Riflessioni sull’informatica e suoi effetti
mag 25th, 2022 | Di Thomas Munzner | Categoria: Cultura e società
Riflessioni sull’informatica e suoi effetti
Il 15 gennaio 2022 ci lasciava Corrado Alunni, dirigente rivoluzionario i cui tratti umani, oltre che politici, abbiamo voluto ricordare il 31 gennaio seguente con il testo Per il sorriso dei tuoi occhi, a cura di Sergio Bianchi, nella sezione «scavi» di Machina. La compagna da una vita di Corrado, Marina Zoni, e il figlio Federico, hanno trovato nel suo computer un saggio risalente al 2014 sul tema dell’informatica e dei suoi effetti negli ambiti produttivi, economici, sociali e politici. Ne pubblichiamo qui la prima delle tre parti che compariranno nella sezione «scatola nera».
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L’avvento dell’era digitale ha prodotto cambiamenti di ordine sociale ed economico a livello planetario, sia direttamente – laddove la tecnologia informatica si è diffusa ampiamente in tutti gli ambiti – sia indirettamente – come nei paesi più poveri che sono stati interessati dalla delocalizzazione produttiva e dall’estensione della comunicazione. Non si può dire che queste trasformazioni siano concluse o che l’informatica si avvii ad essere una tecnologia matura. Piuttosto è ragionevole pensare che gli effetti del digitale nell’ambito produttivo e sociale devono ancora dispiegarsi, tanto più se si pensa che il fenomeno è in corso solo da un paio di decenni e che la società, i gruppi, gli individui metabolizzano i cambiamenti in modo assai più lento. È, quindi, prematuro trarre delle conclusioni definitive, semmai è possibile cercare di capire i presupposti che hanno permesso il rapido dilagare di questa tecnologia in ogni ambito, il valore (o il disvalore) dei cambiamenti che si sono verificati e di quelli che è possibile prevedere all’interno delle linee di tendenza. Prima ancora è necessario soffermarsi sulla natura di questa tecnologia, sulla sua «qualità», per sottrarsi al rischio di astrarre dal suo reale contesto e mitizzarne le manifestazioni. Si tratta cioè di «capire» le basi di questa tecnologia prima di tradurne gli effetti nel modello culturale che più ci aggrada. Inoltre, come per tutte le grandi rivoluzioni industriali, anche in questo caso (l’avvento dell’informatica) si producono effetti a livello sociale che non sono direttamente imputabili al rapporto di produzione capitalistico. La disponibilità di energia elettrica, ad esempio, è oggi considerato un diritto come quello alla salute, a prescindere dal fatto che l’elettricità (come la salute) è una merce, e già adesso il diritto alla comunicazione configura l’accesso a internet come un servizio indispensabile. Ciò significa che l’analisi deve considerare i soggetti sociali coinvolti e le loro relazioni non come un dato statico che si modifica solo per il quantum che l’introduzione delle nuove tecnologie modifica i loro rapporto di forza, ma come variabili che si modificano assieme al contesto in cui esistono, acquisendo bisogni, caratteristiche qualità diverse.
Vediamo, dunque cosa c’è alla base della tecnologia informatica.
La macchina «universale»
Hilbert, un grande matematico del secolo scorso, pose fra gli altri il seguente quesito:
esiste sempre, almeno in linea di principio, un metodo meccanico (cioè una maniera rigorosa) attraverso cui, dato un qualsiasi enunciato matematico, si possa stabilire se esso sia vero o falso?
Se tale metodo esistesse, sarebbe in grado di risolvere tutti i problemi matematici e, inoltre, renderebbe possibile ridurre ogni [1] ragionamento umano a un algoritmo eseguibile in modo meccanico. Un giovane matematico inglese, Alan Touring, diede una risposta (parzialmente) positiva alla questione nel 1936 attraverso la formulazione di una macchina teorica, quella che oggi è nota come la macchina di Touring. Nel 1945 nasce l’EDVAC (Electronic Discrete Variables Automatic Computer): è la prima macchina digitale programmabile tramite un software basata su quella che sarà poi definita l’architettura di von Neumann. Il merito dell’invenzione, oltre che allo scienziato ungherese, va a Alan Turing (dato che l’EDVAC, a dispetto della propria memoria finita, è la realizzazione della macchina universale di Turing ovvero, un computer programmabile nel senso moderno del termine) e a Eckert e Mauchly (per la realizzazione) [2]. L’EDVAC, era un enorme ammasso di valvole, interruttori, bobine, condensatori grande come un salone e pesante 30 tonnellate con un dispendio enorme di energia. Sarà utilizzato (soprattutto) nel campo militare per calcoli legati alla costruzione di bombe nucleari.
Il computer, così inteso, non è altro che una macchina in grado di eseguire delle istruzioni (qualsiasi istruzione traducibile in un linguaggio da essa interpretabile). L’hardware (l’elaboratore) è inscindibile dal software ( le istruzioni da elaborare), tanto che esso (l’hardware) è inutile da solo, mentre le istruzioni sono la codifica di un qualsiasi algoritmo (relativo a un problema matematico o di altro tipo). Le basi scientifiche del computer sono quindi disponibili già negli anni Trenta del secolo scorso, un suo prototipo è stato realizzato negli anni Quaranta, ma bisogna aspettare gli anni Ottanta prima che esso si diffonda a livello sociale e produttivo. Ciò è dovuto a vari fattori fra i quali:
· L’esistenza di (relativamente pochi) computer di grandi dimensioni può rispondere a necessità di elaborazione di una grande mole di dati, ma certo non impatta né con il processo produttivo né con la vita sociale quotidiana;
· L’elevato costo di una macchina come l’EDVAC (o di un suo equivalente) ne limita la diffusione a enti di grandi dimensioni oltre al fatto che il suo utilizzo è legato a competenze molto specialistiche;
· Nonostante le potenzialità illimitate del computer di eseguire istruzioni, pure quelle istruzioni vanno scritte in un linguaggio intellegibile dall’hardware, cioè non esisteva o (il che è la stessa cosa) non era necessario produrre un software in grado di adempiere a funzioni utili da un punto di vista sociale o produttivo.
