La posta in gioco

mar 9th, 2022 | Di | Categoria: Cultura e società

 

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La posta in gioco

di Leonardo Mazzei

 

 

La propaganda è assordante, la ragione è oscurata. Inutile soffermarsi sui mille esempi che ce lo dimostrano. Basta accendere la tv, sfogliare qualsivoglia giornale, per averne la riprova in ogni minuto di queste tetre giornate di guerra.

Inutile, seppur doveroso, anche il mostrare l’ipocrisia ed il doppiopesismo della politica e dei media occidentali. In Ucraina muoiono civili e bambini, nelle guerre americane che hanno insanguinato il primo ventennio del secolo invece no. Ma su questo rimandiamo al bell’articolo scritto in proposito da Franco Cardini.

C’è tuttavia un’infamia che le supera tutte, l’attribuzione delle ragioni del conflitto alla presunta malvagità – peggio, alla “pazzia” – di un uomo. Questo modo di presentare le cose ha tanti scopi: criminalizzare l’avversario, rendere nei fatti impossibile qualunque trattativa, preparare il mondo ad un’escalation per mettere in ginocchio la Russia.

Già, l’escalation… A leggere i giornaloni essa sembrerebbe il frutto della supposta avventatezza di Putin. Ma è così? Un gongolante Edward Luttwak, il dottor Stranamore più noto delle nostre tv, ha affermato entusiasticamente il contrario: «C’è un’escalation, ma l’escalation è dal lato occidentale». Difficile non essere d’accordo.

E’ chiaro che siamo entrati in una partita mortale, uno scontro che non ammette vie di fuga, alla fine del quale ci sarà un vincitore ed un vinto, ma ci sarà soprattutto un quadro internazionale profondamente diverso da quello precedente alla crisi ucraina.

Proviamo dunque a capire quel che sta avvenendo e, soprattutto, qual è la vera posta in gioco del conflitto in corso.

 

  1. Gli obiettivi russi

Gli obiettivi di Putin sono chiari e dichiarati: la neutralità e la smilitarizzazione dell’Ucraina, che dunque dovrà stare fuori dalla Nato; il riconoscimento della Crimea come territorio russo; l’indipendenza del Donbass, entro quali confini è da vedere.

Si tratta di obiettivi legittimi? Assolutamente sì. Dopo trent’anni di espansione della Nato ad est, peraltro in violazione degli accordi presi nel 1991 (ora resi pubblici da Der Spiegel), la minaccia alla Russia è sempre più evidente. Ed un eventuale ingresso dell’Ucraina, come pure della Georgia e della Moldavia, avrebbe decuplicato il pericolo per Mosca. In secondo luogo, la Crimea è a tutti gli effetti Russia, ed i suoi abitanti scelsero a larghissima maggioranza (95,3%) di entrare nella Federazione russa con il referendum del 16 marzo 2014. In terzo luogo, specie dopo aver subito le violenze delle milizie naziste armate da Kiev, il Donbass ha pieno diritto alla propria piena autodeterminazione.

Questi obiettivi, della cui legittimità non è possibile dubitare, potevano essere perseguiti con altri mezzi? In teoria sì, in pratica no. Sul punto la chiusura Usa-Nato ad una qualsiasi ipotesi di compromesso è stata totale. C’è stato un passaggio che ci ha fatto capire che saremmo arrivati alla guerra. Il 14 febbraio scorso, il cancelliere tedesco Scholz volava a Kiev per incontrare Zelensky. Al termine del colloquio Scholz diceva che: «l’adesione dell’Ucraina alla Nato non è in agenda». Un segnale distensivo subito colto dal Cremlino, ma smentito il giorno dopo dallo stesso Zelensky, che tornava a chiedere con forza l’ingresso nell’Alleanza atlantica. Ora, è mai possibile che Scholz non avesse concordato con il presidente ucraino le sue dichiarazioni successive all’incontro? Ovvio che no. Altrettanto ovvio, allora, chi abbia suggerito all’ex comico di mandare all’aria ogni possibilità di allentare la tensione.

