La guerra, il cinismo, la società crollata: Céline, Viaggio al termine della notte

mag 9th, 2022 | Di | Categoria: Recensioni

La guerra, il cinismo, la società crollata: Céline, Viaggio al termine della notte

 

Nell’aprile 1932 una piccola casa editrice pubblica Viaggio al termine della notte di Louis Ferdinand Céline, il quale in realtà si chiama Louis Ferdinand Auguste Destouches e prende il nome di Céline dal cognome della madre, per via del profondo conflitto con il padre che emerse sin dall’infanzia.

L’editore, Robert Denoël, lo definì: un giovane medico che sapeva tutto della vita, uomo di estrema lucidità, disperato e freddo e tuttavia passionale, cinico ma pietoso.

Quando Viaggio vide la luce, Céline abitava dalle parti di Montmartre, aveva 38 anni. La sua esistenza era colma di esperienze dolorose e tremende come la Prima Guerra Mondiale sul campo di battaglia, in cui ricevette anche una medaglia al valore militare. Dopo arrivano le esperienze di viaggio, altrettanto pericolose, estreme. Si laureò in medicina per stare vicino agli ultimi. Svolse attività di medico e conferenziere in varie città d’Europa e degli Stati Uniti. Lavorò a Parigi tra i poveri delle banlieue, per un bel periodo lavorò gratis. Dalla Grande Guerra al lavoro per una società mercantile in Africa, dall’esperienza alienante come operaio negli Stati Uniti a quella di medico dei poveri nelle banlieue parigine, ogni capitolo del Viaggio è profondamente autobiografico. Il romanzo fece subito scandalo per gli eventi narrati ma soprattutto per lo stile, quanto di più vicino all’ultimo Joyce. Il flusso di coscienza qui si avvale di un totale rifiuto del francese colto e si aggancia direttamente agli andirivieni di una mente fervida che oscilla, costantemente in bilico, tra la descrizione del mondo esteriore, gli avvenimenti tremendi del Novecento, l’alienazione sempre presente a Parigi come a New York, e il mondo interiore, irrequieto e incerto, alla ricerca disperata di una verità ultima che mai si manifesterà se non come la verità del dolore più profondo e meschino che invade l’umano.
Il personaggio principale si chiama Ferdinad Bardamu. La storia comincia quando si arruola volontario per la prima guerra mondiale. Presto se ne pentirà. Scopre l’orrore della guerra, con i suoi demoni: sangue, fame, sete, povertà, in tutta la loro darwiniana ferocia. Durante la guerra incontra per la prima volta un tal Robinson, una sorta di doppio malefico, che a tratti ricorda il William Wilson di Poe. Continuerà a incontrarlo poi in ogni dove, in Africa, a New York e a Parigi, fino alla fine, sarà la sua ombra, il contraltare cinico e senza scrupoli che dice e fa con estrema irriverenza tutto ciò che Bardamu pensa e non osa esplicitare o mettere in atto.

Bardamu vive un’esperienza che oggi – annaspando nel nostro quotidiano lessico psicobanalitico –, chiameremmo disturbo post traumatico da stress. In seguito a una ferita alla testa viene ricoverato in un ospedale militare di cui racconta lo squallore. Trascorre la convalescenza a Parigi deragliando in assoluta povertà. Frequenta prostitute e traditrici che incarnano l’abiezione. Fondamentale all’interno del romanzo è l’incontro con Lola, che lo aggredisce con la sua grettezza borghese e spicciola mentre Bardamu ha una crisi di nervi in un ristorante, dove la folla ammassata per qualche ragione gli ricorda il terrore vissuto in guerra. Lola è americana e tornerà più in là nel romanzo, quando il protagonista sarà costretto a chiederle in prestito del denaro provando ribrezzo per sé stesso e sdegno per l’insopportabile donnetta dalle idee coatte.

«Anche su di me sparano Lola! non potei trattenermi dal gridare.

– Vieni! – fece lei allora… – dici delle sciocchezze, Ferdinand, e va a finire che prendiamo freddo.»