Fra gli anni Sessanta e gli anni Ottanta si sviluppa enormemente un’altra tecnologia, quella dei semiconduttori, fortemente legata a quella elettronica. Chi è vissuto anni Sessanta ricorda sicuramente l’avvento delle radioline a transistor e la rapida diffusione di questa tecnologia in vari altri prodotti: dai televisori ai grammofoni a tutte quelle apparecchiature, domestiche e non, che utilizzavano componenti elettronici (basti pensare alle centrali telefoniche!). Logico, quindi, che tale tecnologia venisse applicata al computer che è appunto un insieme di componenti elettronici. Il microchip è un circuito elettronico composto da vari elementi (oggi anche milioni) miniaturizzato in modo tale da presentarsi come un singolo componente elettronico. Esistono migliaia di tipi di microchip ciascuno dei quali assolve funzioni particolari nei campi più disparati: un tipo di microchip è il cuore del cellulare, oppure la base del computer di bordo dell’auto. In questi casi non è richiesto all’utente di inserire o aggiornare il set di istruzioni che vengono eseguite dal microchip. La logica di funzionamento è preinstallata, il microchip è preprogrammato; al massimo è previsto (appunto) che l’utente possa variare taluni parametri di funzionamento per ottenere degli effetti personalizzati. La CPU (Central Processing Unit) di un moderno computer è anch’essa un microchip in in cui la logica di funzionamento è ancora predeterminata (si parla di architettura del microprocessore), ma con una differenza: questa logica si riferisce all’elaborazione di un set di istruzioni non determinato a priori, ma che l’utilizzatore deve fornire nella forma (linguaggio macchina) opportuna. Per le loro caratteristiche i microchip sono relativamente economici e, anzi, l’aumento della loro complessità influisce poco sul costo (oggi la CPU di un personal computer costa un centinaio di euro, meno di quanto costava quella, assai meno complessa, di una sua versione di 10 anni fa). Il risultato di tutto ciò è che il computer si è trasformato in una macchina di piccole o piccolissime dimensioni, dal costo contenuto (da qui, fra l’altro, l’elevato grado di upgrade) e che richiede un minimo apporto di energia. Manca solo il software, per permettere la diffusione a livello sociale e produttivo delle macchine digitali.
Il software ovvero la codificazione del sapere
Il software è il cuore del nostro problema, molto più della tecnologia che sta alla base del computer, dalla quale, pure, non può essere separato. Un utile accostamento, per capirne la natura, è quello che lo paragona al film che vediamo al cinema o alla televisione. Ci sono analogie importanti e fondamentali differenze:
· il film è discreto e finito (nel senso che è composto da singoli fotogrammi e ha una durata limitata) così come un software è un insieme discreto e finito di istruzioni che il computer esegue;
· un film racconta una storia o un’informazione codificando immagini e suoni su un supporto analogico o digitale, così come il software è la codifica di un procedimento o di un sapere trasformati in algoritmo [3], e memorizzati su un supporto digitale (il file);
· un software al pari di un film può essere una merce, ma una merce con caratteristiche del tutto peculiari: innanzitutto, una volta prodotto un singolo esemplare, questa merce è riproducibile illimitatamente a costi pressoché nulli; in secondo luogo è indistruttibile, cioè nel suo utilizzo/consumo non si usura, e anzi può essere utilizzata/consumata un numero illimitato di volte anche da più soggetti contemporaneamente. Per queste merci si parla di proprietà intellettuale, di copyright e le leggi che disciplinano la materia nelle varie nazioni possono differire anche molto; l’acquisto di una tale merce, non si traduce nel diritto di disporne a proprio piacimento, non è modificabile [4] e non si può usarla se non con le modalità prestabilite (la licenza che accompagna la vendita).
La stessa analogia dei termini film e file non è casuale. Il film, è anche il supporto (il nastro di celluloide in origine) su cui è memorizzato il lavoro di descrizione della vicenda o dell’informazione svolto dalla troupe cinematografica, così come il file non è altro che il supporto digitale su cui è memorizzato il lavoro del programmatore o del team di programmazione. C’è però una differenza fondamentale fra un film (inteso in senso figurato) e un software: un film è la rappresentazione, il racconto o l’interpretazione di una particolare realtà (umana, naturalistica, scientifica o di qualsiasi altro tipo) e come tale si presenta come comunicazione/informazione mediata dalla particolare visione soggettiva di chi lo realizza. Un software è quel particolare sapere o procedimento! Due software che, date le stesse premesse, producono lo stesso risultato sono equivalenti, indipendentemente da chi ha li ha prodotti e anche dalle differenze fra gli algoritmi che codificano [5]. In ogni caso, però, non si tratta di un’interpretazione soggettiva di quel sapere, dato che le premesse e il risultato ottenuto sono identici, quanto di un’articolazione di quel sapere in forme diverse le quali possono anche comportare effetti diversi su altre componenti del procedimento. Per esemplificare questo concetto, supponiamo di avere due software che descrivono come ottenere lo stesso pezzo meccanico con la stessa macchina a controllo numerico: i due software sono diversi, il primo permette di ottenere il risultato in un tempo minore del secondo, ma quest’ultimo comporta una minore usura della macchina o dei suoi utensili. Quale sia il più efficiente dipende dal contesto in cui la macchina a controllo numerico si trova a operare e per quanto riguarda l’articolazione del saper fare quel pezzo meccanico, potremmo paragonarla all’analogo saper fare dell’operaio (quello sostituito dalla macchina a controllo numerico) che era in grado di ottenere il risultato variando le fasi del procedimento in modo da risparmiare tempo o usura della macchina. In questo caso potremmo dire che il saper fare dell’operaio è soggettivo, complesso e dinamico, mentre i software lo cristallizzano in una procedura statica (in modo più o meno efficiente). Un altro elemento importante da sottolineare è che per produrre un software è necessario che il programmatore – o meglio il team di programmazione – «possegga» il