LA RABBIA AMERICANA E LA PAZIENZA CINESE
gen 16th, 2022 | Di Thomas Munzner | Categoria: Recensioni
LA RABBIA AMERICANA E LA PAZIENZA CINESE
Per chi voglia approfondire i motivi che hanno innescato la Guerra Fredda fra Stati Uniti e Cina, un recente saggio di Giacomo Gabellini (Krisis. Genesi, formazione e sgretolamento dell’ordine economico statunitense, Editore Mimesis) è una lettura a dir poco preziosa. Si tratta di un lavoro corposo, corredato da un’ampia mole di analisi, informazioni e notizie di carattere storico, economico e geopolitico che attraversa un secolo abbondante di storia – dalla seconda metà del secolo XIX a oggi – per descrivere ascesa, consolidamento e crisi dell’egemonia americana. Ricostruirne tutti i contenuti sarebbe impossibile senza scrivere decine di pagine, per cui mi accontento qui di illustrarne alcuni passaggi. Il testo che segue è organizzato in due sezioni: la prima dedicata al percorso evolutivo dell’imperialismo Usa, la seconda alla sfida lanciatagli dall’emergere della Cina come potenza globale. Le due sezioni non rispecchiano il peso reciproco che l’autore attribuisce agli argomenti in questione, nel senso che al secondo ho dedicato più spazio rispetto a quello concessogli dall’autore: la metà della recensione a fronte di un’ottantina di pagine sulle 400 del libro.
I. Storia di un ciclo egemonico
Il paradigma teorico che inspira il saggio di Gabellini è quello tracciato dallo storico Fernand Braudel (e arricchito dall’economista Giovanni Arrighi). Braudel, ricorda Gabellini, riteneva che le fasi di espansione finanziaria siano il sintomo che preannuncia la fine di un ciclo egemonico e la conseguente riconfigurazione del quadro geopolitico mondiale. A innescare la crisi è l’intensificazione della concorrenza inter capitalistica che determina il declino dei tassi di profitto. In tali condizioni l’investimento produttivo diventa rischioso, per cui le imprese del centro dominante tendono a mantenere i propri ricavi in forma liquida, con effetti devastanti su occupazione, produttività, disuguaglianza sociale, gettito fiscale e crescita economica. A questo punto il ciclo può continuare solo autoalimentandosi artificiosamente (guadagnando tempo, per dirla con Wolfgang Streeck), cioè sfruttando la finanza come strumento di stabilizzazione. Ma sul lungo periodo il calo degli investimenti produttivi compromette l’innovazione tecnologica, favorendo il deflusso della liquidità accumulata dal centro verso le nazioni emergenti che assicurano rendimenti più elevati. Come vedremo più avanti, questa “fase terminale” inizia già fra la fine degli anni Sessanta e gli anni Settanta del XX secolo, ma prima di arrivarci vediamo le tappe precedenti.
Nella seconda metà del secolo XIX maturano le condizioni che di lì a qualche decennio faranno perdere il ruolo di centro egemonico alla Gran Bretagna. A mano a mano che il saccheggio delle colonie (in primis dell’India) accentua i connotati commerciali e finanziari del capitalismo britannico, disincentivando gli investimenti in innovazione tecnologica, l’Inghilterra perde l’autobus della II Rivoluzione industriale, sul quale viaggiano spediti Germania e Stati Uniti. A decidere quale dei due aspiranti assumerà il ruolo di nuova nazione egemone sarà la Prima guerra mondiale. La Germania sembra in vantaggio, ma dal momento che la sua crescente potenza economica e militare minaccia l’egemonia navale di Stati Uniti e Gran Bretagna e quella tellurica di Francia e Russia, si trova a dover fronteggiare contemporaneamente tutte queste quattro potenze, uscendone con le ossa rotte.
Viceversa gli Stati Uniti escono da trionfatori dal conflitto, sia perché hanno accumulato enormi crediti nei confronti degli alleati, sia perché la guerra ha dato un forte impulso al suo già poderoso apparato industriale. L’utopia “pacifista” del presidente Woodward Wilson, che ambisce ad attribuire al proprio Paese il ruolo di grande mediatore/coordinatore di un nuovo ordine economico mondiale, fallisce per l’opposizione del Congresso, il quale non intende rinunciare ai crediti di guerra (e a maggior ragione non vi rinunciano gli alleati europei, che scaricano tutto il peso sulla Germania, ignorando i moniti di Keynes). Il modello economico della potenza emergente si basa su giganteschi trust verticali a gestione burocratica, quei robber barons che, avendo ereditato la vocazione speculativa delle imprese che nell’800 avevano costruito la rete ferroviaria fra i due oceani, finiranno per creare le condizioni della Grande Crisi del 29. La svolta statalista e welfarista del New Deal, inspirata dal terrore che l’immiserimento delle masse alimenti la tentazione di imitare la Rivoluzione russa del 1917, tampona la crisi ma senza riuscire a risolverla, per cui parte la corsa agli armamenti: nel 39 gli Stati Uniti producono più mezzi di trasporto, acciaio, alluminio e petrolio di tutte le altre potenze messe assieme, per cui diventano i fornitori dei belligeranti prima ancora di scendere direttamente in campo (Arrighi sostiene che gli anni dal 1914 al 1945 sono da considerare come un’unica grande guerra, associata a un’ininterrotta crisi economica che si risolve appunto solo grazie alla Seconda guerra mondiale).
Woodrow Wilson
A dare la misura del passaggio di consegne fra la Gran Bretagna (stremata dal conflitto, come le altre nazioni europee) e gli Stati Uniti (che viceversa hanno riassorbito i dieci milioni di disoccupati generati dalla Grande Depressione e distribuito consistenti aumenti salariali, ricompattando la società come testimoniano i massicci acquisti di titoli di stato per finanziare la guerra) è il contenuto degli accordi di Bretton Woods. Mentre Keynes propone di introdurre il bancor, una moneta internazionale che avrebbe dovuto assolvere le funzioni di unità di conto e di mezzo di pagamento ma non di riserva di valore, gli Usa impongono un regime che àncora il dollaro all’oro (35 dollari l’oncia) e lega la valuta americana alle altre secondo tassi di cambio fissi. Nel contempo gli accordi Gatt creano le condizioni per un nuovo mercato mondiale privo di protezioni doganali e tariffarie, che offre alle imprese americane l’opportunità di incrementare il proprio export e importare materie prime a basso costo dal Terzo Mondo (in fase di rapida de-colonizzazione su pressione degli Stati Uniti che si preparano a “smontare” l’Impero britannico per integrarlo nella propria sfera d’influenza). Infine, sotto le presidenze Truman e Eisenhower, parte la Guerra Fredda contro l’ex alleato sovietico, ora presentato come il male assoluto e del quale si esagerano artatamente la potenza militare e le intenzioni aggressive (una storia che si ripete oggi sotto i nostri occhi), un contesto che agisce da brodo di coltura per la costruzione di quel poderoso complesso militare industriale (con generali, manager e uomini politici che si scambiano vorticosamente i ruoli in un giuoco di “porte girevoli”) che tuttora occupa il vertice della cupola del big government. Intanto il sistema degli “aiuti” ai Paesi europei e a quelli del Terzo Mondo (gestiti rispettivamente tramite il Piano Marshall e l’ FMI) crea i presupposti di quella “economia del debito” che servirà da arma strategica per conservare l’egemonia assoluta su amici e alleati.
È la Guerra del Vietnam a dare inizio alla fase in cui le contraddizioni del modello di accumulazione centrato sull’egemonia americana si fanno stringenti, ed è non a caso su tale fase che si concentra la “pancia” del libro Gabellini: duecento pagine infarcite di analisi dettagliate delle varie diramazioni in cui si articola la crisi. Di qui in avanti, dato lo spazio limitato di una sia pur lunga recensione, sarò perciò costretto a trascurare molti temi e a concentrarmi solo su alcuni nodi. La peggiore conseguenza del disastroso esito della guerra è, accanto alla perdita di prestigio politico-militare, l’aumento vertiginoso del deficit pubblico e dello squilibrio della bilancia dei pagamenti che innescano un massiccio deflusso di oro verso Europa e Giappone. L’amministrazione Nixon reagisce alla prima sfida sfruttando il conflitto fra Cina e Russia, cioè riconoscendo Pechino per intensificare le manovre di assedio/accerchiamento nei confronti di Mosca (che culmineranno dieci anni dopo con l’appoggio ai mujaheddin contro il governo afgano filosovietico); affronta invece la seconda scaricando su Giappone ed Europa i costi della guerra. Ma soprattutto – per scongiurare il rischio che il crescente squilibrio della bilancia dei pagamenti induca alcune Banche Centrali a esigere da Washington la conversione in oro delle riserve di valuta pregiata – gioca d’anticipo, ripudiando unilateralmente gli accordi Bretton Woods. La fine del Gold Standard consentirà agli Usa di fare investimenti esteri illimitati senza pagarne il prezzo. Gli Usa acquisiscono infatti la facoltà di stampare dollari in misura illimitata nella misura in cui possono trasformare il debito nazionale in riserve valutarie di altri Paesi, dribblando la necessità di accumulare risparmi al proprio interno. Al tempo stesso, il nuovo sistema monetario internazionale crea le condizioni per un’orgia speculativa di proporzioni colossali, per l’invenzione di nuovi strumenti finanziari ad alto rischio e per l’indebolimento della capacità di controllo degli stati capitalistici sulla regolamentazione del denaro mondiale.
La conferenza di Bretton Woods
Il secondo atto di questa marcia di avvicinamento a una compiuta finanziarizzazione dell’economia coincide con il modo in cui gli Usa gestiscono lo shock petrolifero degli anni Settanta. La montagna di petrodollari incassata dai Paesi produttori viene canalizzata verso i Paesi in disavanzo attraverso le banche di Wall Street, mentre le imprese petrolifere nordamericane racimolano profitti sufficienti per sviluppare nuove tecniche di perforazione.
Siamo così giunti alle soglie della controrivoluzione neoliberale che parte nei primi anni Ottanta sull’onda lunga degli shock petroliferi. Sono gli anni della svolta monetarista che mira a garantire la stabilità dei prezzi e a contenere i salari grazie a elevati tassi di disoccupazione. Viene accantonato il principio dell’equilibrio dei conti con l’estero e vengono revocate le politiche espansive, per tacere dell’abbassamento delle imposte su redditi elevati e imprese. Avanzano deregulation, terziarizzazione e trasferimento delle produzioni verso il Terzo Mondo: le imprese Usa concentrano l’attenzione sul core business e subappaltano tutto il resto. Ne consegue un rapido processo di deindustrializzazione che va ad accrescere la rust belt degli Stati centrali e genera desertificazione urbana e aumento della criminalità e della tossicodipendenza. Sono, anche, gli anni in cui la Trilaterale pubblica il suo rapporto sui limiti della democrazia, riconoscendo piena legittimità al progetto oligarchico che il guru del neoliberismo von Hayek prospettava già ai tempi della I Guerra mondiale. Nel frattempo i cittadini americani vengono incoraggiati a indebitarsi per comprare case, automobili, elettrodomestici e altri beni di consumo.
