Enzo Traverso, “Rivoluzione”

nov 10th, 2022 | Di | Categoria: Recensioni

Enzo Traverso, “Rivoluzione”

 

Il libro[1] del 2021 di Enzo Traverso reca come sottotitolo “1789-1989: un’altra storia”, ed è un’ampia ed interessante ricostruzione della logica e della pratica storica dell’età rivoluzionaria nel ciclo aperto dalla Rivoluzione francese e concluso (in occidente) con il crollo dell’Urss. La rivoluzione viene vista come improvvisa interruzione del continuum storico, secondo una nota formula di Walter Benjamin, ed inseguita sia nelle sue determinazioni teoriche, sia nella pratica vicenda e nei protagonisti.

 

Rivoluzione e leggi storiche

Contrariamente a molte interpretazioni il testo valorizza quell’interpretazione della rivoluzione non determinista che si può ritrovare anche in Marx, nel quale, secondo Traverso se ne trovano anzi due, a combattere una silenziosa battaglia: una determinista ed una non determinista.

La prima è esemplificata nel notissimo passo di “Per la critica dell’economia politica”:

 

“a un dato punto del loro sviluppo, le forze produttive materiali della società entrano in contraddizione con i rapporti di produzione esistenti, cioè con i rapporti di proprietà (che ne sono soltanto l’espressione giuridica) dentro i quali tali forze per l’innanzi s’erano mosse. Questi rapporti, da forme di sviluppo delle forze produttive, si convertono in loro catene. E allora subentra un’epoca di rivoluzione sociale. Con il cambiamento della base economica si sconvolge più o meno rapidamente tutta la gigantesca sovrastruttura”[2].

 

La seconda si focalizza invece sull’azione e la lotta di classe. Questa concezione è più presente nelle opere politiche che non in quelle economiche (le quali prediligono una narrazione oggettivante e “scientifica”): la storia non è più il risultato necessario di un naturawuchsig (processo naturale), ma l’esito di un’azione collettiva, quindi anche di passioni, utopie e impulsi altruisti mescolati ad interessi anche di parte. Un’esemplificazione si trova nella “Sacra famiglia”:

 

“La storia non fa niente, essa ‘non possiede alcuna enorme ricchezza’, ‘non combatte nessuna lotta!’ E’ piuttosto l’uomo, l’uomo reale, vivente, che fa tutto, possiede e combatte tutto; non è la ‘storia’ che si serve dell’uomo come mezzo per attuare i propri fini, come se essa fosse una persona particolare; essa non è altro che l’attività dell’uomo che persegue i propri fini”[3].

 

La storia è, in altre parole, un processo di produzione di soggettività e le lotte di classe non possono essere spiegate (né nella loro genesi, né, tantomeno, negli esiti che normalmente prendono la propria via) solo tramite semplici spiegazioni economiche o strutturali. Esse, piuttosto, manifestano l’irrompere violento delle masse in una struttura non immutabile.

Come correttamente scrive Traverso:

 

“tutte le rivoluzioni trascendono le loro cause e seguono dinamiche singolari che cambiano il corso ‘naturale’ delle cose. Sono invenzioni umane che non possiedono un carattere ineluttabile; costruiscono una memoria collettiva che si districa dentro una costellazione di fatti significativi. Pensare che appartengano al tempo regolare e cumulativo di una storia lineare è stato uno dei maggiori fraintendimenti della cultura di sinistra del Novecento, troppo spesso gravata dal retaggio dell’evoluzionismo e da una ingenua idea del progresso”[4].

 

Tuttavia, occorre fare attenzione, avere due concezioni del momento rivoluzionario, che combattono una silenziosa battaglia ha il suo vantaggio: da una parte si evita il rischio di uno scolastico determinismo, che induce alla passiva attesa, dall’altra, però, si evita il rischio del volontarismo e spontaneismo, che induce all’azione cieca. Bisogna sapere che le ‘fasi rivoluzionarie’ non possono essere scelte, e dipendono dall’accumulo di circostanze, ma anche che esse possono restare sterili se non sono attivate dall’azione collettiva politicamente orientata da un progetto. Alcuni anni prima della Rivoluzione francese un’immane rivolta scosse la Russia profonda, un enorme esercito di contadini, manovali e cosacchi mosse verso Mosca. Emel’jan Ivanovič Pugačëv, un cosacco del Don, con esperienze militari nella Guerra dei sette anni, si proclamò Zar, con il nome di Pietro III, e costituì un suo esercito con gerarchia e forme identiche a quello ufficiale. Durante una rivolta che durò iniziò nel 1773 conquistò quindi quasi tutto il territorio tra il Volga e gli Urali, l’anno dopo fu sconfitto. Non fu una rivoluzione, anzi consolidò il potere dello Zar, perché non aveva alcun progetto e non mobilitava la maggior parte della società russa. Nelle aree che ne furono colpite esistevano evidentemente alcune condizioni, ma queste non erano mature e la direzione politica non era consapevole. Per una rivoluzione che cambi lo stato delle cose sono necessarie entrambe.

La trattazione prende avvio dalla nota frase di Marx in “Le lotte di classe in Francia”, che vede le rivoluzioni come “le locomotive della storia”. Questa fortunata metafora si connette, nel contesto in cui fu scritta, all’enorme capacità evocativa del treno come simbolo di energia e progresso alla metà del XIX secolo. L’autore de “Il Manifesto del Partito Comunista” condivideva questo spirito enfatico; la triade del secolo ‘ferro-vapore-telegrafo’ struttura letteralmente il suo mondo mentale e la sua visione del mutamento storico, e non potrebbe essere che così. Siamo tutti figli del nostro tempo. La prima linea Manchester-Londra era stata inaugurata nel 1830, per 56 chilometri, mentre la Napoli-Portici, prima linea italiana, nel 1839 per 7,5 chilometri. In pochi anni di enorme accelerazione a metà del secolo le linee ferroviarie passarono da 100 a 6.000 miglia e il traffico passeggeri esplose letteralmente. La nuova fusione tra capitale agrario e nuova borghesia mostrò un tipo umano che, come scrive un interprete, sembrava “una razza pervasa da una qualche energia demoniaca”[5]. Negli Usa, contemporaneamente, l’epopea della ferrovia determinò il destino della nazione. Questo contesto è presente nei famosissimi passi del “Manifesto”, per il quale la borghesia e l’industria moderna hanno creato il mercato mondiale il quale ha dato, per sua parte:

 

“un immenso sviluppo al commercio, alla navigazione, alle comunicazioni via terra. Quello sviluppo, a sua volta, ha reagito all’espansione dell’industria; e in quella stessa misura in cui sono andate estendendo l’industria, il commercio, la navigazione, le ferrovie, anche la borghesia si è sviluppata, ha aumentato i suoi capitali e sospinto nel retroscena tutte le classi, che erano un’eredità del medioevo”[6].

