Riflessioni preliminari ad un programma politico

giu 6th, 2022 | Di | Categoria: Dibattito Politico

Riflessioni preliminari ad un programma politico

Quelle che seguono sono alcune riflessioni iniziali, senza pretese di rappresentare nessuno, che cercano di fissare gli estremi di una lettura filosofico-politica della contemporaneità. Si tratta di un abbozzo dove idealmente dovrebbero stagliarsi alcuni vertici di una figura tutta da disegnare e colorare.

1) Sul rapporto tra Stato e cittadino

 

La discussione tradizionale sui rapporti tra lo stato e il cittadino ha imboccato da tempo un vicolo cieco, dove si dibatte ciclicamente e sterilmente: se sia necessario espandere o restringere il perimetro dello stato, se abbiamo bisogno di “più stato” o di “meno stato”. Quest’impostazione oscilla tra i poli, posti erroneamente come antitetici, della “libertà” (individuale) e della “protezione” (centrale). Per disinnescare questa falsa partenza bisogna comprendere come nessuna soluzione che restringa lo stato garantisce maggiore libertà ai cittadini, e inversamente, nessuna soluzione che ne incrementi il perimetro garantisce maggiore protezione ai cittadini. Inoltre non è affatto vero che maggiore protezione debba implicare minore libertà, e viceversa. Libertà e protezione, lungi dall’essere in competizione si possono sviluppare bene solo in parallelo.

Altrettanto vago e inconcludente è il riferimento, così frequente negli anni passati a quelle formulazioni del “principio di sussidiarietà”, secondo cui “lo stato deve intervenire solo quando il privato non è in grado di operare” o secondo cui “lo stato deve intervenire solo dove la ‘società civile’ non è in grado di operare”. Queste sono altrettante formule vuote, che possono essere – e sono state – strumentalizzate in maniera completamente arbitraria.

Per mettere ordine su questo punto bisogna uscire dal piano della mera forma e entrare in quello del merito, del contenuto, delle finalità. Partiamo da alcune constatazioni ovvie: non esiste nessuno stato e nessuna società civile senza cittadini e senza relazioni reali, personali, dirette tra cittadini. Non esiste creazione culturale o innovazione tecnologica che non nasca “dal basso”, che non maturi innanzitutto in una o più menti individuali. Non esiste sentimento di affetto e lealtà che non sia primariamente rivolto alla sfera della prossimità, delle cose, delle persone, dei luoghi che si conoscono e con cui ci si relaziona realmente. Per queste ragioni la dimensione delle relazioni personali e territoriali, così come la sfera della libertà di iniziativa individuale – in ogni ambito – rappresentano necessariamente il livello creativo e affettivo primario, la dimensione in cui emergono e maturano tutti i contenuti e i rapporti degni di essere coltivati e promossi.

Tuttavia, affinché questa dimensione espressiva e creativa possa manifestarsi essa ha bisogno di essere difesa e protetta, e tale difesa e protezione è storicamente prodotta nel modo più efficace dall’istituzione statale. Ma da cosa ci si deve difendere? Le forme di difesa e protezione dipendono da quali sono le minacce prevalenti in ogni sistema storicamente determinato. Il nucleo tradizionale dello “stato sentinella” richiedeva solo le funzioni di difesa esterna e interna rispetto alla violenza fisica e alle violazioni della proprietà: esercito, polizia, magistratura. Ma nelle società capitalistiche moderne le forme di prevaricazione possono prendere con pari facilità, e pari nocività, la strada del ricatto monetario, della pauperizzazione, dell’emarginazione economica, della destabilizzazione produttiva o finanziaria.

Nella società moderna squilibri di potere economico diventano asimmetrie di potere tout court, e l’arma economica è di gran lunga la più letale (non fosse altro perché può acquistare ogni altro mezzo di offesa, dall’armamento bellico, al potere mediatico, all’influenza politica.)

In quest’ottica bisogna uscire dalla falsa questione se ci sia bisogno di più o di meno stato, e bisogna orientare il discorso verso l’idea che lo stato non ha compiti creativi, né compiti di conformazione delle menti o dei comportamenti, ma ha compiti derivati dall’obbligo di consentire a persone e gruppi reali di prosperare iuxta propria principia, secondo le proprie linee di sviluppo. Interventi coercitivi da parte statale sono perciò legittimi se, e solo se, commisurati ad evitare quei comportamenti da parte di individui, gruppi, od organizzazioni, che impediscono l’espressione e la crescita di altri individui, gruppi od organizzazioni.

