L’Occidente e la curva della rivoluzione
ott 26th, 2022 | Di Thomas Munzner | Categoria: Contributi
L’Occidente e la curva della rivoluzione
di Roberto Gabriele
Da decenni molti compagni si sono arrovellati per trovare la soluzione al problema della ricostruzione di un partito popolare e di classe dopo la liquidazione del PCI, che ereditasse la parte migliore dell’esperienza comunista in Italia e rappresentasse un punto di ripresa di una visione mondiale del processo di trasformazione socialista.
La spinta emotiva per il crollo dell’URSS e lo scioglimento del PCI hanno portato a conclusioni affrettate su come reagire e questo spiega gli insuccessi registrati fino ad ora da coloro che hanno scelto la via del partito qui e subito. La valutazione è, peraltro, oggettiva e prescinde necessariamente dal grado di serietà o meno con cui questi tentativi sono stati condotti.
C’è bisogno, dunque, di ripartire da una analisi oggettiva delle cose per capire le difficoltà e i problemi da affrontare. L’analisi è tanto più necessaria quando si parla di paesi dell’occidente capitalistico, e tra questi l’Italia, dove l’urto delle contraddizioni è mediato da un sistema politico e da una condizione sociale che deve tener conto del ruolo dell’imperialismo e dei frutti che esso porta comunque alla società che lo esprime. Ricordiamoci a questo proposito ciò che Lenin sosteneva a proposito della classe operaia inglese.
Prescindendo però da considerazioni storiche, per cogliere i dati essenziali delle contraddizioni che vivono oggi anche i paesi capitalistici e porle alla base di un percorso di ricostruzione politica e organizzativa, bisogna necessariamente riferirsi all’insieme della dinamica del sistema imperiale occidentale senza cui non è possibile tracciare una strategia che punti a un processo di trasformazione del sistema economico e sociale anche in Italia.
Nella fase storica attuale, infatti, sia pure con molte contraddizioni interne, il sistema economico imperialista occidentale mantiene ancora unite le sue prospettive e la guerra in Ucraina ne è la dimostrazione. L’equilibrio di questo sistema dipende, quindi, da come si approfondiranno le contraddizioni tra esso e quelli che ne sono oggi gli antagonisti diretti, Russia e Cina. Situazione internazionale ed evoluzione della situazione interna italiana viaggiano in parallelo e si rafforza la posizione di quei comunisti che sostengono l’importanza decisiva della loro collocazione nell’arena internazionale. In sintesi, occorre dire che, se non esiste più il campo socialista, esiste però un grande campo antimperialista dentro cui agiscono anche tutte quelle forze che tendono al socialismo e questa deve essere la collocazione dei comunisti. Nel bene e nel male, bisogna fare i conti con questa realtà che significa, come diremo più avanti, che ogni ipotesi di cambiamento del sistema di controllo capitalistico sulle società occidentali, Italia compresa, deve misurarsi con elementi tattici e strategici che tengano conto di come le contraddizioni si vanno esprimendo e come da queste contraddizioni si può ricavare un asse che sappia distinguere tra semplici cambiamenti politici di facciata e trasformazioni strutturali, tra azioni rivendicative e passaggi storici qualitativi.
Dobbiamo uscire dunque dal dilemma ‘riforme o rivoluzione’ e affermare, invece, un percorso di trasformazione adatto alla realtà odierna. Ed è tanto più necessario entrare nel merito di queste questioni perché il soggetto che storicamente si è mosso in questa direzione, il PCI, è stato liquidato e a tutt’oggi la ricostruzione di un percorso di cambiamento strutturale è rimasta incompiuta e non è stata sostituita da nient’altro che avesse caratteristiche analoghe. Oggi, per riprendere un discorso dello stesso tipo bisogna tenere, perciò, in considerazione una serie di fattori assenti finora nel dibattito corrente.
Per cominciare, bisogna necessariamente fare riferimento all’esperienza politica che in Italia parte dal 1943 e arriva fino agli anni ’60, quando il PCI ha smesso di essere il partito della trasformazione sociale per diventare il partito del compromesso storico e della mutazione genetica. Si è trattato dell’unico tentativo che, con la Costituzione del 1948, abbia cercato di cambiare i connotati dello Stato liberale italiano.
