Il Komintern e il fascismo – Seconda parte
mag 23rd, 2022 | Di Thomas Munzner | Categoria: StoriaNegli anni dell’avanzata fascista in Europa, il Komintern analizza tale fenomeno individuandone il carattere internazionale, la natura di classe in quanto manifestazione del potere capitalistico in crisi. Fino all’avvento del nazismo al potere, l’azione antifascista dei partiti comunisti e la stessa applicazione della tattica del fronte unico proletario è fortemente condizionata e limitata da un drammatico spostamento a destra delle correnti maggioritarie della socialdemocrazia, le quali aprono di fatto la strada al fascismo in Germania. Tuttavia, alla metà degli anni ’30, il Komintern saprà riprendere l’ispirazione unitaria della politica di fronte unico ampliandola e trasformandola, sul terreno dell’iniziativa e della lotta di massa, nella strategia dei fronti popolari antifascisti.
Nel corso della seconda metà degli anni ’20 nel movimento comunista internazionale matura una svolta politica cosiddetta di “sinistra” destinata a segnarne l’azione politica e i rapporti con i partiti socialdemocratici e i settori del movimento operaio organizzato da essi influenzati, per un lungo periodo, fino alla vittoria del nazismo in Germania. L’individuazione del nemico principale nella socialdemocrazia, certamente uno dei momenti principali della tattica comunista in questa fase, costituisce, almeno in parte, una conseguenza dell’oggettiva radicalizzazione non soltanto dello scontro di classe in generale in molti paesi capitalistici dell’Europa occidentale e centrale ma anche dell’acutizzarsi, financo in forme di aperta “militarizzazione”, dello scontro politico all’interno del movimento operaio. Non poteva non discenderne nel concreto sviluppo dell’azione politica dei partiti comunisti una difficoltà nell’applicazione della tattica del fronte unico, nonostante gli importanti risultati del processo della loro “bolscevizzazione” promosso dal Komintern a partire dalla metà degli anni ’20.
Ma la svolta a sinistra è certamente legata non soltanto al maturare di una drammatica divisione politica nella maggioranza del partito bolscevico fino a quel momento raccolta attorno a Stalin e a Bucharin, intorno ai sempre più decisisi e cruciali problemi dello sviluppo dell’industria socialista e ai modi della sua accelerazione, ma anche all’acutizzarsi della contrapposizione tra l’Urss e il campo imperialista che rende almeno nell’immediato più incerte e difficili le stesse prospettive della “rivoluzione mondiale”. In questo contesto il problema del fascismo non poteva non riacquistare una forte rilevanza sia nell’analisi della fase sia nella stessa definizione della strategia e della tattica dei partiti comunisti. Non a caso, perciò, il tema del fascismo, della sua natura di classe e politica, così come del suo carattere internazionale fu al centro della discussione sulla strategia e la tattica del movimento comunista mondiale che si svolse al VI Congresso del Komintern, apertosi nel luglio del 1928.