Questa prospettiva è distante dallo stato etico in cui lo stato assume una sorta di personalità autonoma, ponendosi come un individuo superpersonale, una “persona delle persone” con una propria agenda indipendente da quella della propria cittadinanza (questa visione tende a sfociare nel totalitarismo). Ma questa prospettiva è parimenti distante dallo stato liberale, dove si assume che l’unica forma di negazione della libertà da cui difendersi sia quella legata all’autorità tradizionale e alla violenza diretta, lasciando la cittadinanza alla mercé dei rapporti di forza e ricatto che maturano sul piano di altri poteri, quello economico in primis.

 

2) Su libertà economica e welfare

 

La natura dei rapporti tra stato e cittadinanza ci può aiutare a interpretare quale ruolo debba giocare la “libertà economica”. Il lavoro è parte fondamentale della vita dell’uomo: lo è come fonte di sostentamento e lo è come possibile dimensione di realizzazione personale e sociale. In questo senso, a prescindere dal fatto che la libertà d’iniziativa economica presenti vantaggi sul piano produttivo rispetto a forme di pianificazione onnicomprensiva, la ricerca del “proprio” lavoro è parte importante dell’espressione di autonomia personale. Le contrapposizioni tra lavoro privato e lavoro statale, tra impresa e lavoro subordinato sono contrapposizioni stantie e sterili. Occupazioni diverse richiedono facoltà ed inclinazioni diverse, presentano sia vantaggi che problemi diversi, ed è socialmente e individualmente utile che tale diversità esista e continui ad esistere.

Sul piano lavorativo possono generarsi, e continuamente si generano, svariati problemi sociali, problemi che dipendono prevalentemente dalla molteplicità delle forme di ricatto e di condizionamento che possono verificarsi attraverso la leva monetaria. Queste forme di ricatto e condizionamento si possono verificare sia per i dipendenti che per i datori di lavoro, in forme diverse.

Quanto maggiore la ricattabilità economica di un soggetto, tanto inferiore la propria libertà d’agire e di esprimersi: un soggetto che sia in una posizione economicamente fragile e ricattabile subisce per ciò stesso gravi limitazioni alla sua capacità di vivere, progettare, esprimersi.

In questa cornice, limiti alla libertà economica possono essere legittimamente imposti per evitare o ridurre quelle condizioni di fragilità e di ricattabilità. Qui limitazioni alla libertà economica vengono giustificate nel nome della più generale libertà umana di vivere, progettare, esprimersi. È questa finalità a giustificare:

a) l’esistenza di ammortizzatori sociali pubblici;

b) l’esistenza di un sistema pensionistico pubblico;

c) l’esistenza di leggi relative alla sicurezza sul lavoro e alle condizioni di ammissibilità per un licenziamento;

d) l’esistenza di servizi pubblici accessibili all’intera cittadinanza nella fornitura di beni e servizi primari (istruzione, sanità).

Il welfare, nelle sue forme fondamentali, è innanzitutto una garanzia di libertà e agibilità democratica per i cittadini, che in presenza di queste condizioni di tutela sono meno esposti a potenziali ricatti economici. Sapere che se perdo il lavoro potrò comunque mangiare, avere un tetto sulla testa, curarmi, mandare a scuola i figli, ecc. fa un’enorme differenza nel contenere i livelli di ricattabilità. Incidentalmente non avere cittadini ridotti alla disperazione è cruciale per mantenere una società funzionale, con bassi livelli di criminalità e illegalità.

Ma naturalmente forme di ricatto possono condizionare anche l’operato dei datori di lavoro, soprattutto nella piccola e media impresa (generalmente priva di partecipazioni finanziarie). Per limitare queste forme di condizionamento servono:

e) garanzie di efficacia nell’esigibilità legale dei crediti dovuti (efficienza della giustizia civile);

f) accessibilità al credito sotto condizioni trasparenti e non usurarie (funzionali in questo senso possono essere sia istituti di credito rivolti espressamente al sostegno della piccole e medie imprese, sia piccoli istituti di credito diffusi in prossimità territoriale);

g) trasparenza e semplicità dei rapporti con l’amministrazione pubblica (l’imprevedibilità e l’arbitrarietà dei rapporti con l’amministrazione pubblica sono gravi fattori di condizionamento e di potenziale ricatto, che può sfociare in forme di corruzione).

 

3) Su libertà economica e fiscalità

 

Le principali forme strutturali di ricatto e di condizionamento economico nella società contemporanea si verificano a causa di due fattori:

1) la percezione di elevati rischi in caso di fallimento economico – che si tratti di perdita del posto o fallimento d’impresa: maggiore il pericolo in caso di perdita del lavoro o impoverimento, minori i margini di libertà e di iniziativa;

2) l’esistenza di elevatissime differenze di forza economica (il rapporto tra salari d’ingresso e redditi apicali negli anni ’60 era in un rapporto di 1 a 20, oggi è di 1 a 400; e se andiamo alle differenze nelle patrimonialità i rapporti tra la base della piramide sociale e la vetta raggiunge moltiplicatori nell’ordine delle migliaia di volte). Oltre certi limiti le differenze economiche divengono senz’altro differenze di potere incolmabili, che definiscono livelli di cittadinanza di serie A e di serie B.