Nell’allacciarsi, però, a quella fase storica bisogna tener conto di come i rapporti di forza sono mutati a favore dei ceti dominanti e di come sono state rimesse in discussione le possibilità strategiche definite dopo la seconda guerra mondiale che vedevano il blocco socialista e i partiti comunisti europei coordinare i loro sforzi contro l’imperialismo a guida americana in una comune strategia di avanzamento verso il socialismo.
La questione che si pone oggi è, dunque, come ridefinire, sulla base della nuova realtà, un percorso e una riorganizzazione dei comunisti in un paese occidentale come l’Italia, evitando – lo ribadiamo ancora una volta – di cadere in una facile autocelebrazione identitaria e sciogliendo i veri nodi che la realtà ci pone per andare avanti in questo progetto. Si tratta di ragionare, dunque, su quale concretamente debba essere il ruolo dei comunisti in Italia (e nell’occidente capitalistico), che non sia di pura testimonianza.
Perché ci poniamo questi interrogativi? Noi partiamo dalla constatazione che ci sono due differenti modi di affrontare la nuova fase storica. Il primo sostiene che il ciclo storico dei comunisti si è chiuso e bisogna trovare nuove strade per cambiare il mondo, l’altro, che è anche il nostro, tende a dare una interpretazione materialista del processo storico in cui il movimento comunista ha agito delineando una curva della rivoluzione comunista che si è andata via via articolando fino a produrre un salto dialettico rappresentato dal crollo dell’URSS e dei paesi socialisti dell’est Europa e dalla svolta cinese dopo la sconfitta della rivoluzione culturale, un salto che però non ha posto fine al ciclo epocale volto a cambiare il sistema dello sfruttamento e il dominio mondiale dell’imperialismo iniziato nel 1917, ma ne ha solo modificato le caratteristiche che dobbiamo indagare a fondo.
Il fatto che siamo entrati in una situazione mondiale di grande fibrillazione perché l’imperialismo occidentale, dopo aver goduto l’illusione che la caduta del muro di Berlino fosse la sua definitiva vittoria, si sente minacciato, è la testimonianza che il processo storico della trasformazione si è riaperto e si ricongiunge a ciò che è avvenuto nel mondo dopo la rivoluzione d’Ottobre e ne è, in altra forma, la continuazione.
È necessario, dunque, leggere attentamente gli avvenimenti che abbiamo di fronte e saper individuare il filo rosso di un processo storico che i fatti degli anni ’90, nonostante le apparenze, non hanno interrotto, ma di cui hanno modificato il corso. È in questo contesto che va, in primo luogo, evidenziata la dinamica delle contraddizioni a livello mondiale e ridefinito il ruolo dei comunisti.
Analizzando le due tendenze alla trasformazione dei rapporti di forza che abbiamo di fronte, quella che è partita dal 1917 e quella che è emersa all’inizio del terzo millennio con lo sviluppo eccezionale della Cina e la riorganizzazione della Federazione russa sotto la direzione di Putin, dobbiamo capire bene le differenze e i punti di continuità.
La prima ondata è partita da un processo rivoluzionario che ha fatto leva sulle condizioni concrete della Russia agli inizi del XX secolo e sugli effetti devastanti della prima guerra mondiale, mentre il secondo processo, quello iniziato con il terzo millennio, ha come base il riemergere delle contraddizioni a partire da come le due più importanti rivoluzioni a direzione comunista hanno sedimentato oggettivamente i loro risultati e oggi rappresentano il centro della conflittualità con l’imperialismo occidentale.
L’estremismo ideologico nega questa realtà, ma i marxisti devono saper capire in termini materialistici il processo nel suo complesso e da lì ripartire per decidere il che fare?
I passaggi storici della prima grande avanzata sono noti: rivoluzione d’Ottobre e nascita dell’URSS, vittoria sul nazismo, creazione del campo socialista e creazione della Repubblica popolare cinese, movimento antimperialista mondiale di cui la Corea, il Vietnam e Cuba sono stati altrettanti punti di riferimento.
Nella fase storica attuale lo scenario è mutato radicalmente, non è più l’URSS il motore della trasformazione mondiale dei rapporti di forza, ma a quella dinamica se ne è sostituita un’altra con caratteristiche che hanno tenuto conto delle questioni maturate, in Cina come in Russia, negli anni ’90 del secolo scorso. In sostanza, a quello che era l’antagonismo diretto tra forze imperialiste e campo socialista si è sostituito un antagonismo basato sulla logica dello sviluppo alternativo, corrispondente al nuovo grado di sviluppo dei due Paesi che ha messo in crisi l’imperialismo occidentale a guida americana.