 

Infine l’epoca della borghesia, si legge, “ha semplificato i contrasti tra le classi”, avviando la separazione in due sole grandi classi in lotta. Un’epoca, bisogna notare, che ha preso avvio a partire dai borghigiani medioevali, grazie alla scoperta dell’America ed al mercato delle Indie orientali e della Cina, quindi alla colonizzazione dell’America ed alla crescita nel XVI secolo degli scambi con le colonie che diedero impulso ai commerci, infine alla crescita delle merci ed all’industria. Tutte cose che “in pari tempo favorirono il rapido sviluppo dell’elemento rivoluzionario in seno alla società feudale che si andava sfasciando”. Seguendo la linea di ricostruzione determinista, qui Marx ed Engels continuano affermando che fu in questa fase che “l’organizzazione feudale o corporativa” della produzione di merci “non bastò più ai bisogni” che crescevano, con l’acquisizione di nuovi mercati (anzi, il testo in modo molto significativo dice “con il crescere” dei nuovi mercati, riproducendo nella scelta lessicale un residuo naturalistico-determinista). In una frase immediatamente successiva si manifesta in pieno lo spirito del tempo, letteralmente ipnotizzato dallo spettacolo delle sempre più enormi fabbriche, e dalla cornucopia di prodotti che da esse emerge:

 

“La grande industria ha creato quel mercato mondiale che la scoperta dell’America aveva preparato. Il mercato mondiale ha dato un immenso sviluppo al commercio, alla navigazione, alle comunicazioni via terra. Quello sviluppo alla sua volta, ha reagito sull’espansione dell’industria e in quella stessa misura in cui si sono andate estendendo l’industria, il commercio, navigazione, le ferrovie, anche la borghesia si è sviluppata, ha aumentato i suoi capitali e sospinto nel retroscena tutte le classi, che erano un’eredità del medioevo”[7].

 

Malgrado la descrizione sia correttamente circolare, l’incipit dà in questo brano l’impressione che il primo motore sia l’industria e che il ‘mercato mondiale’ sia una pura creazione di essa, il resto sia solo ‘preparazione’. Ma c’è un problema: la scoperta dell’America precede di circa trecento anni la comparsa dell’industria di massa in Inghilterra, e il mercato coloniale era indubbiamente mondiale, infine il commercio si era già enormemente moltiplicato con la navigazione. Probabilmente la descrizione più coerente con i fatti dovrebbe essere quindi rovesciata: è piuttosto la creazione in punta di lancia del ‘mercato mondiale’ che, costringendo i porti ad aprirsi e ad accettare le merci occidentali a caro prezzo, al contempo vendendo le proprie a prezzo stabilito dall’acquirente, crea le condizioni di accumulazione e di sbocco per ampliare la produzione. Se prima della produzione è necessario avere chi la compra (almeno potenzialmente), garantendo la remunerazione del capitale, allora è questa certezza ad aver fatto da motore. Non è la superiore civilizzazione, la scienza, la tecnica, le ‘invenzioni’, ad aver aperto al mondo occidentale il dominio, ma è la superiore organizzazione militare, le armi sviluppate in cento guerre, ad averlo imposto.

L’idea di progresso e di modernizzazione, malgrado siano presenti anche elementi romantici nella complessa costituzione marxiana, trascina qui la concezione della rivoluzione verso una connotazione fortemente teleologica. La locomotiva corre su binari preesistenti, verso una direzione nota. Quindi la rivoluzione non è altro che una corsa verso il progresso, anzi un’accelerazione[8]. È quello che Koselleck chiama “un residuo inconscio e secolarizzato di aspirazioni escatologiche”[9]. Per essa Giustizia e Redenzione non appartengono più alla sfera religiosa, all’oltremondo, ma, senza attendere la morte, gli uomini devono lottare per conquistare il regno di Dio sulla terra. Ma, e qui il Marx politico, questa auto-emancipazione umana non cade dall’alto, essa deve essere fondata su un progetto di cambiamento sociale e politico, deve essere generata da un’azione rivoluzionaria cosciente. Anche qui c’è una tensione irrisolta tra un’apertura costruttivista (che spesso critica nei ‘socialisti utopisti’) ed una sorta di determinismo proto-positivista ed evoluzionista. Contribuisce a tenere insieme la posizione un’idea della neutralità della tecnica che poté essere messa in dubbio solo dopo lo spettacolo delle trincee della Grande guerra.

 

Il primo attacco determinato venne da Rosa Luxemburg, che nel suo “L’accumulazione del capitale[10], dedicò due capitoli alla distruzione delle economie rurali come conseguenza della industrializzazione in Europa. I titoli di alcuni paragrafi siano di esempio: “la riproduzione del capitale ed il suo ambiente” (pp. 341 e seg.), “la lotta contro l’economia naturale” (pp. 363 e seg.), “la lotta contro l’economia contadina” (pp. 393 e seg.) e soprattutto “il militarismo come campo di accumulazione del capitale” (pp. 455 e seg.). Il ragionamento che Rosa affida a pagine composte furiosamente tra settembre e dicembre del 1912 muove dalla rilettura critica del II libro de “Il Capitale”, e dalla pratica dell’imperialismo che di lì a pochissimo sfocerà nella guerra. Il problema nasce quando dalla “riproduzione semplice”[11] del capitale (ovvero la capacità di rigenerarsi eguale a prima) si passa a voler spiegare la sua crescita (l’aumento complessivo della massa di capitale in un sistema economico). La spiegazione di Marx, per la quale nella “riproduzione allargata” i capitalisti risparmiano qualcosa (non lo consumano), ma lo investono in nuovo capitale variabile e costante (es. assumono più lavoratori e comprano macchine) per espandere la produzione non soddisfa Luxemburg. Nell’ipotesi marxiana è questione di proporzioni da rispettare. L’obiezione è che questo può accadere solo in condizioni artificiali (ovvero in una completa pianificazione ex ante, che conservi sempre l’equilibrio in ogni passaggio) ma non accade nella realtà capitalista. Perché l’accumulazione può avvenire solo dopo che i capitalisti hanno venduto le merci, ed il plusvalore è incorporato in esse ma va realizzato. Quindi dove sono gli acquirenti? Chi potrà comprare la parte del plusvalore che non è consumo, ma capitale fisso senza precipitare in crisi da sovrapproduzione? La messa al lavoro di nuovi operai (e in generale lavoratori), sia nel settore della produzione per il consumo sia in quella per i fattori di produzione, potrebbe chiudere le equazioni, ma ogni capitalista (e quindi il totale di essi) spende per produrre e riceve credito solo se ha una richiesta, non lo fa per generarla.

In altri termini, quale crescita che ecceda la lenta crescita naturale della popolazione è possibile in un sistema capitalistico che produce per vendere e per valorizzare il capitale e per nessuna altra ragione? Se si resta entro uno schema che vede solo capitalisti ed operai non c’è soluzione, ma esiste anche un ‘altro’, e questo sono i paesi ‘non capitalistici’ e strati ‘non capitalistici’ della popolazione interna. Da qui può venire la domanda aggiuntiva che rende necessaria la produzione e, di qui, l’ampliamento del capitale. Si tratta di assorbire via via il “non capitalistico” che sta intorno al nucleo dell’economia capitalistica (ad es. assorbire ed incorporare il lavoro dei contadini di sussistenza cinese, o africani, quello delle donne, di coloro che ancora lavorano secondo una logica ‘del dono’, etc.). ma il capitalismo, mentre vive e si espande nel suo contorno ‘non-capitalistico’ allo stesso momento lo distrugge. Di qui nasce anche una lotta spietata tra i paesi ‘capitalisti’ (ovvero tra i loro capitali, in effetti) per assicurarsi il controllo esclusivo dei ‘bacini’ non-capitalistici che rappresentano il loro potenziale di crescita. Se non fosse così si sarebbe davanti ad una “giostra che gira su se stessa nel vuoto”[12]; si avrebbe produzione di merci per amore della produzione, che giro dopo giro restituisce il medesimo, “dal punto di vista del capitale un assurdo completo”. Solo se si trovano acquirenti i cui denari non sono presi dai capitalisti medesimi questi alla fine del giro di giostra si troveranno più denaro in tasca.