Entrambi questi fattori devono essere contenuti affinché un paese possa funzionare in forma democratica e affinché i propri cittadini possano vivere e prosperare liberamente.

Il primo fattore può essere contenuto, tra l’altro, con interventi come quelli menzionati nel punto 2) alle lettere da a) a g).

Il secondo fattore invece richiede interventi di limitazione della tendenza del capitale di produrre altro capitale con rendimenti crescenti. Questa funzione di contenimento degli squilibri deve essere contemperata con la funzione di autonomizzazione dei singoli agenti economici, che devono trarre dalle proprie attività fonti di “conferimento di facoltà di agire” (cioè reddito), adeguate a motivarne l’iniziativa e (possibilmente) ad esprimere la propria spinta all’autodeterminazione. In sostanza, un’organizzazione economica funzionale deve tenere fermo un doppio obiettivo: consentire al soggetto economico di esprimere le proprie potenzialità (motivandone, o almeno permettendone l’iniziativa) e impedire la creazione di asimmetrie di potere che travolgano la pari dignità degli individui.

La soluzione principe per tenere sotto controllo questa tendenza è una tassazione progressiva efficiente, modulata con scaglioni numerosi, con una curva che mantiene una crescita moderata per i redditi intermedi, incrementando significativamente in prossimità dell’ultimo percentile; è essenziale che sia disponibile una conoscenza capace di intercettare tutte le forme di rendita, specialmente liquida (curiosamente l’unica forma di “privacy” seriamente tutelata oggi è quella sui movimenti del grande capitale). Le capitalizzazioni liquide richiedono particolare sorveglianza in quanto sono potenzialmente molto più nocive di quelle immobiliari, in quanto disinteressate al benessere di qualunque territorio reale. La rendita finanziaria per natura non è vincolata a nessuna realtà concreta, nessuno stato, nessun paese, nessuna cultura, ed è capace e disponibile a reimpiegarsi in tempo reale ovunque sul globo terrestre.

La tassazione deve perciò coprire due funzioni primarie: 1) essa serve a fornire le risorse necessarie ad alimentare quelle forme di intervento pubblico che aiutano il coordinamento economico (burocrazia, viabilità, ecc.) e quelle che limitano il ricatto economico (ammortizzatori sociali, previdenza, sanità pubblica, ecc.). 2) In secondo luogo, essa serve ad impedire che nella società si creino divaricazioni di potere economico abissali, perché tali divaricazioni rendono vano ogni funzionamento democratico. Nella società moderna, dove così tanto è “in vendita”, se ristrette élite di “superricchi” si confrontano con masse di spossessati, la democrazia è semplicemente spacciata: gli ultimi saranno spesso assoggettati ai primi, disposti a fare qualunque cosa per chi è economicamente in grado di alleviarne la condizione di sofferenza. Ciò conferisce alla ricchezza un potere che non è semplice potere di consumo, ma è potere sulle persone, cioè potere politico. Perciò la tassazione deve operare anche come compensazione di carattere redistributivo, capace di evitare la polarizzazione delle differenze reddituali in molto ricchi e molto poveri.

La tassazione oggi funzionante in Italia non riesce affatto ad espletare adeguatamente queste due funzioni. Essa è caratterizzata innanzitutto da una fiscalità opaca, con incombenze molteplici, con un’onerosità burocratica pesantissima, che pesa in maniera tanto più grande quanto minori sono le dimensioni dell’impresa. Per questo motivo l’attuale ordinamento fiscale finisce per operare in modo de facto regressivo, pesando maggiormente sulle imprese di piccole e poi di medie dimensioni, e molto molto meno sulla grande impresa. Simultaneamente, nell’ambito stesso della grande impresa vengono premiate comparativamente le attività che hanno una maggiore vocazione finanziaria, rispetto a quelle con una vocazione industriale, giacché la sfera finanziaria ha modalità per eludere la fiscalità e per mobilizzarsi in modo da ottenere condizioni di favore indisponibili all’industria.

La fiscalità di cui c’è bisogno deve invertire radicalmente questa tendenza, riprendendo una dimensione progressiva e non oppressiva, e ciò può avvenire sia semplificando e riducendo gli oneri per la piccola e media impresa che tracciando e tassando efficacemente il grande capitale, specialmente liquido.