Scendemmo verso Saint-Cloud per il viale grande, il Royal, schivando il fango, lei mi teneva per mano, la sua era piccolina, ma io non potevo pensare ad altro che alle nozze di zinco dello stand di lassù che avevamo lasciato nell’ombra del viale. Mi dimenticavo perfino di baciare Lola, era più forte di me. Mi sentivo tutto strano. È proprio a partire da quel momento, credo, che la mia testa è diventata così difficile da tener tranquilla con le sue idee dentro.

Quando arrivammo al ponte di Saint-Cloud, faceva scuro del tutto.

«Ferdinand, vuoi cenare da Duval? Ti poace molto Duval, a te… quello ti cambierebbe le idee… ci si incontra sempre un sacco di gente… a meno che tu voglia mangiare in camera mia?» Era molto premurosa, insomma, quella sera.

Alla fine ci decidemmo per Duval. Ma appena ci siamo messi a tavola il posto mi sembrò insensato. Tutta ‘sta gente seduta in fila intorno a noi mi dava l’impressione di aspettare anche lei che le pallottole le saltassero addosso da ogni lato mentre s’abboffava.

«Andatevene tutti! Ecco che li avvisai io. Squagliatevi! Sparano! Vi ammazzano! Ci ammazzano tutti!»

«Sparano! Gli gridavo io, più forte che potevo, in mezzo al salone grande. Sparano! Squagliatevi tutti!..» e poi dalla finestra l’ho gridato anche. Ero invasato. Un vero scandalo. «Povero soldato!» dicevano. Il portiere mi ha portato pian piano al bar, per gentilezza. M’ha fatto bere e io ho bevuto. Poi alla fine i gendarmi son venuti a prendermi, più brutalmente, loro. Nello «Stand delle Nazioni» ce n’erano anche, di gendarmi. Li avevo visti. Lola mi abbracciò e li aiutò a portarmi via in manette.

Allora mi sono ammalato, febbricitante, diventato matto, hanno spiegato loro all’ospedale, per la paura. Era possibile. La miglior cosa che puoi fare, no?, quando sei a ‘sto mondo, è di uscirne. Matto o no, paura o no.

(Louis-Ferdinand Céline, Viaggio al termine della notte, Corbaccio, 2011, pp.70-71)

Bardamu, nella tappa successiva della sua catabasi, si reca in Africa al servizio di una compagnia mercantile militare. Céline usa dei nomi inventati per i villaggi africani, in cui il protagonista si troverà come in una prigione, altrettanto dura della guerra. Qui constata che gli uomini dell’alta società mostrano e esercitano il loro potere sui poveri coloni ritenuti selvaggi, stupidi, chiamati spesso negri e umiliati in ogni modo nella propria stessa terra. Anche qui, quando Bardamu è agente coloniale in un avamposto africano dell’interno, torna, come una sorta di fantasma e di specchio del sé, Robinson. È una specie di cesura tra due mondi, compare sempre come una forma di avvertimento, finché lo sprofondamento nel male, nella notte appunto, non diventa radicale. L’atmosfera fisica e morale tremenda dell’Africa costringe Bardamu a fuggire a Tapeta, luogo inventato di uno stato dal nome altrettanto inventato: Rio del Rio, ma anche qui la cattiveria umana si fa sentire nel pieno della potenza e del dolore. Incontra un prete che, fingendosi amorevole e premuroso verso il suo stato di salute, lo vende come schiavo rematore su un galeone in partenza per l’America. Quando raggiunge le coste americane s’illude di essere salvo e invece si troverà in uno stato d’isolamento, paura, solitudine, incomunicabilità.