Gabellini analizza anche l’impatto del crollo sovietico su questa globalizzazione in salsa americana, anche se qui mi limito a ricordare un aspetto specifico di questa fase iniziale della transizione a un mondo unipolare (destinata, in barba agli auspici di Fukuyama, a durare poco): vale a dire il superamento della logica bipolare della Guerra Fredda, che fa sì che gli alleati politici e militari degli Usa divengano ora i loro rivali economici. Gli americani reagiscono infatti alla penetrazione di europei e giapponesi sui loro mercati (agevolata dal processo di deindustrializzazione) a suon di attacchi speculativi. Il primo a farne le spese è il Giappone: quando la Banca Centrale giapponese vara una stretta creditizia per evitare il surriscaldamento dell’economia, Wall Street lancia un attacco speculativo che spinge il Paese asiatico in una spirale deflattiva che provocherà una stagnazione decennale. Poi tocca all’Europa: l’offensiva contro lo Sme sceglie come bersaglio principale l’anello debole italiano, per mettere in chiaro che non saranno tollerate le velleità di rimpiazzare il dollaro con l’euro nel ruolo di moneta regina.
Sorvolo sull’analisi che Gabellini dedica agli effetti del nuovo shock petrolifero associato alla seconda Guerra del Golfo per venire alla terza – e decisiva – tappa del processo, caratterizzata dalla rivoluzione digitale e dall’utopia della New Economy. Le nuove tecnologie hanno l’effetto di un poderoso moltiplicatore su tutti i processi sin qui esposti. Le reti informatiche integrano i mercati finanziari del mondo intero e portano a livelli incredibili la velocità delle transazioni, mentre l’intelligenza artificiale automatizza scelte e decisioni ed elabora modelli di valutazione del rischio che alimentano illusioni di onnipotenza (oltre a distribuire immeritati Nobel per l’economia). I miti della Silicon Valley promettono ricchezza illimitata per tutti (promessa che si avvera solo per un pugno di manager del settore), e garantiscono il trionfo del capitale su tutti i limiti spazio temporali. Così le multinazionali (non solo informatiche) rinnegano la logica territoriale alla quale era a lungo rimasta ancorata la potenza della nazione americana e disseminano in tutto il mondo le loro filiere alla ricerca di migliori vantaggi comparati, migrando verso l’Asia ma soprattutto verso la Cina, che diventa in pochi anni la ”fabbrica del mondo”, mentre gli Stati Uniti completano la loro trasformazione in un’economia deindustrializzata e fondata sull’accumulazione finanziaria.
Mentre le sinistre postoperaiste si lasciano abbagliare dalla “smaterializzazione” del lavoro e sognano le magnifiche sorti e progressive dei knowledge workers (tema per il quale rinvio ad alcuni miei lavori), la realtà è quella dell’impoverimento di larghe masse di cittadini, del depauperamento dell’apparato produttivo del Paese, sempre più dipendente da fornitori stranieri (anche per componenti cruciali dal punto di vista militare) e del vertiginoso aumento delle disuguaglianze (il rapporto fra stipendi dei dirigenti quelli degli operai nel 98 è di 419:1). Il prezzo della deindustrializzazione associata alla scommessa sull’intreccio fra finanza e rivoluzione digitale viene a galla quando, dopo avere raggiunto il picco dell’euforia nel 1999, il NASDAQ crolla rovinosamente ai primi del Duemila. Ma per veder sgonfiare la bolla finanziaria occorrerà attendere il 2007/2008, allorché scoppia il bubbone immobiliare alimentato dal debito privato associato ai titoli subprime. Nessuno dei responsabili pagherà perché, nel frattempo, la deregulation ha favorito un imponente processo di concentrazione bancaria dando vita a conglomerati “troppo grandi per fallire”, sui quali il governo farà scendere una pioggia di migliaia di miliardi per consentire a un modello di accumulazione decotto di tirare avanti.
Per decenni, scrive Gabanelli tirando le somme della sua ricostruzione, il meccanismo ha funzionato grazie al ripetersi di “cicli del dollaro”, alternando cioè fasi prolungate di debolezza valutaria a intervalli più brevi di rafforzamento della moneta, una strategia che ha permesso agli Usa di regolare a piacimento i conti con l’estero, inondando e deprivando i Paesi stranieri di capitali tramite la manipolazione del tasso di interesse. A tutto ciò si sono accompagnati il costante allargamento del bilancio del Pentagono, il proliferare delle “operazioni di polizia” internazionali ed altre esibizioni muscolari per costringere i Paesi in via di sviluppo e le altre nazioni industrializzate a stivare riserve di dollari e investire nei circuiti di Wall Street e in titoli del Tesoro Usa (un meccanismo tipicamente mafioso, in ragione del quale, ironizza Gabellini, “chi offre la protezione è lo stesso autore della minaccia, il quale esige il pagamento del pizzo per perpetuare la propria funzione parassitaria”). Ma il dispositivo si inceppa nel momento in cui le turbolenze generate da una struttura gravata da ipertrofia finanziaria rendono ingestibile questo strumento di distruzione delle economie rivali. Così gli Stati Uniti si ritrovano trasformati in una sorta di “moderna struttura feudale”, al centro d’un processo di polarizzazione fra una plutocrazia di super ricchi ed una plebe impoverita e incanaglita che manifesta la sua rabbia prima con il voto a Trump, poi con l’assalto al Campidoglio del 6 gennaio 2021.
La marcia di Capitol Hill
Ora il pericolo è che, per perpetuare la propria egemonia, a Washington resti solo la via di scatenare una guerra contro un nemico esterno per riconquistare la coesione interna. Quale miglior candidato di una Cina che, mentre Washington perdeva sempre più colpi, accumulava una potenza economica, politica, tecnologica e militare tale da candidarla al ruolo di nuova nazione egemone?
II. La via cinese. Ovvero: come vincere la guerra senza combattere
In che modo la Cina è riuscita a trasformarsi in tempi record da Paese povero, appena uscito da decenni di occupazione straniera e di guerra civile, in grande potenza mondiale? La risposta di Gabellini si potrebbe sintetizzare con questa metafora: ce l’ha fatta applicando i principi delle arti marziali orientali, che sfruttano la forza dell’avversario per rivolgergliela contro. Le stesse logiche della globalizzazione, sulle quali gli Stati Uniti hanno costruito la propria schiacciante egemonia sul resto del mondo, sono state sfruttate dalla Cina sia per creare milioni di posti di lavoro a spese della brama occidentale di appropriarsi di quell’immenso mercato in formazione, sia per impadronirsi delle tecnologie e dei know how altrui e accumulare sottotraccia un’immensa potenza economica. Perché gli Usa non hanno saputo prevedere, né tantomeno prevenire, questa evoluzione? Sia perché non avevano capito la capacità cinese di sganciare la logica del potere politico da quella del potere economico, sia perché i cinesi sono riusciti a impedire all’avversario di elaborare efficaci strategie di contrasto.
Nel momento in cui favorivano l’integrazione della Cina nel WTO, e nel momento i cui le loro imprese multinazionali realizzavano colossali investimenti nelle zone speciali nate dalle riforme successive alla morte di Mao, gli americani erano convinti di avere creato i presupposti per la nascita di una potente borghesia cinese che, in tempi relativamente brevi, avrebbe scalzato il Partito Comunista dalla guida del Paese e dato vita a un governo democratico di tipo occidentale. Non si tratta di stupidità, bensì dell’assoluta incapacità di concepire logiche capaci di sottrarsi all’influenza delle idee, dei principi e dei valori occidentali una volta che si sia accettata la logica del mercato. Detto altrimenti: o comandano la politica e lo Stato, o comanda il mercato, tertium non datur.
A questo punto di vista, smaccatamente eurocentrico, manca qualsiasi consapevolezza di una millenaria tradizione politico-culturale che ha fatto sì che la Cina, nemmeno quando, perlomeno fino al secolo XVIII, era più ricca e avanzata dell’Occidente, si sia mai trasformata in un Paese capitalista. Scrive Gabellini in proposito, citando Braudel: ”lo Stato cinese (…) è sempre stato tenacemente ostile alla proliferazione del capitalismo. Ogni volta che il capitalismo tende a espandersi, sotto l’impulso di circostanze favorevoli, alla fine viene sempre riportato sotto controllo da uno Stato che possiamo definire – privando il termine del significato peggiorativo che ha oggi – tendenzialmente totalitario”. Occorrerebbe aggiungere che non solo la cultura liberale, ma anche quella marxista fatica a capire la realtà cinese, ingabbiata com’è nel dogma secondo cui la penetrazione del mercato in economie “arretrate” è fatalmente destinata a trasformare queste ultime in economie capitaliste. Solo Giovanni Arrighi, seguendo la lezione di Polanyi piuttosto che quella di Marx, sembra avere capito che le logiche di politica e mercato possono – date certe condizioni storico-culturali – divergere. Tanto è vero che, intervenendo nel dibattito sulla natura del regime cinese che divideva i teorici marxisti, ebbe a scrivere che “si possono aggiungere capitalisti a volontà a un’economia di mercato, ma se lo Stato non è subordinato al loro interesse di classe quell’economia di mercato rimane non capitalistica”.
Sta di fatto che Pechino, pur integrando una parte significativa della propria economia nei circuiti del capitalismo globalizzato, si è sempre rifiutata di allineare la propria politica economica ai canoni del Washington Consensus (le fazioni interne al regime che ci hanno provato sono state sistematicamente emarginate). Infatti ha mantenuto il controllo sui movimenti di capitale, ha fatto sì che la presenza dello Stato nell’economia – soprattutto nei settori strategici – non sia mai scesa al di sotto di una soglia critica, ma soprattutto l’apertura ai capitali stranieri non è mai stata incondizionata: le imprese che investono in Cina sono tenute a istituire società compartecipate con quelle locali e a trasferire know how scientifici e tecnologici a queste ultime. Inoltre le barriere protettive non sono mai state abbassate del tutto, ma hanno continuato a funzionare come membrane semipermeabili. Così, per esempio, quando gli Stati Uniti hanno scatenato la guerra finanziaria contro le tigri asiatiche, l‘ondata speculativa si è infranta contro lo yuan che, in ragione della sua non convertibilità sui mercati internazionali, ha agito da scudo protettivo. Senza dimenticare che la Cina, mentre si assicurava i vantaggi di un processo di industrializzazione trainato dall’export, proteggeva la propria struttura economica dietro barriere informali come la lingua e le usanze locali, che impongono agli stranieri di ricorrere a intermediari cinesi per interagire. Infine, ora che l’amministrazione Usa cerca di correre ai ripari adottando strategie di “disaccoppiamento” fra i due sistemi economici, si scontra con la resistenza di Wall Street che non rinuncia al sogno di accedere all’immenso bacino del risparmio cinese. Mosse di judo: ovvero dirottare l’energia del nemico in modo da renderla funzionale alla realizzazione dei propri obiettivi.