 

4) Su sanità pubblica e ambiente

 

La salute nomina la dimensione vitale primaria, che a nessuno è dato di sottovalutare o trascurare. Il fallimento di un servizio sanitario pubblico crea gravi condizioni di ricattabilità economica – oltre che mettere a repentaglio l’intero sistema sociale quando si presentino minacce sanitarie di natura collettiva. La salute va intesa in un senso complessivo, integrato: ogni organismo si sviluppa e guarisce come intero, e non come somma separata di parti. Curarsi di una parte dell’organismo senza valutare le ripercussioni su un’altra parte, curarsi di un problema a breve termine, senza curarsi dei risvolti a lungo termine, curarsi del corpo a scapito della psiche, sono altrettanti approcci erronei, da rigettare. La salute esprime condizioni di equilibrio organico che riguardano ciascun organismo e il suo rapporto con l’ambiente circostante (ambiente fisico e ambiente sociale). È per questo motivo che salute ed ambiente dovrebbero essere discussi e trattati come problemi congiunti. Non vedere la compenetrazione della questione sanitaria e di quella ambientale tende a creare da un lato un’idea della salute pubblica come mirata alla sola cura individuale dei sintomi, e dall’altro a pensare all’ambiente come a qualcosa di toto coelo separato (esemplare di questo errore l’idea che noi saremmo chiamati a “salvare il pianeta”: naturalmente, per quanto ci sforziamo, i nostri atti non distruggeranno “il pianeta”, ma potrebbero certamente compromettere le capacità di viverci di molte specie viventi – tra cui in primis la nostra.)

Il sistema sanitario nazionale italiano era uno dei migliori al mondo ed è progressivamente regredito negli ultimi decenni a colpi di “razionalizzazioni”, inducendo un vasto trasferimento di utenti verso il privato ed una riduzione delle prestazioni coperte dal servizio pubblico. Qui il processo va puramente e semplicemente invertito. In un paese dove quasi 50.000 persone l’anno muoiono per infezioni contratte in ospedale, non c’è nessuna discussione in termini di “razionalizzazione” che tenga: bisogna mettersi in testa di ripristinare un sistema che è stato smontato, ripristinarlo magari in forme più efficienti e meglio organizzate, ma comunque ripristinare ciò che si è distrutto.

Il primo compito di un sistema pubblico della sanità dev’essere quello di mantenere in salute i sani, non quello di medicalizzare l’esistenza di tutti. In quest’ottica ciò che mancava, e ancora manca, è un’interazione tra tematiche sanitarie e ambientali. Negli ultimi anni ci si è artificialmente concentrati sulla più difficile da determinare delle questioni, cioè il “riscaldamento globale”. Si è invece rimosso quasi integralmente ogni studio sistematico relativo all’impatto sulla salute di note variabili ambientali antropiche, variabili investigabili molto più direttamente di un processo epocale come quello della temperatura planetaria. Dalle nanoplastiche, agli interferenti endocrini, dall’inquinamento elettromagnetico, ai nitriti e alla miriade di sottoprodotti della zootecnia intensiva e della agricoltura intensiva che finiscono nelle falde acquifere, ai particolati nelle vie aeree, fino al degrado dell’ambiente sociale (non meno nocivo del degrado fisico), tutti questi sono fattori gravemente lesivi sul piano della salute su cui l’attenzione della sanità pubblica latita. Manca un tentativo sistematico di investigare le correlazioni tra queste variabili ambientali e specifici problemi di salute di cui si continuano a registrare incrementi esponenziali (dai tumori, ai problemi di fertilità, alle malattie autoimmuni, all’autismo infantile, alle psicosi depressive, ecc.).

Il modello di sviluppo attuale produce una rincorsa – strutturalmente perdente – tra due dinamiche: da un lato mutamenti ambientali patogeni vengono indotti dalla frenetica competizione produttiva e tecnologica, dall’altro l’inventiva del mercato farmaceutico cerca di porre rimedio ai problemi creati. Si tratta di una rincorsa tra istanze di mercato: accelerazione di mutamenti tecnologici e produttivi per guadagnare fette di mercato e accelerazione della vendita di correttivi farmaceutici ai danni che emergono: si producono in una costante accelerazione danni alla salute e dispositivi sanitari per ripararli, cercando affannosamente di stare al passo. Ma la rincorsa terapeutica è sempre in fatale ritardo e il processo tende ad essere degenerativo: così, pur avendo maggiori conoscenze mediche rispetto a qualunque epoca del passato, questo non significa necessariamente che la salute media sia migliorata (salvo forse per le persone più anziane, sempre naturalmente soggette a decadimento fisico).