 

“Gira e rigira, finché si rimane fissi all’ipotesi che nella società non esistano strati al di fuori dei capitalisti e dei lavoratori, riesce impossibile ai capitalisti come classe di smaltire le loro merci eccedenti per trasformare il plusvalore in denaro e così accumulare capitale.

[…] fin dall’inizio si svolse fra la produzione capitalistica e il suo ambiente non-capitalistico un rapporto di scambio, in cui il capitale trovò la possibilità sia di realizzare il proprio plusvalore ai fini di una ulteriore capitalizzazione in denaro, sia di rifornirsi di tutte le merci necessarie per l’allargamento della sua produzione, sia infine di assorbire nuove forze-lavoro proletarizzate mediante la decomposizione violente di forme di produzione non-capitalistiche.

Ma questo non è che il nudo contenuto economico del rapporto. Il suo manifestarsi concreto nella realtà costituisce il processo storico dello sviluppo del capitalismo sull’arena mondiale in tutto il suo variopinto e mobile atteggiarsi”[13].

 

Quindi, contrariamente alla visione lineare (rovesciata) del Marx ed Engels del “Manifesto”, il “primo atto di nascita storico-mondiale del capitalismo” è, nei paesi transoceanici, il “soggiogamento e la distruzione delle comunità tradizionali”, l’erosione dei rapporti primitivi dell’economia naturale serve a trasformare gli abitanti in acquirenti (e non già questo in quello), e “nello stesso tempo accelera la propria accumulazione appropriandosi direttamente di masse di materie prime e di ricchezze tesaurizzate dai popoli soggetti”.

Tuttavia, malgrado i suoi notevoli meriti, anche la teoria di Rosa Luxemburg resta in qualche modo connessa con il mito della rivoluzione al termine del pieno sviluppo delle forze produttive.

 

Se, infatti,

 

“L’imperialismo è l’espressione politica del processo di accumulazione del capitale nella sua lotta di concorrenza intorno ai residui di ambienti non-capitalistici non ancora posti sotto sequestro. […] con quanta maggiore energia, potenza d’urto e sistematicità l’imperialismo opera all’erosione delle civiltà non-capitalistiche, tanto più rapidamente toglie il terreno sotto i piedi all’accumulazione del capitale. L’imperialismo è tanto un metodo storico per prolungare l’esistenza del capitale, quanto il più sicuro mezzo per affrettarne obiettivamente la fine”[14].

 

Questa fiducia in ultima analisi nell’accelerazione dello sviluppo tecnico e macchinico, dell’insieme di fenomeni produttivi e di accumulazione, che Rosa chiama “imperialismo”, viene messa radicalmente in questione da Walter Benjamin. Il quale, per Traverso, propone un materialismo storico radicalmente antipositivista che prescinde completamente dalla idea di “progresso”. Famosa e richiamata la sua fulminante formula:

 

“Marx dice che le rivoluzioni sono la locomotiva della storia universale. Ma forse le cose stanno in modo del tutto diverso. Forse le rivoluzioni sono il ricorso al freno di emergenza da parte del genere umano in viaggio su questo treno”[15].

 

Insomma, la rivoluzione non è la spinta ad accelerare il treno in corsa verso un futuro dato, ma è il tentativo, fallibile e solo possibile, di interrompere un movimento che sta dispiegando una logica interna la quale porta alla catastrofe (oggi, nell’era nucleare e della crisi ambientale, possiamo immaginarne alcune forme), e quindi di dare avvio ad un nuovo tempo.

 

Rivoluzione e libertà

Si può dire che né il tempo né tanto meno la forma delle rivoluzioni possono essere previste e queste sono anche degli atti autoritari. La rivoluzione sostituisce al “luogo vuoto” del corpo sovrano democratico, nel quale “il popolo” compare solo come etichetta e la relativa sovranità come ossimoro, un momento straordinario in cui questo si presenta davanti alla scena come corpo pieno e concreto. Corpo in rivolta, ovviamente. In cui, in altre parole, il concetto aporetico di “popolo” e del suo corpo sovrano si fa presenza nei luoghi pubblici concreti per un attimo, che cambia la direzione della storia, smettendo di essere solo metafora irrapresentabile. La moltitudine di corpi che trovano, per breve tempo, unità nell’azione rivoluzionaria esiste, in altri termini, solo fino a che combatte, ma esistendo se pure per poco cambia la direzione di tutto. Ne è efficace rappresentazione “Ottobre” di Ejzenstein nel 1927[16]. Al contempo se esiste è perché sta costituendo un potere, non appena questo compare esso torna corpi disciplinati. Questa dialettica non è aggirabile e rappresenta la grandezza e la tragedia di ogni rivoluzione.

Ad esempio, nella tragica e grande vicenda della rivoluzione haitiana, che segue alla Rivoluzione francese venendone sia stimolata come combattuta, l’immane energia scaturita dalle contraddizioni dell’ordine coloniale bianco e dall’emancipazione parziale decretata nel 1791, è sia mobilitata sia temuta e controllata a fatica dalle élite rivoluzionarie che via via si affermano. Partita da una insurrezione di schiavi a Nord di Saint-Domingue il 21 agosto 1791 e intrecciata con la rivolta dei liberi di colore, produce prima l’emersione di Touissant Loeverture e poi, in eventi che si susseguono frenetici, invasioni (francesi, inglesi, spagnole), lotte intestine tra signori della guerra, tradimenti, momenti di consolidamento, tentativi di ‘rimettere al lavoro’ le piantagioni; quindi segue una violentissima guerra di indipendenza che è anche la prima sconfitta di Napoleone tra il 1802 ed il 1806, progetti di genocidio francesi e sanguinose repliche dei leader rivoluzionari neri; infine la prima Dichiarazione di indipendenza che preveda l’assoluta emancipazione, la successiva separazione in stati ostili e la finale trasformazione in una società contadina per gran parte di sussistenza e con forme di autogoverno distribuite (i lakous[17]), un Codice Rurale avanzato e una piccola classe media di commercianti[18].

Traverso ricorda in proposito la vicenda della liberazione della donna e dei rapporti tra i sessi nella prima fase della Rivoluzione Russa, quando nel Codice di Famiglia del 1918 viene promossa la libertà illimitata delle donne e la loro indipendenza assoluta. Nel 1919 la famiglia è anzi vista come un ‘fardello’ e una forma di ‘servitù della gleba’ (delle donne) e vengono promosse politiche volte all’educazione collettiva dei bambini e la socializzazione dei lavori domestici. Ancora nel 1981 Angela Davis, in “Donne, razza e classe”, lo vede come un modello. Nella visione bolscevica la liberazione della donna non può essere separata dalla lotta per l’affermazione del socialismo. Ma quando l’onda rivoluzionaria declinerà, e bisognerà ricreare un ordine per stabilizzare uno Stato sotto pressione esterna, avverrà un “termidoro sessuale”, e negli anni Trenta verrà ripristinata la priorità della famiglia e anche lo status di reato di aborto ed omosessualità. Autrici come Aleksandra Kollontaj[19] verranno emarginate (ma in quel caso non punite). Al contempo i corpi saranno rimessi al lavoro, il taylorismo ricomparirà in una forma ancora più autoritaria, seguendo un’idea ‘rivoluzionaria’ di autocostrizione, fondata su un ‘uomo nuovo’.