Questo “mood” culturale, che i comunisti del Dragone definiscono con termini come socialismo in stile cinese o sinizzazione del marxismo, non è di difficile decifrazione solo per la cultura liberal democratica, ma anche per i marxisti “ortodossi” (ammesso e non concesso ne esistano ancora), che spesso reagiscono appioppandogli la anacronistica etichetta di revisionismo. Né i primi né i secondi capiscono in che misura l’attuale versione cinese del marxismo sia debitrice del recupero di tradizioni millenarie come il confucianesimo e il taoismo (e forse lo è sempre stata: sebbene Mao abbia spesso alluso alla necessità di liquidare questo retaggio, basta leggerne gli scritti di strategia e tattica militare, per rendersi conto di quanto ne fosse lui stesso intriso). Come nota Gabellini, solo il radicamento dell’etica confuciana è in grado si spiegare la straordinaria capacità di lavoro e il grande senso di disciplina degli operai e dei contadini cinesi, per tacere di quel sentimento comunitario che agisce come una “grande muraglia capace di impedire che la modernizzazione tecnico scientifica possa sfociare nell’importazione dei principi dell’individualismo e del soggettivismo occidentali”. Sempre al confucianesimo (e al taoismo) è ascrivibile la filosofia che consiglia di non perseguire i propri obiettivi in modo brutalmente diretto, tentando di modificare con la forza l’ambiente in cui si opera (come gli Usa che tentano di rovesciare i regimi che considerano in contrasto con i propri interessi), bensì di evitare di forzare le situazioni senza al contempo subirle passivamente, aiutandole invece ad evolvere nella direzione che tendono ad assumere spontaneamente.
La parola d’ordine è vincere senza (se possibile) combattere. Un understatement tutt’altro che privo di risultati concreti, come si può evincere dai formidabili risultati ottenuti e dai nuovi ambiziosi obiettivi che vengono fissati. In pochi decenni la Cina ha liberato dalla miseria centinaia di milioni (fra i 600 e gli 800 secondo le stime) di persone; ha costruito un apparato di formazione e ricerca universitarie che sforna ogni anno una messe di lauree in materie scientifiche tre volte maggiore rispetto agli Stati Uniti, rispetto ai quali deposita anche il doppio dei brevetti, a conferma del fatto che ormai non è più la fabbrica del mondo che produce semilavorati e merci “fordiste” di bassa qualità, ma un colossale hub di know how avanzati in grado di gareggiare con la Silicon Valley e la NASA (La quota di valore aggiunto su scala globale del settore high tech cinese è cresciuta dal 7 al 27% tra il 2003 e il 2014, a fronte di una diminuzione dal 36 al 29% registrata dagli Usa). Per tacere del ritmo di sviluppo impressionante di un’industria militare che sforna aerei e missili di ultima generazione e potenzia a ritmo accelerato la marina da guerra.
Deng Xiaoping con Zhou Enlai
Quali le radici del ”miracolo”? Posto che non andrebbe dimenticato che i suoi presupposti erano già stati gettati nel corso dell’era maoista, durante la quale, al netto degli errori commessi nel corso del Grande Balzo in avanti e della Rivoluzione Culturale, erano stati radicalmente migliorati la salute e i livelli di educazione delle masse, oltre a costruire l‘apparato industriale di base e a sviluppare molte infrastrutture strategiche, è fuori di dubbio che, morto Mao, Deng e Zhou abbiano spostato l’asse strategico dalla centralità della lotta di classe alla crescita economica e all’armonia fra classi e aree regionali, elaborando la teoria delle “tre rappresentanze”: non solo quelle degli interessi di operai e contadini ma anche quella dell’intera nazione. Il mandato di Jiang Zemin si è poi concentrato sull’obiettivo di irrobustire il sistema bancario, evitando di sacrificare le aziende pubbliche improduttive sull’altare dell’efficienza (scelta che avrebbe generato decine di milioni di disoccupati), ma spingendole a imboccare la via della riorganizzazione. Dopodiché il suo successore, Hu Jintao, ha spostato l’attenzione sulle carenze del sistema sociale, mandando i dirigenti del partito a studiare i sistemi di welfare scandinavi. Infine Xi Jinping, che un’amministrazione americana sempre più preoccupata della mancata transizione della Cina al capitalismo accusa di neomaoismo e “populismo”, è oggi il protagonista di una complessa svolta strategica dalle molteplici sfaccettature. Sul piano finanziario: vengono disciplinati i mercati azionari, tentando di contenere la propensione all’indebitamento e di prevenire il rischio di una bolla immobiliare; per affrontare gli effetti della crisi del 2008 viene varato un colossale piano di investimenti pubblici da 4000 miliardi di yuan per potenziare la rete infrastrutturale con ferrovie ad alta velocità, autostrade, porti e aeroporti; si procede alla riduzione degli investimenti in titoli di stato Usa (la quota complessiva del debito americano posseduta da Pechino scende dal 14% al 4% tra il 2011 e il 2020). Sul piano delle politiche sociali: si marcia verso la universalizzazione della sanità pubblica, si tenta di contrastare gli effetti demografici della politica del figlio unico, che aveva causato un pericoloso invecchiamento della popolazione. Sul piano del conflitto di classe: per rintuzzare gli sforzi dei capitalisti che tentano di convertire la loro ricchezza in potere politico (anche attraverso la corruzione dei quadri amministrativi e di partito, soprattutto locali) si colpiscono figure simboliche come Jack Ma, il magnate fondatore di Alibaba, la Amazon cinese, si piazzando commissari politici nelle aziende, si intensificano controlli ambientali e fiscali, si lanciano dure campagne contro la corruzione. In sintesi: gli obiettivi dello Stato/partito si sono spostati dalla crescita a ritmo accelerato a finalità più complesse come la ridistribuzione della ricchezza, la sicurezza sociale e la tutela ambientale.
A rendere minacciosa e intollerabile per gli Stati Uniti l‘ascesa della Cina, tuttavia, non sono solo e tanto gli aspetti sin qui evidenziati: è la crescente capacità di proiezione del modello cinese nei confronti degli altri Paesi appartenenti a quello che anni fa si definiva il Terzo Mondo. L’incubo di Bandung (la vecchia Conferenza dei Paesi non allineati) si ripresenta: quel progetto è fallito sostanzialmente perché, non avendo gambe economiche, è stato liquidato dalle strategie neocoloniali dell’Occidente, viceversa la nuova Bandung, erede del disegno strategico di Deng e Zhou, i quali sognavano di trasformare la Cina nel polo di attrazione di una coalizione di campagne in grado di accerchiare le metropoli mondiali, rischia di rappresentare una minaccia ben più agguerrita.
La conferenza di Badung
La decolonizzazione parte dalla Cina stessa che, dopo avere accumulato risorse enormi svolgendo per anni il ruolo di fabbrica del mondo, le sta ora impiegando per creare una classe media interna che le consente di affrancarsi sempre più dall’Occidente, ignorandone le minacce di sganciamento dal mercato cinese (secondo alcune proiezioni nel 2030 il ceto medio cinese conterà 1,2 miliardi di persone, pari al 25% della classe media globale, con un potere di acquisto di 14.500 miliardi di dollari, pari a quello europeo e nordamericano combinati). Ma poi si proietta nel mondo attraverso colossali progetti di investimenti diretti all’estero. In Africa, dove la Cina ha acquisito importanti concessioni per l’esplorazione petrolifera e autorizzazioni per costruire infrastrutture destinate a dare un impulso straordinario allo sviluppo locale (in Occidente si accusa la Cina di incastrare i Paesi africani nella trappola del debito, ma la verità è che gli aiuti cinesi – a tassi agevolati e non vincolati a scelte di tipo economico e politico – consistono soprattutto nella realizzazione di reti ferroviarie e stradali, porti e aeroporti e altre infrastrutture in grado di interconnettere regioni che non avevano mai potuto scambiare autonomamente le rispettive merci, condizione indispensabile per innescare il decollo dello sviluppo continentale). In America Latina, dove la Cina ha investito 50 miliardi di dollari per la costruzione di un canale alternativo a quello di Panama (controllato dagli Usa) in Nicaragua, e progettato una ferrovia che andrà dall’Atlantico al Pacifico all’altezza del Brasile. In Asia, dove l’Asia Infrastructure Investments Bank, un istituto che ambisce a entrare in concorrenza diretta con Fmi e Banca Mondiale, si prefigge di realizzare infrastrutture nella regione asiatico-pacifica e dove la BRI (sigla che connota la cosiddetta Nuova Via della Seta) già protende le sue reti ferroviarie e stradali nei Paesi confinanti ma mira a prolungarle fino all’Europa.
Ovunque nel mondo Pechino promuove nuove forme di sviluppo ancorate ai vari contesti territoriali e culturali, alternative a quelle innescate dai processi di finanziarizzazione promossi dalla controrivoluzione neoliberale, rendendone evidente il fallimento. La paranoia americana è dunque giustificata? Siamo di fronte a un imminente cambio della guardia fra potenze egemoni, sul tipo di quello che ha visto gli Usa spodestare la Gran Bretagna nel secolo scorso? In verità, come evidenzia Gabellini riprendendo analoghe considerazioni che Giovanni Arrighi aveva fatto anni fa, la Cina non sembra perseguire un simile obiettivo: il suo fine dichiarato è piuttosto quello di costruire un nuovo ordine globale “che permetta a tutte le nazioni grandi o piccole, povere o ricche di ritagliarsi il proprio spazio e coltivare in propri interessi su un piano paritario”. Astuta diversione tattica che nasconde la brama di potere del Dragone? Questa è la tesi delle amministrazioni americane – poco importa se democratiche o repubblicane – e delle loro “teste d’uovo”. Con rare eccezioni, una delle quali ci viene segnalata da Gabellini laddove cita le seguenti parole di Kissinger: “per tutto il corso della loro storia, gli Stati Uniti sono stati spesso animati dalla convinzione che i loro ideali avessero un’importanza universale e che fosse necessario diffonderli, la Cina ha invece agito sulla base della propria singolarità: si è espansa per osmosi culturale non per zelo missionario”.