particolare sapere che deve descrivere. Proprio per questi motivi, il valore d’uso di un software varia in rapporto all’utilità sociale (o personale) che quella determinata articolazione del sapere ha in un dato momento. Un software può divenire obsoleto perché gli subentra una versione più utile [6] e non perché la sua utilità è venuta meno [7]. L’evoluzione del sapere che il software rappresenta, avviene nell’interazione con i bisogni dell’utilizzatore oppure all’interno di una proposta di un diverso (più utile) utilizzo da parte di chi lo produce. Prendiamo ad esempio un programma di contabilità, uno di quelli che ha sostituito il «ragioniere a partita doppia». Qui il risultato atteso, ad esempio il bilancio di esercizio, è un sapere del ragioniere il quale, supponiamolo, non si intende di sviluppo del software, come d’altra parte chi sa sviluppare del software normalmente non sa niente di contabilità. È necessario, allora, per creare il programma, costituire un team del quale fanno parte almeno due figure: il detentore del sapere contabile e il detentore del sapere informatico. Dal loro interagire il sapere del contabile ne uscirà strutturato in un procedimento composto da vari passaggi i quali saranno a loro volta analizzati e scomposti in operazioni più semplici fino a poterli codificare. Successivamente, su segnalazione di chi lo utilizza o su proposta del team, potranno essere apportate delle modifiche che ne consentiranno un migliore utilizzo o che offrono nuove funzionalità. Dato che quanto appena detto vale – in linea di massima – per qualsiasi software e dato l’impatto sociale che ha questa codificazione dei saperi, vale la pena di analizzare nel dettaglio ciò che accade:
1. prima che il software venisse prodotto, avevamo due attori: il ragioniere che deteneva il suo sapere e il capitalista che ne aveva bisogno. Dal momento che quel sapere non poteva essere venduto ma solo affittato [8] sorge il rapporto di lavoro salariato per il quale il capitalista paga al ragioniere un tot prestabilito in cambio del fatto che quest’ultimo applichi il suo sapere alla contabilità dell’azienda (in ciò, bisogna sottolinearlo, c’è anche un quantum di collaborazione da parte del ragioniere).
2. Nel mentre che il software viene prodotto si aggiunge un altro attore, diciamo una software house, che si rivolge allo stesso ragioniere chiedendogli di collaborare con i suoi tecnici per definire una procedura/algoritmo che riproduca il suo sapere [9]. In realtà c’è anche un quarto attore – il programmatore – che ha un rapporto con la software house analogo a quello del ragioniere col suo capitalista. I due saperi (quello del programmatore e quello del ragioniere, visti sempre come «saperi in quel momento») entrano in rapporto unitamente alle capacità relazionali, linguistiche, emotive dei due individui. Il prodotto del loro lavoro è appunto il software gestionale di cui sarà proprietaria la software house. Attenzione, quest’ultima, come il capitalista di prima, non sarà proprietaria del sapere né del programmatore né del ragioniere, ma solo di una procedura/algoritmo codificati in modo che la macchina-computer possa eseguirlo.
3. Alla fine abbiamo quattro attori e una nuova merce. Partiamo da quest’ultima e dalla software house che l’ha prodotta: si tratta di una merce del tutto particolare, come abbiamo notato sopra. Il suo valore di scambio deriva dalla proprietà intellettuale, dal copywrite riconosciuto per legge con il diritto di proprietà di cui è, appunto, un’articolazione. La software house non venderà la procedura/algoritmo in sé [10], ma solo il diritto di utilizzarla (per sempre o per un periodo determinato) e dal momento che si tratta di una merce «immateriale» potrà riprodurla infinite volte a costo zero. Le possibilità di guadagno/profitto sono limitate solo dalla quantità di aziende che utilizzeranno il software stesso per la loro contabilità [11].
Il capitalista che acquista questo diritto di utilizzo (la licenza) potrà sfruttare a sua volta la l’«immaterialità» del software, dato che esso non si usura nel consumo. Al posto del ragioniere assumerà un impiegato/a con competenze più a buon mercato (uso del computer, infarinatura di contabilità) magari facendogli fare un breve corso per l’utilizzo del software, ottenendo vari benefici: innanzi tutto in breve tempo ammortizzerà il costo del software per poi realizzare un risparmio netto, in secondo luogo potrà monitorare la sua situazione contabile in modo più assiduo grazie alla velocità di esecuzione del computer e magari fruire anche di servizi che il ragioniere non aveva il tempo di offrigli. Forse, a volte, chiamerà ancora il ragioniere per controllare che il lavoro dell’impiegato/a sia corretto e per chiedergli ciò che, eventualmente, il software non sa dargli. Abbiamo, dunque, una «macchina» (hardware+software) che risparmia forza lavoro e la svaluta, nella migliore tradizione capitalistica.
Infine abbiamo il ragioniere e il programmatore. Il primo ha perso il posto di lavoro e, con la diffusione dei gestionali, deve «riqualificare» i suoi saperi in rapporto al contesto sociale in cui essi possono essere utilizzati. Magari diventa un commercialista che utilizza a sua volta il gestionale avendo come clienti un tot di piccolissime aziende o di privati. Egli ha un vantaggio sul software: Il suo sapere si articola e si aggiorna mentre la procedura/algoritmo rimane quella che era quando è stata prodotta con il suo aiuto.
Anche il programmatore avrà articolato e approfondito il suo sapere, sia perché adesso sa qualcosa di contabilità e di conseguenza è in grado di sviluppare altri gestionali con più facilità, sia perché l’aver prodotto quel primo gestionale gli ha fatto affinare le sue capacità informatiche, sia, ancora, perché probabilmente si sarà aggiornato sulle ultime novità in fatto di linguaggi di programmazione. Il programmatore, però, non ha perso il posto di lavoro, al contrario, dato che l’algoritmo che ha sviluppato dovrà essere continuamente aggiornato in rapporto alle modifiche legislative o ai miglioramenti sollecitati dagli utenti, la sua conoscenza della procedura sarà preziosa. Ovviamente non è insostituibile, ma certo non rischia di perdere il posto di lavoro, almeno finché la software house dovrà produrre aggiornamenti per il suo gestionale.