Che cosa significa sviluppo alternativo e a quali conclusioni porta nei rapporti di forza a livello mondiale? In sintesi, ciò che si è evidenziato all’inizio del terzo millennio è che il sistema imperiale occidentale si è trovato di nuovo ad affrontare un antagonismo che, seppure non ha carattere nettamente ideologico come all’epoca della guerra fredda, di fatto rappresenta un muro insuperabile, sia per la necessità espansiva dell’occidente capitalistico che per il controllo dei rapporti internazionali in termini economici e militari.
La Cina non esporta la rivoluzione, ma merci e aiuti economici ed è diventata competitiva sui mercati finanziari e sui livelli tecnologici. La Russia, dopo la crisi degli anni ’90, si riprende lo spazio di una grande nazione che rivendicava un ruolo non subordinato all’impero americano. Una grande nazione che ha alle spalle la rivoluzione bolscevica e la vittoria sul nazismo che neppure Gorbaciov e Eltsin, con il loro vergognoso operato, sono riusciti ad offuscare.
Tutto questo ha messo in movimento, a partire dal Medio Oriente, una interconnessione tra politica russa e cinese con una serie di spinte a livello dei vari continenti tese a modificare i rapporti coll’impero americano. Non si è trattato di sviluppi rivoluzionari ma di processi di liberazione a carattere nazionale che portano, però, a un risultato qualitativo e rendono mondiale un cambiamento che inverte quella tendenza alla sconfitta che il crollo dell’URSS aveva fatto immaginare.
Quello che sta succedendo, quindi, è la ripresa, in altre forme, di una nuova ascesa di quella curva rivoluzionaria che sembrava essersi persa con la crisi della fine del secolo scorso e che oggi si ripresenta in nuove forme.
Ma allora, domandiamoci, qual è il compito dei comunisti in questa nuova fase?
Innanzitutto, quello di inquadrare in modo materialistico l’intero processo partito con lo sviluppo del movimento comunista da Marx in poi, evitando immaginari ritorni a questa o a quella figura del movimento comunista. La storia e l’elaborazione dei comunisti va tenuta in considerazione nella sua interezza, ovviamente non cronologica ma storico-dialettica.
Ai comunisti spetta quindi il compito, in primo luogo, di appropriarsi di questi punti di riferimento e trasformarli in elaborazioni teoriche e programmi di riorganizzazione. Per questo diventa essenziale liquidare dal dibattito politico e culturale non solo le formule identitariste con cui si è tentato, anche in Italia, di creare posticce organizzazioni comuniste, ma anche, e soprattutto, evitare la logica di chi vede l’albero e non la foresta, cioè scava solo sul particolare e non vede il processo generale.
Soprattutto, però, la battaglia va condotta contro posizioni che, deformando le caratteristiche della fase storica, combattono l’avanzata del nuovo ‘impero del male’ (Cina e Russia) definendolo polo imperialista. Stiamo parlando di quella sinistra imperialista che qualche volta assume anche il volto della falce e martello e che, ancora una volta, non ha trovato di meglio che condannare l’iniziativa militare della Russia in Ucraina.
Con le dovute differenze, il periodo che stiamo attraversando somiglia a quello definito al VII congresso dell’Internazionale comunista, quando Dimitrov e Togliatti indicarono la strada per battere il fascismo. Anche oggi, per vincere abbiamo bisogno di una grande unità di tutte le forze che si vogliono liberare dall’imperialismo a guida USA e impedire nuove guerre e sulle sue rovine riprendere la marcia verso il socialismo
Questo è il grande compito storico che i comunisti hanno di fronte.
C’è, però, una seconda questione che incombe e coinvolge la responsabilità dei comunisti. Come va impostata l’azione in un paese come l’Italia? È ovvio che il collegamento con la prospettiva internazionale è la base della ricostruzione teorica e strategica, ma ciò non basta e bisogna saper approfondire e articolare i passaggi nazionali di questa scelta. Anche qui bisogna individuare gli elementi che determinano in modo oggettivo la conflittualità strutturale col sistema economico e istituzionale entro cui l’Italia si muove.
