NIEKISCH, LA QUESTIONE TEDESCA E L’EURASIA
mar 1st, 2022 | Di Thomas Munzner | Categoria: Documenti storici
NIEKISCH, LA QUESTIONE TEDESCA E L’EURASIA
28 Novembre 2018
Il testo seguente si pone come ideale prosecuzione ed approfondimento di un altro articolo, pubblicato sul sito informatico di “Eurasia. Rivista di studi geopolitici” il 30 maggio 2018, dal titolo “Ernst Niekisch e la geopolitica”. In questo contesto si cercherà di evidenziare come la questione nazionale tedesca influenzò in modo determinante lo sviluppo di una visione prettamente eurasiatica nell’elaborazione teorica di un pensatore che ebbe modo di conoscere e opporsi a tutte e tre le ideologie politiche del Novecento.
La Germania, sin dal 1848, occupò un ruolo di primo piano nel progetto comunista di diffusione della rivoluzione proletaria su scala globale. Karl Marx e Friedrich Engles, a tal proposito, ebbero modo di scrivere così nel loro celeberrimo Manifesto del Partito Comunista: “Sulla Germania i comunisti rivolgono specialmente la loro attenzione, perché la Germania è alla vigilia della rivoluzione borghese, e perché essa compie tale rivoluzione in condizioni di civiltà generale europea più progredite e con un proletariato molto più sviluppato che non avessero l’Inghilterra nel secolo XVII e la Francia nel XVIII”[1].
I due teorici tedeschi, concentrando le loro speranze rivoluzionarie sui paesi a capitalismo avanzato, convenivano sul fatto che fosse impossibile affidare l’affermazione del comunismo alla comunità rurale o, ancora peggio, all’“Oriente barbaro”. Fino agli ultimi anni della sua vita, Marx, la cui visione non era affatto priva di un certo razzismo occidentalizzante pervaso di sentimenti russofobici caratteristici dell’epoca in cui visse, continuò a considerare la Russia come una mera “metamorfosi della Moscovia formatasi alla scuola terribile ed abbietta della schiavitù mongolica”[2]. Engels, dal canto suo, vedeva nell’Impero zarista una pericolosa minaccia che avrebbe potuto sottomettere l’Occidente civilizzato all’agricoltura primitiva dei servi slavi[3].
Lo stesso Lenin, per anni, fu convinto che la Russia sovietica non avrebbe avuto alcuna speranza di sopravvivenza senza la diffusione su scala globale del processo rivoluzionario. “O la rivoluzione scoppierà subito, o almeno molto presto, negli altri paesi capitalisticamente più avanzati, oppure, nel caso contrario, dovremmo soccombere”[4].
Appare quanto meno paradossale che un pensatore “antioccidentale” come Ernst Niekisch, la cui principale accusa al nazionalsocialismo fu propria quella di essere un prodotto dell’Occidente, potesse far propria una dottrina filosofico-politica dal carattere prettamente occidentale come quella marxista.
Infatti fu solo il bolscevismo, nella sua versione stalinista, ad avvicinare definitivamente il pensatore tedesco alla realtà “marxista” sovietica. Il bolscevismo, inteso come una versione nazionale e puramente russa del marxismo in cui le componenti razionali e progressiste si fondono con miti religiosi e arcaici, nella prospettiva di Niekisch, veniva percepito come una forma di rivoluzione contro l’Occidente che, attraverso l’ordine staliniano, aveva dato vita ad una sorta di perfetta sintesi eurasiatica.
“La Russia è rinata pescando dal suo istinto slavo-asiatico […] Durante la campagna di smantellamento della borghesia, la dottrina marxista ha giustificato questi istinti. Furono questi a rendere i bolscevichi coscienti della loro missione e sicuri della vittoria. Ma quando lo sterminio fu compiuto, si comprese che le idee marxiste non erano state all’origine di queste forze motivanti. In accordo con le necessità dei popoli slavo-asiatici, la Russia trasformò se stessa in uno Stato totale, anche se il marxismo voleva farla finita con lo Stato, avendolo considerato un’istituzione obsoleta. Malgrado le manifeste antinomie tra il marxismo e la volontà di sopravvivenza nazionale, essi appartenevano entrambi a questa dottrina che catalizzò il risveglio, la mobilitazione e l’affermazione della volontà vitale russa”[5].