È una conferma dell’intelligenza della vecchia volpe che ha passato la vita intera ad architettare tutti i modi possibili per incastrare gli avversari del dominus di Washington. Ma la sua lucida comprensione del fatto che lo spirito profondo della cultura cinese è tale per cui Pechino, così come evita di importare modelli stranieri, non ambisce a esportare il proprio, non mette in questione il carattere antagonistico della relazione fra i due giganti: in primo luogo, perché per gli Stati Uniti, nella misura in cui vedono sempre più indebolito il proprio ruolo egemonico, è la mera esistenza di una realtà come quella cinese a rappresentare una sfida mortale; inoltre perché i cinesi, benché non vogliano “rimpiazzare” gli Usa, bensì costruire un nuovo ordine internazionale fondato sull’assenza di un centro egemonico propriamente detto, questo significa, dal loro punto di vista, restaurare l’antica grandezza dell’Impero di Mezzo, aduso a governare sul resto del mondo “per osmosi culturale”, per usare l’immagine di Kissinger, invece che attraverso la forza (Gramsci l’avrebbe definita egemonia senza dominio).
Confucio
Brevi considerazioni conclusive
La recensione che avete appena finito di leggere non rende giustizia al lavoro di Gabellini. Sia perché, come ho già ripetutamente confessato, ho omesso di discuterne alcuni passaggi importanti: dall’analisi del conflitto Usa-Urss e degli effetti della caduta del blocco socialista sull’evoluzione delle politiche imperiali americane, alla dettagliata descrizione che l‘autore fa dei conflitti fra le diverse fazioni interne al blocco di potere statunitense e del modo in cui si sono riflessi nel succedersi delle varie amministrazioni repubblicane e democratiche. Ma anche perché mi sono permesso di interpolare il riassunto dei contenuti del libro con una serie di considerazioni sia del sottoscritto che di altri autori, anche se spero di averlo fatto rispettando lo spirito dell’opera. Salvo eccezioni (vedi i riferimenti a Braudel, Arrighi, Polanyi e Streeck) non ho esplicitato questi debiti, né ho inserito note, anche per non appesantire la lettura di un testo fin troppo lungo per gli standard di una recensione online.
Non ritengo di dover aggiungere molto a quanto scritto nella prima sezione, anche perché, mentre Gabellini ha compiuto un colossale e meritorio lavoro di raccolta di dati e informazioni storiche (leggendo questo libro ho imparato un sacco di cose che ignoravo), dal punto di vista teorico la sua analisi non aggiunge novità sostanziali a quanto ci hanno già insegnato Braudel, Arrighi, Gallino e altri sul tema della finanziarizzazione dell’economia. Diverso il discorso sulla parte dedicata all’ascesa della Cina. Qui il contributo di Gabellini è decisamente importante perché aiuta a capire due cose fondamentali: 1) il fatto che il modello socialista cinese sovverte molti dogmi della tradizione marxista “classica”, a partire dalla convinzione che mercato e capitalismo siano un’endiadi inscindibile (che è poi la stessa convinzione della cultura neoliberale, la quale sperava che le riforme del 78 avrebbe automaticamente distrutto il socialismo in Cina) , laddove l’esperienza della rivoluzione cinese – ma anche quelle della rivoluzione vietnamita e di alcuni Paesi latinoamericani – ci dicono che, date certe condizioni storiche, il potere politico è in grado di mantenere il controllo sulle dinamiche dell’economia di mercato e di finalizzarle al benessere delle masse invece che allo sfruttamento delle classi lavoratrici. Del resto, non è un caso se anche il governo cubano comincia a guardare al modello cinese per avviare riforme che lo aiutino a superare la crisi (vedi quanto ho scritto in proposito sull’ultimo articolo pubblicato su questo blog); 2) il fatto che non è possibile afferrare la logica del “miracolo” cinese senza capire il ruolo svolto dallo stretto intreccio fra cultura marxista ed etica confuciana che inspira le scelte del Partito Comunista Cinese. Il che, fra le altre cose, mette in crisi un altro dogma del marxismo “volgare” (cioè incapace di evolvere in funzione delle lezioni della storia), vale a dire l’idea secondo cui esisterebbe un processo necessario, una “legge”, in ragione del quale il mondo converge verso forme sociali che ripercorrono il processo evolutivo del capitalismo occidentale. Un punto di vista che non è solo ciecamente eurocentrico – e quindi al fondo razzista – ma anche inspirato a una sorta di meccanicismo economico che ignora il ruolo delle specificità culturali nel determinare il percorso evolutivo dei singoli popoli. Ed è nella specificità cinese, di cui fa parte anche la vocazione a evitare – nei limiti del possibile – di risolvere il conflitto con le armi, che dobbiamo sperare per evitare che il declino americano si traduca in una nuova, catastrofica guerra mondiale.
venerdì 7 gennaio 2022
CUBA AL BIVIO
Un libro a più voci sulla crisi cubana
Cuba 11J. Protestas, respuestas, desafíos, curato da Julio Carranza Valdés, Manuel Monereo Pérez e Francisco Lopez Segrera ed editato dalla ELAG (Escuela de Estudios Latinoamericanos y Globales) e dalla rivista argentina Pagina 12 è un libro (uscito nel dicembre scorso) che prende spunto dalle manifestazioni di protesta che si sono svolte in alcuni quartieri dell’Avana e in altre città cubane l’estate scorsa, per analizzare le difficoltà che il Paese socialista caraibico si trova a fronteggiare a causa della crisi pandemica e del concomitante inasprimento del bloqueo imposto dall’amministrazione degli Stati Uniti (voluto da Donald Trump e confermato dal neopresidente democratico Joe Biden). Il libro si articola in 16 capitoletti firmati da altrettanti autori (economisti, sociologi, politologi ed esponenti di altre discipline) ed è dedicato ad uno di essi, il sociologo e storico della Rivoluzione cubana Juan Valdés Paz, venuto a mancare lo scorso ottobre. In appendice il testo di un discorso tenuto dal Presidente Miguel Diaz Canel il 18 luglio 2021 e alcune interviste a intellettuali ed artisti, nonché a giovani studenti che hanno partecipato alle proteste.
I punti di vista espressi dagli autori nei sedici testi raccolti nel volume sono articolati e differenziati, per cui è praticamente impossibile riassumere il contenuto del libro. Ho quindi deciso di non stendere un banale elenco delle varie posizioni, bensì di concentrare l’attenzione sui sei contributi che mi sono parsi più stimolanti, raggruppando i temi che vi sono trattati in tre aree: (1) ricostruzione degli adempimenti del regime nei primi trent’anni di vita e delle cause che, a partire dagli anni Novanta, rischiano di metterli a rischio; e valutazione di quali riforme economiche (2) e politiche (3) potrebbero consentire di superare la crisi.
In diversi interventi (vedi, in particolare, Valdés Paz e Carlos Eduardo Martins) si sottolineano gli eccezionali risultati ottenuti da un piccolo Paese dotato di risorse limitate e sottoposto a uno spietato assedio politico ed economico, che dura ormai da più di mezzo secolo, da parte della superpotenza Usa (i motivi di tanto accanimento sono ben spiegati da Manolo Monereo: in primo luogo, Cuba è un pessimo esempio, la cui mera esistenza testimonia la possibilità di una ribellione vittoriosa all’egemonia nordamericana, e lo spostamento a sinistra di molti governi del subcontinente, che oggi conosce un ulteriore rilancio malgrado i tentativi di reprimerlo, rende tale esempio ancora più intollerabile; inoltre agli Stati Uniti serve urgentemente una vittoria politica che esorcizzi gli inequivocabili segnali del suo lento ma inesorabile declino).
Due manifestanti contro il governo
Tornando all’elenco dei successi: lo stato cubano, ricorda Valdés Paz, è riuscito ad esaudire gran parte delle domande sociali e delle necessità basiche della grande maggioranza della popolazione. Le sue realizzazioni nei campi sanitario, educativo e della sicurezza sociale, rincara Eduardo Martins, non hanno eguali in nessuno degli altri Paesi del subcontinente. A rendere possibile questo miracolo ha contribuito in larga misura l’interscambio con l’Unione Sovietica e gli altri Paesi del campo socialista, che ha garantito il mantenimento di un certo livello di sviluppo nei primi decenni di vita del regime, benché il flusso migratorio verso gli Stati Uniti di numerosi appartenenti alle classi medie – fra cui molti tecnici qualificati – abbia depauperato la nazione di buona parte del suo capitale di conoscenze. La caduta del blocco socialista dell’Est Europa ha avuto un impatto devastante sul sistema economico cubano, che nei primi anni Novanta ha visto crollare della metà il Pil. Dopo le proteste del 1994, il governo ha reagito varando il Periodo Speciale, consistente in una serie di riforme, fra le quali una limitata apertura all’ingresso di capitale straniero, la creazione di imprese miste e cooperative, la possibilità di attivare forme di autoimpiego (associate in particolare al settore turistico e all’attivazione del regime della doppia moneta). Proprio il boom turistico, unitamente alla esportazione di personale sanitario in vari Paesi in via di sviluppo (resa possibile dei grandi investimenti effettuati nel settore), e agli aiuti del governo venezuelano dopo l’ascesa al potere di Hugo Chavez, avevano consentito di recuperare, benché parzialmente, il terreno perso per il venir meno dell’interscambio con i Paesi dell’Est Europa.
Quali le cause dell’inversione di questa lenta ripresa? Quasi tutti gli interventi concordano nell’indicare tre fattori: l’inasprimento del bloqueo economico e finanziario americano deciso da Trump e ratificato da Biden (che prevede, fra le altre cose, il blocco delle rimesse da parte degli emigrati), l’impatto della pandemia (devastante soprattutto per il crollo del flusso turistico che, come appena ricordato, era stato uno dei motori più importanti della ripresa), infine i ritardi governativi nell’implementazione delle riforme economiche. Tuttavia gli autori si differenziano rispetto al diverso peso attribuito a ciascuno di tali fattori.
Alcuni pongono l’accento soprattutto sull’aggressione esterna, come Luis Pérez Jr., il quale mette in luce come la declassificazione di documenti secretati dall’amministrazione americana abbia ampiamente confermato l’enorme, sistematico e continuativo impegno profuso da quest’ultima per promuovere un cambio di regime a Cuba. Non mancano tuttavia le critiche – anche dure – nei confronti del regime per avere sottovalutato lo scontento di ampi strati popolari e l’urgenza di affrontarlo accelerando le riforme (Julio Carranza attribuisce questi errori di valutazione e questi ritardi anche al venire meno della leadership storica e all’avvento di una nuova generazione di dirigenti dotati di minori capacità, ma soprattutto di minore autorevolezza).
