Preve: Invito ad una discussione radicale sul marxismo

gen 14th, 2022 | Di | Categoria: Teoria e critica

 

Invito ad una discussione radicale  sul marxismo

Un primo repertorio di temi

1. Prologo

Un invito all’apertura di una discussione radicale sul marxismo dovrebbe in teoria essere accolto con approvazione, piacere e gratitudine. Non è quasi mai così. La diffidenza è spesso la prima reazione. Si ha paura di una sorta di cavallo di Troia che vuole entrare con questo pretesto nelle mura delle nostre pigrizie e dei nostri pregiudizi, su cui abbiamo costruito un’identità, un’appartenenza, delle abitudini di militanza che crediamo stabili e che sono invece quasi sempre fragilissime e precarie. Eppure è ormai chiaro che le vecchie forme di marxismo costituitesi nel Novecento, non importa se maggioritarie o minoritarie, ortodosse o eretiche, ecc., non sono più in grado di rispondere alle nuove esigenze conoscitive ed interpretative di questo inizio di secolo XXI°, dalle nuove forme di potere capitalistico alle ragioni profonde del vergognoso crollo degli Stati e dei sistemi sociali del comunismo storico novecentesco, dalla cosiddetta globalizzazione alle nuove forme storico-antropologiche della soggettività individuale e collettiva, battezzata troppo spesso frettolosamente in termini di postmodernità. In estrema sintesi possiamo ricondurre queste difficoltà a tre ordini di ragioni, che voglio indicare subito in questo prologo.

In primo luogo, occorre vincere la tendenza distruttiva a tenere insieme la dipendenza della trattazione dei temi teorici, scientifici e filosofici del marxismo dal far politica quotidiano organizzato e dalle scelte politiche congiunturali che ne derivano. So benissimo che per molti a sinistra non esiste alcuna passione teorica, ma tutta la passione va a finire nelle decisioni cosiddette politico-militanti, se votare Bertinotti oppure non farlo, se appoggiare i noglobal moderati alla Agnoletto o i noglobal movimentisti alla Casarini, se bisogna appoggiare tatticamente l’Ulivo contro il miliardario Berlusconi oppure no, se dentro il partito della Rifondazione siano meglio i bertinottiani oppure i seguaci del vecchio togliattismo impropriamente scambiato per leninismo, ecc. Non nego che tutte queste scelte tattiche abbiano a che fare in ultima istanza e dopo molti passaggi con una teoria di riferimento, ma nego che da riferimenti teorici dottrinari si possano “dedurre” linearmente delle scelte politiche tattiche. Questa è l’illusione di tutte le sette a legittimazione metafisica dottrinaria, dal bordighismo al trotzkismo, che infatti sono poi condannate a frantumarsi in correnti antagonistiche. Chi vuole veramente aprire una discussione teorica sul marxismo deve invece sapere che essa non può essere limitata ai seguaci politici della propria linea politica tattica congiunturale, buona o cattiva che sia, ma che essa deve essere invece aperta ai punti di vista più diversi. E’ infatti possibile concordare con persone che hanno opinioni politiche tattiche congiunturali diverse dalle nostre, mentre possiamo dissentire sul piano teorico da individui o gruppi che hanno la nostra stessa valutazione politica di ordine tattico o congiunturale.

In secondo luogo (ma questo secondo punto è legato al precedente) il marxismo non deve mai diventare una barriera identitaria di appartenenza militante, come peraltro avviene sempre con le sette di ogni tipo, ma deve essere sempre inteso come un luogo aperto e dialogico di interpretazione e di conoscenza. A costo di correggere amichevolmente il giovane Marx, è infatti impossibile trasformare il mondo in modo rivoluzionario, se prima non si è fatto lo sforzo di conoscerlo. Nei fatti, il marxismo identitario di appartenenza è il nemico principale del marxismo critico di conoscenza. Più di un secolo di storia del marxismo non lascia alcun dubbio in proposito. Il marxismo identitario di bandiera è una semplice risorsa ideologico-psicologica di coesione organizzativa. Mi rendo conto che per la riproduzione della setta la coesione organizzativa è un’esigenza primaria, ma questo avviene anche per la teologia dei testimoni di Geova.

In terzo luogo, e per concludere su questo punto, una discussione o è radicale ed a tutto campo o semplicemente non è. Una discussione non può avvenire con il presupposto che alla fine di essa non dovranno comunque essere messe in discussione le basi di partenza. Non possiamo discutere in astronomia sul sistema geocentrico con il presupposto che comunque alla fine saremo ancora geocentrici, perché la Chiesa lo vuole. Galileo non l’ha fatto. Molti marxisti inneggiano retoricamente a Galileo, ma poi si guardano bene per viltà e conformismo dal seguire il suo esempio. Le discussioni addomesticate non esistono.