Da qui la decisione di Putin di attaccare l’Ucraina. Una scelta rischiosa, ma resa di fatto obbligata dall’intransigenza Usa-Nato. A questo punto gli obiettivi russi possono essere raggiunti solo con il controllo di quel paese. Dunque, a meno che il comico-presidente non sia pronto ad una clamorosa giravolta, con un nuovo governo a Kiev.

 

  1. Russia in difficoltà?

Secondo la narrazione corrente questa scelta si starebbe però rivelando disastrosa per la Russia, sia sul piano militare che su quello politico. Militarmente viene esaltata la resistenza ucraina, mentre politicamente il blocco Usa-Nato-Ue si sarebbe dimostrato più compatto di quanto previsto.

Proviamo a comprendere la fondatezza di questa descrizione dei fatti partendo dagli aspetti militari. Difficile pensare che a Mosca non avessero chiara la potenzialità bellica dell’Ucraina, specie dopo le notevoli forniture americane degli ultimi tempi. E’ chiaro come Putin non abbia né voluto né potuto adottare metodi di guerra totale come quelli utilizzati in Cecenia ed in Siria. Un’Ucraina oggi rasa al suolo ben difficilmente potrebbe essere amica di Mosca domani.

Naturalmente in guerra muoiono anche i civili, ma finora non abbiamo visto azioni come quelle dei bombardieri americani su Baghdad e degli aerei Usa-Nato contro la Serbia nel 1999. Tutto ciò non può che rallentare l’offensiva, ma ricordiamoci che le truppe americane impiegarono più di tre settimane per prendere la capitale dell’Iraq, mentre la minuscola Serbia riuscì a resistere per oltre due mesi.

Più complessa la questione delle sanzioni economiche. Senza dubbio quelle adottate contro la Russia sono pesanti. Molto pesanti. Ma è possibile che non fossero state messe nel conto? Difficile a credersi. Gravi sono le sanzioni sullo Swift (definite da qualcuno un’arma “atomica”), ma per ora esse escludono le transazioni più importanti, quelle per gli acquisti di gas. Antirussi sì, ma meglio se al caldo!

Sta di fatto che, grazie ai prezzi folli raggiunti in questi giorni, la Russia non ha mai incassato tanto (poco meno di un miliardo di euro al giorno) dalla vendita del proprio gas. I problemi seri verranno più avanti, se davvero l’Unione europea darà seguito agli indirizzi che stanno emergendo in questi giorni: riapertura delle centrali a carbone, rinvio della chiusura di quelle nucleari in Germania, rigassificatori a tutta randa per acquistare dagli Usa, Canada e Qatar, richiesta di forniture aggiuntive a Libia, Azerbaigian e – soprattutto – Algeria. Un piano che per realizzarsi avrà comunque bisogno di tempo.

Ma quanti paesi hanno adottato le sanzioni contro la Russia? Secondo una nostra ricostruzione sommaria, attualmente non più di 40: i 27 della Ue, più altri paesi europei della Nato (Gran Bretagna, Islanda, Norvegia), e non (Svizzera). A questi si aggiungono ovviamente gli Stati uniti e il Canada, più gli alleati degli Usa nel Pacifico (in particolare Giappone, Corea del Sud, Taiwan, Australia, Nuova Zelanda, Singapore). D’accordo, si tratta di paesi importanti, e per quel che riguarda l’export fondamentale è l’Europa, tuttavia 40 paesi sono poco più di un quinto di quelli rappresentati all’Onu.

Ed a proposito di Onu è interessante analizzare brevemente il voto che si è tenuto all’Assemblea generale straordinaria tenutasi il 3 marzo. La stampa occidentale ha messo in luce il risultato assoluto sulla risoluzione di condanna della Russia: 141 favorevoli, 5 contrari, 35 astenuti, 11 che non hanno espresso alcun voto. Ma, a parte il fatto che il voto dell’Assemblea generale non ha alcun valore pratico, quei 35 paesi che si sono astenuti (un’astensione che nelle circostanze date è sostanzialmente un sostegno a Mosca) rappresentano il 50% della popolazione mondiale. Fra di essi si trovano infatti Cina, India, Pakistan Bangladesh, Vietnam, Iran, Khazakistan ed Iraq, ma pure una ventina di stati africani, tra i quali spiccano l’Algeria, il Congo, l’Angola, la Tanzania, l’Uganda, il Sudan e soprattutto il Sudafrica. Insomma, il mondo è un po’ più grande ed articolato di quel che vorrebbero farci credere!