 

Se è vero che né il tempo, né la forma delle rivoluzioni può essere prevista, anzi che essa prende sempre di sorpresa è pure da considerare che esse sono, al loro sorgere, espressione assoluta democratica. In esse i corpi delle moltitudini emergono infatti in primo piano, superano e travolgono le forme costituite di rappresentanza (le quali normalmente li neutralizzano come ‘corpo sovrano’, proprio mentre gli danno una forma ordinata), e prendono nelle proprie dirette mani il potere costituente. Ma questo potere, nato necessariamente dalla violenza, perché affermatosi contro una resistenza della vecchia oppressione (la quale ha accumulato nel tempo l’energia che l’abbatte), è al contempo repressivo. Al contempo significa proprio allo stesso tempo. In alternativa la rivoluzione si consuma in una jacquerie (ovvero, solo in una jacquerie). La forza destituente deve mutarsi in una forma di sovranità perché il ciclo della rivoluzione si compia. Come dice l’autore, “la tradizione rivoluzionaria è la contraddizione insolubile tra un momento estatico di autoliberazione e la sua inevitabile trasformazione in azione organizzata”[20].

Qui le cose si complicano, se per Robespierre “la rivoluzione è la guerra della libertà contro i suoi nemici”, e per De Maistre “la libertà è l’azione di essere liberi sotto il comando divino. Liberamente schiavi”[21], mentre persino Mussolini rivendica per il fascismo di essere per la libertà (dello Stato), senza “inutili ciancie”, quale è quella della rivoluzione? È questione di chi la guarda. La libertà dei possidenti, quella difesa dal liberalismo di Locke e da tutta la sua tradizione, è ben altra cosa di quella degli schiavi, di chi non ha nulla e dei colonizzati. Quindi la tensione che informa la rivoluzione è quella tra la libertà data e la liberazione dalle catene. Catene che possono essere anche invisibili, come Marcuse ne “L’uomo a una dimensione[22] propone di considerare lo stesso “principio del piacere”. Oppure che devono essere conquistate con pratiche continue, e senza mai successo, di resistenza ad un potere ubiquo e costitutivo degli stessi soggetti, come vorrebbe Foucault. La rimozione del momento della liberazione, in favore di quello della ‘libertà’ (o la sua dissoluzione in un gioco di specchi e rimandi), è proprio di un’avversaria manifesta della ‘rivoluzione’ come Hannah Arendt che in “Sulla rivoluzione[23] esalta la ‘rivoluzione’ americana, svalutando quella francese, e mostra sovrana indifferenza per quelle anticoloniali. Come lo riassume l’autore, per lei “la libertà non significa l’emancipazione dall’oppressione economica o sociale; significa un insieme di cittadini liberi fluttuanti in un vuoto sociale”[24].

Infine, la libertà, o meglio la liberazione, può essere il “balzo di tigre” di Benjamin, alieno da ogni causalità determinista e dall’ideologia del progresso. Un balzo pieno di rischi, ma anche di avvenire, che certamente viene visto in modo ben diverso se si è tra gli eterni vincitori o tra i tanti vinti.

 

Rivoluzione e rivoluzionari

Protagonisti di queste eruzioni della storia, o loro preparatori, sono un tipo particolare di declasseé, animatori di una bohémienne quelli che chiama l’”intellettuale rivoluzionario”. Ovvero coloro che non solo hanno prodotto, o difeso, teorie nuove, critiche e sovversive, ma hanno anche scelto una condotta di vita e un impegno politico che miravano a metterle in pratica. Ne fanno parte Bakunin, Marx e Luxemburg, non figure come Adorno (che non era rivoluzionario) o Garibaldi (che non era intellettuale). Benjamin si trova a metà strada, un pensatore radicale senza una dimora politica e con pochi legami accademici.

Questa figura ha delle date di inizio e fine, sono il 1848 ed il 1945. Dopo l’ultima data molti trovano un confortevole rifugio nell’università e si trasformano; prima essa non era ricettiva, essendo il luogo piuttosto della reazione, e dunque gli intellettuali che non volevano parteciparvi erano costretti a stare in uno scomodo stato di marginalità (anche economica), che, però, facilitava lo sviluppo di pensieri radicali. Ma c’è dell’altro:

 

“Gli intellettuali rivoluzionari erano attori cosmopoliti in un’epoca di acceso nazionalismo. Il loro rapporto con il potere economico e politico era paragonabile a quello della Bohème e dell’avanguardia estetica con l’accademismo e le sue istituzioni, era un rapporto radicalmente conflittuale”[25].

 

In un certo senso i due idealtipi sono Gramsci e Keynes, il primo concentrato su come far cadere l’ordine dello stato borghese, il secondo su come stabilizzarlo (avendo piena consapevolezza del rischio che correva). Il primo un intellettuale marginale, il secondo un autorevole e prestigioso professore universitario e consulente del Governo.

Nei diversi contesti nazionali in Francia i ‘rivoluzionari’ si mobilitano intorno all’Affaire Dreyfus e sulla base di un forte spirito cosmopolita, in Germania sono contro la Repubblica di Weimar, in Russia sono una confraternita che viene dall’aristocrazia (Bakunin, Hertzen, Kropotkin) o dalla classe media (Zasulic, il fratello di Lenin). Tutti quanti sono comunque quasi sempre un gruppo di “declassati”, bohemienne e marginali. Si tratta di un contesto al quale già con Marx (che, tuttavia personalmente era indubbiamente un declassato marginale) e con Engels, e di qui con il marxismo che si istituzionalizza, si guarda con sospetto: “tutta la massa confusa, decomposta, fluttuante, che i francesi chiamano ‘la bohème’”[26].

Nel “Manifesto” è presente questa analisi:

 

“Infine, nei periodi in cui la lotta di classe si avvicina al momento decisivo, il processo di dissolvimento in senso alla classe dominante, in seno a tutta la vecchia società, assume un carattere così violento, così aspro, che una piccola parte della classe dominante si stacca da essa per unirsi alla classe rivoluzionaria, a quella classe che ha l’avvenire nelle sue mani. Perciò, come già un tempo una parte della nobiltà passò alla borghesia, così ora una parte della borghesia passa al proletariato, e segnatamente una parte degli ideologi borghesi che sono giunti a comprendere teoricamente il movimento storico nel suo insieme”[27].

 

Questa visione è in qualche modo confermata sia da Kautsky sia da Lenin, che in questo sono in accordo. Se il socialismo è riorganizzazione della vita umana secondo principi di progresso economico, tecnico e scientifico, allora solo gli intellettuali borghesi (come li chiama Kautsky) possono “importare dall’esterno” la lotta di classe al proletariato. Questa non è affatto “qualcosa che sorge spontaneamente” nel proletariato, scrive nel 1901. Lenin lo riprende nel più famoso “Che fare?[28], quando afferma che con le sue sole forze la classe operaia non può mettere in questione l’intera struttura dei rapporti sociali. Nel paragrafo “Inizio dell’ascesa del movimento spontaneo”, Lenin introduce una importante distinzione: quella tra “disperazione” e “lotta [di classe]”. Ne abbiamo fatto cenno con la tragica vicenda di Pugačëv, il problema per Lenin è se, con riferimento specifico alle sollevazioni del 1896 si possa parlare di spontaneità e in che termini, e se sia sufficiente la forma embrionale della coscienza che queste manifestavano. Quindi se sentire la “necessità di una resistenza collettiva” e l’interruzione della “sottomissione servile all’autorità” sia una manifestazione di sola “disperazione e di vendetta”, o sia invece già una “lotta”[29]. La risposta è che quando gli scioperi cominciano a mostrare “bagliori di coscienza” più numerosi, e si pongono quindi rivendicazioni precise, si programmano in funzione del momento più favorevole, si discutono e confrontano altre esperienze, … allora essi “rappresentano già degli embrioni – ma soltanto degli embrioni – di lotta di classe”. Sono tuttavia solo embrioni perché:

 

“presi in sé, questi scioperi costituivano una lotta tradunionista, ma non ancora socialdemocratica; annunciavano il risveglio dell’antagonismo fra operai e padroni; ma gli operai non avevano e non potevano ancora avere la coscienza dell’irriducibile antagonismo fra i loro interessi e tutto l’ordinamento politico e sociale contemporaneo, cioè la coscienza socialdemocratica”[30].