Per entrare nello specifico, dobbiamo preliminarmente domandarci qual è lo stato di salute di questa Italia a guida UE e come stanno incidendo le contraddizioni mondiali sul suo equilibrio. Da lì si capiscono gli appuntamenti storici che una forza comunista ha di fronte e con i quali deve fare i conti se vuole svolgere quella funzione di trasformazione sociale che è insita nella sua natura rivoluzionaria.
Se partiamo dalla storia italiana di questi ultimi decenni il bilancio è pesante.
A una classe operaia temprata da una incessante capacità di lotta che veniva dalla forza dei suoi strumenti di difesa economica e di rappresentanza politica è subentrata una fase di ritirata, dovuta anche a fattori oggettivi, dalla globalizzazione dell’economia che ha reso la manodopera dei paesi occidentali meno competitiva, dalla disarticolazione dei processi produttivi, dalla capacità padronale di piegare più facilmente la resistenza dei lavoratori man mano che la presenza comunista andava disgregandosi. È dentro questa realtà che va ripensata la presenza dei comunisti. Ma la risposta da dare presuppone che il progetto di cui sono portatori esca dai tradizionali ambiti di discussione politica e punti a definire le forze motrici del cambiamento e le basi su cui deve poggiare.
La storia italiana degli ultimi decenni ci insegna che il nostro paese non ha nessuna autonomia di gestione del sistema e ogni volta che l’egemonia atlantica ed europeista si è incrinata, c’è stato un pesante intervento dei poteri internazionali che esprimono questa egemonia per riportare la situazione sotto controllo. Bisogna partire da questo dato per definire le prospettive. Se riconosciamo, difatti, che l’Italia manca di autonomia decisionale ed è legata al dominio atlantista ed europeista, il punto di approccio della battaglia nel nostro Paese non può essere altro che questo. Non ci può essere, infatti, disponibilità vera a cambiare le cose se non si condivide l’obiettivo di riconquista dell’autonomia. Nel dibattito politico italiano, a ‘sinistra’, manca invece la consapevolezza di questo asse strategico e si ripropongono ammucchiate dentro cui scompaiono gli obiettivi veri di cui devono essere consapevoli non pochi illuminati, ma tutti coloro che sono impegnati nella lotta.
Certamente, non bisogna ‘ideologizzare’ questi obiettivi, ma saperli articolare dentro le situazioni oggettive che abbiano un valore strategico. Ne indichiamo alcune che esprimono in modo essenziale il significato del lavoro che abbiamo di fronte per provare a spostare l’asse della politica italiana dal suo carattere liberista e atlantista.
Si tratta in modo specifico di tre elementi: il recupero dell’autonomia di classe dei lavoratori, l’uscita dell’Italia dal circuito imperialista occidentale, la formulazione di un progetto politico che unisca le forze antiliberiste per attuare la Costituzione del 1948.
La battaglia su questi tre punti rappresenta la base su cui si misura la capacità di quei comunisti che, ricollegandosi alla loro esperienza storica, vogliono riprendere il cammino della trasformazione sociale nel nostro Paese.
In una strategia politica di cambiamento non si può andare avanti con l’elenco della spesa ripetuto come un mantra. Un progetto che abbia come base un’analisi comunista delle contraddizioni epocali ha bisogno di riferimenti chiari che ne possano contraddistinguere l’azione. Non è il simbolo che decide, ma la dimensione strategica della sua azione. Appunto per questo i tre punti indicati rivestono, secondo noi, quel carattere necessario a modificare le cose nella presente fase storica in linea con l’evoluzione della situazione mondiale.
Analizziamo in concreto i tre punti che consideriamo essenziali per definire una piattaforma comunista in Italia.
1) Recuperare l’autonomia di classe è il primo punto. Difatti, se non si riesce a scardinare il controllo delle confederazioni sindacali CGIL-CISL-UIL sui lavoratori e le norme legislative che riducono la libertà di organizzazione sindacale e di sciopero, non si può mettere in movimento una partecipazione sociale adeguata agli obiettivi. Senza i lavoratori, la loro opposizione a un regime liberista e subalterno alla logica economico-finanziaria dell’occidente capitalistico, non possiamo illuderci di cambiare le cose. Illusione che ha invece caratterizzato quei gruppi che hanno pensato di creare alternative senza fare i conti con la dimensione reale del problema. Ci riferiamo ai tentativi che, in questi anni, si sono fatti per impedire che il ruolo consociativo confederale mantenesse il monopolio della contrattazione della forza lavoro e che, partiti da un’esigenza giusta di recupero di autonomia dei lavoratori, sono finiti per diventare la caricatura dei confederali.