2. La sacralizzazione religiosa del pensiero di Marx contro il carattere di opera aperta della sua teoria

Karl Marx non fu l’edificatore di una dottrina chiusa e compiuta, ma lo scopritore di un nuovo continente scientifico (l’espressione è di Louis Althusser, e la condivido nell’essenziale). Di questo nuovo continente scientifico (la scienza dei modi di produzione sociali unita con una filosofia della liberazione e della compiuta realizzazione umana) Marx non scoprì che le coste e alcuni fiumi, e non ha proprio senso dire che ne portò a termine la scoperta stessa. Forse che Newton portò a termine la scoperta della fisica, e Lavoisier quella della chimica ? Nessuno dice queste sciocchezze sulle scienze naturali, ma questa sciocchezza sulla scienza di Marx è per esempio sostenuta dalla setta bordighista. Gran parte dei marxisti, tuttavia, praticano implicitamente quello che la setta bordighista sostiene esplicitamente, e cioè la perfezione e la compiutezza di tutto ciò che a suo tempo Marx ha scritto e sostenuto. Si giunge fino all’assurdo di mescolare citazioni di Marx del 1844, del 1858 e del 1875, negandogli persino il diritto di aver avuto una progressione dialettica della sua elaborazione di ricerca.

Questo dogmatismo è talmente assurdo da dover essere spiegato. Ma la spiegazione è a mio avviso relativamente semplice. L’infallibilità teologica di Marx e la sua insuperabile perfezione sono una costruzione religiosa delle burocrazie politiche autodenominatesi “marxiste”, prima socialiste e poi comuniste, che in questo modo sacralizzano sé stesse proiettando la propria pretesa di infallibilità sull’infallibilità originaria sacralizzata del Padre Fondatore. In questo modo ai marxologi ed agli studiosi di teoria era data soltanto una sovranità limitata, e la sovranità limitata consisteva nel discutere all’interno del ferreo presupposto dell’infallibilità e della compiutezza di Marx.

Chi voleva sottolineare dei “difetti” dentro Marx aveva allora soltanto tre diverse possibilità. In primo luogo, poteva dire che Marx si era a suo tempo espresso in modo chiaro ed inequivocabile, ma che era stato poi interpretato male, o per ignoranza del cattivo interprete o per malafede politica del malvagio “revisionista”. In secondo luogo (e questa fu la linea teorica scelta da Louis Althusser), poteva contrapporre il Marx giovane al Marx maturo, fissando da qualche parte intorno al 1845 una sorta di “rottura epistemologica”, e contrapponendo così il giovane idealista volonteroso ma confuso al maturo scienziato materialista. In terzo luogo ( e questa fu la linea scelta dal cosiddetto “marxismo occidentale” dagli anni Venti del Novecento in poi), poteva contrapporre il buon pensiero di Marx al cattivo pensiero di Engels, in cui il primo avrebbe espresso una filosofia della prassi umana e sociale, ed il secondo avrebbe incorporato invece questa stupenda filosofia della prassi in una metafisica positivistica del determinismo, della necessità meccanica e della teleologia predestinata della storia.

Noi dobbiamo rifiutare tutte e tre queste pratiche teologiche. Marx non è un padre fondatore perfetto, ma il grande ingegnere di un cantiere aperto ed in costruzione. Del resto, a questa conclusione è anche arrivata la recente ricerca filologica marxista più intelligente (cfr. Mega. Marx ritrovato, a cura di Alessandro Mazzone, Laboratorio per la Critica Sociale, Roma 2002).

Lo stesso piano del Capitale di Marx prevedeva libri che non furono mai scritti, come ad esempio quello delle classi sociali nel capitalismo. La dicotomia classistica del modo di produzione capitalistico (Borghesia/Proletariato) è infatti solo un quadro di massima assolutamente astratto, e di fatto sempre inesistente nelle singole e concrete formazioni sociali, in cui le classi sono sempre più di due. E non dimentichiamo mai che sono sempre e soltanto le formazioni storico-sociali, e non i modi di produzione generali, i punti di partenza concreti per l’azione politica, sia riformistica che rivoluzionaria (e su questo Lenin continua ad aver ragione a quasi un secolo di distanza).

In conclusione, se comprendiamo il carattere di opera aperta del pensiero di Marx, non ci faremo mai ricattare dalla presunta “ortodossia” delle sette, e ristabiliremo il metodo socratico del dialogo razionale ed argomentato contro il sistema ecclesiastico delle citazioni.

 

3. Il Dubbio Metodico ed il Dubbio Iperbolico nell’approccio alle teorie di Marx

A suo tempo il grande filosofo francese Cartesio propose un metodo critico di analisi razionalista, in cui distingueva una sorta di dubbio metodico, da utilizzare sempre nel corso delle proprie ricerche, da un dubbio enorme, definito iperbolico, sulla stessa esistenza del mondo materiale esterno e di Dio. Ebbene, un simile problema di dubbio iperbolico esiste anche per il marxismo, e può essere formulato così: nonostante le buone intenzioni di Karl Marx, è possibile che l’intero complesso della sua teoria sia sbagliato dalle fondamenta, e non possa pertanto essere corretto e migliorato, ma debba essere del tutto ed integralmente abbandonato?