In questo processo di codificazione dei saperi, abbiamo visto delinearsi nuove figure produttive, nuove merci, nuovi saperi e anche il venir meno dell’utilità sociale o della domanda di altri, accanto a un aumento della produttività in senso capitalistico (cioè aumento della profittabilità) e a un aumento della «capacità lavorativa» in senso individuale/sociale.
Immagine: L’editore resta a disposizione degli eventuali aventi diritti
Note [1] «Ogni» ragionamento è un termine eccessivo, magari è più appropriato riferirsi ai ragionamenti «deterministici» cioè a quelli che, data una premessa, portano a un determinato risultato e solo a quello. [2] È necessario aggiungere che il computer è spesso associato al digitale ma ciò è vero solo nel caso particolare di una Macchina di Touring a due stati. Nella sua formulazione, infatti, la MdT assume degli stati in rapporto a ciò che la sua testina di lettura/scrittura incontra quando legge/scrive un input/output. Nella MdT a due stati la testina può andare solo avanti, indietro o fermarsi (stato indeterminato) e ciò può essere anche tradotto in una logica binaria (omologato al digit, al bit). Nulla vieta, però, di immaginare una MdT a più di 2 stati, rispetto alla quale la logica binaria sarebbe inadeguata. L’ipotesi di costruire computer analogici non è nuova anche se fu presto abbandonata a favore dell’architettura di von Neumann. [3]Intuitivamente, un algoritmo si può definire come un procedimento che consente di ottenere un risultato atteso eseguendo, in un determinato ordine, un insieme di passi semplici corrispondenti ad azioni scelte solitamente da un insieme finito. In informatica, con il termine algoritmo si intende l’applicazione di un metodo per la risoluzione di un problema adatto a essere implementato sotto forma di programma. Nel senso più ampio della parola, «algoritmo» è anche una ricetta di cucina, o la sezione del libretto delle istruzioni di una lavatrice che spiega come programmare un lavaggio. Così, «rompete le uova» può essere un passo legittimo di un «algoritmo di cucina», e potrebbe esserlo anche «aggiungete sale quanto basta» se possiamo assumere che l’esecutore sia in grado di risolvere da solo l’ambiguità di questa frase. Infine, una ricetta che preveda la cottura a microonde non può essere preparata da chi è sprovvisto dell’apposito elettrodomestico. Gli algoritmi erano presenti anche nelle antiche tradizioni matematiche, ad esempio la matematica babilonese, quella cinese o del Kerala trasmettevano le conoscenze in forma algoritmica. [4] Acquistando un software commerciale, normalmente, non si dispone del codice sorgente (cioè del programma scritto da chi lo ha sviluppato) ma solo della sua traduzione in linguaggio macchina. Diverso il discorso per il software open source dove il codice sorgente è a disposizione di chiunque voglia modificarlo. [5] Se ci sono delle differenze, significa semplicemente che un determinato sapere può essere descritto da algoritmi diversi. Ovviamente c’è anche una qualità del software prodotto e una delle sue specificazioni è proprio l’efficienza dell’algoritmo stesso rispetto ad altri possibili. [6] Si pensi ad esempio alle varie versioni di MS-Windows. [7] D’altra parte, può anche accadere che un particolare sapere perda la sua utilità sociale perché soppiantato da altri. Ad esempio, per restare in tema, oggi sarebbe privo di utilità un software che descrive la costruzione delle valvole termoioniche. [8] Il sapere, la conoscenza, sono un prodotto sociale di cui ciascuno si appropria attraverso lo studio o l’addestramento e che entra a far parte dell’individuo. Diventano un attributo del cervello, dei nervi e della carne dell’individuo stesso e ne sono inseparabili. La capacità lavorativa – quella che il capitalista mette a frutto – è la summa di tutti i saperi, sociali e non, che l’individuo ha accumulato. Essa non è alienabile, se non all’interno di rapporti sociali di tipo schiavistico, può essere solo affittata in cambio, ad esempio, di un salario. [9] Dato che nel nostro caso il sapere del ragionare ha natura sociale – si definisce in rapporto a delle norme non solo tecniche ma anche di tipo burocratico – va aggiunto che è un sapere dinamico che si ridefinisce nel momento in cui cambiano le norme tecniche o burocratiche. La conseguenza è che ciò che può rappresentare la procedura/algoritmo è solo il sapere del ragioniere in quel dato momento. [10] Al capitalista che deve fare la sua contabilità non importa un bel niente del sapere – codificato, proceduralizzato o meno che sia – gli importa solo fare la sua contabilità al minor costo possibile. A quella procedura/algoritmo potranno essere interessate altre software house che vogliano produrre dei gestionali, mentre altri programmatori e ragionieri potrebbero essere interessati proprio al sapere che questa merce racchiude. [11] Paradossalmente, si verifica che il prezzo unitaro, il valore di scambio, del software prodotto sarà tanto inferiore quante più copie dello stesso saranno effettuate, cioè quanto più «utile» è quel deteminato software. A tal riguardo può essere significativo notare che per produrre il primo esemplare dell’ultimo sistema operativo della Microsoft (Windows 7) può essere stato necessario il lavoro di centinaia di programmatori, grafici e quant’altro per – supponiamo – un anno. Tuttavia il prezzo di vendita non supera i 100-200 euro, a seconda di come viene acquistato. In realtà tale prezzo, valore di scambio, va moltiplicato per il numero di copie del software che saranno vendute, e ne saranno vendute tante di più quanto più utile/gradevole/veloce ecc. risulterà questo nuovo sistema operativo rispetto al precedente. A tutto ciò, ma non è significativo in questo ambito, bisogna aggiungere la necessità per la Microsoft di mantenere la posizione di dominio sulla diffusione dei sistemi operativi.
