Alex Saab e Julian Assange. Come l’imperialismo Usa viola il diritto internazionale
ott 22nd, 2022 | Di Thomas Munzner | Categoria: Politica InternazionaleAlex Saab e Julian Assange. Come l’imperialismo Usa viola il diritto internazionale
di Geraldina Colotti
Julian Assange e Alex Saab, un giornalista e un diplomatico. Il primo, in attesa di essere estradato negli Stati Uniti, l’altro sequestrato e mantenuto in una prigione della Florida in spregio al diritto internazionale. Due esempi dell’arroganza imperialista degli Stati uniti appoggiata, nel caso di Assange, dal governo britannico, mentre nel caso di Saab il sequestro è potuto avvenire con la complicità di un paese dipendente, Capo Verde, incapace di dire “no” agli Usa.
Julian Assange, fondatore del sito Wikileaks, è detenuto da tre anni nella prigione di massima sicurezza di Belmarsh, detta la “Guantanamo di Londra”. Ora è risultato anche positivo al covid e si trova in isolamento, con grave rischio per le sue già precarie condizioni di salute. Anche la salute di Saab, sopravvissuto a un cancro allo stomaco, è seriamente debilitata, tanto più dopo le torture subite e a seguito delle condizioni di privazione in cui è stato tenuto a Capo Verde, a dispetto di vari pronunciamenti degli organismi internazionali. Ora, i tribunali statunitensi continuano a procrastinare l’udienza relativa alla sua immunità diplomatica, mentre sta crescendo la mobilitazione internazionale mediante il Movimento Free Alex Saab, coordinato dall’avvocata Laila Tajeldine.
La mobilitazione per la liberazione di Julian Assange, invece, ha già raggiunto un alto livello di diffusione e toccato vari settori della società. Sabato scorso, davanti al parlamento londinese, si è svolta una significativa manifestazione, alla quale, nonostante i controlli e gli impedimenti, hanno partecipato oltre 5.000 persone. Una lunga catena umana in cui si è visto anche l’ex segretario del Labour Jeremy Corbyn, insieme a volti noti del cinema e della politica internazionale come l’ex ministro greco Yanis Varoufakis. In prima fila, Stella Moris Assange, trentottenne avvocata sudafricana, moglie dal marzo scorso del giornalista australiano.
Anche la giovane moglie del diplomatico Alex Saab, l’italiana Camilla Fabri, che ora vive in Venezuela, partecipa, istancabilmente, a tutte le iniziative per la liberazione del marito e, come si vede nel documentario “Alex Saab, un diplomatico sequestrato”, sostiene la causa di Julian Assange.
I legali di Assange hanno presentato istanza di ultimo appello presso l’Alta Corte di Londra contro il decreto di estradizione negli Usa, autorizzato il 17 giugno scorso dalla ministra degli Interni inglese Priti Patel. Negli Stati Uniti, il fondatore di Wikileaks rischia una condanna a 176 anni di carcere: in pratica, una sentenza di morte. Non ha potuto appellarsi neanche al tanto sbandierato Primo Emendamento della Costituzione statunitense, che recita: “Il Congresso non promulgherà leggi per il riconoscimento ufficiale di una religione, o che ne proibiscano la libera professione; o che limitino la libertà di parola, o della stampa”. Contro Assange è stata applicata una vecchia legge del 1917, l’Espionage Act. Un meccanismo utilizzato, in nome della sicurezza nazionale, per perseguire i responsabili di fughe di notizie e i funzionari che denunciano i vizi del sistema, accusandoli di tradimento e spionaggio. Se ne è servito anche l’ex presidente Donald Trump. E anche contro Assange c’è un’accusa di “cospirazione”…
A partire dal luglio del 2010, il sito Wikileaks ha pubblicato 250.000 file, che rivelano le conversazioni intercorse tra Washington e le sue diplomazie (circa 270 ambasciate e consolati sparsi in tutto il mondo) nei tre anni precedenti. Nell’ottobre 2010, vennero rese pubbliche 400.000 informative militari sull’Iraq, intercorse tra il 2004 e il 2009, e oltre 800 notizie diplomatiche riguardanti la base di Guantanamo. Un caso esplosivo che andrà sotto il nome di Cablogate.