Questa domanda “iperbolica” è assolutamente legittima e razionale, ed il fatto che molti presunti marxisti la censurino e si autocensurino rivela soltanto la loro refrattarietà al dubbio metodico razionalistico. Il metodo razionalistico, bene inteso, si interroga sempre sui propri fondamenti ultimi, e non li presuppone mai. E’ così possibile capire la dinamica psicologica di molti “abbandoni” del marxismo. Chi non si è infatti mai interrogato radicalmente sui propri fondamenti ultimi di pensiero è particolarmente predisposto a quegli abbandoni improvvisi di tipo nichilistico e relativistico (nichilistico perché non si crede più in niente, e relativistico perché si pensa che tutto ciò che si può dire sul mondo sia equivalente, perché comunque personale ed irrilevante), che hanno caratterizzato la ridicola generazione del cosiddetto Sessantotto.

E invece bisogna proprio cominciare dalla domanda iperbolica. Ciò che è solo metodico viene infatti dopo, e di conseguenza. A mio avviso, in brutale sintesi, io conosco due reali problemi iperbolici, ed un problema iperbolico considerato tale da molti, ma non da me. I due reali problemi iperbolici sono rispettivamente la questione della natura umana, della sua esistenza storica ed ontologica e della sua compatibilità con il comunismo comunque definito, in primo luogo, e poi del carattere rivoluzionario intermodale della classe operaia salariata, più o meno allargata e più o meno diretta da un partito politico rivoluzionario marxista. Il problema iperbolico a mio avviso fittizio sta invece nella natura della smentita e della falsificazione storica del progetto comunista in base al fallimento globale dell’esperienza del comunismo storico novecentesco veramente esistito e non solo gruppettaro e testimoniale (1917-1991). Questi tre temi “iperbolici” sono talmente importanti da dover essere trattati separatamente per non fare confusione, e lo farò nei prossimi tre paragrafi.

Per ora (ma questo è del tutto secondario) ricorderò soltanto due questioni che a mio avviso non sono mai state veramente fondamentali, e tanto meno iperboliche, ma che sono state storicamente trattate come tali: la questione della (mancata) trasformazione dei valori in prezzi di produzione, e la questione della contraddizione dialettica, nella sua specifica differenza qualitativa con la cosiddetta “opposizione reale” di tipo aristotelico e kantiano.

La questione della trasformazione dei valori in prezzi di produzione, legata storicamente alla pubblicazione nel 1894 da parte di Engels del cosiddetto terzo libro del Capitale di Marx, ha dato luogo ad un dibattito durato più di un secolo, e tuttora in corso. Non vi è qui purtroppo lo spazio per darne i termini fondamentali. A mio avviso, sono e sono stati in errore (in un errore simmetrico) sia coloro che hanno voluto dimostrare la scientificità della teoria marxiana del valore (e del plusvalore, e della sua trasformazione, sia coloro che simmetricamente al contrario hanno voluto dimostrarne il carattere non scientifico e solo ideologico proprio sulla base dell’impossibilità di questa trasformazione. In questo modo si carica la teoria marxiana del valore e del plusvalore di un peso insopportabile ed eccessivo, dimenticando che questa stessa teoria è pur sempre subordinata alla ben più importante teoria della riproduzione complessiva del modo di produzione capitalistico, che comprende anche elementi non economici, ma anche storici, ideologici, politici e culturali. Sono d’accordo con Gianfranco La Grassa sul fatto che questa centralità sia una forma di economicismo. Tuttavia, aldilà di rilievi di questo tipo, ritengo assolutamente convincente e degno di essere conosciuto e studiato l’insieme di argomentazioni che oggi viene riproposto per sostenere la fondamentale correttezza del problema della trasformazione così come a suo tempo fu posto da Marx (cfr. Un vecchio falso problema a cura di Luciano Vasapollo, e Karl Marx e la trasformazione del pluslavoro in profitto, a cura di Giorgio Gattei, entrambi nella collana Sapere Critico). Riterrei invece sbagliato, ed allora concordo con La Grassa, far girare tutta la questione della “scientificità” di Marx su questo punto. Ma a questo intendo riservare più avanti un paragrafo apposito.

La questione della differenza fra contraddizione dialettica ed opposizione reale (cattiva e metafisica la prima, buona e scientifica la seconda) fu posta a suo tempo dalla scuola dellavolpiana italiana e fu messa a pretesto da Lucio Colletti per il suo abbandono del marxismo (cfr. O Tambosi, Perché il marxismo ha fallito. Lucio Colletti e la storia di una grande illusione, Mondadori, Milano 2001).

Non vi è qui lo spazio per analizzare questa delicata questione. Come peraltro per il caso precedente della trasformazione dei valori in prezzi di produzione, anche in questo caso è possibile pacatamente dimostrare che Colletti si è profondamente ingannato proprio sulla natura della cosiddetta contraddizione dialettica in Marx, che non è affatto il ristabilimento finale di un Intero presupposto come originario e come rovesciato (cfr. AAVV, La contraddizione, Città Nuova, Roma 1977 e E. Berti, Logica aristotelica e dialettica). In altre parole, prima Colletti si è costruito abusivamente una dialettica marxista di tipo neoplatonico, e poi l’ha brillantemente stroncata.