Così, per dire, stiamo causando in vari modi una riduzione della fertilità, ma invece di concentrarci sull’isolamento delle cause ed arrestarle, escogitiamo tecniche riproduttive artificiali (es.: fecondazione eterologa) o soluzioni di mercato (es.: gravidanza surrogata). Questo modo di agire dà l’impressione di vivere in una società “attenta ai problemi individuali” e induce ad applaudire le soluzioni trovate, mentre in verità è massivamente indifferente ai problemi di sistema, e usa l’attenzione selettiva per alcuni problemi individuali come leva per sostenere agende indipendenti. Questa rincorsa di soluzione ingegnosa in soluzione ingegnosa, di trionfo tecnologico in trionfo tecnologico, conduce invece costantemente lungo un declivio degenerativo.

In quest’ottica andrebbero tassativamente introdotti sistemi di monitoraggio di tipo epidemiologico, capaci di rilevare le distribuzioni nel tempo e nello spazio di certe condizioni patologiche, in modo da indagarne le eventuali correlazioni con variazioni nell’ambiente fisico (o sociale).

 

5) Su scuola e università

 

Così come la sanità è stata destrutturata nel corso degli ultimi decenni, lo stesso è avvenuto per l’istruzione, scolastica ed universitaria. A fronte di un definanziamento costante, che ha alimentato il precariato della docenza, creato classi pollaio e mantenuto le infrastrutture in condizioni spesso ai limiti dell’agibilità, abbiamo visto negli ultimi anni una spinta continua verso una qualificazione farlocca dell’istruzione attraverso una pletora di processi di “misurazione”. Con l’illusione di dare una veste “scientifica” alla valutazione, la scuola e l’università pubblica sono state riempite di parametri esterni, “target”, processi premiali da suq, e trafile di attestazione burocratica che hanno rimpiazzato come attività primaria lo studio e l’insegnamento. Un’infinità di energie e risorse sono oggi impiegate in questa sceneggiata fittizia, nevrotizzante e sterile in cui bisogna fare ammuina a colpi di “progetti innovativi”, “internazionalizzazione”, “didattica smart”, “nuove tecnologie” e modernizzazioni di facciata, che lasciano i docenti di ogni ordine e grado con forze sempre più limitate da dedicare al cuore dell’attività formativa. Oggi scuola e università sono principalmente concentrate sul soddisfare astratti criteri esogeni, da cui dipendono finanziamenti e riconoscimenti.

Al tempo stesso, nel nome dell’ennesima “modernizzazione”, scuola e università vengono concepiti sempre più come meccanismi di trasmissione di idee alla moda, di inclinazioni benpensanti correnti, di imperativi moraleggianti e teorie politiche travestite da ovvietà morali (es.: l’europeismo acritico, proposto come doveroso rimedio alla catastrofe delle guerre mondiali). Invece di fornire ai discenti strumenti culturali per renderli autonomi, e stimoli per sviluppare criticamente tale autonomia, la scuola diviene sempre di più un luogo in cui ci si deve assicurare che chi ne esce ne esca “con le idee giuste”.

Nel nome di un’esigenza, completamente distorta, di “rispondere alle esigenze del mondo della produzione” la scuola è stata spinta simultaneamente alla semplificazione dei programmi nelle loro componenti tradizionali e all’introduzione di una falsa concretezza (didattica per competenze, alternanza scuola-lavoro, ecc.), che di fatto conduce soltanto ad una riduzione di consapevolezza e all’accettazione della propria collocazione come ingranaggi mobili in un sistema fisso.

La spinta verso i saperi STEM, e tra essi, l’incentivazione della ricerca applicata rispetto a quella di base, procedono di nuovo nella medesima direzione, ovvero quella di una riduzione della consapevolezza di sistema e del senso critico verso il mondo circostante. In un sistema in cui i lavori scientifici sono “prodotti” e gli studenti sono “clienti”: l’obiettivo da raggiungere non è più affatto una cittadinanza consapevole – e tecnicamente capace, ma meccanismi umani di trasmissione funzionali ad un sistema dato e indiscutibile.