Nella generale impostazione dell’Internazionale Comunista, il fascismo emerge come una delle forme specifiche del più generale processo di trasformazione e di involuzione in senso sempre più regressivo e reazionario del potere capitalistico e degli apparati dello Stato borghese che segna la fine del periodo della cosiddetta “stabilizzazione relativa” e l’ingresso in una nuova e più acuta fase della “crisi generale” del capitalismo. Le Tesi del VI Congresso sulla “situazione internazionale e sui compiti dell’Internazionale comunista” si soffermano in modo particolare sugli importanti riflessi di tale nuovo periodo della crisi generale sul “terreno politico”, ovvero sull’ “organizzazione del potere di Stato della borghesia” come momento fondamentale del processo di unificazione in senso reazionario delle varie frazioni del capitale monopolistico ovvero del “raggruppamento delle forze di classe”. Le trasformazioni del “regime statale borghese” sono scandite da “una crisi generale del parlamentarismo borghese e della democrazia borghese”. In conseguenza delle trasformazioni dello Stato capitalistico, dell’intreccio sempre più stretto tra gli apparati di quest’ultimo e i grandi trust, i conflitti economici tra capitale e lavoro tendono ad acquistare un carattere sempre più immediatamente politico. Lo Stato, i suoi apparati di dominio e di egemonia diventano il terreno immediato della lotta di classe, a partire dal livello fondamentale della produzione. “Ogni grande sciopero economico” leggiamo nelle Tesi “mette alle prese gli operai con «trust» capitalistici giganti strettamente legati al potere di Stato degli imperialisti. Ciascuno di questi scioperi acquista per questi motivi un carattere politico, cioè un carattere generale di classe.” Di qui l’importanza sempre più centrale del ruolo della socialdemocrazia nel controllo sociale e nella stessa repressione del conflitto di classe, il suo carattere apparentemente sempre più reazionario e perfino alcune tendenze alla sua “fascistizzazione”. “Il legame dei quadri superiori dei sindacati riformisti e dei partiti «riformisti» con le organizzazioni padronali e lo Stato borghese – gli operai che diventano funzionari dello Stato e funzionari delle organizzazioni padronali, la teoria e la pratica della democrazia economica, della «pace industriale» … fornisce una serie di mezzi preventivi contro lo sviluppo della lotta di classe.”
Le tendenze fasciste e gli stessi processi di fascistizzazione che investono le strutture dello Stato e gli stessi governi di coalizione con la partecipazione di partiti socialdemocratici si sviluppano, secondo le Tesi del VI Congresso, in una fase di radicalizzazione delle masse, di acutizzazione del conflitto di classe e perfino di offensiva dei settori più avanzati e combattivi del proletariato e delle masse popolari. Tuttavia le capacità di difesa e di riorganizzazione del potere capitalistico, in determinati paesi o in determinate congiunture, appaiono tutt’altro che esaurite. Nonostante la crisi il potere capitalistico è ancora in grado di appoggiarsi sul consenso e sulla attiva mobilitazione di vasti strati popolari e perfino di settori della classe operaia. Perciò, la crisi generale del parlamentarismo e della democrazia borghese si manifesta anche con l’insorgere di forme aperte di regime fascista: “pur assicurandosi il concorso della socialdemocrazia, la borghesia, in certi momenti critici ed in condizioni determinate, organizza una forma fascista di regime”. Nella capacità di suscitare sulla base “del malcontento della piccola e media borghesia urbana e rurale e anche di certi strati del proletariato déclassé” un “movimento di massa reazionario, al fine di sbarrare la strada allo sviluppo della rivoluzione” viene individuato il “segno caratteristico del fascismo”.
Ma è sulle trasformazioni che tali processi sociali e politici determinano al livello dello Stato, ovvero sul piano delle trasformazioni morfologiche dei suoi apparati di dominio e delle sue forme di egemonia sempre più pervasive e totalitarie che le Tesi del VI Congresso si soffermano. L’esercizio del terrore in una fase di crisi che sembra destinata a sfociare in un’aperta guerra civile, si accompagna infatti a un uso raffinato e sistematico della corruzione di strati di piccola e media borghesia attraverso la loro integrazione negli apparati dello Stato o nelle organizzazioni militari fasciste. Ma anche strati significativi di aristocrazia operaia, in cui tradizionalmente le burocrazie riformiste dei sindacati egemonizzati dai partiti socialdemocratici trovano la loro base sociale e di reclutamento, vengono molto spesso integrate dentro le strutture sindacali e corporative dei regimi fascisti. Il fascismo completa così e porta a compimento in questo senso le forme di egemonia sociale e politica nel segno della collaborazione di classe e dell’intreccio tra Stato e dominio del grande capitale già costruite dalla socialdemocrazia o dai governi di coalizione con i partiti borghesi da essa egemonizzati. V’è dunque secondo le Tesi del Komintern un rapporto di contiguità o di continuità storica tra fascismo e socialdemocrazia. Tuttavia, l’analisi di tale rapporto ne fissa nello stesso tempo il carattere insieme dinamico e contraddittorio: “delle tendenze fasciste e degli embrioni di fascismo esistono ora quasi dappertutto sotto forma più o meno sviluppata; l’ideologia della collaborazione di classe – ideologia ufficiale della socialdemocrazia – ha molti punti comuni con quella del fascismo. I metodi fascisti applicati nella lotta contro il movimento rivoluzionario, esistono in forma embrionale nella pratica di numerosi partiti socialdemocratici e della burocrazia sindacale riformista”. Perciò, se il contenuto della tattica del fronte unico restava immutato, doveva tuttavia modificarsene la forma, agendo adesso prevalentemente “dal basso” ai fini della conquista delle masse non ancora organizzate dalla socialdemocrazia e non coinvolte nel processo di rivoluzionarizzazione che si riteneva in una fase di accelerazione.