Tuttavia, ribadisco che queste due interessantissime questioni teoriche non sono veramente interrogazioni radicali del marxismo e non sono pertanto dubbi veramente iperbolici. Discutiamo ora separatamente i veri dubbi iperbolici.

 

 

4. Il primo dubbio iperbolico: la questione della compatibilità fra natura umana e comunismo

Come è noto, la grande e diffusa obiezione di senso comune contro la possibilità storica del comunismo consiste nel sostenere che l’uomo è un essere egoistico aggressivo, acquisitivo e prepotente, e che perciò ogni sogno di comunità pacificamente solidale resta un sogno ad occhi aperti ed un’utopia semplicemente regolativa, ma non operativa. I teorici marxisti sofisticati snobbano generalmente questa obiezione, ritenendola banale, ma si sbagliano di grosso, perché mettendola da parte con disprezzo e sufficienza non la si discute, ed in questo modo essa continua a produrre velenosi effetti sotterranei. I marxisti anglosassoni sono più intelligenti, e generalmente se ne occupano, mentre quelli europei pensano di essere furbi rimuovendola e non occupandosene. Bisogna proprio su questo punto invertire assolutamente la tendenza.

Si suole generalmente ripetere pigramente che l’ipotesi capitalistica sulla natura umana è quella pessimistica di Hobbes, per cui l’uomo è come un lupo per l’altro uomo (homo homini lupus), Aristotele si era sbagliato nel definire l’uomo un animale per sua natura comunitario, politico e sociale, e che dunque la concorrenza economica spietata fra imprese ed aziende corrisponde perfettamente alla natura umana originaria, che sarebbe del tutto inutile provare a cambiare radicalmente. Ma questo non è esatto. Questa concezione, che definirei animalistica, è in realtà il frutto tardo-ottocentesco di un innesto della teoria pessimistica di Hobbes sul darwinismo sociale. In realtà l’economia politica inglese settecentesca (da Hume a Smith) ha una teoria ottimistica della natura umana, e ritiene che l’istinto dello scambio (base antropologica del valore di scambio, e cioè del valore) si basi su di un istinto di simpatia (cioè di immedesimazione psicologica da parte del venditore nei bisogni del compratore). Occorre riflettere molto su questa base antropologica dell’economia politica capitalistica, e non limitarci a dire che si tratta solo di un’ideologia illusoria di mistificazione. Personalmente, sono convinto che se la base antropologica del capitalismo fosse soltanto l’addizione del pessimismo di Hobbes con la concorrenza animalesca del darwinismo sociale, a quest’ora il capitalismo sarebbe già crollato da tempo, del tutto indipendentemente da pretese ed economicistiche cadute del saggio medio del profitto. Il capitalismo è antropologicamente forte proprio perché riesce ad utilizzare strumentalmente anche componenti positive e generose della natura umana.

In campo marxista vi è tutta una tradizione (fino sciaguratamente a Louis Althusser) che sostiene che la natura umana non esiste, e che non è altro che l’insieme sempre mutevole dei rapporti sociali di produzione storicamente determinati. Non è vero. Questa concezione può essere definita “sociologismo”, o meglio deviazione sociologistica del materialismo storico. La base antropologica dell’agire umano (dal lavoro al linguaggio, dall’agire simbolico alla consapevolezza della propria morte) è il supporto materiale della storia. Una storia senza antropologia è come un’economia politica senza tecnologia, e cioè un’astrazione vuota. In proposito molti marxisti sostengono la folle teoria per cui il comunismo è possibile appunto perché la natura umana è infinitamente trasformabile, ed anche ammesso che l’esperienza storica l’abbia resa cattiva ed egoista per natura sarà possibile con mezzi politici ed educativi creare il cosiddetto “uomo nuovo” comunista e solidale. Si tratta di vere e proprie sciocchezze. L’uomo nuovo è solo un incubo per burocrati, oppure al massimo è un errore filosofico di rivoluzionari onesti ma confusionari (come il Che Guevara). Tra l’altro, se la natura umana fosse integralmente manipolabile e trasformabile allora il capitalismo sarebbe invincibile, perché dispone di tutte le possibilità tecniche ed economiche per manipolare gli uomini riducendoli a consumatori isolati e solo artificialmente risocializzati. In realtà (e ad esempio Noam Chomsky lo ha capito) la natura umana, proprio per il suo carattere generico e non specifico, è un fattore di resistenza alla manipolazione capitalistica, e non il contrario.