Nessuno come Céline ha raccontato così bene la povertà, le disparità sociali, l’estraneazione da una società ostile, una società umana dove solo chi ha potere può permettersi di vivere dignitosamente, dove gli ultimi sono umiliati fin nel profondo dell’animo, oltre che nei corpi, tenuti stretti nei gioghi della volontà di potenza di questa borghesia sull’orlo della decadenza e dell’osceno. La critica sociale si fa sempre più feroce, se prima era la guerra ora è la società tecnologica, l’alienazione industriale dell’America. New York non è che una tappa della notte dell’umanità: il buio etico in cui la modernità ha gettato l’Europa, nel sangue della guerra, l’Africa derubata di manodopera e ricchezze, l’America trafitta dall’alienazione industriale. Qui conosce Molly: l’unico personaggio positivo del libro. Una prostituta dal cuore tenero, che decide di prenderlo sotto la sua ala, mantenerlo economicamente e amarlo a modo suo. Uno dei passi più belli del Viaggio è proprio la pagina di addio a questa donna meravigliosa, che per Bardamu ha rappresentato il calore umano in un mondo di alienati automi.

Arrivò il momento della partenza. Andammo verso la stazione un po’ prima dell’ora in cui tornava nella casa. In giornata ero andato a salutare Robinson. Non era contento nemmeno lui che lo lasciassi. Non la smettevo di lasciare tutti. Sulla banchina della stazione, aspettando il treno con Molly, passarono degli uuomini che fecero finta di non conoscerla, ma bisbigliarono delle cose.
“Ecco che sei già lontano, Ferdinand. Tu fai, vero, Ferdinand, esattamente quello che hai voglia di fare! Ecco quel che importa… Ecco quello che conta…”.
Il treno è entrato in stazione. Non ero più molto sicuro della mia avventura quando ho visto la macchina. L’ho abbracciata Molly con tutto il coraggio che avevo allora nella carcassa. Avevo una gran pena, autentica, una volta tanto, per il mondo intero, per me, per lei, per tutti gli uomini.
È forse quello che si cerca nella vita, nient’altro che questo, la più gran pena possibile per diventare se stessi prima di morire.
Sono passati degli anni… Ho scritto spesso a Detroit e poi altrove a tutti gli indirizzi che mi ricordavo e dove potevano conoscerla, seguirla Molly. Non ho mai avuto risposta.
Il casotto è chiuso adesso. È tutto quello che ho potuto sapere. Buona, ammirevole Molly, vorrei se può ancora leggermi, da un posto che non conosco, che lei sapesse che l’amo ancora e sempre, a modo mio, che lei può venire qui quando vuole a dividere il mio pane e il mio destino furtivo. Se lei non è più bella, ebbene, tanto peggio! Ci arrangeremo! Ho conservato tanta della sua bellezza in me, così viva, così calda che ne ho ancora per tutti e due e per almeno vent’anni ancora, il tempo di arrivare alla fine.
Per lasciarla mi ci è voluta proprio della follia, della specie più brutta e fredda. Comunque, ho difeso la mia anima fino ad oggi e se la morte, domani, venisse a prendermi, non sarei, ne sono certo, mai tanto freddo, cialtrone, volgare come gli altri, per quel tanto di gentilezza e di sogno che Molly mi ha regalato nel corso di qualche mese in America.

(Louis-Ferdinand Céline, Viaggio al termine della notte, Corbaccio, 2011, pp.264-265)