 

E gli operai questa coscienza che supera lo stato delle cose presenti non potevano averla perché “essa poteva essere loro apportata soltanto dall’esterno. La storia di tutti i paesi attesta che la classe operaia con le sue sole forze è in grado di elaborare soltanto una coscienza tradunionista”. Infatti “la dottrina del socialismo è sorta da quelle teorie filosofiche, storiche, economiche che furono elaborate dai rappresentanti colti delle classi possidenti, gli intellettuali”. Di seguito, nel criticare quello che chiama “spontaneismo” ed “economicismo”, Lenin cita Kautsky nel progetto di un programma del partito socialdemocratico austriaco.

 

Rivoluzioni, l’ottobre e le altre

Inquadrata questa importante questione il testo di Traverso prosegue con un’interessante serie di “mappe” e ritratti. Le prime sono due: l’occidente ed il mondo coloniale.

L’occidente ha come tratto distintivo della personalità rivoluzionaria, per lo più costituita da intellettuali declassati (come ricorda anche Michels, il quale entrando all’Università si sposta su posizioni reazionarie) che negano il proprio status, il cosmopolitismo. Le figure esemplari raccontate sono gli ‘ebrei non ebrei’ come Korsch, la componente vicina alle posizioni comuniste della Scuola di Francoforte prima della guida di Horkheimer (Pollock, Marcuse, Grossman) o le femministe radicali come Claude Cahun, Clara Zetkin, ed altre.

Il mondo coloniale vede invece figure come Nath Roy in India e Ho Chi Min, in America Latina Mariategui e il suo “indigenismo rivoluzionario”, James ed i suoi “Giacobini neri[31]. Si distingue tra “cosmopoliti radicati” (i più efficaci, spesso ascesi al potere) come Ho Chi Min, i “rivoluzionari tellurici” (ovvero non cosmopoliti e strettamente radicati nella terra) come Stalin e Mao Tze Tung, e gli “internazionalisti sradicati” come Guevara.

Poi ci sono quelli che comunisti non sono ma che fanno la strada insieme (almeno per un tratto), i più famosi, Brecht, Webb, Esenin, Maritain. Si tratta di intellettuali che nella fase di scontro diretto e spietato tra fascismo e comunismo scelgono di essere contro il primo. E ci sono quelli che per disciplina alla lotta si adeguano, come Lukacs. Poi ci sono i processi di Mosca, che segnano molte biografie.

 

Il comunismo è stato inserito profondamente nel percorso rivoluzionario che parte dalle “rivoluzioni atlantiche”, tra il 1776 (americana) e il 1804 (Haiti) passando per il 1789 (francese), e che poi passa la metà del secolo successivo in un’ondata internazionale che vede i moti europei del 1848, la rivolta di Taiping in Cina nel 1850, la ribellione indiana del 1857 e, forse, la guerra civile americana del 1861, infine si allarga un cinquantennio dopo alle rivoluzioni euroasiatiche della Russia (1905-17), in Iran nl 1905-11, dei Giovani Turchi nel 1908, il movimento di Sun Yat-Set in Cina nel 1911 con la catena di eventi che porta alla Guerra di Liberazione e alla vittoria del PCC nel 1949, la Rivoluzione Messicana nel 1910-17. Alla fine, nel Novecento ci sono state essenzialmente rivoluzioni comuniste in Occidente (di successo in Russia o fallite in Italia, Germania, Spagna) e rivoluzioni anticoloniali nel Sud del mondo. Fu un’epoca di grandi speranze nelle quali le ideologie egualitarie e rivolte contro i privilegi furono concreta opportunità per i marginali e disperati del mondo. Grandi nomi come Brisset, Danton, Robespierre, Touissant Loeverture, Mazzini, Garibaldi, Pancho Villa, Zapata, Mao Tze Tung, Zhu De, Zhou Enlai, Fidel Castro, Ernesto ‘Che’ Guevara, Kwame Nkrumah, Patrice Lumumba, Thomas Sankara, e, i più noti, Lenin, Trockji, Stalin, Bucharin, per dirne alcuni, non sarebbero stati possibili nel loro bene e male senza questa speranza e questa passione.

 

Li ricorderò attraverso le ultime parole di Danton, davanti al Tribunale rivoluzionario che egli stesso, quando era al potere aveva istituito:

 

Non ci sarebbe stata alcuna Rivoluzione senza di me, non ci sarebbe la Repubblica senza di me… so che siamo condannati a morte, conosco questo tribunale, sono stato io a crearlo e chiedo perdono a Dio ed agli uomini… non era nelle intenzioni che divenisse un flagello per il genere umano, bensì un appello, un’ultima disperata risorsa per uomini disperati e gonfi di rabbia… non sarà necessario trascinarmi a forza sul patibolo… se io ora difendo me stesso è per difendere quello cui aspiravamo e, più ancora, che abbiamo conseguito e non per salvare la mia vita. Noi abbiamo spezzato la tirannia del privilegio, abbiamo posto fine ad antiche ingiustizie, cancellato titoli e poteri ai quali nessun uomo aveva diritto, nella Chiesa, nell’Esercito e in ogni singolo distretto tributario di questo nostro grande corpo politico: lo stato di Francia, ed abbiamo dichiarato che su questa terra il più umile tra gli uomini è uguale al più illustre, la libertà che abbiamo conquistata l’abbiamo data a chi era schiavo affinché alimentasse le speranze che abbiamo generato. Questa è più di una grande vittoria in battaglia, più di tutte le spade, dei cannoni e di tutti i reggimenti di cavalleria d’Europa, è un’ispirazione per un sogno comune a tutti gli uomini di qualsiasi paese…una fame di libertà che non potrà più essere ignorata… le nostre vite non sono state sprecate al suo servizio”.

 

Una cosa importante da tenere presente è che nessuna di queste rivoluzioni, almeno se di successo, rispettò la previsione di Marx ed Engels presente nel “Il manifesto del Partito Comunista”: l’assoluto protagonismo del proletariato. In tutte la vittoria venne solo quando le forze della maggioranza della società, coalizzando più classi e coinvolgendo più interessi, si mossero insieme. Ma, soprattutto, non lo rispettarono perché tutte avvennero in paesi che secondo lo standard di filosofia della storia marxista erano ‘arretrati’. Al più in via di trasformarsi in paesi borghesi e capitalisti, come la Russia nel 1905-17. In tutti i paesi avanzati, quelli nei quali poderose linee fortificate e società densamente stratificate (ben lontane dalla immaginata frattura in due classi di Marx) impedivano la mobilitazione, la rivoluzione socialista fallì. Nei paesi vittimizzati e colonizzati, invece, una potente molla di liberazione, concreta e visibile, si attivò e gli strati intellettuali fatti da “cosmopoliti radicati” come Ho Chi Min, o da “rivoluzionari tellurici” come Mao riuscirono a trovare una relazione efficace. Essi intersecarono con successo un’ideologia comunista rivista allo scopo e una base sociale contadina, ancorata alla concreta forma sociale del paese. Perché avvenne in paesi simili? Trockji in “Storia della Rivoluzione russa[32] tenta una spiegazione:

 

“Lo sviluppo di un paese storicamente arretrato porta necessariamente a una combinazione originale delle diverse fasi del processo storico [nel mentre assimila le conquiste materiali e intellettuali dei paesi avanzati]. L’orbita acquista, nel suo insieme, un carattere irregolare, complesso, combinato.