La seconda delle tre parti di un saggio inedito di Corrado Alunni risalente al 2014 sul tema dell’informatica e dei suoi effetti negli ambiti produttivi, economici, sociali e politici. La prima parte è stata pubblicata il 16 maggio scorso, la terza e ultima parte sarà pubblicata il 30 maggio
Nel confronto fra il software e la capacità lavorativa sorge naturale una domanda: se il software è la cristallizzazione di un determinato sapere sociale in un determinato momento, mentre il sapere implicito nella capacità lavorativa ha carattere dinamico e autovalorizzantesi è legittimo assimilare il primo al «lavoro morto», al «capitale fisso» riservando solo alla seconda l’attributo di «lavoro vivo» quello in grado di produrre plusvalore? Per rispondere a questo quesito va ripresa e attualizzata la categoria marxiana di capitale fisso, forse l’elemento perno di tutto il suo ragionamento. Per Marx il capitale fisso è innanzi tutto il mezzo di produzione nella sua determinazione storica [1]. Prima ancora, però, il capitale è il processo di valorizzazione ed è solo rispetto alle varie fasi di questo che esso assume specificazioni diverse. Come mezzo di produzione (capitale fisso) esso esiste solo all’interno del processo produttivo unitamente alla forza lavoro (capitale variabile) ed alle materie prime (capitale circolante) [2]. Come merce e come denaro esiste solo al di fuori del processo produttivo, nella sfera della circolazione. Nel processo di valorizzazione non ci sono residui, cioè parti di capitale che non si trasmutano, che sono fisse in uno stato. In un certo arco di tempo (il periodo di rotazione del capitale complessivo) tutto il suo valore di scambio, più quello estorto alla forza lavoro sotto la forma di plusvalore, entra nel valore della massa delle merci prodotte, e solo la vendita di queste ultime garantisce l’esito del processo di valorizzazione stesso. Se ci fossero dei residui, delle parti di capitale che non circolassero, esse non sarebbero capitale, ancorchè partecipassero al processo produttivo o ne fossero componenti essenziali, sarebbe una contraddizione in termini, sarebbe come dire che del capitale complessivo se ne valorizza solo una parte.
E’ logico, quindi, che riferendosi al capitale fisso, Marx insista sulla determinazione del suo periodo di rotazione, sul periodo, cioè, durante il quale tutto il suo valore di scambio (il valore della quantità di lavoro socialmente necessario a produrlo) si è trasferito nelle merci che il suo utilizzo (consumo del suo valore d’uso) insieme a quello della forza-lavoro (anche qui consumo del suo valore d’uso) ha permesso di produrre. Per quest’ultima il periodo di rotazione coincide con la «piccola circolazione» (il salario che riproduce l’operaio, la sua capacità lavorativa, come forza lavoro per il capitale). Per il capitale fisso il periodo di rotazione varia in rapporto a quanto si usura nel corso del suo utilizzo nell’unità di tempo. Se vogliamo considerare il software capitale fisso, ci troviamo di fronte a una impasse: se entra a far parte del capitale fisso come licenza d’uso pro tempore potremmo considerare quest’ultima come capitale fisso e dire che il suo periodo di rotazione coincide con la sua durata (al termine della sua validità devo riacquistarla per poter utilizzare quel software) è come se avessi acquistato un servizio, ma se la licenza d’uso non ha un termine di validità (com’è nella maggior parte dei casi) allora dovrei dire che il suo periodo di rotazione è virtualmente infinito e che, quindi, il suo valore di scambio non entrerà mai nelle merci che il suo utilizzo permetterà di produrre. Potremmo forzare questa determinazione solo ragionando ex post, cioè determinare il suo periodo di rotazione considerando il momento in cui esce dal processo produttivo perché il suo valore d’uso (pur non essendo venuta meno la possibilità di utilizzarlo) non è più necessario (ad es. è diventato un software obsoleto), ma in questo caso a mutare è il processo produttivo stesso che si avvarrà di altri software o avrà una diversa strutturazione [3]. Da notare che qui non stiamo parlando del software come sapere sociale cristallizzato nella forma adatta al processo di valorizzazione, ma del diritto di utilizzarlo (la licenza d’uso), siamo cioè completamente all’interno dei rapporti sociali capitalistici. Eppure qualche dubbio rimane! Innanzi tutto che capitale è quello che una volta entrato nel processo lavorativo (di valorizzazione dal suo punto di vista) non ne esce più (il software non si usura) se non come software obsoleto (capitale obsoleto [?!?])? E’ lo stesso Marx a porre la questione [4], ossia se parliamo di capitale fisso ci riferiamo ad una determinazione del capitale che pur non lasciando mai il processo di produzione in quanto valore d’uso, il suo valore (di scambio) circola pro quota attraverso il prodotto e ritorna al suo punto d’orgine sotto forma di capitale (inteso come processo potenziale) [5].