I comunisti italiani hanno una lunga esperienza nella lotta contro il sindacalismo omologato alla logica del capitale fin dagli anni ’20 del secolo scorso e oggi sono messi alla prova per sciogliere il nodo del recupero dell’autonomia di classe, che costituisce un passaggio essenziale della ripresa politica. Questo recupero deve basarsi sul rapporto dialettico tra mobilitazione dei lavoratori contro il consociativismo confederale, rivendicazione di rappresentanza degli organismi elettivi, rispetto del diritto costituzionale di libertà di associazione contro il monopolio attuale della contrattazione, costruzione dell’unità nelle lotte, referendum approvativo degli accordi sindacali.
2) Sul secondo obiettivo – quello relativo al fatto che l’Italia non ha nessuna autonomia dentro il rigido controllo esercitato dagli USA e dalle corporazioni economico finanziarie che fanno capo all’UE – ai comunisti si pone il problema di uscire dagli slogan e capire il processo reale a livello mondiale che stiamo attraversando e, quindi, saper trovare l’approccio giusto per rivendicare la libertà e l’indipendenza dell’Italia.
Sappiamo che l’obiettivo degli europeisti e degli americani è quello di creare quel blocco militare ed economico che si contrapponga ai sei miliardi di essere umani che stanno fuori da questo blocco. Ebbene, il tentativo dell’imperialismo trova, già al suo interno, non solo una grossa crepa dovuta al crescere della povertà e dello sfruttamento, da cui possono nascere contraddizioni e lotte, ma anche una difficoltà crescente a mantenere unito il suo blocco dal momento che a livello mondiale è emersa la possibilità di uno sviluppo alternativo.
In questo senso va vista e definita la prospettiva dell’Italia.
Come la guerra in Ucraina ha dimostrato (ma possiamo anche parlare della Libia e del Mediterraneo), gli interessi dell’Italia confliggono con l’asse atlantista basato su USA-GB-UE e questo non è un fatto puramente ideologico, ma oggettivo, che può e deve essere il grimaldello con cui si possono aprire varchi nel recinto dei richiami alla solidarietà imperialistico-occidentale su cui la propaganda di regime insiste.
Per i comunisti esiste, quindi, nel loro percorso, anche la necessità di gestire il recupero dell’interesse nazionale nella prospettiva di un mondo multipolare e di pace. Non è un’utopia questa, ma un dato oggettivo che fa parte dello scontro in atto contro l’egemonismo americano che si combatte nell’interesse dei lavoratori e del Paese.
3) Infine, il terzo obiettivo della ripresa comunista. Se noi partiamo, come è giusto che sia, dal fatto che bisogna riallacciare il filo rosso dell’intero processo storico di cui i comunisti sono stati protagonisti, la cosa vale anche per l’Italia e per i comunisti italiani e bisogna capire anche in che modo va affrontato da noi questo collegamento.
Nel nostro Paese, la questione della continuità storica dell’esperienza comunista trova oggi un punto di congiunzione tra lotta al liberismo, che è in pieno svolgimento, e programma costituzionale alla base del quale c’è, appunto, un modello sociale che potremmo chiamare, come all’epoca, democrazia progressiva, e che ha le stesse caratteristiche che si vanno esprimendo nelle lotte attuali.
Che cosa dice in sostanza la Costituzione? Tre cose essenziali: ripudio della guerra, controllo sociale dell’economia, diritti inalienabili dei cittadini e dei lavoratori.
Di questo programma si parla continuamente, ma è arrivato il momento di fare chiarezza sul suo significato politico generale. Non si può parlare di Costituzione se non si individua il percorso organizzativo e politico per attuarla.