Questo significa che Putin non abbia problemi? Assolutamente no, significa soltanto che questi problemi vanno visti in un quadro globale, non dal ristretto angolo visuale della vecchia Europa.

 

  1. Il gioco Usa-Nato: far cadere Putin, mettere in ginocchio la Russia

Abbiamo citato in premessa Luttwak. E’ in corso un’offensiva Usa-Nato per mettere in ginocchio la Russia, per evitare che quel grande paese possa giocare il ruolo che gli spetta nel quadrante euroasiatico. L’obiettivo è dunque l’eliminazione di Putin, come premessa alla disfatta russa. Comunque lo si voglia giudicare, Putin è stato l’artefice della rinascita russa dopo il crollo dell’Urss ed il decennio dell’ubriacone Eltsin, non a caso tanto amato in occidente.

Rispetto all’equilibrio del terrore degli anni della Guerra Fredda, l’espansione della Nato ad est serve appunto a determinare uno squilibrio strategico evidente. Hai voglia di avere lo stesso numero di testate nucleari, ma se il nemico te ne può puntare un congruo numero a poche centinaia di chilometri dalla tua capitale lo sbilanciamento diventa totale. Del resto, cosa farebbero gli Stati Uniti se la Russia potesse installare i suoi missili sulla frontiera del Messico o del Canada? La risposta la conosciamo tutti.

E’ in corso dunque una sfida mortale. Ed in questa sfida l’Unione europea è solo una protesi della Nato. Con un autolesionismo senza precedenti l’Ue ha scelto subito le sanzioni, arrivando poi alla fornitura diretta di armi letali alla cricca al potere a Kiev. Di fatto un atto di guerra dietro l’altro, le cui conseguenze potremo vedere solo nel tempo. Parallelamente è scattata una propaganda mai vista, con manifestazioni di russofobia che non sto ad elencare perché note a tutti.

Guai a sottovalutare la propaganda e la russofobia. Per certi aspetti queste due armi, brandite all’unisono dall’intero sistema politico-mediatico occidentale fin dal primo minuto, sono anzi la dimostrazione più evidente dei veri scopi di che le usa. L’obiettivo di fondo non è solo la difesa dell’Ucraina, e neppure un “semplice” cambio politico a Mosca, ma la distruzione della Russia come potenza. Che chi sta perseguendo quel disegno abbia poi la faccia tosta di presentarsi come “pacifista”, questa è un’altra di quelle cose che gridano vendetta.

Il progetto Usa-Nato, con l’aggiunta della protesi europea, ha però diversi punti deboli. In primo luogo il declino della superpotenza americana, che sta portando con sé una forte e poliedrica spinta ad un nuovo (e per ora indefinito) multipolarismo. In questo quadro, diventa importante osservare l’emergere di una sorta di “blocco asiatico”.

 

  1. Il blocco asiatico

Abbiamo già parlato del voto all’Onu. Bene, se noi coloriamo la mappa dell’Asia, ci accorgiamo che i paesi che hanno votato contro o si sono astenuti in quella votazione coprono il 90% del territorio di quel continente. Altro che l’inesistente blocco euro-asiatico! Quello che sembrerebbe voler prendere forma è piuttosto un inedito blocco asiatico di gigantesche proporzioni. Certo, non si tratta di un blocco omogeneo, tutt’altro. Epperò è proprio in certi tornanti della storia che le cose si ridefiniscono e prendono forma.