Una versione “germanizzata” del bolscevismo (sintesi tra bolscevismo e prussianesimo) avrebbe dovuto dare vita ad un sistema machiavellico tale da poter permettere alla Germania di rovesciare e distruggere l’Occidente. Nella visione di Niekisch, infatti, la Prima Guerra Mondiale fu una vera e propria “crociata contro la Germania”[6] per fare in modo che essa si convertisse all’Occidente.
Anch’egli profondamente influenzato dalla dialettica hegeliana e dal protestantesimo prussiano, che attribuivano allo Stato un “portato etico e morale” tale da identificare nel Regno prussiano la realizzazione totale dell’Idea Assoluta, Niekisch non poté far altro che constatare come lo spirito tedesco possa trovare soltanto nello Stato il punto più elevato della sua oggettivazione.
Al pari di Niekisch, il dirigente bolscevico Karl Radek fu capace di comprendere che la “questione nazionale” in Germania sarebbe stata il perfetto terreno per una offensiva ideologica contro l’imperialismo occidentale. Sconfitta ed umiliata senza aver subito una reale disfatta militare, la Germania, nei primi anni ’20 del XX secolo, era ridotta allo stato di semicolonia nel cuore dell’Europa. In questo contesto i comunisti, secondo Radek, si sarebbero dovuti dimostrare più “nazionali” dei nazionalisti nella consapevolezza che proprio il sentimento nazionale non può far parte del campo del capitale, che “svende la nazione al miglior offerente ed a potenze esterne al campo del lavoro”[7]. Così Radek, con l’approvazione di Stalin e Zinov’ev, ebbe modo di elogiare il militante nazionalista Albert Leo Schlageter, dipingendo il suo assassinio da parte delle forze di occupazione francesi nel bacino della Ruhr come un vero e proprio sacrificio che chiamava in causa lo stato di sottomissione della Germania ed affermando, al contempo, che nessuna rivoluzione sarebbe stata possibile senza passare prima per la liberazione della nazione. Né è da sottovalutare che lo stesso Radek ebbe modo di scrivere, in collaborazione col pensatore tedesco Moeller van den Bruck, un opuscolo sul nazionalbolscevismo nel quale il destino di Russia e Germania veniva presentato come inesorabilmente unito.
L’occidentalizzazione forzata della Germania, per Niekisch, fu una fonte di alienazione. E la democrazia stessa, nella sua essenza, era alienazione. Dunque, la nascita di ogni sincero sentimento nazionalista non poteva che provocare entusiasmo. Così il pensatore originario di Trebnitz, a proposito del Movimento nazionalsocialista, ebbe modo di affermare: “Il contenuto spirituale del nazionalsocialismo sembrava avere un collegamento diretto con la volontà vitale del popolo tedesco. Si può dire che è il linguaggio naturale, la forma espressiva conforme al significato in cui si rende comprensibile in modo immediato l’impulso vitale tedesco. Il nazionalsocialismo sembra la rivelazione dei più profondi segreti dell’anima tedesca”[8]. Tuttavia questo Movimento, dopo il fallito putsch di Monaco del 1923, indirizzandosi verso lo stile “romano”, decise in anticipo il suo destino: quello di disperdere l’energia tedesca nella mobilitazione per una causa persa. Il meglio della gioventù tedesca trovò rifugio nel nazionalsocialismo dando splendore al Movimento con la determinazione di ribellarsi contro l’ordine borghese. Ma il Movimento stesso abusò di questo ardore, e della fede dei giovani nel compimento di una missione trascendente, mettendoli al servizio di quelle forze che essi avevano giurato di distruggere.
In questo senso, l’analisi che Niekisch fece del Movimento nazionalsocialista non si dissociava dall’interpretazione marxista tradizionale, secondo la quale le originarie tendenze rivoluzionarie di quest’ultimo vennero stroncate sul nascere trasformandolo in mero strumento del “Grande Capitale”. Ma Niekisch, pur attribuendo le responsabilità di tale mutazione alla perniciosa influenza latina, fu abile nel comprendere comunque l’intrinseca complessità del fenomeno.
Attraverso un’analisi approfondita del Mein Kampf, il padre del nazionalbolscevismo riconobbe le doti di Adolf Hitler e ne comprese prima di tutti il progetto. “Il Mein Kampf di Hitler è, dal punto di vista psicologico, umano e politico, uno dei più straordinari documenti letterari che mai siano stati prodotti in Europa […] Il Mein Kampf non è un libro di uno che crede, ma il libro di un uomo che si è proposto come regola di vita di indurre gli altri a credere”[9].