In conclusione, non esiste nessuna inconciliabilità fra la natura umana ed il comunismo. Se pensiamo che esso sia semplicemente una sorta di movimento reale che abolisce lo stato di cose presenti (come scrisse il giovane Marx, ed era del tutto spiegabile allora, ma non più oggi dopo un secolo e mezzo), allora siamo fuori strada, Perché l’espressione rimanda ad una sorta di fatalità storica necessitata, che in realtà non esiste. Se pensiamo che in modo armonico, e senza la mediazione di organi intermedi come la famiglia, la società civile professionale e lo stato politico, ognuno darà spontaneamente secondo le proprie capacità, e riceverà secondo i propri bisogni, allora siamo fuori strada, perché solo i bisogni naturali primari possono essere soddisfatti senza una mediazione politica, ma questo non può avvenire per un sistema di bisogni sorti sulla base di uno sviluppo delle forze produttive: una cosa è mangiare a sazietà e vestirsi per affrontare il freddo ed il caldo, ed una cosa è prendere il biglietto aereo per il Madagascar o il Messico. Anche nel comunismo, ci vorrà una regolazione politica, anche perché la scarsità, sia pure relativa e non assoluta, sarà sempre presente, ed anzi bisognerà sempre più fare attenzione ai vincoli dell’ecosistema, cui il capitalismo non riserva alcuna attenzione.

Lo ripetiamo, dipende sempre dunque da come concepiamo il comunismo. Chi lo concepisce in modo staliniano come livellamento e proletarizzazione forzata, con alle spalle per di più l’invidia pauperistica ed il risentimento plebeo scambiati per punto di vista proletario, ebbene costui non avrà nessun comunismo, perché la natura umana lo rifiuterà, e sarà un bene. Ma una concezione corretta del comunismo, come insieme di comunità unite dalla libertà, dalla sicurezza e dalla solidarietà, è del tutto compatibile con una corretta concezione antropologica della natura umana.

5. Il secondo dubbio iperbolico: la questione della capacità rivoluzionaria intermodale della classe operaia e proletaria

Abbiamo visto nel paragrafo precedente che il discorso sull’incompatibilità fra natura umana e comunismo non sta razionalmente in piedi, se ovviamente disponiamo di una nozione corretta di natura umana e di comunismo. Questo, e solo questo, è il problema. Passiamo ora al secondo dubbio iperbolico possibile, quello sulla eventuale capacità rivoluzionaria intermodale della classe operaia e proletaria.

Tutti i marxisti sanno, o credono di sapere, che per Marx il soggetto rivoluzionario anticapitalistico fondamentale è la classe operaia e proletaria politicamente organizzata in partiti e sindacati. In realtà, non è affatto così semplice. Del resto, è noto che non furono gli schiavi ad abbattere il modo di produzione schiavistico, e non furono neppure i servi della gleba ad abbattere il modo di produzione feudale. Se per Marx il ruolo dei proletari nel capitalismo sarà qualitativamente diverso da quello precedentemente svolto dagli schiavi e dai servi della gleba, ciò avverrà soltanto non certo perché “i proletari hanno da perdere solo le proprie catene” (frase letteraria che tutti gli sciocchi ripetono incuranti del fatto che non è così da nessuna parte, dagli Stati Uniti all’Egitto), ma perché i proletari vengono visti come il fronte sociale avanzato dello sviluppo delle forze produttive e perché la classe borghese è vista come un soggetto storico originariamente produttivo e creatore ma poi gradatamente parassitario.

Come ha filologicamente stabilito Gianfranco La Grassa, per Marx il soggetto rivoluzionario non è affatto semplicemente la classe operaia e proletaria, ma è il lavoratore collettivo cooperativo associato, dal direttore di fabbrica all’ultimo manovale, alleato con le potenze intellettuali della produzione capitalistica complessiva, connotata da Marx con il termine inglese di general intellect. Tuttavia La Grassa aggiunge che Marx conduce il suo ragionamento a livello di fabbrica e non di impresa, e cioè di unità produttiva e non di rete concorrenziale di strutture, in cui però non avviene secondo La Grassa una vera socializzazione “virtuosa” delle forze produttive, e dunque neppure la formazione storica progressiva e processuale del lavoratore collettivo cooperativo associato. Se è così, allora il nostro dubbio iperbolico è veramente giustificato. In breve, ci restano le contraddizioni antagonistiche del modo di produzione capitalistico, ma ci sfugge via fra le mani il soggetto rivoluzionario risolutore anticapitalistico. E non si risponde certamente all’obiezione pertinente di La Grassa con la fuga in avanti dei “disobbedienti” e delle “moltitudini” di Toni Negri, vera e propria vergogna scientifica oggi sciaguratamente di moda.

C’è qui molto da discutere. Personalmente, ho sempre creduto che il modo di produzione capitalistico possa essere storicamente superato, mentre non ho mai creduto (o almeno non ci credo più da almeno due decenni) al ruolo strategico della classe operaia e proletaria. Lo ritengo un comprensibile e scusabile errore epistemologico di Marx, esattamente come i concetti di spazio e di tempo assoluti in Newton. Borghesia e proletariato sono per me astrazioni storiche generalizzanti necessarie per la costruzione di un modello, non realtà sociologiche permanenti titolari di “grandi narrazioni” dotate di una Origine e di un Fine. In senso storico, sia la borghesia che il proletariato sono veramente esistiti (nell’Ottocento), si sono a poco a poco trasformati fino all’estinzione (nel Novecento), ed oggi non esistono più se non come parolette per indicare degli agenti attivi e passivi della riproduzione della produzione capitalistica. Ma il capitalismo va avanti lo stesso, perché esso non è una macchina guidata da Soggetti, ma una struttura impersonale tecnoscientifica e tecnoeconomica che ristruttura e rinnova continuamente le proprie soggettività sociologiche.