In questo blocco un’importanza decisiva è ovviamente quella della Cina. Noti sono i conflitti passati tra Russia e Cina. Note le differenze culturali tra due civiltà che non si sono mai amate. Noto il timore russo di una colonizzazione gialla della Siberia orientale. Eppure, nonostante tutto ciò, oggi sembrano prevalere due ragioni che spingono in senso opposto: la comune esigenza di contrapporsi agli Stati uniti, la straordinaria complementarietà delle due economie (una fornitrice, l’altra consumatrice di materie prime).

E’ presto per scommettere sulla possibilità che questo blocco si consolidi, ma che si tratti di una possibilità concreta pare chiaro. Terreni di verifica saranno la questione energetica (e quella commerciale in generale), ma ancora prima la risposta al blocco dello Swift, che potrebbe far emergere rapidamente una nuova piattaforma alternativa per le transazioni finanziarie internazionali.

Chi vivrà vedrà, ma la guerra in corso non è solo quella che si combatte con le armi. Detto questo bisogna poi tener conto che la tendenza ad opporsi all’unipolarismo americano non riguarda solo l’Asia. Abbiamo già accennato ad alcuni giganti africani, ai quali bisogna aggiungere la posizione autonoma (in ogni caso contraria alle sanzioni) dei tre principali paesi dell’America Latina: Brasile, Argentina e Messico. Un discorso a parte meriterebbe l’ambigua posizione turca, dove l’ambiguità (con annessa opposizione alle sanzioni) è già però una notizia, tenendo conto che arriva da un fondamentale paese della Nato.

 

  1. O il rilancio dell’unipolarismo americano o l’inizio manifesto della sua fine

Tante sono le questioni, infinite le implicazioni del conflitto in atto. Sbaglieremmo a ridurlo ad una questione tra Russia ed Ucraina. La partita è infatti ben più grande. Se gli Stati uniti, con il braccio della Nato e l’aggiunta della protesi europea si imporranno, assisteremo ad un rilancio in grande stile del processo di globalizzazione. Laddove per globalizzazione deve intendersi non il banale accrescersi dell’interscambio mercantile a livello globale, quanto piuttosto l’affermazione di regole, dispositivi, entità sovranazionali tese alla costruzione di un potere centralizzato ed ademocratico, emanazione diretta delle oligarchie dominanti. Questo potere, formalmente destatualizzato e transnazionale, ha bisogno però di una potenza dominante ed egemone per poter funzionare. Inutile dire che questa potenza è quella che si estende dal Pacifico all’Atlantico e che si è già assegnata da tempo il ruolo di gendarme globale.

Globalizzazione significa di necessità potere tecnocratico, intreccio indissolubile tra apparati statali e potere economico, specie quello rappresentato dalle grandi concentrazioni finanziarie e dalle multinazionali high tech della Silicon Valley. Lo comprendano bene i nostri compagni di lotta contro il green pass e tutte le norme liberticide del governo Draghi: qualora il disegno Usa-Nato si affermasse, la nostra lotta subirebbe un colpo forse mortale.

Qualora, invece, questo disegno venisse arrestato dall’iniziativa di Putin, si aprirebbe una fase storica completamente nuova. Una pagina tutta da scrivere, dove anche i movimenti che si battono per la libertà e per i diritti sociali avrebbero uno spazio ben maggiore di quello odierno.

 

  1. I legittimi interessi dell’Italia ed il governo anti-nazionale di Draghi

Tra le vittime del conflitto in corso c’è sicuramente l’Unione europea, la cui economia sarà quella che pagherà il prezzo più caro della guerra e dell’escalation. Ma si tratta di un danno auto-inflitto, frutto della cronica incapacità (oggi ancora più evidente di ieri) di sottrarsi all’egemonia americana. Come disse un irridente George Friedman, uno dei massimi esperti americani di geopolitica: «l’Europa non può essere un impero visto che fa già parte di altro impero, il nostro». Viva la chiarezza!

I danni per l’Europa sono evidenti, dall’aumento del prezzo dei prodotti energetici al blocco delle esportazioni verso la Russia. Poiché – comunque vadano le cose – è ben difficile che la frattura con la Russia possa ricomporsi in tempi brevi, notevole sarà lo stress sui sistemi energetici dei vari paesi, chiamati a trasformazioni radicali in tempi estremamente rapidi.