In alcuni casi le critiche si spingono ad accusare ingenerosamente il governo di utilizzare l’argomento del bloqueo come una “scusa” per giustificare le proprie manchevolezze. In generale, tuttavia, ci si limita a mettere in luce come il deterioramento della situazione sociale nei barrios più poveri sia tale da giustificare le proteste: crescente difficoltà di ottenere alimenti e medicinali essenziali, frequenti interruzioni nell’erogazione di luce e acqua; diffusa percezione di una certa inefficienza nella gestione della pandemia (che alcuni addebitano a strategie comunicative sbagliate, più che a reali errori gestionali). Juan Valdés Paz aggiunge che questo scollamento fra stato/partito e società civile è in larga misura addebitabile ai radicali mutamenti che la società cubana ha subito a partire dagli anni Ottanta. La composizione di classe è cambiata a causa dell’ascesa di alcuni strati del settore contadino e di borghesia mercantile urbana, oltre che alla nascita di un settore di lavoro autonomo (cuentapropistas). Processi che hanno alimentato la crescita delle disuguaglianze a danno dei settori poveri e marginali e l’emergenza di una nuova classe media “riflessiva”. Valdés Paz mette inoltre l’accento sul conflitto generazionale: a Cuba convivono oggi sette generazioni, di cui le ultime tre non hanno vissuto la fase epica ed espansiva del processo rivoluzionario, ma solo l’esperienza di una successione di crisi economiche. A proposito di questo fattore generazionale, praticamente tutti insistono sul ruolo dei social network: nel 2019 il 63% della popolazione aveva già la possibilità di accedere a Internet, il che – assieme ai contatti con i milioni di turisti occidentali – ha favorito la penetrazione di idee, modelli culturali e stili di comportamento dall’estero (in primo luogo dagli Stati Uniti). Il tutto con un impatto a dir poco ambivalente perché, se da un lato ciò ha ampliato lo spazio potenziale di partecipazione democratica, dall’altro ha operato come canale di una propaganda sovversiva finanziata dall’esterno del Paese.
Il Presidente Miguel Diaz Canel con Raoul Castro
Sulle questioni della composizione di classe e dei conflitti generazionali ritornerò in sede di commento conclusivo. Prima è il caso di descrivere quali sono le riforme economiche e politiche che, secondo la maggioranza degli autori, il governo cubano dovrebbe realizzare per salvare la sovranità e l’indipendenza del Paese mantenendo, nel contempo, il carattere socialista del sistema. Julio Carranza affronta di petto il dilemma che Cuba si trova a dover affrontare: da un lato è evidente che, nel momento in cui si imbocca la via della privatizzazione di una parte dell’economia, occorre essere consapevoli del fatto che il fine dell’impresa privata, a prescindere dal suo tasso di “responsabilità sociale”, è e resta il profitto, e che solo perseguendo tale finalità essa può promuovere la crescita e l’occupazione, il che comporta inevitabilmente l’aumento e la concentrazione della proprietà e della ricchezza, in contraddizione con la natura socialista del sistema; dall’altro lato questa crescita, che può essere ottenuta solo diversificando le forme di proprietà e le regole di gestione delle imprese pubbliche, può convivere con il socialismo solo garantendo un’equa distribuzione della ricchezza così creata. Per realizzare la quadratura del cerchio Carranza, al pari di quasi tutti gli altri autori, si inspira esplicitamente al modello cinese e vietnamita, due esperienze che hanno dimostrato nei fatti come ciò che definisce una società socialista non è l’eliminazione del mercato, né l’eliminazione totale della proprietà privata sui mezzi di produzione (via a lungo perseguita dal regime cubano sulle tracce dell’esperienza sovietica) bensì il mantenimento del controllo e dell’egemonia politici sul capitale. Come imboccare questa strada? Promuovendo nuove forme di investimento condivise fra stato e settore privato e cooperativo, limitando gli investimenti privati – soprattutto se esteri – nei settori considerati strategici, offrendo maggiore autonomia alle imprese di stato in un contesto di mercato regolato (adottando cioè forme di pianificazione più flessibili e mantenendo elevati livelli di centralizzazione solo nei settori prioritari), risolvendo infine i problemi di equilibrio finanziario legati alla recente decisione di liquidare il doppio regime monetario. Il tutto dovrebbe consentire di generare e ridistribuire più risorse e aumentare i salari garantendo i livelli più elevati possibili di uguaglianza (quel “possibili” è una chiara allusione all’aumento delle disuguaglianze generato dalle riforme cinesi, sia pure in un contesto di eliminazione della povertà per centinaia di milioni di persone). Ovviamente si ribadisce che va mantenuto l’accesso universale gratuito a salute, educazione e sicurezza sociale e, sempre se possibile, ampliato il welfare attraverso nuove politiche sociali più focalizzate.
Non ho qui lo spazio, né conosco abbastanza la realtà cubana, per giudicare in che misura queste riforme possano essere realizzate. Mi limito ad osservare che il modello sino-vietnamita si riferisce a due Paesi che dispongono di estensioni geografiche e popolazioni immensamente superiori a quelle cubane (oltre che di risorse naturali non meno superiori) né devono fare i conti con il bloqueo da parte di un nemico poderoso e incombente come quello nordamericano. Del resto penso che anche chi le propone non ignori queste differenze, visto che in quasi tutti gli interventi si insite sulla necessità di riconfigurare la collocazione di Cuba nell’attuale contesto geopolitico mondiale, il che – tenuto conto del venir meno dell’aiuto da parte di un governo venezuelano che si dibatte in difficoltà non meno gravi – non può significare altro che auspicare un massiccio apporto finanziario, tecnologico e scientifico da parte della Cina. Al tempo stesso, mi viene da pensare che i ritardi rimproverati alla nuova dirigenza dello stato/partito nel mettere in pratica le riforme approvate negli ultimi anni, che andavano già nelle direzioni appena descritte, possano essere dovuti alle difficoltà obiettive generate dalla situazione nazionale e internazionale più che, o almeno non solo, all’incapacità della classe dirigente.
La contromanifestazione organizzata dal governo
Con quest’ultima considerazione ho introdotto il tema delle riforme politiche, che vengono invocate con non minore veemenza di quelle economiche e che, a mio avviso, appaiono spesso in contraddizione con l’intento di preservare il carattere socialista del sistema. Qui scatta infatti un coro di richieste di libertà di espressione per le opposizioni, di rispetto dei diritti umani e di ampliamento dei diritti individuali, di critiche all’ideologia “statalista” e di superamento della “dittatura del proletariato” (termine che, per chi conosca la realtà politica cubana, suona francamente eccessivo) aprendo a forme di democrazia partecipativa e rappresentativa. Stento a credere che chi avanza tali proposte, assieme a quelle di riforme in salsa cinese, ignori che gli straordinari successi cinesi in campo economico, scientifico e tecnologico siano stati realizzati non malgrado bensì in ragione del mantenimento di un ferreo controllo politico dello stato/partito sull’economia e sulla società. Se il Partito Comunista Cinese, dopo avere promosso le riforme del 1978, che avevano enormemente ampliato il campo dell’iniziativa privata (anche da parte dei capitali stranieri), favorendo la crescita di una potente neoborghesia e di nuovi strati di classe media ad essa collegati, avesse anche consentito che il potere economico accumulato da tali forze si traducesse in potere politico, se non ne avesse stroncato sul nascere le ambizioni politiche (fomentate e alimentate dall’esterno) come si è fatto negli anni Ottanta e più recentemente a Hong Kong, oggi in Cina il socialismo non esisterebbe più. Affermare, come Carranza, “che il socialismo del futuro sarà democratico o non sarà” significa di fatto affermare, ne sia egli o no consapevole, che non sarà, soprattutto se questa filosofia dovesse imporsi in un sistema debole e assediato come quello cubano. Soprattutto perché questa tesi si fonda, come sembra di poter evincere da alcuni passaggi, sul fatto che il peso egemonico dei dogmi occidentali su democrazia, diritti umani e libertà individuali è ormai irresistibile e si è imposto nelle nuove generazioni che se ne abbeverano attraverso i social.
Una lucida confutazione di questo atteggiamento l’ho purtroppo trovata quasi solo nell’articolo di Manolo Monereo il quale, dopo avere ammesso l’esistenza di fattori di crisi reali, che alimentano un discorso politico diffuso negli strati giovanili e veicolato dai social, scrive: tutti vorrebbero avere una democrazia con diritti sociali sul modello nordeuropeo, ma dovrebbero domandarsi quale democrazia, quali diritti, quale libertà per la maggioranza verrebbero loro consentite, una volta ricaduti sotto il dominio statunitense. Nessun discorso su democrazia e diritti umani può oggi prescindere dal fatto che si tratta in primo luogo di un’arma di guerra propagandistica contro Cina e Russia, finalizzata a conseguire un allineamento totale dell’Occidente (e dei Paesi sotto la sua sfera d’influenza) nella nuova guerra fredda. Accettare che questa democrazia è la democrazia sans phrase è una posizione “che si paga con sconfitte politiche e snaturalizzazioni strategiche e programmatiche”. È pur vero, aggiunge, che convertire in strumento di guerra democrazia e diritti umani è oggi meno facile che in passato, dal momento che la degradazione delle democrazie “reali” è sotto gli occhi di tutti. Per riuscirci, occorre stabilire un controllo totale sugli strumenti di informazione e comunicazione, a partire da quella rete che è decisiva per manipolare gli strati giovanili, ecco perché gli intellettuali sono molto importanti, ed ecco perché la scuola e le università, oltre ai media, sono al centro di questa battaglia politico culturale per l’egemonia.
Parto da quest’ultimo spunto per formulare alcune considerazioni conclusive. Una delle cose che mi ha colpito di più nel libro è il fatto che, mentre si insiste sul fatto che il prezzo più alto della crisi viene pagato dagli strati sociali più poveri, il punto di vista di questi strati è del tutto assente: a essere intervistati nell’appendice, per esempio, sono membri delle élite cubane, intellettuali e studenti delle classi medie, presumibilmente esponenti di quei nuovi strati emergenti di cui parla Valdés Paz. Dagli interventi emergono chiaramente le ragioni di insoddisfazione del “popolo minuto”, ma non è chiaro in che misura quest’ultimo abbia partecipato alle manifestazioni di protesta o alle successive contromanifestazioni organizzate dal governo (che alcuni autori criticano per avere contribuito a “polarizzare” il conflitto). Tornando agli eventi di Piazza Tienanmen, è noto che in quel momento esistevano forti motivi di scontento anche nella classe operaia cinese, la quale tuttavia non si è per nulla accodata alle richieste di fuoriuscita dal socialismo di studenti e intellettuali “dissidenti” (esprimendo semmai nostalgia per l’egualitarismo maoista). Lo stato/partito comunista ha potuto riassorbire quello scontento e riconquistare il consenso delle larghe masse, solo dopo avere stroncato le ambizioni di egemonia politica degli strati neoborghesi, i quali volevano assumere il controllo delle riforme, indirizzandole in senso esplicitamente neoliberista. Non mi azzardo ad affermare che possa essere fatto un discorso analogo per la situazione cubana, tuttavia mi pare il caso di tenere conto dell’esperienza di altri Paesi latinoamericani – penso in particolare a Venezuela, Ecuador e Bolivia – dove l’opposizione ai governi postneoliberisti – che ne ha messo a rischio la tenuta – è venuta appunto dalle classi medie urbane e ha visto la saldatura fra forze esplicitamente antisocialiste e minoranze antistataliste “di sinistra”. Ciò non significa affatto ignorare gli errori, le inefficienze, i ritardi che possono essere stati commessi dal regime cubano, che trovano giustificazione parziale, anche se non assolutoria, nelle difficoltà obiettive che ha dovuto e deve affrontare. Ed è vero, come scrive Manolo Monereo, che le rivoluzioni sono eventi eccezionali che non possono durare in eterno, ma devono mantenersi nel tempo con riforme capaci di generare cambiamenti sostanziali generando un nuovo consenso politico e culturale; ma è altrettanto vero che nell’attuale fase di feroce scontro globale fra imperialismo occidentale e Paesi che cercano di sottrarsi al suo dominio, la capacità di imboccare la via delle riforme senza cedere sui principi ideologici fondamentali è determinante: basta poco per gettare il via il bambino con l’acqua sporca, come hanno dovuto imparare a loro spese i popoli dell’ex Unione Sovietica. Concludo dicendo che, a mio avviso, quanto più una situazione di crisi è grave, tanto più è regola salutare dubitare sulle prese di posizione degli intellettuali, e questo perché, come ricorda Monereo, è in primo luogo fra le loro fila, nelle redazioni e nelle università, che il nemico di classe cerca i canali per diffondere i suoi ideali e il suo immaginario.