È importante precisare che non si tratta di contrapporre in modo stantio le “scienze umane” alle “scienze naturali”, né di proclamare una presunta superiorità dell’astrazione teorica sull’intelligenza pratica. Questo sarebbe di nuovo una sciocchezza e un fraintendimento. Un’astrazione teorica che non sia capace di scendere in terra e di vivere in un mondo di azioni e reazioni reali, che non sia in grado di rapportarsi con le cause e gli effetti immanenti nella propria quotidianità è una forma di sapere monco, deformato e tanto acritico quanto quello di chi è culturalmente deprivato. Similmente, le scienze naturali non sono affatto “per essenza” latrici di una forma mentis acritica, e la frequentazione delle scienze umane – se non esce dall’astrazione – può rendere più ciechi al mondo circostante di qualunque formazione tecnoscientifica. Il problema dunque non corre lungo il crinale oppositivo dei rapporti tra scienze umane e scienze naturali, né lungo quello tra astrazione e concretezza, ma riguarda la retorica che è stata costruita su ciò, dove per “concretezza” si spaccia l’addestramento spicciolo a occupare un posto predeterminato, e dove per “qualifica scientifica” si spaccia la spendibilità settoriale in processi produttivi predefiniti. Questa retorica viene promossa nel nome del venire incontro alle necessità del mondo del lavoro, ma essa fallisce sistematicamente e necessariamente questo obiettivo, perché le competenze lavorative specifiche sono in mutamento con rapidità maggiore di quanto qualunque programma scolastico possa registrare e qualunque corpo docente possa apprendere. L’idea che dalla scuola o dall’università possano uscire “prodotti finiti” da inserire subito in un sistema produttivo – a sua volta in mutamento costante – è un’illusione nociva che danneggia la formazione di base senza produrre alcun vantaggio al mondo del lavoro. Il risultato di questo sguardo apparentemente rivolto alla concretezza utilitaristica è in effetti solo quello di creare una gioventù dotata di ridotto senso critico, grandemente disorientata, con una consapevolezza impoverita di sé e del mondo circostante, e precocemente rassegnata ad occupare quello slot provvisorio che, se meritevoli e fortunati, verrà loro precariamente assegnato.

 

6) Su sovranità, multipolarismo e questione migratoria

 

Nel punto 1) abbiamo visto come nei rapporti tra individui, famiglie e comunità territoriali da un lato e stato centrale dall’altro, i contenuti propulsivi siano monopolio della prima dimensione, “dal basso”, e come lo stato abbia una funzione sovraordinata di difesa e coordinamento, finalizzata a consentire alla prima dimensione di prosperare. Il medesimo canone può essere applicato nei rapporti tra stati, dove la dimensione “dal basso” è qui rappresentata dai singoli stati nazionali, in quanto rappresentanza più prossima degli individui e delle comunità territoriali, mentre eventuali organismi sovranazionali possono trovare giustificazione con funzioni di difesa o coordinamento economico. Incidentalmente questo significa, ad esempio, che è sempre ingiustificabile che organismi sovranazionali (es.: ONU, OMS, UE, ecc.) si facciano carico di dare indicazioni culturali o di costume alle singole nazioni, o che redigano programmi scolastici o universitari, da implementare all’interno dei singoli stati, ecc.

L’ideale da perseguire nei rapporti tra stati è quello dell’autodeterminazione dei popoli e del perseguimento delle proprie linee di sviluppo, conformi al proprio tracciato storico-culturale e alla propria collocazione territoriale. In collisione frontale con questa prospettiva stanno l’ideale imperialista, così come quello globalista, in quanto assumono che un’unica civiltà, un’unica forma di vita, un unico modello economico siano naturalmente ottimali e vadano estesi di diritto ad ogni popolo e ad ogni latitudine.

Naturalmente, assumere il principio di autodeterminazione e indipendenza nei rapporti tra nazioni non significa assumere che ciascun costume, ciascuna legge, ciascuna credenza all’interno di ogni nazione sia naturalmente giusta, “sacra”, immutabile. Ci possono essere usi, costumi, credenze e norme che ci appaiono erronee, insensate, persino inumane. Nessuno ci vieta di esprimere le nostre perplessità. Ma quali che siano le nostre più ferme e benintenzionate opinioni, nessuna prospettiva esterna sarà mai in grado di immaginare soluzioni complessivamente più funzionali di quelle che possono maturare dall’interno di ciascuna realtà (ciascuno stato, ciascuna cultura). Si può ritenere ad esempio che la democrazia sia una forma di governo migliore di una dittatura (io lo credo), ma questo non significa che sia senz’altro possibile o sensato trasporre e imporre un modello istituzionale democratico, se esso è estraneo a quella realtà sociale. Quando questo accade, quando si cerca di esportare di peso un modello istituzionale estraneo, si verificano regolarmente gravi danni preterintenzionali, squilibri collaterali, che inducono forme di degenerazione, degrado e arretramento nella civiltà coinvolta. Ciascuno stato, di principio, deve trovare le proprie soluzioni. Una volta ideate, può magari chiedere, e forse ottenere, un aiuto esterno per implementarle, ma la genesi della soluzione deve essere endogena.