Niekisch riconobbe inoltre l’impronta “islamica” che Hitler diede al Movimento nazionalsocialista. Egli, infatti, descrisse il Führer, oratore, teorico e organizzatore, come una sorta di rinato Profeta Muhammad: un vicario in terra la cui meta finale è di ordine superiore.
Anche Savitri Devi Mukherji, nella sua opera Il fulmine e il sole, paragonò la missione del Capo del Terzo Reich a quella del Profeta dell’Islam. Entrambi, nella visione della pensatrice esoterica, nell’epoca del Kali Yuga erano stati destinati a “salvare il salvabile”.
Pur ammettendone le doti, Niekisch è tuttavia ben più critico nei confronti di Hitler. Questi viene considerato come “un prodotto di Versailles” e la sua opposizione al bolscevismo ne è la dimostrazione più tangibile. Hitler, un demagogo che fa la guerra alla democrazia, non era che una variante dell’uomo democratico. Con lui la democrazia giunge al suo limite ultimo e prepara la strada al suo suicidio. Ed il Terzo Reich che si erge a bastione dell’antibolscevismo rappresenta la compiuta realizzazione della decadenza tedesca.
L’analisi di Niekisch non risparmia neanche l’intellettualità tedesca del periodo, che si rese più o meno complice con l’ascesa del nazismo. Heidegger in particolar modo è fatto oggetto di critica e con esso “l’ontologismo e l’esistenzialismo come filosofia degli attivisti fascisti”[10]. Ma, in questo caso, Niekisch non sembra comprendere l’intima profondità del pensiero heideggeriano. Inoltre, egli sembra ignorare il fatto che il grande filosofo tedesco, dopo un’iniziale adesione al Movimento, seguita anche da una lotta filosofica per mantenerne inalterata l’originaria purezza rivoluzionaria, ebbe modo di affrontare una crescente ostilità da parte di alcuni esponenti di spicco del nazionalsocialismo stesso. Walter Groß, su tutti, lo accusò in più di un’occasione di diffondere l’ateismo ed il nichilismo fiaccando il morale del popolo tedesco. Senza considerare che la critica heideggeriana all’Occidente ed ai fenomeni del gigantismo e dell’americanismo è ben più articolata di quella elaborata dallo stesso “antioccidentale” Niekisch. Infatti, se da un lato Heidegger riconosceva che Russia e America erano accomunate dal “correre sfrenato della tecnica”[11], dall’altro considerava quanto meno superficiale attribuire alla parola “nichilismo” la sfumatura di “bolscevismo”[12].
A onor del vero, il nazionalsocialismo era costituito da anime diverse e spesso in contrasto tra loro. Il pensatore belga Jean Thiriart ebbe modo di constatare come le organizzazioni nazionalsocialiste fossero piene di quelli che venivano definiti “bistecche”, “vale a dire bruni di fuori e rossi dentro”[13]. Questi costituivano l’ala sinistra del Movimento, che in politica estera si opponeva alla tendenza di Hitler di individuare nell’URSS il nemico principale.
Questa tendenza, secondo Niekisch, era dovuta alla natura essenzialmente occidentale di Hitler e di altri personaggi che ricoprivano ruoli di rilievo all’interno del Reich. Uno di essi era Alfred Rosenberg: caporedattore del principale organo del Partito ed autore della monumentale opera Il mito del XX secolo. Pur apprezzando il suo rigetto del mondo latino (cosa che portò i vertici del Reich ad indicare l’opera come il parto di idee personali dell’autore per non incrinare i rapporti con la Chiesa), Niekisch, negli esiti finali, rifiuta in toto le idee di Rosenberg. La visione geopolitica di questo tedesco del Baltico era infatti incentrata sulla creazione di un blocco delle “potenze baltiche” Germania, Svezia, Norvegia, Finlandia e Danimarca, a cui si sarebbe potuta aggiungere la Gran Bretagna come riserva strategica, che, fondandosi sulla magnifica comunità della razza nordica, avrebbe dovuto mandare in briciole l’impero russo-mongolo. Secondo Rosenberg la razza nordica, ed in particolar modo la sua componente tedesca, era destinata al dominio e lo scopo della sua esistenza era mettersi in marcia contro l’Oriente per possederlo e dominarlo. Così facendo, essa avrebbe iniziato la spartizione del globo con il resto dell’Occidente: la Gran Bretagna ed il Nord America.