Assange ha ottenuto le notizie dal soldato Bradley Manning, che gli ha passato documenti confidenziali della diplomazia nordamericana, che, fino a quel momento, nessun grande quotidiano aveva voluto pubblicare. Manning, analista informatico, faceva il soldato in Iraq e aveva accesso ai database, da cui ha attinto per 8 mesi. Li salvava su un cd mascherato con la copertina di Lady Gaga e poi li trasferiva su una chiavetta destinata ad Assange.
Nell’aprile 2010, Manning venne arrestato e nell’agosto del 2013 una corte marziale lo condannò a 35 anni. In quell’occasione, l’ex soldato dichiarò di aver divulgato i documenti per far conoscere gli abusi compiuti dal governo nordamericano in Iraq e in Afghanistan. Rivelò anche di aver sempre desiderato essere una donna e di volersi chiamare Chelsea. Oggi ha realizzato il suo desiderio, ma si è sempre rifiutato di accusare Assange per ottenere benefici.
Anche Alex Saab ha rifiutato i benefici proposti dal governo statunitense in cambio di false accuse contro il presidente venezuelano Nicolas Maduro.
Assange venne inseguito da un mandato di cattura delle autorità svedesi dal 2010, anche in Europa. A dicembre di quell’anno, si consegnò a Scotland Yard e venne liberato dopo il pagamento di una cauzione, 9 giorni dopo. A febbraio del 2011, la magistratura britannica decise la sua estradizione. Assange fece appello. Ad aprile del 2011, a seguito delle rivelazioni di Wikileaks, il governo dell’Ecuador, allora diretto da Rafael Correa, espulse l’ambasciatrice Usa, Heather Hodges.
Assange, durante i suoi 500 giorni di arresti domiciliari a Londra (quella volta decisi dal giudice) intervistò il presidente Rafael Correa nel suo programma radio trasmesso su Russia Today. E, quando a maggio del 2012 la Corte suprema britannica decise la sua estradizione in Svezia, si rifugiò nell’ambasciata ecuadoriana a Londra e ottenne asilo politico da Correa il 15 agosto.L’Ecuador rispose così alle minacce della Gran Bretagna, in linea con l’atteggiamento assunto dai paesi socialisti dell’America latina di fronte alle rivelazioni delle ingerenze Usa. Una situazione che s’inasprì ulteriormente con l’aggiungersi di un’altra fonte – Edward Snowden – e di un altro grosso scandalo, quello del Datagate, che scoppiò nell’estate del 2013 e compattò anche i grandi paesi latinoamericani, Brasile e Argentina. Snowden, ora cittadino russo, ha mostrato l’entità dello spionaggio illegale compiuto dalle agenzie per la sicurezza Usa, in violazione sia della privacy che della sovranità degli Stati.
Non per niente, gli avvocati di Assange hanno poi denunciato la Cia per aver spiato i colloqui con il loro cliente quando era rifugiato nell’ambasciata dell’Ecuador a Londra. Secondo la denuncia, una società di sicurezza privata, la Uc Global, avrebbe registrato gli incontri e consegnato il materiale all’agenzia di spionaggio nordamericana, che allora era diretta da Mike Pompeo.
Calpestare l’immunità di un diplomatico, accreditato come ambasciatore plenipotenziario del Venezuela in Africa, non è proprio un atto corrente. Chiudere la bocca a un giornalista, o imporre la censura in nome della “sicurezza nazionale”, invece, è ormai un fatto corrente nei paesi capitalisti, che pur abbondano di proclami ridondanti sulla “libertà di stampa”, e sul “pluralismo dell’informazione”.
Due casi che servono a spingere più in alto l’asticella dell’illegalità e della sopraffazione da parte di chi, sventolando la retorica dei diritti e della democrazia, si considera esente dal dovere di rispettarli. Il compito di chi si riconosce in altri principi, è invece quello di far saltare l’asticella.
Per discutere su Alex Saab e Julian Assange, giovedì 13 ottobre alle 18, i collettivi Granma e Vientos del Sur organizzano un dibattito online con la partecipazione da remoto di Camilla Fabri Saab, moglie del diplomatico venezuelano (link d’entrata). E sabato, il Movimento Free Alex Saab partecipa alla 24 ore per la liberazione di Assange.