Ma l’intreccio tra fascismo e socialdemocrazia che le tesi del Komintern individuano come un aspetto perfino centrale della crisi generale del capitalismo non toglie che il fascismo possa darsi e si dia già in forme “pure” e tipiche. Il caso dell’Italia assume in tal senso un significato esemplare come indicazione di una linea di tendenza tutt’altro che marginale o periferica nell’ambito di quel processo di “crisi generale del parlamentarismo e della democrazia borghese” che le stesse Tesi del VI Congresso, come s’è visto, non mancano di individuare come il riflesso più importante sul terreno politico della “crisi generale” del capitalismo: “Il fascismo italiano, in diversi modi (appoggio del capitale americano, estrema oppressione sociale ed economica delle masse, certe forme di capitalismo di Stato), è riuscito in questi ultimi anni ad attenuare le conseguenze della crisi politica ed economica interna ed ha creato un tipo classico di regime fascista”. Insomma la fine del periodo della stabilizzazione relativa se segna i limiti e alcune debolezze strutturali dei regimi fascisti non toglie che questi ultimi siano in grado di gestire temporaneamente la crisi e fino a un certo punto impedirne esiti catastrofici o rivoluzionari.
L’avanzata della reazione fascista in Germania, in Austria e in alcuni paesi dell’Europa orientale, scandita dalle conseguenze sociali e politiche della crisi del ’29, confermò la giustezza dell’analisi della fase fissata nelle sue linee fondamentali nei documenti del VI Congresso del Komintern. Le stesse responsabilità della socialdemocrazia, così duramente denunciate dal gruppo dirigente dell’Internazionale Comunista, appaiono evidenti, soprattutto nel caso tedesco. La politica del tutto legalitaria e capitolazionista e per di più segnata da posizioni radicalmente anticomuniste e antisovietiche, della Spd, rappresentò una delle cause principali, se non la più grave, del disarmo politico, ideologico e militare della classe operaia di fronte all’avanzata e poi alla vittoria del nazismo in Germania. La strage del 1° maggio 1929 a Berlino, l’uccisione da parte della polizia guidata dal socialdemocratico Zörgiebel e di milizie legate alla Spd, di 32 operai comunisti appare in tal senso particolarmente emblematica non solo non solo del grado di violenza e di settarismo raggiunto dalla socialdemocrazia tedesca nella dura contrapposizione alla componente comunista del movimento operaio, ma anche della sua posizione di sostanziale debolezza e subalternità alle forze borghesi e reazionarie fortemente radicate negli apparati e nelle strutture dello Stato tedesco.