[…] la legge razionale della storia non ha nulla a che vedere con schemi pedanteschi [come gli stadi di Vico]. L’ineguaglianza di sviluppo, che è la legge più generale del processo storico, si manifesta con maggiore vigore e complessità nelle sorti dei paesi arretrati. Sotto la sferza delle necessità esterne, la loro cultura in ritardo è costretta ad avanzare a salti. Da questa legge universale dell’ineguaglianza deriva un’altra legge che, in mancanza di una denominazione più appropriata, può essere definita ‘legge dello sviluppo combinato’ e vuole indicare l’accostarsi di diverse fasi, il combinarsi di forme arcaiche con le forme più moderne. Senza questa legge, considerata, beninteso, in tutto il suo contenuto materiale, è impossibile comprendere la storia della Russia, come, in generale, di tutti i paesi chiamati alla civiltà in seconda, terza o dodicesima fila”[33].

 

Al netto degli elementi ancora eurocentrici di questa rappresentazione (ad esempio, ‘la civiltà’ al singolare), ciò che Trockji vuol dire è abbastanza semplice e concreto: messa in contatto con una società dotata di più mezzi e capitali la società e la cultura russa assorbì in modo ineguale spinte che si combinarono in modo complesso. La Russia era, in quegli anni di inizio secolo, destinataria infatti di enormi flussi di capitale speculativo, la sua industria si sviluppò per effetto di questi investimenti esteri ed era strettamente connessa ad un settore finanziario la cui base non era nazionale. Le masse popolari restarono quindi sconnesse da questi flussi e ne subirono solo gli effetti negativi (ad esempio la tendenza inflattiva che derivava dalla massa di denaro che passava sopra le loro teste). Le classi possidenti restarono sempre più dipendenti dallo Stato, che mediava i flussi dall’estero, e questo rafforzò il dispotismo ereditato dalla tradizione bizantina. L’assenza storica di un artigianato urbano, incorporato molecolarmente nelle vastissime campagne, rendeva inoltre le città centri di consumo e di direzione e non di produzione. Il commercio quindi aveva un carattere “semicoloniale”, mediando in sostanza con l’esterno occidentale. La grande rivolta di Pugačëv, che precedette di quindici anni la Rivoluzione francese, non diventò un evento rivoluzionario pur coinvolgendo in massa i cosacchi, contadini e operai-servi degli Urali, perché:

 

“mancando una democrazia industriale cittadina, la guerra contadina non poteva svilupparsi in rivoluzione, come le sette religiose delle campagne non avevano potuto giungere ad una Riforma. Il risultato della rivolta di Pugačëv fu, al contrario, un consolidamento dell’assolutismo burocratico, difensore degli interessi della nobiltà, che aveva provato quanto tale protezione valesse nell’ora del pericolo”[34].

 

L’industria, infine, nella quale la legge dello sviluppo combinato si manifestava in modo più evidente, nata in ritardo si inserì nel sistema mondiale, ma, saltando tutte le fasi, raddoppiò nei pochi anni tra la rivoluzione del 1905 e la Grande guerra. Trockji spiega ciò con l’enorme squilibrio tra il reddito di un’agricoltura che impiegava i quattro quinti della popolazione in forme da XVII secolo e una industria che aveva assorbito le tecniche più avanzate ed i relativi capitali. Quasi metà delle industrie russe erano enormi conglomerati con oltre mille operai (mentre negli Usa erano meno del 20%). Questo è quello che chiama “l’elemento dialettico complementare” dell’arretratezza. Chiaramente questa industria era relativamente sconnessa da un reale tessuto industriale locale (le aziende con meno di 100 operai erano solo il 17%, contro il 35% negli Usa), ma era per ben oltre la metà posseduta dalla rete di banche e intermediarie straniere. La borghesia del paese ne derivava; non esisteva nessuna gerarchia intermedia tra le enormi masse popolari e l’esile strato dei tecnici, talvolta stranieri o comunque loro dipendenti. Come dice lui stesso: “queste furono le cause elementari e irriducibili dell’isolamento politico della borghesia russa e del suo atteggiamento contrario agli interessi popolari”. Viceversa, la connessione esistente tra il crescente proletariato industriale e il mondo contadino, in assenza di tradizioni di artigianato corporativo che avevano fatto nell’Europa del XIX secolo la base delle mobilitazioni, ma poi le avevano dirette verso esiti tradunionisti (quello che Trockji chiama “il fardello del passato”), aveva fatto sì che procedesse:

 

“a salti, con bruschi mutamenti di condizioni, di legami, di rapporti e con violente rotture rispetto a quanto esisteva alla vigilia. Appunto per questo – soprattutto nelle condizioni di oppressione concentrata proprie dello zarismo – gli operai russi divennero accessibili alle più audaci conclusioni del pensiero rivoluzionario, come l’industria russa era stata capace di intendere l’ultima parola in fatto di organizzazione capitalistica”[35].

 

Con queste premesse, la Rivoluzione di ottobre è il fenomeno centrale del XX secolo. Il focus di una serie di rivoluzioni “ibride” i cui contraccolpi, come onde in uno stagno, si propagarono ovunque. Da alcuni fu vista come l’annuncio di una sorta di palingenesi globale, da altri come l’avvio di un’epoca di totalitarismo. In questa direzione si trova la descrizione di Churchill di un branco di babbuini che saltellano in un campo di scheletri o di Orwell, all’epoca trockista e collaboratore dei servizi[36], autore de “La fattoria degli animali[37] e “1984[38] (che inserisce il suo eroe in entrambi i romanzi). Nelle versioni più sofisticate i bolscevichi furono letti sostanzialmente come espressione delle potenzialità totalitarie della modernità. Autori come Berlin e Popper vedevano infatti la rivoluzione come l’esito inevitabile della trasformazione della società secondo modelli astratti e quindi autoritari. Oppure grandi storici come Furet individuavano una traiettoria diretta dal terrore giacobino ai gulag sovietici.

C’è però qualcosa in comune nelle due posizioni: il Partito Bolscevico veniva letto da entrambi come il demiurgo della storia. La proposta di Traverso è quindi di “storicizzare” questa vicenda. Ovvero comprendere criticamente, senza demonizzazioni o esaltazioni idilliache, un’esperienza storica che, come tutte, è attraversata da tensioni e contraddizioni. Una ‘gigantesca avventura’ non priva di momenti mostruosi, ma anche gloriosi. Come esiste un nesso, e grandi discontinuità, tra la Rivoluzione francese e l’epoca napoleonica che la estende e conclude, così si può rintracciare un percorso non lineare, fratturato, pieno di biforcazioni e non necessario (solo a posteriori raccontabile come unica vicenda), che unisce la fase caotica ed entusiasmante dei primi anni della grande Rivoluzione russa con la riduzione e normalizzazione burocratica degli anni Trenta. In essa un movimento che univa nell’azione il giovane proletariato urbano e gli strati più consapevoli delle masse contadine a intellettuali ‘declasseè’ cosmopoliti si è trasformato, sotto la pressione immane della Guerra civile e del successivo ostracismo mondiale, ma anche sotto la dinamica propria della società russa e delle sue nuove élite (e la necessità di rimettere al lavoro il paese, rigenerando ceti intermedi tecnici di cui la Russia era stata sempre carente), in un enorme apparato che creava una nuova connessione con la base produttiva ed ha avuto una sua vitalità per decenni.