sabato 25 dicembre 2021
COMPOSIZIONE SOCIOECONOMICA E COMPOSIZIONE SOCIOPOLITICA
QUESTIONI DI METODOdi Carlo Formenti
Rilancio su queste pagine l’articolo che ho scritto per gli amici della rivista “Cumpanis”, con il quale ho inaugurato la discussione lanciata sulla stessa testata da Alessandro Testa con un intervento https://www.sinistrainrete.info/sinistra-radicale/21760-alessandro-testa-l-essenza-per-le-fondamenta.html sul tema della composizione di classe nel tardocapitalismo
Provo a rilanciare gli stimoli che ci ha offerto Alessandro Testa con il suo articolo sul tema della composizione di classe. In questo intervento mi concentrerò soprattutto su alcune questioni di metodo che, a mio avviso, sono imprescindibili per dire qualcosa di sensato sull’argomento in questione. Testa parte dalla constatazione di un dato di fatto: l’evoluzione del modo di produzione capitalistico dai tempi di Marx a oggi è stata tale che il modello “classico”, fondato sull’opposizione bipolare capitale-lavoro non è più una chiave interpretativa sufficiente: il secondo fattore del binomio ha subito tali e tante trasformazioni (il che vale anche per il primo fattore, ma identificare le classi dominanti resta relativamente più facile) che solo un’accurata indagine scientifica può aiutarci a darne un’adeguata rappresentazione “oggettiva” (il significato delle virgolette si capirà più avanti). Dopodiché aggiunge che, a rendere ulteriormente difficile l’impresa, contribuisce il fatto che l’apparato scientifico che potrebbe realizzarla – fondi, ricercatori, istituti universitari, ecc. – è totalmente controllato da élite economiche, politiche e accademiche che non hanno alcun interesse a promuoverla (anzi hanno interesse a impedire che ciò avvenga, o a indirizzare la ricerca verso falsi obiettivi). Posto che l’osservazione è corretta, mi viene da osservare che, per quanto utile, il contributo di analisi empirica che ci potrebbe arrivare dalla ricerca accademica, qualora potessimo disporne, potrebbe integrare ma non rimpiazzare l’analisi teorica di una forza politica anticapitalista di orientamento marxista-leninista.
Sono convinto che uno degli errori più gravi del marxismo dogmatico e accademico sia stato quello di attribuire alle scienze sociali borghesi pari dignità rispetto alle scienze naturali, e ciò in particolare in campo economico, al punto che molti intellettuali marxisti – o sedicenti tali – hanno finito per convertirsi in altrettanti esperti di economia politica, dimenticando che l’intento di Marx non era fondare una nuova economia politica, bensì gettare le fondamenta di una critica dell’economia politica, scoprire, cioè, non le leggi dell’economia capitalistica, bensì le “leggi” della lotta di classe. Le virgolette sono d’obbligo per i motivi chiaritici dal più grande filosofo marxista del Novecento, Gyorgy Lukács: per Marx, scrive Lukács, l’unica vera scienza (s’intende sociale) è la storia, le cui “leggi” non possono essere indagate in astratto, a priori, ma solo post festum, a posteriori, ricostruendo – attraverso un’analisi concreta della situazione concreta – le catene causali che hanno indirizzato un determinato processo storico. Ecco perché penso che il vero ostacolo che oggi rende arduo realizzare un’analisi soddisfacente della composizione di classe non è tanto lo stato in cui versano le scienze sociali accademiche, quanto l’assenza di un partito di classe forte, numeroso e sufficientemente ramificato in tutte le parti della società per poter condurre in prima persona le indispensabili inchieste sul campo.
Quanto appena affermato non può né deve impedire di abbozzare alcune prime riflessioni di metodo da cui partire per dissodare il terreno in vista di successivi approfondimenti. È quanto ha fatto Alessandro Testa attraverso una sorta di percorso circolare che parte dalla – e ritorna alla – affermazione di principio secondo cui appartiene alla classe proletaria: 1) chi vive esclusivamente della vendita della propria forza lavoro, 2) chi, oltre a vivere della vendita della propria forza lavoro, non è in grado di determinarne il prezzo (le star dello sport e dello spettacolo, per esempio, vendono la loro forza lavoro ma sono in grado – chi più chi meno – di determinarne il prezzo). Vediamo le stazioni attraversate dal percorso circolare di cui sopra.
In primo luogo, Testa si chiede come classificare quei soggetti che, oltre a percepire un reddito da lavoro più o meno corrispondente al costo della propria riproduzione, godono di una piccola rendita aggiuntiva (come l’affitto di un appartamento ereditato o acquistato con i propri risparmi, o un certo numero di buoni del tesoro). La sua risposta è che ciò non è sufficiente (ovviamente a condizione che la rendita in questione non superi una certa dimensione) per negare a tali soggetti lo status di proletari. Sono d’accordo, ma con una precisazione. Thomas Piketty, nelle sue analisi che dividono la popolazione per percentili di reddito e non per classi sociali, ci dice che negli Stati Uniti e in Europa, a parte l’esigua minoranza di super ricchi che concentrano nelle proprie mani gran parte delle risorse, esiste una quota fra il 30% e il 40% di cittadini che riescono a intercettare rendite sufficienti a garantire un livello di vita medio alto, decisamente superiore a quello che potrebbero permettersi con il solo reddito da lavoro. Di per sé questo dato non inficia la tesi di Testa: ci dice semplicemente che i rentier che possiamo definire come appartenenti alle classi medio alte sono – almeno qui in Occidente – di numero pari, se non superiore, a quello dei proletari che usufruiscono di piccole rendite. Ma la questione non è meramente quantitativa: infatti occorre tenere conto anche del peso psico-antropologico che anche minime quote di proprietà immobiliare e mobiliare giocano nell’inibire l’autopercezione di sé come appartenenti alla classe proletaria (più volte è stata richiamata l’attenzione sul ruolo che l’alta percentuale di italiani che vivono in un’abitazione di proprietà ha giocato nello smussare il potenziale combattivo delle classi subalterne del nostro Paese). Cominciamo così a capire perché ho messo quelle virgolette sull’appartenenza al proletariato come dato “oggettivo”. Ma andiamo avanti.
Sul secondo criterio introdotto da Testa non mi dilungo perché mi pare incontestabile: la proprietà o meno dei propri mezzi di produzione vale come elemento discriminante solo ove si parli di mezzi di produzione di massa. Nessuno può pensare che lo status sociale del rider è definito dal fatto che la bici o il motorino con cui va in giro sono suoi (quando lo sono, perché non sempre è così). Analoghe considerazioni valgono per altre due questioni affrontate da Testa: il lavoro autonomo non è di per sé un criterio significativo, dal momento che la quota di lavoro fintamente autonomo (vedi gli autisti di Uber e quasi tutte le attività classificabili nell’ambito della cosiddetta gig economy) è in costante crescita in quanto consente alle imprese di sfruttare forza lavoro a cui non deve versare contributi, retribuire i giorni di malattia e ferie, pagare liquidazioni ecc. Idem per quei piccoli o piccolissimi (come gli ambulanti) esercenti che, in molti casi, hanno avviato tali attività dopo essere stati espulsi dal mercato del lavoro dipendente.
Più intrigante la questione dei quadri intermedi d’impresa, in quanto si tratta di un altro caso in cui identità di classe “oggettiva” e percezione soggettiva della stessa possono divergere (e nella maggioranza dei casi è così). Di questo ho discusso in vari lavori nei quali ho polemizzato con le tesi post operaiste in merito al presunto ruolo di avanguardia dei cosiddetti “lavoratori della conoscenza”. Com’è noto, gli autori in questione, sostengono che la rivoluzione digitale ha creato un nuovo strato di lavoratori che presentano una elevata propensione alla cooperazione reciproca e all’autonomia nei confronti del comando capitalistico. Questa “classe hacker” disporrebbe di un habitus mentale, oltre che delle competenze e delle capacità necessarie ad assumere il controllo diretto della produzione sociale, appropriandosi del general intellect ed emancipandosi in tal modo dal potere del capitale. Se questi sogni hanno avuto una qualche giustificazione nella fase arrembante delle startup californiane (cioè negli anni Novanta), la crisi dei primi anni Duemila e il conseguente rapido processo di concentrazione monopolistica delle Internet Company li hanno impietosamente spazzati via. Oggi la stragrande maggioranza dei lavoratori di tale settore (programmatori, sviluppatori, web designer, ecc.) sia che operino come autonomi (dispersi in catene di subfornitura caratterizzate da alti tassi di sfruttamento e di feroce competizione fra poveri) sia come dipendenti dei colossi del settore high tech, sono a tutti gli effetti operai come gli altri (cioè non dotati di alti livelli di comprensione del processo produttivo totale in cui operano come piccoli ingranaggi individuali). Viceversa le minoranze di quadri inseriti in grandi imprese come Amazon, Apple, Google, Facebook, Microsoft ecc. sono a tutti gli effetti funzionari del capitale il cui ruolo fondamentale consiste – similmente a quello degli ingegneri analisti dei sistemi nell’era taylorista – nello sviluppare modelli di governo, controllo e comando non solo sugli altri dipendenti d’impresa, ma anche sulle reti di forza lavoro fintamente autonoma (vedi gli algoritmi che controllano il lavoro dei rider), dei consumatori e più in generale dell’insieme dei rapporti sociali. Oggettivamente sono proletari, soggettivamente no.
