MIGLIORI
gen 4th, 2022 | Di Thomas Munzner | Categoria: Contributi
MIGLIORI
Ogni epoca ha avuto i suoi “migliori”: persone, gruppi, popoli, razze che si reputavano “migliori”, superiori rispetto al resto dell’umanità. Per giustificare e avvalorare tale auto-proclamazione, nei secoli scorsi si faceva scendere in campo Dio. In questo modo nasceva per i “migliori” il diritto/dovere divino di imporre sempre con il sopruso, con la violenza, agli “altri”, ai “peggiori”, ai “selvaggi”, gli stili di vita vigenti nei Paesi “migliori”, le loro idee, la loro religione, assoggettandoli e in molti casi schiavizzandoli. Deus vult! (Dio lo vuole!) e partì la Prima Crociata. Gott mit uns (Dio è con noi) era ad esempio uno degli slogan, usati dai cavalieri teutonici fino a Hitler, per sottomettere o eliminare gente la cui vita non era degna di essere vissuta.
Da una trentina d’anni a questa parte, cioè dalla fine della Guerra Fredda (1945-1989), che poi tanto fredda non è stata, quella combattuta fra il “comunismo” cosiddetto “realizzato” e l’altrettanto sedicente “mondo libero” e vinta dai “migliori”, le cose sono in parte cambiate. Gli aggressori/benefattori dell’umanità, i “migliori”, sono sempre gli stessi: per lo più bianchi, occidentali, geneticamente razzisti, imperialisti, colonialisti, neoliberisti, portatori di “civiltà”, ed in ultimo eventualmente anche “cattolici”. Ma sono però cambiate, le motivazioni, i pretesti usati per le aggressioni ai “peggiori”. Una nuova religione laica ha sostituito quella tradizionale: è la religione dei diritti umani, dell’esportazione della “democrazia” ovviamente quella made in USA, della lotta al “terrorismo”.
Anche la plurisecolare gunboat diplomacy, la politica delle cannoniere, che minacciava l’uso della forza contro staterelli che non intendevano assoggettarsi agli interessi delle potenze imperialiste, è stata definitivamente sostituita dai più moderni “embarghi terapeutici” e dai “bombardamenti umanitari” contro le popolazioni civili dei Paesi considerati “peggiori”, i cosiddetti rogue states, gli Stati canaglia, governati da “tiranni” (sono considerati tali solo quelli non alleati degli USA, gli altri sono definiti “Paesi moderati”) che promuoverebbero il “terrorismo”, minaccerebbero la pax americana, ostacolerebbero il dispiegarsi nel mondo della “democrazia”. E sono sempre gli Stati Uniti, assieme ai suoi alleati, la nazione chiamata a battere questo “terrorismo”, e a far trionfare in tutto il mondo, oltre alle libertà politiche, quelle economiche: “la libertà d’impresa, il libero mercato e il libero commercio, che sono le basi per creare prosperità per tutti i popoli”. “Gli Stati Uniti accolgono con gioia la responsabilità di guidare questa grandiosa missione” disse nel 2002 il presidente George W. Bush.
Suo padre, il presidente George H. W. Bush, in un discorso del 2 febbraio 1991, così spiegò l’operazione Desert Storm per la liberazione del Kuwait dalle truppe irachene occupanti: “L’America, la migliore nazione della terra, la più piena d’amore, combatte contro il più vecchio nemico dello spirito umano, il demone che minaccia la pace mondiale. I nostri combattenti testimoniano che il trionfo dell’ordine morale è l’idea che ci ispira”. Ma, come fu subito evidente, la cosiddetta “liberazione” del Kuwait altro non fu che il pretesto per arrivare al regime change in Iraq, fresco orfano dello scudo sovietico; perché, come disse il segretario di Stato James Baker, “perdere il petrolio del Golfo vuol dire perdere soldi e posti di lavoro”. Finita la guerra, qualche mese dopo, in occasione del 4 luglio, George H. W. Bush confessò minaccioso: “L’Iraq vivrà sotto la spada di Damocle d’un intervento armato degli Stati Uniti. L’unica via d’uscita immediata per gli sventurati iracheni è un golpe militare a Baghdad. Siamo perfettamente disponibili a offrire ai militari un’altra chance. Finché Saddam non sarà eliminato, non normalizzeremo i rapporti con l’Iraq”. E così la guerra del Golfo, fatta con la copertura dell’ONU per ripristinare il diritto internazionale violato dall’Iraq con l’invasione del Kuwait, in realtà affossò definitivamente non solo quel diritto, ma la stessa ONU.