Tuttavia, nonostante il carattere di guerra civile strisciante assunto dalla tragica contrapposizione tra comunismo e socialdemocrazia, soltanto al X Plenum del Komintern svoltosi nel luglio del 1929, la categoria di “socialfascismo” venne utilizzata in un documento ufficiale. È probabile che la sua utilizzazione per definire il sempre più evidente spostamento a destra della socialdemocrazia abbia finito per ostacolare, nell’analisi della fase e quindi nella definizione di una giusta tattica rivoluzionaria sul terreno della lotta contro il pericolo fascista, una chiara individuazione della tendenza che rapidamente si affermò all’instaurazione di una dittatura terroristica aperta dei settori più aggressivi del capitale finanziario. Se era vero che la socialdemocrazia aveva rappresentato per una lunga fase un ostacolo all’unità rivoluzionaria della classe operaia, di fronte alla spettacolare crescita del partito nazista essa non poteva essere più considerata il nemico principale. Il XIII Plenum dell’Internazionale tenutosi nel novembre-dicembre 1933 non modificò le linee essenziali della tattica fin lì seguita dal Komintern ma pose alcune premesse, almeno sul piano dell’analisi della fase, per il suo superamento e per una più netta ripresa della linea del fronte unico. Nella risoluzione approvata, la caratterizzazione del fascismo avrebbe trovato una formulazione chiara e decisiva: “il fascismo è la dittatura aperta, terroristica, degli elementi più reazionari, più sciovinisti e più imperialisti del capitale finanziario. Il fascismo cerca di assicurare una base di massa al capitale monopolistico fra la piccola borghesia, facendo appello ai contadini, agli artigiani, agli impiegati, e ai dipendenti statali che si trovano nella condizione di spostati in confronto alle normali condizioni di esistenza, e particolarmente agli elementi declassati delle grandi città, cercando di penetrare anche in senso alla classe operaia”. Ma è soprattutto nell’aggravamento della situazione internazionale e nella tendenza dell’imperialismo alla guerra che il documento del XIII Plenum individua l’elemento principale del nuovo quadro mondiale segnato dalla vittoria della reazione nazista in Germania. Non a caso “il governo fascista della Germania” vi viene definito come “il principale istigatore di guerra in Europa”. Il suo tentativo, giustificato con “il pretesto di combattere contro il trattato di Versailles” di “formare un blocco allo scopo di provocare un nuovo bagno di sangue a vantaggio dell’imperialismo tedesco” appare in questo senso come il più grave elemento di crisi del quadro internazionale. Di qui la rivendicazione, sul terreno della tattica e della definizione dei compiti immediati dei comunisti, del nesso inscindibile tra lotta contro il fascismo e lotta contro la guerra e per la pace.
È attorno a questi nuovi cruciali obiettivi che la tattica del fronte unico ritrova concretamente il suo carattere originario di lotta di massa per l’unità della classe operaia e di tutti i settori popolari su cui la borghesia e l’imperialismo tentano di scaricare i costi della crisi. È la stessa tattica leninista della trasformazione della guerra imperialista in guerra civile che nel nuovo contesto della lotta contro il fascismo e contro la guerra determinato dalla vittoria di Hitler in Germania viene insieme ripresa e riformulata: “il grande compito storico del comunismo internazionale consiste nel mobilitare le larghe masse contro la guerra ancora prima che la guerra cominci, e in tal modo affrettare la condanna del capitalismo. Solo una lotta bolscevica, prima dello scoppio della guerra, per il trionfo della rivoluzione può garantire la vittoria di una rivoluzione che scoppi in coincidenza della guerra”.
Di fronte al fascismo e al conseguente aggravarsi del pericolo di guerra, la lotta per la pace e per la difesa dell’Unione Sovietica diventa un momento fondamentale dello stesso processo della rivoluzione mondiale. Dopo la conquista del potere da parte del nazismo, la reazione fascista avanza anche in Francia e in Spagna. Ma l’assalto a Palais Bourbon, sede della Camera francese, da parte della Croix-de-feu, un’associazione nazionalista e fascista, il 6 febbraio 1934, provoca l’immediata risposta spontanea della classe operaia alla grave minaccia reazionaria. Una risposta è il primo segnale importante di un processo in atto di radicalizzazione delle masse e di ripresa dell’unità di classe del proletariato. L’unità d’azione tra comunisti e socialisti in Francia si costituisce in seguito all’imponente mobilitazione di massa unitaria della classe operaia francese e al successo dello sciopero generale del 12 febbraio. Contemporaneamente in Austria e in Spagna si affermano processi analoghi di unificazione della classe operaia sul terreno della lotta di classe e della mobilitazione antifascista.” Particolarmente in Spagna tale mobilitazione, attraverso la costituzione di organismi unitari, le “Alianzas obreras” (Alleanze operaie), in grado di unificare non solo comunisti e socialisti ma anche anarchici estesi, avrebbe assunto un carattere apertamente rivoluzionario, con la lotta armata dei minatori delle Asturie contro il governo reazionario di Lerroux e la costituzione di una repubblica socialista.