Simbolo di questi danni economici è il blocco sine die imposto al gasdotto North stream 2, che avrebbe dovuto trasportare ulteriori 55 miliardi di metri cubi all’anno di gas russo da Vyborg, sul Golfo di Finlandia, fino alla città tedesca di Greifswald. L’attivazione di questo gasdotto, da mesi già pronto per entrare in funzione, avrebbe sicuramente riportato il prezzo del gas a valori normali. Si è preferito invece piegarsi al diktat americano. In questo modo l’Europa si priverà di un gas disponibile, ed in condizioni normali a basso prezzo, preferendogli quello trasportato dagli Stati Uniti, un gas notevolmente più caro, sia perché ottenuto con la tecnica della fratturazione idraulica, sia per i costi di trasporto su nave.

Insieme alla Germania, sarà l’Italia a pagare il prezzo più alto della linea scelta. Il nostro Paese ha (forse dovremmo dire aveva) il vantaggio di possedere uno dei parchi termoelettrici alimentati a gas più moderni di Europa. Ed il gas è certamente la fonte energetica primaria ideale per la transizione verso le rinnovabili. Insieme a tanti altri motivi di ordine geostrategico, questa particolare condizione avrebbe dovuto imporre una politica di grande amicizia con la Russia. L’occasione per dare corpo ad una visione centrata sui legittimi interessi nazionali fu il progetto del South stream avviato nel 2007. Ma, non a caso, quell’occasione andò persa. Il progetto fu fatto saltare dagli Stati uniti, che giunsero a spingere la Bulgaria – dove il gas doveva arrivare dal Mar Nero, prima di attraversare la penisola balcanica ed approdare in Puglia – a ritirarsi dal consorzio. Tutto questo mentre in Italia Pd e soci inveivano contro il governo Berlusconi reo di inciuciare con Putin e con Erdogan. Per chi fosse interessato a quella vicenda, rimando ad un mio articolo scritto sul tema nell’ormai lontano 2009.

Ma torniamo all’oggi. Con un editoriale sul Corriere della SeraLucrezia Reichlin non usa mezze misure. Parlando dei temi energetici, delle conseguenze delle sanzioni, ma anche della gestione dei profughi e ancor di più dalla corsa al riarmo che la Germania ha già lanciato con lo stanziamento di 100 miliardi di euro, l’economista della London Business School va dritta al punto: «Dall’invasione russa dell’Ucraina, l’economia mondiale, ma in particolare quella europea, è entrata in un regime di guerra». E ancora: «Non si tratta di concepire una risposta di qualche mese, ma di organizzarsi per sopravvivere in un nuovo quadro geopolitico». Emergenza dunque, e soprattutto emergenza infinita.

E’ in questo quadro che si collocano le sciagurate decisioni assunte dal governo Draghi, pure con il sostegno della finta opposizione meloniana. Decisioni che rappresentano l’assoluta negazione degli interessi nazionali del nostro Paese. Per prima cosa va ricordato che le sanzioni sono sempre un grave atto ostile. Ma a queste sanzioni si aggiunge adesso l’invio di armi all’Ucraina, un atto di guerra vero e proprio, un oltraggio ulteriore al già violentato articolo 11 della Costituzione.

Certo, sono queste le conseguenze dell’appartenenza alla Nato, ma abbiamo già accennato che pure nella Nato c’è chi (la Turchia) le sanzioni non le applicherà. Ma Draghi l’americano non poteva certo dissociarsi. Già il suo discorso d’insediamento aveva fatto intendere quale postura anti-russa avrebbe assunto il suo governo. Del resto, le forze che compongono la sua maggioranza parlamentare non sono da meno: partiti senza idee, salvo quelle che gli forniscono da Washington e Bruxelles.

Bene, che almeno si sappia che questo servilismo verrà pagato dal popolo lavoratore, con più disoccupazione, con un’inflazione in forte crescita, con il gas e la benzina alle stelle.