“Bombarderemo l’Iraq fino a farlo tornare all’era preindustriale” aveva promesso James Baker incontrando Tareq Aziz a Ginevra una settimana prima dell’inizio di Desert Storm: detto fatto. Per dire di che fama sinistra gode il premio Nobel per la Pace, basta pensare che il presidente George H. W. Bush in piena guerra del Golfo, nel febbraio 1991, fu inserito nella rosa dei papabili “perché sta conducendo una lotta contro le oppressioni, le torture e il totalitarismo”. Il premio però non lo ottenne (venne conferito a Aung San Suu Kyi); a differenza di un suo predecessore super imperialista, Theodore Roosevelt, campionissimo della gunboat diplomacy che invece ne fu insignito nel 1906, noto soprattutto per una famosa frase che ripeteva sovente: “Speak softly and carry a big stick; you will go far”, parla gentilmente e portati un grosso bastone; andrai lontano.
I gringos nordamericani erano talmente pieni d’amore per il popolo iracheno e a tal punto preoccupati per le violazioni dei diritti umani e la mancanza di democrazia in quel Paese che, terminata la guerra (28 febbraio 1991), proseguirono ad imporre un micidiale embargo contro il popolo iracheno, ogni sei mesi prorogato con le più pretestuose motivazioni, che in quasi 13 anni provocò più di due milioni di morti. Il sistematico divieto di importazione di pezzi di ricambio e di attrezzature impedì il regolare funzionamento degli acquedotti, degli impianti di potabilizzazione dell’acqua, delle centrali elettriche, e di un sistema sanitario che era tra i migliori del Medio Oriente. Il divieto, secondo i promotori delle sanzioni, avrebbe dovuto interessare solo quelle merci e quei materiali che si prestavano a un duplice uso, civile e militare. Ad esempio, fu impedita l’importazione di matite per via della grafite; ma non si capì il blocco della carta igienica di cui tuttora si conosce solo un uso civile. Si diffusero e divennero così mortali, soprattutto per i bambini, malattie altrimenti facilmente curabili: diarrea, gastroenterite, infezioni virali, ecc. a cui bisogna aggiungere la malnutrizione. L’UNICEF stimò che, a causa della scarsità di cibo e del divieto di importazione di molti medicinali, morirono in Iraq mediamente 4.500 bambini al mese (uno ogni dieci minuti). Ci fu in sovrappiù l’aumento esponenziale di casi di leucemia, di varie forme di tumori e alterazioni genetiche conseguenti all’uso massiccio di proiettili all’uranio impoverito da parte della coalizione occidentale durante la guerra del Golfo del gennaio/febbraio1991: era la cosiddetta Sindrome del Golfo che fra i veterani USA (usati anche come inconsapevoli cavie per testare nuovi vaccini) provocò circa 15.000 morti e malformazioni genetiche nei loro figli concepiti durante e dopo il conflitto. Il 30 agosto 1996, la United Nations Sub-Commission on Prevention of Discrimination and Protection of Minorities, con il solo voto contrario degli USA, riconoscerà come armi di distruzione di massa i proiettili all’uranio impoverito e ne chiederà la messa al bando. Ma la richiesta rimase inevasa, e così il fenomeno si ripropose nel 1999 con l’aggressione della NATO alla ex Jugoslavia: e fu la Sindrome dei Balcani, che colpì, oltre alla popolazione civile slava, anche numerosi militari non solo italiani.
Sulla strage consumata in Iraq dal civile occidente, dai “migliori” negli anni 90, l’assistente del segretario generale dell’ONU Kofi Annan, nonché coordinatore del programma umanitario dell’ONU in Iraq, l’irlandese Denis Halliday, fu inequivocabile. Nella conferenza stampa del 1°ottobre 1998, Halliday dichiarò: “La continuazione dell’embargo all’Iraq non è compatibile con la Carta dell’ONU, con le convenzioni sui diritti umani e sui diritti dei bambini. Stiamo distruggendo un’intera società: è illegale e immorale. Trovo personalmente inaccettabile il cercare di realizzare un programma umanitario nel contesto di uno scenario politico di risoluzioni del Consiglio di Sicurezza (CdS) con le quali si tiene in ostaggio un intero Paese attraverso il regime delle sanzioni perché alcuni Stati membri non sono soddisfatti della leadership irachena (…) E’ tragico per il CdS essere colpevole di genocidio. E’ per questo che, dopo 34 anni, ho preso la decisione di dimettermi e di parlare contro gli Stati membri dell’ONU che perpetuano questo crimine con la copertura del CdS”.
