e più in generale un complesso di rapporti sociali che ha certo bisogno per potersi “avviare” di un motorino d’avviamento (la borghesia, appunto), ma che ad un certo punto del suo sviluppo, generalizzatasi la forma di merce universale ed il tipo di cultura che è congeniale e funzionale a questo complesso di rapporti sociali, passa ad una fase nuova di tipo postborghese e postproletario. Restano ovviamente i proprietari dei mezzi di produzione ed i venditori sul mercato della propria forza-lavoro (Arbeitskraft), resta l’estorsione del plusvalore (Mehrwert), sia assoluto che relativo, restano ed anzi si allargano ulteriormente le spaventose disuguaglianze nel potere e nel consumo fra gruppi sociali, nazioni, stati ed aree geografiche, ma queste crescenti dinamiche differenziali non possono più essere spiegate estendendo semplicemente al mondo intero l’obsoleto schema dicotomico Borghesia/Proletariato.
Questo è però -per dirla alla Paolo di Tarso- scandalo per i proletari e pazzia per i borghesi. E nello stesso tempo, se non si comincia a dirlo, sia pure in modo necessariamente ancora imperfetto, non si potrà “sbloccare” l’attuale situazione di ristagno intellettuale.
Non sono invece sicuro di condividere la tua valutazione sulla complementarietà sistemica fra i neoconservatori, cui le oligarchie avrebbero delegato i compiti di “forza conservatrice e stabilizzatrice dell’ordine capitalistico globale”, e la sinistra radicale che avrebbe invece il compito di “innovazione culturale”. C’è ovviamente qualcosa di verosimile in questa analisi, ma mi permetterai di riformularla brevemente, in modo da integrare le tue osservazioni. I neoconservatori USA sono a mio avviso non tanto una forza strategica di lungo periodo di “conservazione” e di “stabilizzazione” (essi infatti non stabilizzano, ma destabilizzano l’ordine internazionale, e non conservano i vecchi rapporti di forza, ma li innovano in modo rivoluzionario), quanto un momento tattico dell’attuale fase di forzatura interventistica americano-sionista della geopolitica planetaria. Non credo che il mondo possa governarsi a lungo in questo modo. L’Europa è per il momento schiava ed asservita, e la sua natura la porta oggi ad inginocchiarsi nella variante passiva della cosiddetta