Un paio di esempi concreti possono indirizzarci sulla giusta strada. Ci riferiremo a dei casi reali in cui un’impresa produce dei software avvalendosi del proprio reparto IT o dell’apporto di consulenze esterne [6], qui il sapere da tradurre in procedura non è esterno al processo di produzione, ma nasce al suo interno come possibilità di codificarne delle parti o come necessità di produrre nuove merci che altrimenti non sarebbe possibile produrre. Nel primo caso si tratta del fatto che un determinato segmento del processo di valorizzazione può essere “ottimizzato” attraverso l’introduzione di procedure automatiche che possono o meno ridurre il n° di dipendenti, ma che in ogni caso migliorano la qualità o la quantità delle merci prodotte oppure ne migliorano il processo di circolazione (marketing ecc.) [7]. Il costo di produzione di questo software sarà contabilizzato (ammortizzato) all’interno del bilancio relativo all’anno in cui è stato prodotto (sia che a svilupparlo sia stato il reparto IT – costi per il personale – sia che sia stata una risorsa esterna – servizi di consulenza). Sembra che il suo periodo di rotazione coincida con la “piccola circolazione” dato che il suo costo si è trasformato nel salario dei dipendenti del reparto IT o nel compenso del consulente. Ora la disponibilità di questo software non dipende più da una licenza d’uso, esso è proprietà dell’azienda che ne può disporre in tutti i modi (può anche modificarlo) e per sempre. Esso produrrà i suoi effetti fintanto che sarà eseguito su un computer e a un costo che coincide con quello di esercizio e di ammortamento del computer. Il periodo di rotazione non si riferisce più al software ma al computer (!) il quale, certamente, si usura, consuma elettricità, deve essere manutenuto e alla fine sostituito come qualsiasi altra macchina. Il software si comporta come un sapere impersonale (capacità lavorativa astratta) che nell’interazione con la macchina-computer produce determinati effetti. Produce valore? Certamente no. Non più di quanto lo fa l’introduzione di una macchina più efficiente all’interno del processo di produzione. Esso permette solo di produrre la stessa quantità di merci (beni o servizi che siano) a un costo inferiore. Dal punto di vista del processo di valorizzazione il vantaggio continuerà a sussistere solo fintanto che il tempo di lavoro socialmente necessario a produrre quelle merci sarà superiore a quello impiegato con l’utilizzo di questo software. Il plusvalore, il profitto, continuerà ad essere in relazione al pluslavoro estorto alla forza lavoro e sarà tanto maggiore quanto più si sarà ridotto il tempo di lavoro necessario [8]. Si tratta dello sviluppo delle forze produttive nella forma di sapere procedurale[9]. Nel secondo caso, quello dello sviluppo di software destinato alla produzione di merci che non sarebbe possibile produrre senza il suo apporto.
Un esempio interessante al riguardo e quello dell’internet banking. Come è noto si tratta di un servizio che le banche (ormai tutte) offrono ai loro clienti per aprire o effettuare movimenti sul conto corrente, domiciliare bollette, pagare le tasse, ricaricare il cellulare o anche per effettuare del trading on line. Spesso il servizio è gratuito ed anche i costi di esercizio del conto corrente (le spese bancarie) si riducono al minimo. Ciò è dovuto al fatto che tutte le transazioni sono gestite per via informatica. Dal punto di vista della banca è come un grande sportello con migliaia di utenti (ma senza alcun dipendente se non quelli necessari a manutenere l’infrastruttura IT), che produce “beni finanziari” cioè depositi, prestiti, interessi, transazioni ecc.; dal punto di vista materiale si tratta di un sito web collegato alle base dati e ad una serie di software che gesticono i vari aspetti dell’attività (sicurezza compresa). Si tratta, perciò di un insieme complesso che ha richiesto la cooperazione di esperti informatici di ogni tipo ed anche di grafici, consulenti legali ecc… Il cui costo di realizzazione e di manutenzione non è indifferente così come i tempi necessari per svilupparlo. Probabilmente la banca avrà ampliato il suo reparto IT dedicando una serie di risorse alla sola realizzazione/gestione del sito web ed avrà anche utilizzato risorse esterne (ditte di Software Integration, Graphic designer ecc..), inoltre avrà acquistato una infrastruttura hardware all’altezza della situazione. Abbiamo, perciò, non una sostituzione di forza lavoro [10] ma l’impiego di altra nella produzione di un servizio ex novo che va ad arricchire/inserirsi nel “ciclo produttivo” della banca. I suoi costi di produzione sono costituiti, ancora, da capitale variabile (quello speso per i salari di coloro che si occupano dello sviluppo e della manutenzione) e da capitale fisso (il costo dell’hardware e di quant’altro necessario per farlo funzionare), tuttavia vanno divisi fra una fase iniziale che termina con la messa on line del sito web e una fase successiva in cui il funzionamento dovrà essere monitorato e manutenuto. Il periodo di rotazione del capitale investito sarà come in precedenza quello di ammortamento delle macchine e quello della “piccola circolazione”. Dal punto di vista del processo di valorizzazione del capitale investito, il profitto dipenderà da quanto il servizio offerto (che non viene venduto) sarà utilizzato [11]. Tanti più utenti ci saranno, tanto maggiori saranno i “beni finanziari” per la banca, sono questi il “ricavo”. In secondo luogo bisogna considerare i costi di produzione: nella fase iniziale oltre a quelli per il capitale fisso (considerati in relazione al suo periodo di rotazione) essi dipendono da quanto pluslavoro viene estorto a coloro che sviluppano il sito e la sua infrastruttura. Nella fase successiva alla messa on line i ricavi continueranno ad affluire con le sole spese della manutenzione e del monitoraggio. Se consideriamo l’intero capitale investito ci sarà stato un profitto se l’insieme dei ricavi, nell’arco del periodo di rotazione – che coincide con quello del capitale fisso – sarà superiore alle spese sostenute. Per considerare questo aspetto, però, dobbiamo pensare al capitale investito come ad una quota del capitale complessivo della banca, dato che i ricavi sono “beni finanziari” che fanno parte del ciclo produttivo dell’intera banca e non – esclusivamente – di quello del sito web. Facciamo un esempio (D-M-D’): all’inizio ci sono 100.000 €, che si scompongono in 50.000 € di capitale fisso (macchine, software..), 20.000 € di capitale circolante(materie prime) e 30.000 € di capitale variabile(i salari). Per semplicità supporremo che le macchine e il