È l’insieme di tali imponenti processi di dislocazione e radicalizzazione in senso rivoluzionario delle masse a mettere in crisi gli indirizzi antisovietici e anticomunisti dei partiti socialdemocratici, costretti a tenere conto dei nuovi caratteri della fase e avviare così una diversa politica. Ma è lo stesso gruppo dirigente del Komintern a cogliere per tempo la necessità di un radicale mutamento di politica e di linea tattica. In una importante riunione del Presidium del Comitato Esecutivo del Komintern svoltasi nel dicembre del 1934, Manuilskij rimetteva decisamente al centro della discussione del movimento comunista la necessità non solo di una ripresa e di un più organico sviluppo della tattica di fronte unico, ma anche di una sua differenziata applicazione nei vari paesi: “la tattica del fronte unico: ecco una faccenda nuova… Abbiamo nei diversi paesi, tutta una serie di situazioni originali diverse. E a questo proposito, compagni, non possiamo porci di fronte alla soluzione dei compiti che ne derivano con queste formulazioni consacrate, elaborate da una serie di anni”.
La necessità di una ripresa e insieme di uno sviluppo originale della tattica di fronte unico è al centro dell’elaborazione del VII Congresso del Komintern svoltosi nell’agosto del 1935 e della svolta della politica dei fronti popolari. Non certo a caso, è un eroico combattente antifascista come Georgj Dimitrov, il dirigente comunista bulgaro che al processo di Lipsia aveva smascherato la montatura nazista e l’accusa di essere stato lui il mandante dell’incendio del Reichstag, ad assumere nella primavera del 1934 la carica di primo segretario del Komintern in una fase di svolta radicale nella lotta rivoluzionaria e antifascista di tutto il movimento operaio e popolare. A partire dall’individuazione nella Germania nazista del principale “fomentatore di guerra” già fissata al XIII Plenum, nel suo rapporto al congresso, Dimitrov definisce il fascismo tedesco come “il reparto d’assalto della controrivoluzione internazionale” e “l’iniziatore della crociata contro l’Unione dei Soviet, contro la grande patria dei lavoratori di tutto il mondo”. A tale caratterizzazione del fascismo dal punto di vista della crisi della situazione internazionale si accompagna nell’analisi di Dimitrov una più attenta caratterizzazione delle trasformazioni dello Stato capitalistico determinate dalla vittoria del fascismo in Germania che segnano una nuova tappa di quella crisi del parlamentarismo e della democrazia borghese già analizzata al VI Congresso del Komintern. “L’avvento del fascismo al potere” afferma Dimitrov “non è un’ordinaria sostituzione di un governo borghese con un altro, ma è il cambiamento di una forma statale del dominio di classe della borghesia – la democrazia borghese – con un’altra sua forma, con la dittatura terroristica aperta.” Il fascismo è dunque uno stato borghese di tipo nuovo. Tale nuova forma statuale ha finito per imporsi certamente per le gravi responsabilità della socialdemocrazia e per la debolezza dei partiti comunisti non ancora “abbastanza forti per sollevare le masse, senza e contro la socialdemocrazia e condurle alla battaglia decisiva contro il fascismo”, ma anche grazie alla capacità dei settori dominanti del grande capitale di costruire nuovi e più avanzati livelli di organizzazione e di integrazione passiva delle masse dentro lo stato borghese in risposta alla crisi della loro egemonia fondamentalmente determinata dalla rottura rivoluzionaria dell’Ottobre sovietico. L’unità delle frazioni dominanti del capitale finanziario e il consenso di massa su cui essa viene ristabilita non significano però che la vittoria e il consolidamento del fascismo siano inevitabili. “La dittatura fascista della borghesia” afferma