 

Carlo Formenti, in un post che rilegge l’opera di Rita di Leo[39], connette la trasformazione della Russia rivoluzionaria, dalla fase eroica alla prima stabilizzazione progetta da Lenin nella Nep (Nuova Politica Economica, dal 1918 al 1924) e poi nella soluzione imposta alla sua morte, alla necessità di gestire un paese nel quale la gerarchia sociale è stata bruscamente rovesciata. Analogamente a quanto accade in una rivoluzione settecentesca decisiva come quella di Haiti, la struttura industriale che fa la ricchezza del paese rischia di fermarsi, con conseguenze tragiche data la pressione esterna, e bisogna assolutamente “rimettersi al lavoro”. Come scrive Formenti:

 

“In base a questa visione gli operai, in contrasto con la loro aspirazione a lavorare il meno possibile, avrebbero dovuto rientrare nelle fabbriche – che molti avevano abbandonato – per rimetterle in funzione, mentre i tecnici, messi fra parentesi i principi dell’egualitarismo, avrebbero dovuto essere invogliati a continuare a svolgere il proprio ruolo, concedendo loro salari elevati. Ai funzionari di partito sarebbe spettato il compito di controllare tanto i primi che i secondi. Infine, ai contadini si sarebbe dovuto concedere di vendere al mercato il sovrappiù prodotto”[40].

 

Alla morte di Lenin, vinta l’opposizione di sinistra di Trockji, Stalin e il suo gruppo dirigente scelsero di accelerare e di saltare la fase ‘capitalista’ (l’esatto opposto della scelta, qualche decennio dopo, di Deng) e di confermare la centralità operaia. Come riassume Formenti: “il suo obiettivo primario è costruire nel più breve tempo possibile una nuova élite di estrazione proletaria, perché possa sostituire i vecchi quadri intellettuali, non solo quelli appartenenti al regime prerivoluzionario, ma anche gli stessi dirigenti storici del partito bolscevico”. Qui bisogna notare che tra i bolscevichi della vecchia guardia Stalin è l’unico a non avere un’estrazione borghese e sospetta degli “uomini dei libri”; secondo la sua visione ora non bisogna più discettare di teoria ma costruire un paese potente e sviluppare le forze produttive (e l’esercito). La violenza verso i kulaki (i contadini ricchi) e gli intellettuali mandati ai campi di lavoro, e quella, tragica, verso la vecchia guardia hanno questa ragione. Ma da questa impostazione derivano anche la tendenza a resistere al lavoro e nasconderlo sotto rapporti di pianificazione sempre più complessi (e falsi) e la deviazione di troppe risorse verso l’industrializzazione forzata (ovvero lontano dal consumo). In altre parole, in questa linea di sviluppo sono contenuti anche i semi della stagnazione successiva.

 

Le cose potevano e possono sempre andare in altre direzioni, ma se vanno in una non è mai per caso. Se la rivoluzione è una rottura nel continuum, perché sposta bruscamente rapporti di forza e fa emergere nuovi protagonisti, che apre orizzonti e futuro, essa è anche un processo. Ed è a sua volta inserita in processi. Come tutte le rivoluzioni anche quella Russa, che segue alla rottura determinata dalla Guerra, è espressione di una sostanziale mutazione rispetto al modello della rivoluzione ottocentesco; essa impone un modello militare che viene confermato dalle rivoluzioni ‘anticoloniali’ cinese, cubana, vietnamita. Il movimento è da ora concepito anche come esercito di milioni di combattenti, con il loro portato di organizzazione e di necessario autoritarismo. Organizzazione e autoritarismo necessari, perché, come ricorda opportunamente Traverso,

 

“resta il fatto che un’alternativa di sinistra credibile non apparve mai all’orizzonte. Come lo stesso Serge riconobbe con lucidità, l’alternativa più probabile al bolscevismo era il terrore controrivoluzionario. Come scrive senza giri di parole Alexander Rabinowitch, il terrore era ‘il prezzo della sopravvivenza’. […] Se l’esito finale fu una dittatura di un partito rivoluzionario, l’alternativa non era un regime democratico; la sola alternativa era una dittatura militare di nazionalisti russi, latifondisti aristocratici e pogromisti”[41].

 

Con la repressione della rivolta di Kronstadt emerse quindi la dittatura di un partito unico e con la collettivizzazione delle campagne anche la rivoluzione in esse ebbe termine, sostituendola con un, per molti versi necessario, ma non per questo meno doloroso, processo di modernizzazione forzata e burocratizzata. Ma se avvenne qui un distacco radicale da qualsiasi idea di autoemancipazione e democrazia non fu per questo una controrivoluzione; non fu ripristinato il regime precedente da nessun punto di vista, quel che creò era originale: un insieme di valori, un’identità sociale e uno stile di vita.

 

“Lungi dal ripristinare il potere della vecchia aristocrazia, lo stalinismo creò un’élite economica, manageriale, scientifica e intellettuale completamente nuova, reclutata in seno alle classi inferiori della società sovietica – inclusi i contadini – e educata da nuove istituzioni comuniste. Questa è la chiave per spiegare il consenso sociale di cui godette lo stalinismo, malgrado il terrore e le deportazioni di massa”[42].

 

Questo nella Russia che guarda ad occidente (come facevano i suoi maggiori protagonisti), ma le rivoluzioni novecentesche furono soprattutto ad oriente e nel sud del mondo, tra i popoli vittimizzati dall’occidente e colonizzati (dove liberazione sociale si univa necessariamente al nazionalismo). E qui il primo esempio è la Cina, dove Mao già nel 1927 scelse di designare i contadini come forza motrice della rivoluzione. Ciò diede al vasto movimento che passò per la “lunga marcia” e la guerra con il Giappone il suo peculiare carattere. Analogamente ‘eretico’ fu parte importante del movimento in America Latina, sia nel caso cubano sia in figure come José Carlos Mariategui per il quale il socialismo doveva connettersi e fondersi con le tradizioni comunitarie del “comunismo incaico”.

 

Rivoluzione e sinistra

Quel che si registra, dopo il 1989 (ma in realtà questa data è solo il suggello), è un radicale abbandono del campo delle rivoluzioni da parte della sinistra. Fa parte di tale rimozione e interdetto la condanna della violenza che, come dice l’autore, è “iscritta nel codice genetico e appartiene alla struttura ontologica” della rivoluzione. Di qui la condanna senza appello degli studiosi liberali e conservatori che la vedono piuttosto come esito di un’ideologia o prescrizione politica. Quindi come il prodotto del fanatismo ideologico o della volontà totalitaria, che provocano eccesso, frenesia e fanatismo.