software vengano ammortizzati in 1 anno, cioè che il periodo di rotaziane del capitale fisso sia di 1 anno. Al termine di questo periodo tiriamo le somme e scopriamo che dalla vendita delle merci prodotte abbiamo ricavato 110.000 €. Decidiamo di ritirarci dagli affari: di capitale circolante non ne abbiamo in magazzino perchè lo abbiamo utilizzato tutto, gli operai li licenziamo, le macchine le rottamiamo (avendo un periodo di rotazione di 1 anno si può presumere che si siano logorate fino a diventare inservibili) eppure ci ritroviamo fra le mani il ns. software (supponiamo il gestionale) ancora intatto. Volendo potremmo rivendere la licenza allo stesso prezzo a cui l’abbiamo acquistata (diciamo 1.000 €) facendo lievitare il totale dei ricavi a 111.000 €. Eppure quel software ha effettivamente sostituito il lavoro del ragioniere e senza di esso avrei dovuto pagargli uno stipendio facendo calare il totale dei ricavi! Si è comportato – dal punto di vista del processo di valorizzazione – come le macchine (le quali hanno sostituito parte del lavoro degli operai e fatto aumentare la massa delle merci prodotte e quindi il ricavato) eppure, cedendone la licenza, non è costato nulla, ha mantenuto inalterati il suo valore di scambio e il suo valore d’uso! Da questo punto di vista, più che capitale fisso, sembra essere una di quelle cose di cui il capitale si appropria gratis come l’organizzazione del lavoro o il sapere sociale o l’intrinseca socialità degli esseri umani, trasformandole in fattori produttivi adatti al processo di valorizzazione . Trasformare un sapere in un fattore produttivo adeguato non è privo di costi (da qui il suo valore di scambio, da mettere in relazione al tempo di lavoro socialmente necessario per farlo). Questa appropriazione viene spesso assimilata a un furto o a una peculiarità parassitaria del capitale, tuttavia il sapere o le qualità del contesto sociale sono disponibili a tutti per definizione. La “segretezza” del saper fare era una caratteristica delle corporazioni medievali, ma nemmeno in quel contesto il sapere (inteso come scienza) era appannaggio di un ceto particolare [12]. D’altra parte la “missione storica” del capitale non è proprio quella di “sviluppare le forze produttive”? Se non lo facesse cesserebbe di essere se stesso. Non c’è nulla di nuovo, da questo punto di vista, rispetto ad altri periodi. Ora, se prendiamo l’intero capitale sociale, anche a livello planetario, è innegabile che la sua esistenza, sia come rapporto sociale che come processo di valorizzazione, è completamente dipendente dall’insieme macchina-computer/software. Si potrebbe dire che è la sua forma storicamente determinata e come non fare riferimento, perciò, al paragrafo conclusivo del celebre Frammento sulle macchine:
Grundisse, Il Capitale, Karl MarxLa natura non costruisce macchine, non costruisce locomotive, ferrovie, telegrafi elettrici, filatoi automatici, ecc. Essi sono prodotti dell’industria umana: materiale naturale, trasformato in organi della volontà umana sulla natura o della sua esplicazione nella natura. Sono organi del cervello umano creati dalla mano umana; capacità scientifica oggettivata. Lo sviluppo del capitale fisso mostra fino a quale grado il sapere sociale generale, knowledge, è diventato forza produttiva immediata, e quindi le condizioni del processo vitale stesso della società sono passate sotto il controllo del general intellect, e rimodellate in conformità a esso; fino a quale grado le forze produttive sociali sono prodotte, non solo nella forma del sapere, ma come organi immediati della prassi sociale, del processo di vita reale.
C’è da chiedersi, piuttosto, se e quanto sia diventata miserabile la base di produzione basata sull’accumulazione capitalistica rispetto all’accumulazione sociale del sapere, al general intellect. Oppure, il che è la stessa cosa, quanto sia miserabile l’utilizzo del sapere sociale ai fini dell’accumulazione capitalistica in rapporto al suo potenziale.
(continua)
Note [1] «Lo sviluppo del mezzo di lavoro in macchine non è accidentale per il capitale, ma è la trasformazione e conversione storica del mezzo di lavoro ereditato dalla tradizione in forma adeguata al capitale. L’accumulazione della scienza e dell’abilità, delle forze produttive generali del cervello sociale, rimane così, rispetto al lavoro, assorbita nel capitale, e si presenta per ciò come proprietà del capitale, e più precisamente del capitale fisso, nella misura in cui esso entra nel processo produttivo come mezzo di produzione vero e proprio» (cfr Grundisse, 3c – 3.4.8). [2] In origine, quando prendevamo in considerazione la trasformazione del valore in capitale, il processo lavorativo fu semplicemente assunto entro il capitale, e dal punto di vista delle sue condizioni materiali, della sua esistenza materiale, il capitale si presentò come la totalità delle condizioni di questo processo, separandosi, conformemente ad esso, in certe porzioni qualitativamente differenti, ossia in materiale di lavoro (è questa, e non «materia prima» l’espressione logicamente giusta), mezzo di lavoro e lavoro vivo. Da una parte il capitale si era disgiunto, dal punto di vista della sua costituzione materiale, in questi tre elementi; d’altra parte la loro unità dinamica costituiva il processo lavorativo (o il confluire di questi elementi in un processo), e quella statica il prodotto. In questa forma gli elementi materiali — materiale di lavoro, mezzo di lavoro, lavoro vivo — si presentano soltanto come i momenti essenziali del processo lavorativo stesso, di cui il capitale si appropria. Ma questo lato materiale — o la sua determinazione di valore d’uso e processo reale — si è scisso totalmente dalla sua determinazione formale. In quest’ultima 1) i tre elementi nei quali esso compare prima dello scambio con la forza-lavoro, ossia prima del processo reale, si presentano soltanto come sue porzioni quantitativamente differenti, come quantità di valore, di cui esso stesso costituisce l’unità, come somma. La forma materiale, il valore d’uso nel quale queste diverse porzioni esistono, non alterava affatto l’omogeneità di questa determinazione. Dal punto di vista della determinazione formale l’omogeneità si presentava come semplice separazione quantitativa del capitale in porzioni; 2) nell’ambito del processo stesso, l’elemento lavoro e gli altri due si sono distinti, dal punto di vista formale, solo nel senso che gli uni si determinavano come valori costanti, e l’altro come creatore di valore. Ma nel momento in cui si è inserita la loro diversità in quanto valori d’uso, ossia il lato materiale, essa è caduta interamente