Il venir meno del “mito del proletariato” non è allora una falsificazione iperbolica del comunismo marxista. Nuovi soggetti premono, si classificano e si riclassificano. La causa storica del comunismo non dipende affatto dalla permanenza della cosiddetta “centralità operaia”.

6. Il terzo dubbio iperbolico: il crollo implosivo catastrofico del comunismo storico novecentesco

Vi è poi un terzo dubbio iperbolico molto diffuso, che però per me non è tale e si basa su di un equivoco radicale. Si tratta del fatto che l’indiscussa dissoluzione, tragicomica e grottesca, vergognosa e senza onore, del comunismo storico novecentesco come sistema internazionale di stati, partiti e società (1917-1991) avrebbe smentito e falsificato alle fondamenta ogni progetto alternativo al capitalismo di tipo socialista e comunista. Non è così, ed è anzi il contrario. Il comunismo storico novecentesco, anzi, è un fenomeno storico cui è possibile integralmente applicare l’apparato concettuale di Marx. Il discorso sarebbe lungo. Per farla corta, limitiamoci all’applicazione dei quattro concetti scientifici fondamentali di Marx (modo di produzione, forze produttive, rapporti di produzione, ideologia).

In primo luogo, a proposito del modo di produzione, le società guidate dal partito-stato del comunismo storico novecentesco (abbastanza simili nonostante le varianti, da Cuba alla Jugoslavia, dalla Cina all’URSS) devono essere interpretate non come un modo di produzione post-capitalistico, ma come una particolare ed inedita formazione economico-sociale. Questa è la chiave concettuale per risolvere il famoso problema della “natura sociale” dell’URSS e dei sistemi a cosiddetto “socialismo reale”. Bisogna dunque utilizzare due diversi concetti, uno risalente a Marx (modo di produzione) ed uno a Lenin (formazione economico-sociale). La separazione fra i produttori associati e le condizioni della produzione, mediata da un apparato burocratico di tipo partitico-statale (al di là del fatto, su cui ritornerò più avanti, che questo apparato separato debba essere definito una nuova classe sfruttatrice oppure un semplice ceto politico a carattere non-classistico) non permette di parlare di modo di produzione post-capitalistico, se vogliamo usare i concetti nel senso marxiano autentico. Ma non si trattava neppure di una semplice variante del modo di produzione capitalistico (e quindi a suo tempo ebbe ragione Sweezy, non Bettelheim), perché questa nuova formazione economico-sociale mancava di troppe caratteristiche strutturali del capitalismo (mercato dei capitali e della forza-lavoro, disoccupazione strutturale ed esercito industriale di riserva, trasformazione del plusprodotto in plusvalore, trasformazione del plusvalore in profitto, ecc.). Insomma, si trattò di una inedita formazione economico-sociale uscita dalla congiuntura storica irripetibile del 1917, che comprendeva diversi elementi modali, di tipo asiatico (proprietà dello Stato e non dei privati, con connessa mummificazione sacrale dei faraoni fondatori come simbolo dell’unità simbolica proprietaria dello stato sacerdotale), schiavistico (lavoro forzato di massa di milioni di persone private di ogni diritto), feudale (casta separata signorile dei membri del partito separati dal resto della popolazione, inquisizione ideologica con connessa separazione fra ortodossi ed eretici) ed infine capitalistico (permanenza, sia pure deformata, della forma di valore e del feticismo della merce). Il punto fondamentale è che questa formazione economico-sociale (e non modo di produzione) è inedita. Chi ne ripropone il modello, in modo esplicito ed implicito, non fa che fare perdere tempo ed energie.