Questo principio di sovranità primaria ha valenza generale ed opera in contrapposizione strutturale con ogni pretesa imperialistica e globalistica. Questa visione perciò sostiene una prospettiva multipolare nei rapporti tra le nazioni, dove si assume che, in presenza di asimmetrie di potere tra diverse nazioni, sia comunque auspicabile l’esistenza di una pluralità di poli di attrazione (“potenze”). L’esistenza di una pluralità di poli approssimativamente equipotenti rende meno ricattabili le potenze minori, gli stati più deboli, giacché questi possono sempre giocare la carta di avvicinarsi ad una sfera d’influenza differente, se la precedente sfera d’influenza si dimostra troppo oppressiva. Il multipolarismo è la “democrazia” possibile in un campo dove essa è formalmente impossibile, cioè nei rapporti tra nazioni.

In quest’ottica dev’essere valutata anche ogni politica relativa ai processi migratori. Né l’emigrazione, né l’immigrazione possono essere forme normali di risoluzione dei problemi interni ad un paese. Un paese che faccia fuggire sistematicamente da sé interi blocchi della propria popolazione deve imparare a farsene carico; può essere aiutato, in presenza di squilibri momentanei, crisi occasionali o catastrofi naturali, ma nessun paese può assumere che l’emigrazione sia una forma normale di risoluzione dei propri problemi, giacché ciò che è emigrazione per un paese è immigrazione per un altro, e non esiste, né può esistere, alcun ovvio diritto d’accesso ad altri paesi. Il soccorso umanitario è doveroso, ma deve essere concepito come intervento straordinario, in presenza di eventi altrettanto straordinari, non come modalità fisiologica di risoluzione dei problemi.

Non bisogna confondere l’occasionale libera scelta di tentare la propria fortuna altrove con l’emigrazione / immigrazione di massa: quest’ultima è una forma altamente disfunzionale e forzata di fornire sollievo momentaneo, e tende sistematicamente a creare ulteriori squilibri altrove. Questo è un campo in cui la quantità è qualità. Lo spostamento volontario, in tempi dilatati, di individui o piccoli gruppi tra paesi diversi può avere una funzione benefica sia sul piano culturale che economico, al contrario rapide migrazioni di massa forzate dalla situazione drammatica dei paesi di partenza non rappresenta niente di simile ad una libera scelta, e rappresenta un danno sia per la popolazione del paese di partenza che per quella di arrivo. Il migrante obbligato a lasciare la propria terra per sfuggire alla miseria o alla guerra è un evento calamitoso per sé e per gli altri, non deve essere tinteggiato con i colori dello spirito di avventura o del piacere della contaminazione culturale.

Tassi di migrazione elevati e incontrollati operano sistematicamente come creatori di squilibrio sociale, che mettono a dura prova le strutture di welfare dei paesi ospitanti, che possono fornire alimento alla criminalità e che creano uno strato di manodopera ricattabile e disposta a tutto, con un effetto deleterio di compressione salariale. Perciò immigrazioni massicce su tempi brevi risultano fatali sia economicamente che culturalmente per i sistemi sociali che le subiscono, creando condizioni in cui lo sfruttamento, la precarietà e il ricatto crescono verticalmente. Il controllo e la moderazione selettiva dei tassi di ingresso rappresentano un dovere politico primario per chiunque creda che un paese non sia semplicemente una funzione accessoria della mobilità del capitale (qui capitale umano).

 

7) Oltre Destra e Sinistra

 

Il terreno politico che si apre oggi deve partire da un’esigenza di superamento dell’opposizione storica tra destra e sinistra. Non si tratta di una mera scelta estetica, né di una moda da cavalcare per ricavare uno spazio di originalità. Destra e sinistra sono opposizioni prive di una qualunque definizione teorica stabile: esse sono semplicemente opposizioni che si sono prodotte nel corso del tempo, a partire dalla Rivoluzione francese, rivestendo di volta in volta ruoli e incarnazioni molto diverse.

Nell’ultimo trentennio tanto i partiti sedicenti di destra che i partiti sedicenti di sinistra hanno contribuito ad alimentare e rinforzare un modello liberale e globalista di società. Entrambi hanno contribuito all’adozione di strategie che hanno liquefatto il tessuto sociale, sradicato gli individui, minato il funzionamento di famiglie e comunità territoriali. Entrambi hanno contribuito ai processi di privatizzazione di beni e servizi pubblici senza attenzione ad interessi strategici nazionali, entrambi hanno supportato la cessione di sovranità ad organismi sovranazionali, entrambi hanno accompagnato l’erosione del welfare e delle tutele del lavoro, entrambi hanno sostenuto una modernizzazione di facciata dell’istruzione pubblica che ne ha decretato il tracollo. Entrambi hanno sostenuto il progressivo passaggio da un ordinamento democratico ad un ordinamento tecnocratico, dove la sovranità viene delegata ad élite opache di sedicenti “competenti”.