La logica di buttare il bambino con l’acqua sporca, che ha caratterizzato il dibattito dopo la fine del partito comunista, ha reciso le radici di quella che doveva essere l’eredità da cui ripartire. Identitarismo e ideologismo hanno provocato un vuoto di memoria storica di cui si sente oggi la gravità e sul campo è rimasta solo una retorica costituzionalista che non mette in luce le questioni essenziali.
‘Applicare la Costituzione non è un pranzo di gala’ e finché non si opererà una rottura rispetto al fatto che l’Italia è stretta nella morsa atlantista ed europeista, la Costituzione rimarrà lettera morta, a partire dall’art.11 che stride violentemente con l’appartenenza dell’Italia alla NATO.
Ma se questi sono i punti su cui si misura il compito rivoluzionario dei comunisti e su cui riprendere la marcia, uscendo finalmente dai riti e ai miti, qual è la prospettiva organizzativa? Come costruire una base organizzata per questo progetto politico e quali sono, soprattutto, le previsioni, visti gli insuccessi passati?
Per rispondere, partiamo dal fatto che quella che definiamo abitualmente ‘distruzione della ragione’ politica condiziona tutto il quadro della ripresa. Per questo cerchiamo da molto tempo di andare a fondo per capire la questione oggettiva che ci sta dietro. Che cosa significa ‘distruzione della ragione’ politica?
Non vi è dubbio che lo sviluppo del partito comunista in Italia è avvenuto sulla base di una grande capacità politica dei due leader principali, Gramsci prima e Togliatti poi, ma anche di una verifica storica positiva delle scelte che il partito comunista ha fatto. Non si è trattato, dunque, solo di capacità intellettuali (come una certa vulgata ‘gramsciana’ cerca di accreditare), ma anche di misurazione sul terreno della validità delle ipotesi.
Gli iconoclasti, invece, quelli che hanno buttato il bambino assieme all’acqua sporca, non hanno tenuto conto dell’accumulazione dell’esperienza acquisita dal PCI come base di partenza della ripresa e hanno riciclato una cultura inerte che non permette di fare passi in avanti. Questo noi intendiamo per ‘distruzione della ragione’.
Però, dopo la fase delle ‘rivoluzioni’ virtuali la situazione è mutata. Oggi, la necessità di costruire un’alternativa politica all’esistente sta prendendo un altro indirizzo, si tratta della nascita di movimenti politici con seguito (elettorale) di massa che, senza obiettivi strategici, cavalcano le esigenze e le speranze di milioni di persone che vivono il disagio di questa UE. A volte, queste esigenze vengono intercettate da movimenti di destra, ma altre volte, come è successo in Grecia, in Francia, in Spagna e in Italia, si tratta anche di movimenti di sinistra. Si tratta di forme di rappresentanza politica che non sono, però, attrezzate per incidere effettivamente sui processi storici, per cui si pone il problema di trovare il modo di non farsi trascinare in una deriva elettoralistica e strategicamente debole. Tenerne conto, ma saper guardare oltre.
Non si tratta, però, solo di un’opera di chiarimento politico verso questi settori. Certi movimenti di sinistra, infatti, hanno un retroterra oggettivo, basato su ceti meticci che esprimono le contraddizioni della loro posizione sociale e oscillano tra il velleitarismo e il romanticismo politico e programmatico, e spesso ritornano alla casa madre del sistema istituzionale che gestisce il potere.
Dobbiamo, dunque, rimettere i piedi per terra nel considerare un progetto di riorganizzazione delle forze e questo non è un atto volontaristico, ma presuppone preparazione e verifiche. E, soprattutto, la maturazione di un nuovo livello politico di comprensione della realtà e di sperimentazione politica.
Il nodo da sciogliere non è dunque facile e si pone anche in questo caso il dilemma dell’uovo e della gallina. Come nasce un nucleo politico comunista che faccia da motore di una ripresa politica? I fatti di questi decenni, sia nella versione di un becero e strumentale identitarismo che in quella dell’anarco-movimentismo, dimostrano che siamo ancora nel brodo di cultura di quella ‘distruzione della ragione’ da cui dobbiamo uscire per riprendere la marcia in avanti.
Mao diceva che anche se si sbaglia bisogna insistere, insistere, insistere. Noi dovremmo dire, in questo momento, rovesciando la definizione gramsciana, che bisogna agire con l’ottimismo dell’intelligenza e non farci spaventare dal pessimismo per le condizioni politico-organizzative in cui viviamo da anni.