In secondo luogo, a proposito dello sviluppo delle forze produttive, è ormai chiaro che Marx (e soprattutto Engels) era in errore quando pensava che il capitalismo sarebbe stato superato perché incapace di svilupparle oltre ad un certo punto. Il capitalismo è il sistema economico-sociale ideale per svilupparle, ed il problema non sta nel fatto che è incapace di svilupparle, ma che le sviluppa in modo barbarico, cioè catastrofico sia verso le comunità sociali particolari che verso l’ecosistema complessivo. Resta infatti vero che il Rosso ed il Verde devono trovare un’unità, ma questo per ora non può avvenire sulla base dei ceti politici analfabeti attuali. La storia del Novecento dimostra che le formazioni economico-sociali del socialismo reale furono in grado in un primo momento di fare una sorta di “accumulazione primitiva” della base industriale (Russia 1929-1956, Cina 1949-1966), ma in un secondo tempo, dovendo passare all’industria leggera di consumo di massa non riuscirono più a farlo, e questo non certo per incapacità tecnica o gestionale, ma per il semplice fatto marxista che l’industria dei consumi crea e rafforza nuovi ceti sociali potenzialmente incontrollabili dal partito. La vittoria del capitalismo “normale” sulle formazioni economico-sociali del socialismo reale (che mi rifiuto di chiamare “di transizione”, secondo un uso improprio diffusosi fra i confusionari fra il 1956 ed il 1991, dal momento che non stavano proprio transitando da nessuna parte), compiutosi nel fatidico 1991, è proprio avvenuta sulla base delle forze produttive, secondo il più classico modello di Marx. La controprova è la Cina dopo il 1976, che ha deciso di competere con il capitalismo sulla base dello sviluppo capitalistico delle sue forze produttive.

In terzo luogo, a proposito della natura dei rapporti di produzione, la formazione economico-sociale del comunismo storico-novecentesco mi sembra un modello classistico al 100%. Chi lo nega, o si limita a parlare di deformazioni burocratiche, di corruzione o di ceti degenerati, mostra di non disporre di un concetto veramente marxiano di classe. Perché una classe sfruttatrice esista non c’è necessariamente bisogno della trasmissibilità ereditaria familiare della proprietà, o di un corpo di commercialisti e notai. L’antico Egitto non disponeva di commercialisti e notai, eppure era egualmente una società classista, simbolicamente sanzionata dalla mummificazione dei suoi faraoni (da Tutankhamen a Lenin, Stalin e Mao). Su questo punto ritengo che la nuova classe sfruttatrice dell’apparato del partito-Stato si sia formata sotto Stalin su basi sociologicamente proletarie ed operaie (cosa che i trotzkisti non capirono mai), si sia stabilizzata e consolidata sotto Krusciov e Breznev, ed infine si sia riconvertita sotto Gorbaciov e Eltsin in settore locale di una nuova classe capitalistica globalizzata, ovviamente con specifiche ed irripetibili caratteristiche russe, sioniste e mafiose. La stragrande maggioranza dei militanti comunisti, ottusi ed ingannati, non ha mai neppure lontanamente capito la dinamica sociale dialettica di questo maestoso processo sociale, perché non hanno mai saputo e voluto applicare il metodo marxista al marxismo stesso, o almeno a chi si dichiarava ideologicamente tale, che pretendeva così di sottrarsi alla legge di gravità. Una storia complessivamente tragicomica, in cui però il comico, ed anzi il grottesco, prevale nettamente.

In quarto luogo, e per finire, a proposito dell’ideologia, anche in questo caso il concetto marxiano di ideologia come falsa coscienza socialmente organizzata (e dunque non solo come illusione personale) appare integralmente applicabile. Ci si chiede come sia stato possibile che in 74 anni (1917-1991) la formazione economico-sociale inedita del comunismo storico novecentesco non sia mai riuscita a rendere l’ideologia flessibile (e cioè pluralistica), cosa che tutti i normali capitalismi non fascisti riescono tranquillamente a fare. Anche a questa domanda è possibile rispondere sulla base di una corretta applicazione del metodo di Marx. Il normale capitalismo imperialistico di tipo liberaldemocratico sottomette a sé la famosa opinione pubblica della società civile attraverso un Campo Pluralistico Amministrato (CPA), che è come una struttura antisismica flessibile nelle costruzioni, in quanto permette alle contraddizioni intercapitalistiche di venire allo scoperto, ed in più permette di cooptare nel sistema attraverso la ben nota triplice gratificazione (potenza, ricchezza, onori) la stragrande maggioranza del ceto intellettuale potenzialmente di opposizione o almeno di protesta e contestazione. La formazione economico-sociale del comunismo storico novecentesco non può invece permettersi un campo pluralistico amministrato, per il semplice fatto che il monopolio del potere economico-politico della nuova classe dei burocrati del partito-stato verrebbe messo in pericolo (contestazione dei piani quinquennali, contestazione del sistema dei salari che paga l’operaio più del medico, ecc.), ed allora si instaura una sorta di Flusso Ideologico Omogeneo (FIO), che scorre quotidianamente dall’alto verso il basso. Questo flusso ideologico omogeneo è darwinianamente molto più debole e rigido del campo pluralistico amministrato, ed alla lunga deve darwinianamente soccombere di fronte ad esso, perché aliena integralmente gli intellettuali come gruppo sociale sottomettendoli a burocrati ignoranti e crudeli.

Concludiamo allora su questo punto. Mentre due dubbi iperbolici sono giustificati (natura umana e capacità intermodale operaia e proletaria), questo terzo dubbio iperbolico è ingiustificato, perché l’uso delle quattro categorie marxiane principali basta ed avanza per spiegare quello che è avvenuto nel Novecento.