Questo non vuol dire, naturalmente, che tutto ciò che è cresciuto all’ombra di partiti di destra e di sinistra sia da buttare, né che tutti in singoli protagonisti abbiano sempre personalmente remato nelle direzioni indicate sopra. Tanto nella destra che nella sinistra sono esistite linee di sviluppo – minoritarie – critiche del liberalismo, di cui, da diversi punti di vista, si riconoscevano le tendenze distruttive ed autodistruttive. Ma più di questa vigilanza critica ha potuto lo spauracchio dell’avversario, la chiamata alle armi per fare “fronte comune” contro la destra a sinistra e contro la sinistra a destra. Nonostante la sostanziale intercambiabilità delle politiche, nel gioco dell’alternanza questo trucco retorico ha funzionato per decenni, consentendo ad una politica liberale e neoliberale di imporsi senza remore.

Chi a sinistra conservava una diffidenza nei confronti degli imperativi del mercato ha tuttavia sostenuto tutte le forme di dissoluzione dei legami umani (famigliari, affettivi, territoriali, comunitari, tradizionali, religiosi), in modo perfettamente funzionale a produrre individui isolati alla mercé del mercato, a produrre soggetti fragili pronti a coprire ovunque posti da ingranaggio in una macchina globale.

Chi a destra vedeva con sospetto quei processi di dissoluzione dei legami famigliari, territoriali, tradizionali, ecc. ha tuttavia sostenuto forme di mercatizzazione generalizzata, quando non di vero e proprio darwinismo sociale, pratiche che davano il colpo di grazia a quei legami stessi.

Nel contesto del cosiddetto “crollo delle ideologie” l’accoppiata destra-sinistra è divenuta un vero e proprio trucco cosmetico funzionale a mantenere in sella alcuni residuati delle ideologie che furono, mentre di fatto si imponeva – travestita da realtà ultima – l’ideologia onnicomprensiva del neoliberalismo. L’esigenza di mobilità della forza lavoro sul mercato mondiale è stata dipinta strumentalmente come “flessibilità”, “dinamicità”, o magari come “accoglienza” e “ospitalità”. Le richieste di affidabilità del grande capitale, tutelato dalla BCE, sono state presentate come gaia apertura europeista, in opposizione a biechi nazionalismi. Le esigenze di avere capitale umano sempre a disposizione senza remore è stato raccontato come “liberazione dai vincoli oppressivi della famiglia”. La tendenza liberalcapitalistica alla liquefazione di ogni legame, che siano luoghi, persone, culture o tradizioni, è stata presentata come forza emancipativa, che finalmente consentiva agli individui di esprimere le proprie potenzialità (mentre in effetti creava generazioni di individui sempre più solitari e disorientati).

L’uscita dall’oramai falsa e fuorviante opposizione tra destra e sinistra deve prendere la strada di un recupero di principi e valori rimasti latenti e minoritari in entrambe le aree. Un elenco esaustivo non è qui possibile, ma alla luce di quanto detto possiamo almeno menzionare:

• La libertà come libertà positiva, libertà come partecipazione e capacità di realizzazione, non come mera libertà negativa (libertà dalle interferenze altrui).

• L’autonomia come capacità di individui e gruppi di determinare le proprie linee di sviluppo, di esprimere le norme che definiscono il proprio orizzonte di vita.

• L’eguaglianza come pari dignità, come inclusività e come pari possibilità aperte ad ogni persona – ma non come livellamento forzoso di inclinazioni, facoltà e tendenze.

• La comunità come sfera sociale di prossimità, dove maturano lealtà, affetti e significati primari, al di là dei rapporti contrattuali e pattizi, al di là delle norme formali e dell’intermediazione legislativa.

• La famiglia come sfera sociale qualificata dalla riproduzione e dall’educazione primaria delle generazioni a venire, sfera che deve essere sostenuta in questo compito, e dove particolare attenzione deve essere dedicata ai carichi della maternità e della cura della prole (potenziali latori di svantaggi proprio a chi si dedica maggiormente a questa dimensione socialmente cruciale).

• Il territorio come ambito di appartenenza a luoghi geografici e realtà urbane, ereditate dalle generazioni precedenti e da lasciare in eredità integre o migliori alle generazioni future.

• La cultura come continuum storico di saperi, costumi, significati pratiche sociali, che abbiamo il dovere di apprendere e coltivare, così come abbiamo la possibilità di trasformare e integrare. Questa è la dimensione che consente di diritto la mutua comprensione, l’accordo, il raggiungimento di verità e credenze condivise.

 Andrea Zhok 

Lascia un commento