Appare subito evidente come una simile conclusione sia in aperto contrasto con la visione del nazionalbolscevico Niekisch, il quale riconobbe nella complessa etnogenesi del popolo tedesco, prodotto della commistione di genti diverse (germani, slavi, romani, celti, iberi, avari, unni e magiari), la natura prettamente eurasiatica della Germania ed il suo destino di potenza unificante, non proiettata verso un mero dominio sull’Oriente.
Sulla falsariga del suo amico Karl Haushofer, Niekisch teorizzò la creazione di un blocco continentale antioccidentale che da Vlissingen arrivasse fino a Vladivostok. Una simile progettualità necessitava naturalmente di un “popolo guida”. In conformità con quello che Niekisch identificò come “l’eterno destino mancato della Germania”, Hitler nel Mein Kampf seppe riconoscere la virtualità d’estensione che un “polo geopolitico” deve naturalmente emanare sullo spazio ad esso circostante. “Il significato geopolitico del centro d’un movimento non può essere sottovalutato. Solo l’esistenza di un luogo da cui si emani l’incantesimo di una Mecca o di una Roma, a lungo andare, è in grado di assicurare a un movimento la forza, la quale si basa sull’unità interiore e sul riconoscimento d’un vertice che tale unità rappresenti”[14].
Tuttavia questa sacrosanta comprensione di una verità geopolitica si scontrò con quella che fu l’effettiva realizzazione della progettualità nazionalsocialista. Roma e Mecca, a differenza del Terzo Reich tedesco, in termini geopolitici furono centri imperiali che si espansero, parafrasando ancora una volta Jean Thiriart, attraverso forme di “imperialismo di integrazione” e non di puro dominio ed oppressione.
Jean Thiriart, rigettando il nazionalismo piccolo-tedesco del nazismo, fece proprio il progetto del blocco continentale di Niekisch e Haushofer, espandendolo fino alla costa atlantica, perché solo questa avrebbe rappresentato, per lo spazio eurasiatico unificato, un confine facilmente difendibile contro l’Occidente. In questo spazio unificato, un nuovo Stalin, conscio degli errori commessi dall’imperialismo di dominazione sia nazista sia sovietico, attraverso la realizzazione di uno Stato autocratico e spartano, avrebbe dovuto dare vita al più grandioso progetto nella storia dell’umanità: l’impero eurasiatico da Dublino a Vladivostok.
NOTE
[1]F. Engles – K. Marx, Il manifesto del Partito Comunista, Sezione IV – Posizione dei comunisti rispetto ai diversi partiti d’opposizione.
[2]P. Poggio, Marx sulla Russia, su www.comunismoecomunità.org.
[3]K. Marx – F. Engels, Rivoluzione e Controrivoluzione in Germania, Rinascita, Roma 1949, p. 72.
[4]Contenuto in S. G. Azzarà, Questione nazionale e “fronte unico”, pubblicato su “Materialismo storico – Rivista di filosofia, storia e scienze umane”, 2/2017.
[5]E. Niekisch, Una fatalità tedesca, Nova Europa Edizioni, Milano 2018, p. 48.
[6]Ibidem, p. 26.
[7]Questione nazionale e “fronte unico”, ivi cit.
[8]Una fatalità tedesca, op. cit., p. 49.
[9]E. Niekisch, Il regno dei demoni, Nova Europa Edizioni, Milano 2018, p. 139.
[10]Questa affermazione di Niekisch è abbastanza superficiale se si considera che alcuni pensatori marxisti come György Lukács e Costanzo Preve hanno abbondantemente rivalutato l’ontologia come strumento di analisi filosofico-speculativa. A ciò si aggiunga che Jean Paul Sartre, attivista comunista, legò indissolubilmente la sua fama allo sviluppo di una corrente filosofica esistenzialista di “sinistra”.
[11]M. Heidegger, Introduzione alla metafisica, Mursia, Milano 1968, p. 48.
[12]M. Heidegger, Nietzsche, Adelphi Edizioni, Milano 1994, p. 362.
[13]J. Thiriart, L’impero euro-sovietico da Vladivostok a Dublino, Edizioni all’insegna del Veltro, Parma 2018, p. 31.
[14]Contenuto in Il regno dei demoni, op. cit., p. 175.
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