Le cose sono invertite: eccessi, fanatismi e frenesie sono sempre presenti nelle rivoluzioni, ma non le generano. Ciò che le genera sono piuttosto i secoli di violenza subita, l’oppressione, lo sfruttamento e l’umiliazione. Losurdo racconta che la rivoluzione di febbraio, in Russia (quella ‘menscevica’), poi abbattuta da quella di Ottobre, fu caratterizzata da terribili vendette spontanee della folla. Nella sola Pietroburgo oltre 1.500 poliziotti furono linciati ed i marinai di Kronstadt, che in seguito saranno oggetto della repressione bolscevica, mutilarono centinaia di ufficiali. Ma in modo davvero barbaro, a settembre, dopo il tentativo di Kornilov, si registrano casi di tortura che vanno fino all’impalamento, alla mutilazione dei genitali, a persone scuoiate vive[43]. Più in generale il processo di dissoluzione dell’esercito russo e lo sfaldamento delle istituzioni del paese, mettevano già prima della insurrezione bolscevica il paese nelle condizioni più drammatiche; insomma, quella dell’autunno del 1917 è una grande jacquerie di massa che cova da secoli. In questo contesto, il problema delle élite rivoluzionarie è, casomai, quello di contenere ed incanalare questa furia, per impedirle di distruggere ogni cosa e trasformarle in ‘rivoluzioni’. La violenza rivoluzionaria nasce, insomma, sempre entro un conflitto che non scompare con essa. Seguendo il problema sbagliato, quindi, la tanto praticata critica libertaria, dice Traverso, “spiega raramente come le rivoluzioni possano evitare la coercizione o preservare la libertà senza farsi rovesciare”[44].

Il punto è che lasciare il terreno della rivoluzione armata, per la sinistra, ha significato abbandonare interamente il proprio albero genealogico; diventare orfani che devono inventare una nuova identità. Di fatto ricostruendola come variante di quella degli avversari, ovvero del liberalismo e al massimo delle sue varianti anarchiche. Le sinistre contemporanee, sostiene l’autore con uno slogan, sono quindi nate in una ‘tabula rasa’ e non hanno elaborato il passato.

 

Bisogna però farlo, perché si tratta di esperienze, tutte, che hanno avuto il loro senso dentro il proprio tempo e luogo, hanno combattuto le proprie battaglie, hanno perso e vinto, sono state tradite o corrotte, oppure hanno brillato di luce propria, ma che hanno avuto sempre un nucleo di emancipazione, di ‘liberazione’. Talvolta, in alcuni momenti, possono essere state ‘un flagello’, ma sono anche state ‘un appello’, come ricordava Danton, sono state ‘un’ultima disperata risorsa per uomini disperati e gonfi di rabbia’. Ma, tuttavia, questi uomini e queste masse hanno messo in discussione ed hanno a volte spezzato ‘la tirannia del privilegio’ e molte ‘antiche ingiustizie’.

 

Durante tutto l’arco che va dalle ‘rivoluzioni atlantiche’ al trionfo in Vietnam la fame di liberazione è stata alimentata da questa tradizione. Saranno ora necessarie sempre nuove battaglie, e talvolta, come scriveva Benjamin in esse “il ricordo balenerà in un attimo di pericolo”.

 

 



[1] - Enzo Traverso, “Rivoluzione. 1789-1989: un’altra storia”, Feltrinelli 2021.

[2] - Karl Marx, “Per la critica dell’economia politica”, Editori Riuniti, 1957, p. 5

[3] - Karl Marx, Friedrich Engels, “La sacra famiglia”, Editori Riuniti, 1969, p. 121

[4] - Traverso, cit. p.27

[5] - Michael Robbins in “The railway ages”, London 1962

[6] - Karl Marx, Friedrich Engels, “Il manifesto”, Editori Riuniti, 1983 (ed.or. 1848), p.55

[7] - Marx, ivi, p. 56

[8] - C’è dunque molto di Marx, di questo Marx, nella posizione ‘accelerazionista’ alla quale torna sempre Fisher.

[9] - Reinhart Koselleck, “Criteri storici del moderno concetto di rivoluzione”, in “Futuro passato”, Clueb, Bologna, 2007.

[10] - Rosa Luxemburg, “L’accumulazione del capitale”, PGreco 2012, ed. or. 1913.

[11] - In Marx, che riprende i Tableau économique di Quesnay, il valore di qualsiasi merce (e quello totale di tutte) è composto dal capitale costante (materie prime ed ausiliarie, ammortamento delle macchine, infrastrutture etc.) più capitale variabile (salari) più plusvalore (profitto, interesse e rendita). La produzione poi si può dividere in una sezione I, che produce i mezzi di produzione, ed una sezione II, che produce i beni di consumo. Perché il sistema funzioni senza intralci la domanda totale deve eguagliare l’offerta totale e la domanda di prodotti di ogni sezione deve eguagliare l’offerta della stessa. Così facendo tutto resta invariato e si riproduce anno dopo anno.

[12] - Rosa Luxemburg, idem, p. 486

[13] - Idem, p. 488

[14] - Idem, p. 447

[15] - Traverso, cit., p. 77

[16] - Che si può vedere in questo link di You Tube https://www.youtube.com/watch?v=_z7qt-2s3zI , con commento in italiano, o qui https://www.youtube.com/watch?v=YVuf3T3k-W0

[17] - Grandi residenze rurali multigenerazionali nelle quali si compie vita comunitaria sotto la guida di un patriarca e nei quali si praticano i rituali vodou, che rappresentano essi stessi una forma di espressione di autonomia.

[18] - Jeremy Popkin, “Haiti storia di una rivoluzione”, Einaudi, 2020 (ed. or. 2012)

[19] - Alexandra Kollontaj, “La nuova donna”, 1918

[20] - Traverso, cit., p. 192

[21] - Joseph De Maistre, “Considerazioni sulla Francia”, Editoriale Il Giglio, 2010.

[22] - Marcuse, “L’uomo ad una dimensione”, Einaudi, 1967 (ed. or. 1964).

[23] - Hannah Arendt, “Sulla rivoluzione”, Edizioni di Comunità 1999 (ed. or. 1963).

[24] - Traverso, cit., p. 311.

[25] - Traverso, cit., p. 197

[26] - Karl Marx, “Il 18 brumaio di Luigi Bonaparte”, Editori Riuniti, 1964,

[27] - Marx, Engels, “Il Manifesto”, cit., p. 64

[28] - Lenin, “Che fare?”, Editori Riuniti, 1968

[29] - Lenin, cit, p. 62

[30] - Idem, p.63

[31] - Cyril Lionel Robert James, “I giacobini neri”, Derive e Approdi, 2015 (ed. or. 1938).

[32] - Lev Trockji, “Storia della Rivoluzione russa”, Mondadori 2018 (ed. or. 1930).

[33] - Idem, p. 14

[34] - Idem, p. 16

[35] - Idem, p.19

[36] - Nel 1996 il fascicolo del Foreign Office FO 111/189, che attesta la collaborazione di Orwell con l’Information Research Department, un centro segreto di propaganda anticomunista governativo, tra le figure denunciate c’è anche Chaplin.

[37] - George Orwell, “La fattoria degli animali”, Mondadori, 2016 (ed. or. 1945).

[38] - George Orwell, “1984”, Mondadori, 2016 (ed. or. 1949)

[39] - Carlo Formenti, “Dalla Nep di Lenin alle riforme cinesi”, Per un Socialismo del XXI secolo, 13 settembre 2021.

[40] - Idem.

[41] - Traverso, cit., p. 347

[42] - Idem, p. 349

[43] - Domenico Losurdo, “Stalin. Storia e critica di una leggenda nera”, Carocci editore, 2021, (ed. or. 2008), p. 97

[44] - Traverso, cit., p. 34

 

Andrea Zhok


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