Tutto ciò ci dimostra come sia sempre più necessaria la lotta senza quartiere al governo Draghi ed alle attuali forze parlamentari, nessuna esclusa. Ma ci dimostra soprattutto qual è la strada da intraprendere: quella della neutralità. Una neutralità attiva, specie nel Mediterraneo, fatta di amicizia e fratellanza verso gli altri popoli. Una neutralità frutto dell’uscita dall’Ue e dalla Nato. Certo, questo programma può sembrare del tutto irrealistico, ma viste le catastrofi che ci consegna l’appartenenza a queste due gabbie gemelle, l’unico realismo è proprio quello dell’uscita.

Inutile dire che questo atto non potrà mai venire dall’attuale classe dirigente. Che proprio per questo andrà semplicemente cacciata dai posti che occupa.

 

  1. «Guerra e pandemia stessa strategia»

«Guerra e pandemia stessa strategia», così il Fronte del Dissenso chiama a manifestare il 12 marzo a Bologna contro la Nato. Il perché di questo slogan è presto detto. In questi giorni non è difficile notare l’assonanza tra la narrazione pandemica e quella di guerra. Al posto del virus c’è Putin, il ruolo dell’Oms è preso dalla Nato, quello del vaccino è adesso rappresentato dalle sanzioni. Per istituzioni e media il copione è esattamente lo stesso: bisogna sconfiggere il nemico, costi quel che costi (inclusa la proclamazione di un nuovo stato d’emergenza), e la prima cosa da fare è obbedire agli ordini del governo, sempre esaltati da un sistema mediatico che oggi ha paura anche delle oneste corrispondenze di un Marc Innaro.

Sapevamo già che all’emergenza pandemica ne sarebbe seguita un’altra. Ormai il sistema funziona così, non proprio un segno di grande forza.

Ma c’è una ragione più importante che tiene insieme guerra e pandemia. Il Grande Reset, che è il vero scopo di una narrazione che ormai fa acqua da tutte le parti, potrà affermarsi solo con un potente rilancio della globalizzazione. Questo processo ha tanti ostacoli, in primo luogo la consistente fetta di popolazione che non si è bevuta il cervello. Ma tra questi ostacoli uno dei più importanti si chiama Russia.

E’ anche per questo che alla Russia non si è voluto concedere niente. Ed è per questo che si è scatenata una russofobia mai vista neppure ai tempi della Guerra Fredda. Proprio per questo, però, non andrà a finire a tarallucci e vino.

Torniamo dunque alla vera posta in gioco di questo conflitto: o il rilancio della globalizzazione, attraverso la riaffermazione del dominio della superpotenza americana che ne è alla guida o, viceversa, l’inizio di una sua crisi irreversibile. E’ questa la grande partita che si gioca nelle pianure dell’Ucraina

Intendiamoci, i miti della globalizzazione sono ormai caduti da tempo, ma il tentativo di un suo rilancio non va affatto sottovalutato. Oggi questo tentativo si basa proprio sulla grande narrazione della quarta rivoluzione industriale, della digitalizzazione integrale, in prospettiva del transumanesimo. Tutti passaggi che ci vorrebbero vendere come tesi al bene ed al “progresso” dell’umanità, mentre noi sappiamo che rispondono solo agli interessi di una ristrettissima oligarchia dominante. Quell’oligarchia che abbisogna di un popolo muto e spaventato, stordito da un’emergenza dietro l’altra, gettato in una lotta contro un male che ieri aveva il volto del “no vax” ed oggi quello di Putin.

Alla faccia di Fukuyama, siamo entrati in un altro periodo storico. Un periodo di lotte e di grandi sconvolgimenti. La “fine della storia” sarà per un’altra volta. L’importante è sapere da quale parte stare. La nostra è quella di chi si batte per la neutralità del nostro Paese, dunque per l’uscita dall’Unione europea e dalla Nato. Solo con queste scelte la parola “pace” diventerà credibile e sincera. Non ipocrita, come quella gridata oggi nelle piazze da chi finge di non accorgersi neppure di stare sostenendo un governo, quello di Kiev, basato sull’appoggio di forze dichiaratamente naziste.

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