fuori della determinazione formale del capitale. Ma ora, nella differenza di capitale circolante (materia prima e prodotto) e capitale fisso (mezzo di lavoro), la differenza degli elementi in quanto valori d’uso è posta nello stesso tempo come differenza del capitale in quanto capitale, nella sua determinazione formale. Il rapporto reciproco dei fattori, che era soltanto quantitativo, si presenta ora come differenza qualitativa del capitale stesso, la quale poi determina il suo movimento complessivo (rotazione). Il materiale di lavoro e il prodotto di lavoro, il precipitato neutro del processo lavorativo, in quanto materia prima e prodotto, sono anche già materialmente determinati non più come materiale e prodotto del lavoro, bensì come il valore d’uso del capitale stesso in fasi diverse. (cfr Grundisse, 3c – 3.4.8). [3] L’appropriazione del lavoro vivo a opera del capitale acquista nelle macchine […] una realtà immediata. È, da un lato, analisi e applicazione, che scaturiscono direttamente dalla scienza, da leggi meccaniche e chimiche, e che abilitano la macchina a compiere lo stesso lavoro che prima era eseguito dall’operaio. Lo sviluppo delle macchine per questa via ha luogo, però, solo quando la grande industria ha già raggiunto un livello più alto e tutte le scienze sono catturate al servizio del capitale; e d’altra parte le stesse macchine esistenti forniscono già grandi risorse. Allora l’invenzione diventa una attività economica e l’applicazione della scienza alla produzione immediata un criterio determinante e sollecitante per la produzione stessa. Ma non è questa la via per cui le macchine sono sorte come sistema, e meno ancora quella su cui esse si sviluppano in dettaglio. Questa via è l’analisi — attraverso la divisione del lavoro, che già trasforma sempre di più le operazioni degli operai in operazioni meccaniche, cosicché, a un certo punto, il meccanismo può subentrare al loro posto. (Ad economy of power). Qui il modo di lavoro determinato si presenta dunque direttamente trasferito dall’operaio al capitale nella forma della macchina, e la sua propria forza- lavoro, svalutata da questa trasposizione. Donde la lotta degli operai contro le macchine. Ciò che era attività dell’operaio vivo diventa attività della macchina. Così l’appropriazione del lavoro da parte del capitale, il capitale che assorbe in sé il lavoro vivo — «come se in corpo ci avesse l’amore» — si contrappone tangibilmente all’operaio. [cfr Grundisse_3c - 3.4.9] [4] «Il capitale circolante «parte» costantemente dal capitalista per ritornare a lui nella prima forma. Il capitale fisso non lo fa» (Storch) «Il capitale circolante è quella parte del capitale che non dà profitto finché non è separato da esso; quello fisso ecc. dà questo profitto, fin quando rimane in possesso del proprietario» (Malthus) «lI capitale circolante non dà al suo padrone un reddito e un profitto finché rimane in suo possesso; il capitale fisso, senza mutar padrone, e senza aver bisogno di circolazione, gli dà un profitto» (A. Smith) . In questo senso, poiché il partire del capitale dal suo possessore non significa altro che l’alienazione della proprietà o del possesso che ha luogo all’atto dello scambio, e poiché diventar valore per il suo possessore mediante l’alienazione è la natura di ogni valore di scambio e quindi di ogni capitale, la definizione nei termini in cui è pensata sopra non può essere esatta. Se il capitale fisso fosse, per il suo possessore, privo della mediazione dello scambio e del valore di uso in esso racchiuso, esso sarebbe, in fact, capitale fisso di mero valore d’uso, e quindi non capitale (cfr Grundisse, 3c – 3.4.7). [5] Il capitale fisso al contrario si realizza come valore solo fintantoché rimane come valore d’uso in mano del capitalista, o, per dirla in termini di rapporto materiale, fintantoché rimane nel processo di produzione — il che può essere considerato come l’interno movimento organico del capitale, la sua relazione con sé, rispetto al suo movimento animale, [rispetto] al suo esistere-per.altro. E se dunque il capitale fisso, non appena entrato nel processo di produzione, rimane in esso, vi si estingue anche, vi viene consumato.(ibidem). E poco oltre: Ma il capitale fisso può entrare in circolazione come valore solo in quanto, come valore d’uso, si estingue nel processo di produzione. Esso entra come valore nel prodotto — vale a dire come tempo di lavoro elaborato o depositato in esso — nella misura in cui si estingue nella sua configurazione autonoma di valore d’uso. Attraverso il suo uso, esso viene logorato, ma in modo tale che il suo valore viene trasferito dalla sua forma a quella del prodotto (ibidem). [6] Ormai tutte le aziende, a partire da quelle di medie dimensioni, possiede un reparto Information Tecnology (IT) con la funzione di manutenere l’infrastruttura informatica (hardware, connessioni di rete, sistemi operativi e software commerciale in genere) e di sviluppare il software necessario all’azienda avvalendosi, se del caso, della consulenza di ditte o consulenti esterni. Da qui, per altro, il dilagare dei contratti a progetto e delle partite Iva. [7] Il che, anche se la forza lavoro impiegata rimane la stessa, si traduce nel fatto che si produce più valore (stiamo parlando del processo di valorizzazione) con la stessa forza lavoro. [8] Nel lavoro legato alla produzione di software (quello del reparto IT e più ancora quello del consulente) la ripartizione fra tempo di lavoro necessario e pluslavoro è un problema di difficile soluzione, ma ci torneremo su in seguito. [9] D’altra parte se torniamo all’algoritmo come cuore del software, esso è sempre stato usato come rappresentazione di un sapere, per tramandarlo, renderlo disponibile, usarlo. Ma non come il sapere in sé. [10] Gli sportelli fisici della banca continuano ad esistere. [11] Naturalmente ciò dipende anche da questioni estranee al sito web, come ad es. le condizioni che la banca offre per le varie transazioni o la sua visibilità sul mercato finanziario o altro ancora. Fatte salve queste variabili, esso sarà utilizzato tanto di più quanto più facile/intuitivo è il suo utilizzo, quanto più gradevole è la sua interfaccia utente (le pagine web), con quanta più prontezza risponde agli input dell’utente ecc.. [12] Anche oggi per fare il notaio o l’avvocato o il medico è necessario essere iscritti all’albo, aver fatto praticantato ecc., tuttavia qui siamo di fronte – come nel medioevo – all’esercizio di una professione, mentre la conoscenza del diritto vigente o della medicina è disponibile a chiunque.
Corrado Alunni
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