In Francia si laurea in medicina e comincia a esercitare a Rancy, un quartiere povero della periferia. È pieno di coscienziosità e la sua inquietudine gli impedisce di farsi pagare. Si vergogna di chiedere denaro agli indigenti. Quelli che vengono a domandargli aiuto sono gli ultimi degli ultimi, relitti, mal capitati, maledetti. C’è un episodio che vede protagonista una famiglia, con una donna la quale pretende di avere da lui un certificato medico per internare in manicomio la propria madre e qui lui, nel pieno della sua empatia e coscienza cinica ma sempre pienamente umana, si rifiuta. Qui ricompare Robinson, questa volta nelle vesti di un assassino assoldato dalla famiglia in questione per far fuori la donna.
Uno psichiatra invita Bardamu a lavorare nella sua clinica. Anche dalla clinica psichiatrica fuggirà e proseguirà il vagabondaggio per città e quartieri di una Francia sempre più desolata. In quella clinica, a intervalli, Bardamu ospita Robinson, che muore ucciso dalla sua amante. Liberandolo in qualche modo dall’incubo di avere un doppio che lo tortura. Il Viaggio è una catabasi verso la degradazione e la morte. La morte di Robinson è in un certo senso la morte di una parte di sé, forse quella più estrema, l’es, l’istinto, l’inconscio. Quella parte di sé che ha liquidato il super io una volta per tutte. Il fatto che muoia ha un significato simbolico, è la crescita individuale, il suo approdo alla persona adulta, responsabile, ma anche la rinuncia a quella volontà di potenza che fa sentire il fuoco della giovinezza nella gioia come nella tragicità dell’esistere. Quella parte prima o poi deve morire. E Bardamu lo sa, sa che per vivere in una società civile bisogna diventare adulti in modo ordinario, meschino, adeguandosi alle stesse regole borghesi che hanno prodotto in lui l’orrore per l’umano.

Tutta la distruzione e la devastazione della Grande Guerra, che c’è nella prima parte, agli occhi di Bardamu non è che uno dei sintomi del Male che attanaglia il suo tempo. Le guerre sono anche dettate da una sorta di idealismo e di cattiva coscienza. Il nichilismo di Céline è in questo senso una pretesa di verità nei confronti dell’inganno delle ideologie, che mascherano gli interessi finanziari dei capi di stato, dei governi, delle strutture economiche planetarie e che hanno portato al massacro delle due grandi guerre mondiali. Nel momento in cui scrisse il Viaggio Céline aveva fama di anarchico, dopo abbraccerà l’antisemitismo, sarà collaborazionista e cadrà anche lui nel grande inganno dell’ideologia, simpatizzando per Hitler per restarne poi deluso.

Lo stile del libro è un’inversione dei canoni linguistici, e anche l’intreccio è antilineare (non ve lo fanno studiare nelle scuole di scrittura!); Céline diceva a un giornalista che gli chiedeva notizie sulla novità della sua scrittura: il fatto è che io devo entrare nel delirio, mi trovo bene solo in un grottesco ai confini della morte, a tutto il resto sono insensibile. Delirio, allucinazione, follia, per scrivere lui viveva sempre ai bordi della mente. E poi il grottesco, come necessità di derealizzazione che travolge la realtà in un tripudio di fantasmi. Quanto di più vicino al flusso di coscienza di Joyce, e anche il nome Molly sembra essere un richiamo al meraviglioso personaggio femminile dell’Ulisse: Molly Bloom.

La poetica di Céline è assolutamente antiletteraria, così emerge il suo stile disarticolato, intriso di vita, di strada, destinato a fare scandalo, distruggendo completamente la tradizione della prosa francese. Céline decide di rompere con tutta la classicità. È per certi versi vicino al futurismo. Le rotture sintattiche che agitano il periodo, la dislocazione delle parole anticipate o posticipate nella frase, il moltiplicarsi di risonanze inedite. Dissociazione dal reale che vive in un vorticare caleidoscopico, quasi non lo si segue! Una prosa tagliente che sega il lemma, lo perverte, lo frammenta, lo rende obsoleto e osceno.

Il nichilismo degli artisti non coincide quasi mai con il nichilismo dei potenti, il nichilismo di Céline è dettato dal suo desiderio di trovare nel mondo una giustizia che non c’è, di veder vendicati gli ultimi, con la conseguente consapevolezza che ciò mai avverrà. Il nichilismo di Céline è platonico. Come Platone rintraccia una perfetta convergenza tra la società e l’animo umano. La corruzione che denuncia è la disgregazione dell’uomo, la sua prossimità alla catastrofe, alla follia, all’abisso personale, che coincide con ingiustizia, sfruttamento, alienazione sociale. Il disagio dell’io è il disagio della civiltà. E ci lasciamo sprofondare con lui in questo io frantumato, in questa civiltà incivile, in questo abisso senza scampo che è l’umano.

 

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