Dimitrov “è un potere feroce ma instabile.” Ciò sia in ragione delle “divergenze e delle contraddizioni nel campo della borghesia”, rese ancor più acute dal fascismo proprio attraverso il tentativo del loro superamento, sia per il contrasto tra la “demagogia anticapitalistica” e l’effettiva politica di “brigantesco arricchimento della borghesia monopolistica” che oltre a smascherarne la sua essenza di classe conduce “allo scalzamento e al restringimento della sua base di massa”. Ma proprio l’insieme di questi limiti e contraddizioni del fascismo come nuovo tipo di Stato non ne rendono meccanicamente inevitabile la sconfitta o il crollo. Di contro a ogni concezione attendista o fatalista dell’azione politica, Dimitrov rivendica con forza la necessità di una attiva e concreta lotta di massa della classe operaia contro il fascismo: “la classe operaia” dice Dimitrov “deve saper utilizzare le contraddizioni e i conflitti che sorgono nel campo della borghesia, ma non deve illudersi che il fascismo si esaurisca da sé. Il fascismo non cade automaticamente. Soltanto l’attività rivoluzionaria della classe operaia permette di utilizzare i conflitti che sorgono inevitabilmente nel campo della borghesia per scalzare e abbattere la dittatura fascista.” Dunque la stessa lotta per l’instaurazione della dittatura del proletariato e per il socialismo presuppone una fase intermedia di accumulazione e di preparazione delle forze rivoluzionarie nel corso della quale soltanto il partito comunista può conquistare la direzione del fronte unico e del fronte popolare individuando obiettivi immediati di lotta e di governo, sul terreno della difesa delle condizioni di vita e di lavoro del proletariato e delle masse popolari, come su quello della difesa e dell’ampliamento della democrazia. Dimitrov riprende in tal modo e sviluppa ulteriormente la tattica del fronte unico già elaborata dal Komintern soprattutto al suo IV Congresso, proponendo un ampliamento del fronte e la sua trasformazione in un fronte popolare basato sulla più larga capacità di mobilitazione e di organizzazione permanente delle masse: “noi non dobbiamo limitarci a lanciare dei semplici appelli alla lotta per la dittatura proletaria, ma dobbiamo trovare e propugnare le parole d’ordine e le forme di lotta dedotte dalle esigenze vitali delle masse dal livello della loro capacità di lotta nel momento presente. Dobbiamo dire alle masse che cosa devono fare oggi per difendersi dal brigantaggio capitalistica e dalla barbarie fascista. Dobbiamo tendere a creare il più ampio fronte unico con l’ausilio delle azioni comuni delle organizzazioni operaie delle diverse tendenze, per la difesa degli interessi vitali delle masse lavoratrici”. Ma la lotta per la salvaguardia delle libertà democratico-borghesi e contro la dittatura fascista lungi dal configurarsi come una lotta puramente difensiva o interna ai limiti della democrazia formale borghese doveva essere concepita come un momento dello stesso processo di transizione rivoluzionaria alla dittatura del proletariato. Non a caso al centro del rapporto di Dimitrov è il tema del governo come possibile sbocco politico avanzato, anche prima della conquista del potere da parte del proletariato, della costruzione dal basso e all’alto insieme di un fronte popolare antifascista sulla base del fronte unico proletario. Le straordinarie esperienze dei governi di fronte popolare che si svilupperanno di lì a un anno in Francia e in Spagna confermeranno pienamente la giustezza delle indicazioni tattiche e strategiche di Dimitrov sulla necessità di garantire uno sbocco politico avanzato anche attraverso la formazione di governi sostenuti dai partiti comunisti e dalla classe operaia, alla lotta contro il fascismo e la reazione.
La Città Futura