7. Conclusioni provvisorie. Note sul rapporto fra marxismo, scienza, filosofia ed ideologia

Con le note precedenti il discorso è appena cominciato, ma lo spazio è tiranno, e bisogna avviarsi alla chiusura. Ci sarà tempo e modo in altra sede di approfondire e completare il discorso. Per chiudere qui desidero toccare un punto di grande importanza teorica ed esprimere un mio meditato convincimento personale. A mio avviso il marxismo è un inestricabile intreccio di filosofia e di scienza, e questo porta ad almeno due conseguenze. Primo, la filosofia nel marxismo non può essere ridotta ad epistemologia e/o ad ideologia, ma il suo statuto è molto più fondante, strutturale, decisivo e fondamentale. Secondo, è insensato credere che lo statuto scientifico del marxismo sia analogo e/o omologo a quello delle scienze naturali moderne nate con la cosiddetta rivoluzione scientifica del Seicento. Non è così. Nella storia del marxismo ci sono state tre ondate storiche successive di questa illusione positivistica. La prima è stata quella di Engels, che intendeva legare le sorti del marxismo a quelle delle scienze della natura, credendo così di garantirne meglio la credibilità, ed ha creduto di poterlo fare suggerendo una (a mio avviso inesistente) omogeneità ontologica, fra la dialettica della natura e la dialettica sociale. La seconda è stata quella di Stalin e del suo materialismo dialettico imposto come filosofia obbligatoria di stato a partire dal 1931, in cui però la pretesa scientifica copriva con falsa coscienza ideologica socialmente necessaria il suo esatto contrario, e cioè l’arbitrio soggettivistico della sua costruzione del socialismo. La terza ed ultima è stata quella di valorosi e stimabili studiosi marxisti occidentali indipendenti (da Galvano Della Volpe a Louis Althusser a Ludovico Geymonat), che però a mio avviso hanno imboccato una strada assolutamente sterile, fuorviante e sbagliata.

Il discorso sarebbe lungo, ma cercherò qui di compendiarlo in modo chiaro ricordando solo il punto essenziale. Nel lontano 1794 il grande filosofo Fichte, vero e proprio fondatore della filosofia della prassi (la realtà è data dalla prassi di trasformazione dell’Io verso il Non-Io, cioè dell’umanità pensata come soggetto attivo verso il mondo della natura e della storia precedente), stabilì metodologicamente la differenza di principio fra logica formale e quella che propose di chiamare dottrina della scienza. Nel primo caso la logica, come scienza dell’uso corretto delle categorie del pensiero, si basa sulla separazione metodologica fra forma e contenuto, e soprattutto fra osservatore e osservato. E’ così infatti che funzionano scienze come l’astronomia, la fisica, la chimica, la biologia e la stessa scienza sociale alla Max Weber quando l’osservatore non deve trasformare quello che osserva (questo semmai dà luogo alla separazione fra scienza e tecnica, contesto della scoperta e contesto dell’applicazione, ecc.), ma semplicemente scoprirne la struttura oggettiva interna. Nel secondo caso, invece (non la logica formale, ma la dottrina della scienza) vi è un rapporto organico fra un soggetto che progetta, agisce e modifica ed un oggetto sociale che ne viene agito e modificato. Quando Marx nel 1845 scrisse che i filosofi avevano fino ad allora soltanto interpretato il mondo, e si trattava ora di trasformarlo, egli non lasciava dubbio alcuno di voler riprendere, in una nuova intenzionalità anticapitalistica e comunista, il programma filosofico proposto da Fichte nel 1794 di una dottrina filosofica della scienza, e non certamente di una scienza della natura galileiano-newtoniana. Antonio Gramsci chiamò tutto questo correttamente filosofia della prassi. György Lukács chiamò tutto questo correttamente ontologia dell’essere sociale.

Il marxismo, correttamente inteso, non è dunque né un materialismo dialettico, né uno storicismo. Il marxismo non è un umanesimo metodologico ed epistemologico, perché rifiuta il fondamento soggettivistico di un soggetto collettivo della storia (l’Uomo, l’Umanità), ma è invece pienamente un umanesimo filosofico, perché si basa su un’idea di libera individualità da liberare (libertà = liberazione). Althusser e gli althusseriani non capiscono nulla su questo punto, perché facendo un’equazione indebita fra filosofia ed epistemologia (cioè fra il tutto e la sua parte) confondono l’antiumanesimo epistemologico (che Marx ebbe veramente) con l’antiumanesimo filosofico (che Marx invece non ebbe per niente).

Il lettore può vedere che abbiamo messo molta carne al fuoco per la discussione. Per discutere bisogna però essere in molti, o comunque almeno in due. Il fondatore della filosofia, l’ateniese Socrate, concepì la filosofia come attività dialogica, o ancor meglio come dialogo veritativo (e dunque non come educato dialogo relativistico e nichilistico, come i post-moderni attuali, da Rorty a Vattimo). Bisogna che i marxisti riprendano a discutere. Mi si permetta però di concludere con un educato scetticismo su questo punto. Decenni di cieco attivismo militante e di disprezzo per la teoria non si cancellano facilmente.

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