Testa inserisce poi un altro elemento di riflessione che consiste nel mettere l’appartenenza di classe in relazione alla posizione occupata all’interno del processo di creazione di plusvalore. Tema che implica altre questioni, come le distinzioni fra lavoro produttivo e improduttivo, manuale e intellettuale, materiale e immateriale, servizi e produzione, creazione e realizzazione del valore, ecc. Questioni intricatissime già ai tempi di Marx (basti pensare al Capitolo VI inedito e al Secondo e Terzo libro del Capitale) ma che appaiono oggi ancora più complicate dall’elevatissimo livello di integrazione raggiunto fra i vari spezzoni delle catene del valore (ricerca e sviluppo, progettazione, produzione materiale e immateriale, distribuzione e commercializzazione, logistica ecc.) reso possibile dalle nuove tecnologie, per tacere dell’impatto dei processi di finanziarizzazione su tutto ciò. Non avendo le competenze per addentrarmi in una discussione in merito alla possibilità di attualizzare la legge del valore lavoro nell’attuale contesto socioeconomico, mi limito ad offrire alcuni spunti.
Parto dal binomio lavoro produttivo-improduttivo. Come notavo già decenni fa , in campo marxista la questione è inquinata da alcune rozze impostazioni (che Marx avrebbe definito materialismo volgare) fondate su una sorta di pregiudizio “morale”, in ragione del quale viene considerato produttivo esclusivamente il lavoro manuale. Nel Capitolo VI inedito Marx sgombra il campo da queste idee: è produttivo il lavoro che genera plusvalore per il capitalista che lo sfrutta, senza alcuna distinzione relativa al tipo di attività svolta. Di più: a mano a mano che la produzione diviene sempre più complessa e integrata, che cresce il livello di cooperazione fra tutte le operazioni di una fabbrica sempre più socializzata, l’attributo di lavoro produttivo va riconosciuto al lavoratore collettivo che la mette in funzione. Fra le altre cose, ciò rende difficile tracciare un netto confine tra produzione e servizi, come nota Testa: “progettare un prodotto, progettare un processo, mettere fisicamente a disposizione un prodotto attraverso una rete logistica globale e fortemente automatizzata sono ormai divenuti elementi strutturali della creazione di valore, elementi senza i quali produrre un telefonino o persino un bullone diviene totalmente inutile ed insensato”.
Attenzione: quanto appena detto non impedisce che, in una società socialista, il criterio possa mutare radicalmente, nella misura in cui la produttività del lavoro è qui commisurata alla sua utilità sociale, per cui attività come il marketing, la pubblicità, ecc. che per il capitalista sono produttive, divengono improduttive in un mondo socialista. Anche fra lavoratori dei settori pubblici e privati è difficile tracciare nette distinzioni: mentre è interesse dell’ideologia neo liberale accusare in blocco di improduttività il lavoro del settore pubblico (per giustificare i tagli alla spesa e ridurre lo spazio di intervento dello Stato in economia), è chiaro che molti lavori pubblici (non solo nel settore delle infrastrutture) sono indispensabili per il funzionamento della macchina economica, e che anche i criteri di queste distinzioni varieranno nella transizione dal capitalismo al socialismo. Sorvolo invece sul demenziale tentativo di certi teorici post operaisti di invertire la gerarchia fra lavoro materiale e immateriale, rovesciando specularmente il punto di vista materialista volgare cui accennavo poco fa – tentativo che ho criticato in precedenti lavori ai quali rinvio.
Per tirare le fila di questa prima parte di ragionamento, richiamo brevemente un altro aspetto di cui mi sono occupato negli ultimi anni. Marx aveva intuito già ai suoi tempi che il capitale è in grado di sfruttare vari tipi di “lavoro del consumatore”. Questo fattore si è oggi dilatato a dismisura: basti pensare al fatto che tutti noi, per il solo fatto di connetterci ai social media, produciamo sistematicamente una enorme massa di dati e informazioni (non solo sotto forma di testi, immagini ecc. ma anche e soprattutto di dati sensibili sui nostri comportamenti, fedi politiche e religiose, tendenze sessuali, ecc.) che sono la materia prima, o meglio i semilavorati, del modello di business delle Internet Company che estraggono valore da questo materiale di cui si appropriano gratuitamente. Mi è stato obiettato che queste attività in quanto “libere” volontarie, non finalizzate a generare un reddito e fonte di gratificazione per coloro che le compiono non possono essere classificate come economiche. In un libro ironicamente intitolato “Felici e sfruttati” ho replicato a tale osservazione scrivendo che questo loro carattere “ludico” non inficia l’esistenza di una relazione di appropriazione gratuita di risorse che generano valore economico per chi le sfrutta (per inciso: la quantità di lavoro che non solo le piattaforme digitali, ma anche banche, compagnie aeree, portali commerciali ecc. delegano ai propri utenti è in continua crescita, consentendo alle aziende di alleggerirsi di numerose operazioni che, altrimenti, dovrebbero essere svolte da forza lavoro retribuita). È tuttavia chiaro che ciò non basta per definire come appartenenti al proletariato tutti quelli che in questo modo contribuiscono ad alimentare la catena del valore.
Non resta dunque che attenersi al criterio generalissimo evocato in apertura: appartiene alla classe proletaria chi vive della vendita della propria forza lavoro e non è in grado di determinarne il prezzo? Sì, ma avendo ben presente che, non appena si scende al di sotto di questo livello di astrazione e ci si addentra nei meandri del mondo della produzione tipico dell’attuale fase di sviluppo capitalistico, l’impresa di definire chi appartiene “oggettivamente” alla classe si fa progressivamente più complicato. Ma soprattutto: definire l’insieme di coloro che appartengono a quella che Marx definisce “classe in sé”, non equivale a definire l’insieme di coloro che costituiscono la “classe per sé”, cioè l’insieme dei soggetti che una forza politica rivoluzionaria dovrebbe di volta in volta assumere come propri interlocutori privilegiati. Questo compito, come cercherò di argomentare nella seconda parte di questo intervento, attiene a un’analisi di tipo sociopolitico piuttosto che socioeconomico, cioè a un’analisi che antepone il punto di vista storico, l’analisi concreta della situazione concreta – il metodo di Gramsci, Lenin e Mao – alla contemplazione del cielo dell’astrazione.
Un primo passo da fare, per imboccare la via appena indicata, consiste nell’introdurre nel nostro ragionamento la dimensione spaziale, geografica e geopolitica del conflitto di classe. Già dopo la rivoluzione del 1917 non era più possibile essere marxisti senza essere leninisti, oggi ciò è ancora più evidente. È grazie all’analisi leninista dell’imperialismo che l’elemento geopolitico ha fatto il suo prepotente ingresso nella teoria marxista. Marx ed Engels avevano assunto a modello il capitalismo ottocentesco inglese, e pensavano che tale modello si sarebbe gradualmente esteso al resto dell’Europa e, se non fosse stato rovesciato da una rivoluzione proletaria, al mondo intero. Tipico, in tal senso, il giudizio sul ruolo progressivo dell’imperialismo britannico in India – giudizio giustificato dal fatto che, ad onta dei suoi mostruosi costi umani, la colonizzazione avrebbe accelerato la trasformazione dell’India da nazione semifeudale a moderna nazione borghese, ingrossando le fila del proletariato mondiale. Viceversa Lenin, avendo potuto osservare la transizione del capitalismo alla sua fase monopolistica, e il ruolo strategico che il colonialismo veniva assumendo nel processo di riproduzione allargata del capitale monopolistico metropolitano, fu in grado di cogliere la contraddizione per cui l’espansione metropolitana non solo non avrebbe innescato lo sviluppo capitalistico delle periferie, ma le avrebbe mantenute in uno stato di arretratezza economica, sociale e culturale, funzionale al dominio del centro. Di qui la geniale intuizione in merito alla natura rivoluzionaria della lotta di liberazione nazionale dei popoli coloniali, e alla necessità di concepirla come parte integrante della lotta di classe contro il capitalismo.
Questa consapevolezza è divenuta patrimonio teorico-politico del regime sovietico – inspirandone la politica internazionale – perlomeno fino agli anni Cinquanta del Novecento. Un patrimonio che è stato ulteriormente arricchito da quella generazione di teorici marxisti che, nel secondo dopoguerra, hanno dato vita alla cosiddetta “scuola della dipendenza”. Viceversa, dopo il completamento del processo di decolonizzazione negli anni Settanta, la quasi totalità del movimento marxista occidentale – come denunciato da Domenico Losurdo nei suoi lavori – ha dato per scontato che ormai la questione nazionale avesse perso la caratteristica di parte integrante della lotta di classe a livello mondiale per cui, distolta l’attenzione dallo scontro fra Paesi del Nord e del Sud del mondo, si è regrediti su una posizione che vedeva come unico scenario della lotta di classe lo scontro fra borghesia e proletariato all’interno di ogni singolo Paese (oltre a predicare una fideistica aspettativa in una rivoluzione mondiale fondata su un modello che contrappone un ipotetico proletariato mondiale a una, forse meno ipotetica ma non meno astratta, borghesia mondiale).
Gli effetti di questa rimozione della dimensione spaziale, geografica, geopolitica della lotta di classe sono stati devastanti: liquidazione di ogni istanza patriottica come di ogni rivendicazione di sovranità popolare-nazionale in quanto espressione di ideologie “di destra” (con buona pace dello slogan patria o muerte, lanciato da quasi tutte le rivoluzioni latinoamericane); allineamento con le politiche imperialiste di Stati Uniti ed Europa che violano il principio di non interferenza negli affari interni di altri Paesi in nome dell’esportazione della democrazia occidentale e della tutela di presunti “diritti universali dell’uomo” (basti pensare a come Antonio Negri, in Impero , arrivi a negare l’esistenza stessa di una politica imperiale americana, dando per acquisita l’unificazione politica del mondo e declassando a “operazioni di polizia” i conflitti Nord-Sud); limitazione della opposizione alle politiche ordoliberiste della Unione Europea a trazione tedesca a un blando europeismo critico, che ignora le conseguenze della deindustrializzazione dell’Italia e della sua integrazione in posizione subordinata in filiere controllate dall’estero (per tacere dello smantellamento delle industrie pubbliche, dei tagli alla spesa sociale, ai salari e alle pensioni, ecc.) sulle condizioni di vita e di lavoro del proletariato italiano.
Credo infine che l’effetto più grave di questa chiusura dell’orizzonte politico-culturale delle sinistre occidentali nel cerchio di un ottuso e autoreferenziale eurocentrismo consista nell’incapacità di porsi il seguente interrogativo: perché le uniche rivoluzioni socialiste riuscite non sono avvenute in Paesi industrialmente avanzati (laddove, secondo la dogmatica kautskyana della II Internazionale, sarebbero dovute avvenire nei punti più alti di sviluppo delle forze produttive), bensì in Paesi economicamente “arretrati” (negli anelli più deboli della catena, secondo la formula “eretica” di Lenin)? E ancora (ed a mio avviso è questo l’interrogativo più importante ai fini della nostra discussione su composizione di classe e lotta per il socialismo): perché ne sono state protagoniste le larghe masse contadine, assieme ad esigui nuclei di classe operaia in formazione e a sezioni della piccola borghesia urbana? Per dare una risposta, dobbiamo tornare alle questioni di metodo introdotte in precedenza.
Nell’ultimo decennio di vita, Marx assunse posizioni che appaiono oggi quanto meno scomode per i suoi esegeti dogmatici e dottrinari. In primo luogo, commentando la recensione che il traduttore russo del Capitale aveva dedicato alla sua opera fondamentale, scrisse ironicamente che costui gli aveva fatto allo stesso tempo troppo onore e troppo torto, scambiando il suo lavoro per un tentativo di descrivere le leggi universali di sviluppo della storia. Questo perché, dal suo punto di vista, non esiste alcuna necessità immanente che governi come una ferrea legge di sviluppo il cammino della storia, bensì un avanzare complesso e contraddittorio della stessa, che può essere compreso solo attraverso l’analisi dei contesti concreti – spesso contingenti – che di volta in volta ne determinano l’esito. Ciò significa, fra le altre cose, che Marx non ha mai teorizzato l’esistenza di una successione necessaria di fasi (schiavismo, feudalesimo, capitalismo) che tutte le società dovrebbero necessariamente attraversare. Tanto è vero che, nella famosa lettera a Vera Zasulic , arrivò ad ammettere che, in determinate circostanze nazionali e internazionali, la comunità contadina originaria russa, l’ obščina, avrebbe potuto funzionare come il nucleo di un balzo diretto al socialismo, senza passare sotto le forche caudine di una fase borghese-capitalistica.
Questa straordinaria elasticità mentale ha inspirato quei teorici marxisti latinoamericani che hanno criticato la tesi comune a molti partiti comunisti del subcontinente, secondo cui le masse contadine di origine india, organizzate in comunità definibili come forme di comunismo primitivo, avrebbero potuto divenire parte attiva in un fronte rivoluzionario anticapitalista solo dopo essere passati attraverso la fase della piccola proprietà di tipo borghese. Una visione miope, incapace di cogliere la profonda differenza fra il feudalesimo europeo e il comunitarismo contadino latinoamericano, e quindi di sfruttare il potenziale rivoluzionario di quest’ultimo. Ragionando sulla rivoluzione boliviana, e sul ruolo strategico svoltovi dalle comunità campesindie l’ex vicepresidente boliviano Alvaro G. Linera ha dato un contributo importante all’allargamento del concetto di classe antagonista, estendendolo a quelle forme comunitarie che, ove costrette a lottare contro i meccanismi dell’accumulazione capitalistica, possono acquisire una visione del mondo che implica un comunitarismo più ampio e universalizzante di quello originario (il modello del socialismo del secolo XXI emerso dalle rivoluzioni bolivariane è non a caso una proiezione del buen vivir, cioè del modello socialista originario delle comunità andine). Questa “etnicizzazione” dello scontro di classe ha fra l’altro fatto sì che gli organismi di democrazia diretta e partecipativa, tipiche delle comunità andine tradizionali, abbiano svolto un ruolo centrale nell’aggregazione del blocco sociale rivoluzionario.
Ancora più densa di insegnamenti, sotto questo aspetto, si presenta la rivoluzione cinese, della quale le masse contadine sono state di gran lunga il protagonista principale, laddove la classe operaia cinese – numericamente inferiore all’1% della popolazione all’inizio del processo rivoluzionario – appare tutt’oggi minoritaria, malgrado i giganteschi processi di industrializzazione e di inurbazione che il Paese ha vissuto negli ultimi decenni (basti dire che gli operai sono poco più del 13% degli attuali iscritti al PCC, superati da tecnici, lavoratori del terziario e dei servizi, mentre i contadini, pur ridimensionati, sono ancora maggioranza relativa). Ciò significa che dobbiamo rimpiazzare il proletariato in quanto soggetto privilegiato di un processo di trasformazione socialista? Evidentemente no, ma certamente significa: 1) che dobbiamo ridefinirne e estenderne i confini (vedi gli spunti contenuti nella prima parte); 2) che dobbiamo immaginare la costruzione di un blocco sociale rivoluzionario non nei termini di una rete di alleanze tattiche, strumentali, bensì come integrazione di una serie di soggetti sociali in un popolo unito da un comune progetto politico anticapitalista, un blocco in cui non necessariamente la classe operaia deve rappresentare, in ogni e qualsiasi concreta contingenza storica, l’avanguardia; 3) che occorre riproporre in tutta la sua pregnanza la distinzione marxiana fra classe in sé e classe per sé, nonché la concezione leninista del partito quale unica organizzazione politica in grado di incarnare gli interessi generali (e non meramente corporativi) della classe per sé, al di là della composizione statistica del partito stesso e del corpo sociale in cui esso si trova di volta in volta a operare.
Che altro aggiungere? Sull’atteggiamento delle sinistre occidentali che, di fronte alle rivoluzioni “eretiche” avvenute al di fuori del loro universo storico, geografico e culturale, reagiscono negandone il carattere socialista e parlando di capitalismo di stato e autoritarismo, ho già scritto altrove e non intendo qui ritornare sul tema. Chiudo perciò riassumendo le osservazioni di metodo fin qui svolte e aggiungendo quali obiettivi dovrebbero a mio avviso suggerire a una forza rivoluzionaria. Credo che tutto quanto ho sostenuto possa essere sintetizzato in due tesi di fondo. La prima consiste nell’affermare che la ridefinizione-aggiornamento del concetto di classe in sé alla luce dell’evoluzione del modo di produzione capitalistico, mentre è decisiva ai fini della comprensione delle nuove modalità di sfruttamento della forza lavoro, non offre indicazioni immediate sull’identità della classe per sé. Detto altrimenti: composizione di classe socioeconomica e sociopolitica non coincidono necessariamente, e i soggetti in grado di elevarsi dalla lotta economica alla lotta politica sono riconoscibili solo analizzando, di volta in volta, la composizione sociopolitica. La seconda tesi rinvia alla necessità di inquadrare il conflitto di classe nel contesto mondiale, declinandolo come conflitto fra nazioni dominanti e nazioni dominate, il che implica rilanciare e aggiornare le teorie leniniste sull’imperialismo.
Queste tesi si integrano e influenzano reciprocamente, come l’esperienza delle rivoluzioni socialiste avvenute nei Paesi periferici e semiperiferici ampiamente dimostra. Queste esperienze si sono infatti avvalse di due poderose leve storiche: la volontà di riscatto nazionale dei popoli asserviti, oppressi e sfruttati dalle potenze imperialiste occidentali, e la volontà di resistenza alla penetrazione dei rapporti di produzione capitalistici da parte di larghe masse contadine che, perlopiù, non erano passate attraverso una fase feudale di tipo occidentale, per cui conservavano consistenti memorie di culture comunitarie e relazioni economiche di natura precapitalistica. Queste due leve hanno assunto il carattere di lotta anticapitalista laddove il processo rivoluzionario ha potuto contare su partiti marxisti-leninisti radicati in minoranze sociali di operai e intellettuali piccolo borghesi. Partiti che hanno conquistato l’egemonia convincendo le larghe masse popolari che solo il socialismo poteva realizzarne le speranze di indipendenza nazionale e di libertà dallo sfruttamento imperialistico.
Le due tesi sopra enunciate valgono anche nei Paesi che appartengono ai centri capitalisti metropolitani? Sì, ma con gli opportuni adeguamenti. Partiamo dalla prima: nel contesto occidentale, la disarticolazione del proletariato in frammenti separati da confini generazionali, di genere, regionali, di status economico e contrattuale, ecc. dovuta a decenni di ristrutturazione tecnologica, finanziarizzazione, decentramento produttivo, nonché di progressiva perdita di rappresentanza sindacale e politica, ha raggiunto livelli tali per cui il compito prioritario di un partito comunista consiste nel ri-costruire l’unità di classe. In un certo senso si potrebbe dire che, data l’attuale debolezza del movimento comunista, ricostruire il partito di classe e ricostruire la classe sono parte di un unico processo. Da quanto sostenuto in precedenza deriva che l’analisi della composizione socioeconomica, della classe in sé è, sotto tale aspetto, meno rilevante dell’analisi della composizione sociopolitica, il che, detto in parole povere, significa che l’attenzione e le energie vanno indirizzate in primo luogo nell’individuazione degli “anelli deboli” di questa nuova nebulosa del lavoro (cioè quei settori sociali che, per cause non definibili a priori, manifestano maggiore spirito combattivo), nell’organizzarli e nel convertirli in avanguardia rivoluzionaria. Anche il compito di allargare l’egemonia di tale avanguardia su un più ampio blocco sociale assume carattere inedito: non si tratta tanto – almeno in una prima fase – di costruire alleanze con altre classi sociali, ma di proseguire e rafforzare il processo di ri-costruzione della classe proletaria. Da questo punto di vista, esiste una qualche analogia con quanto sostenuto dal filosofo argentino Ernesto Laclau, laddove parla di “costruzione di un popolo”, riferendosi alla capacità di saldare una serie di rivendicazioni eterogenee in un’unica “catena equivalenziale”. Con la differenza che, per chi vuole mantenere un punto di vista classista, i confini del popolo in questione non possono essere estesi indefinitamente (vedi il discorso sull’integrazione nel blocco dominante di un ampio strato di quadri e rentier, accennato nella prima parte).
Quanto alla seconda tesi, relativa al conflitto geopolitico come conflitto di classe, è chiaro che da noi pesa meno di quanto abbia pesato nelle rivoluzioni dei Paesi ex coloniali, ma la sua importanza è tutt’altro che irrilevante. Basti pensare alle contraddizioni che l’integrazione dell’Italia nella Ue ha generato per il nostro Paese: smantellamento dell’industria di Stato, tagli drammatici al welfare e alla spesa pubblica, de industrializzazione, aumento della disoccupazione, annullamento dei diritti del lavoro, crescenti disuguaglianze e aggravamento delle differenze fra Nord e Sud, fra regioni ricche e regioni povere. Insomma: il conflitto di classe si inscrive potentemente nello spazio, sia all’interno che verso l’esterno dei confini nazionali. All’interno lo vediamo, fra le altre cose, con i processi di gentrificazione dei centri delle grandi città, e con la conseguente espulsione delle classi lavoratrici verso le periferie, e ancor più lo vediamo con la desertificazione produttiva, sociale e culturale del Meridione che va ad accrescere le fila di quello che Nicola Zitara chiamava “proletariato esterno”. Nei rapporti con l’esterno lo vediamo con la rabbia popolare generata dalle politiche economiche imposte dai principi ordoliberali dell’Europa a trazione tedesca. Una rabbia che si estende a settori di piccola e media imprenditoria e gonfia le vele dei populismi di destra, il che dovrebbe farci capire – con buona pace delle sinistre cosmopolite – come il tema della sovranità nazionale e popolare non sia appannaggio esclusivo delle rivoluzioni cinese, vietnamita e cubana ma possa giocare un ruolo strategico anche in Paesi come il nostro.
Carlo Formenti