Breve parentesi. Mentre in Iraq stava succedendo quanto denunciato da Halliday, Piero Sansonetti scriveva sul giornale fondato da Antonio Gramsci, l’Unità dell’8 agosto 1998, un commento sugli attacchi alle ambasciate USA di Nairobi in Kenya e Dar es Salam in Tanzania. Sotto il titolo Guardiani della libertà, il Sansonetti affermava che “l’America in questi anni, cioè gli anni di Clinton, ha svolto una politica estera pacifica, autorevole, seria, importante e dai risultati assai incoraggianti. E l’ha condotta molto spesso in assoluta solitudine. Non ha ricevuto grandi aiuti dai suoi alleati. Né sul piano politico, né su quello diplomatico: Haiti, Corea, Bosnia, Sud Africa, Medio Oriente, Iraq, sono tappe di una azione sempre equilibrata, ma anche, sempre, molto isolata, della Casa Bianca. E quando si sta soli, quando ci si espone sempre in prima linea, il pericolo del terrorismo diventa molto forte”. Pochi anni dopo, nel 2004, il Sansonetti sarà chiamato a dirigere il quotidiano Liberazione del Partito della Rifondazione Comunista. Chiusa parentesi.
Non ho avuto l’occasione di conoscere personalmente Denis Halliday, ma ebbi un breve colloquio con il suo successore, il tedesco Hans Christof von Sponeck. Mi spiegò sommariamente le difficoltà (che io già conoscevo) che aveva incontrato nell’applicazione della risoluzione del CdS dell’ONU 986 del 14 aprile 1995 conosciuta come Oil for Food, – che però iniziò a “funzionare” (si fa per dire) solo due anni dopo -, specialmente per l’ostilità degli anglo-statunitensi che lo ritenevano troppo coscienzioso nella distribuzione degli aiuti, quindi complice di Saddam Hussein e del suo regime. A mia volta gli raccontai che negli ultimi anni, avevamo ricoverato in alcuni ospedali italiani che avevano accettato di accoglierli, un certo numero di bambini iracheni che, una volta guariti, vennero riportati in Iraq. Il progetto terminò quando finirono i soldi. Von Sponeck quasi mi abbracciò. Ci scambiammo gli indirizzi e ci salutammo con una stretta di mano che durò un’eternità. In seguito alle forti pressioni dei “migliori”, dei gringos e del sinistro Tony Blair, Von Sponeck e il suo staff diedero infine le dimissioni nel febbraio 2000 per le stesse ragioni di Halliday. Per accontentare i “migliori”, al suo posto, Kofi Annan – che l’anno successivo riceverà assieme all’ONU il premio Nobel per la Pace “per il loro lavoro per un mondo più pacifico” – nominò un acquiescente, insignificante birmano, tale Tun Myat, di cui si persero subito le tracce.
Fra i vari personaggi più o meno famosi con cui ho avuto a che fare nella mia parentesi irachena, Hans von Sponeck è senza dubbio la più bella, la più umana, affascinante persona che ho incontrato, un gentleman. Un po’ di tempo dopo scoprii che suo padre durante la seconda guerra mondiale era generale di corpo d’armata e partecipò all’Operazione Barbarossa, cioè all’invasione dell’URSS, sul lato sud del fronte. Il generale Von Sponeck fu una figura per così dire “controversa”: da una parte partecipò alla caccia agli “ebrei/bolscevichi” in Crimea, ma poi disobbedì a un ordine personale di Hitler rifiutandosi di mandare inutilmente allo sbaraglio le sue truppe. Un tribunale militare presieduto da Goering lo condannò a morte, pena poi tramutata in sette anni di carcere dal Fuhrer. Il 23 luglio 1944 fu “giustiziato come deterrente per coloro che avevano tentato di assassinare Hitler” tre giorni prima. Scrisse di lui uno storico tedesco: “ (…) Sebbene Von Sponeck non fosse un nazista in senso tecnico fu oltremodo critico su diversi aspetti del regime, ma le sue azioni e gli ordini da lui dati alle sue truppe non lasciano dubbi che avesse interiorizzato il razzismo antisemitico tipico del nazismo. Sponeck è la riprova che non si dovesse essere ideologicamente deviati dal nazismo per portare avanti la politica del regime stesso. E’ incredibile come sotto il nazismo ed in tempo di guerra le figure contrastanti di eroe e assassino possano confondersi nella stessa persona”.
Nei libri dedicati al tema dei genocidi non si trova neanche un accenno ai morti iracheni fatti morire per motivi umanitari dalla migliore nazione della terra e dai suoi complici, ONU compresa. Così come succede per i crimini commessi dai “migliori” in Iraq, anche le stragi avvenute nei secoli precedenti al 900 sono minimizzate o dimenticate: questo accade perché le vittime non furono occidentali, di razza bianca, ma “selvaggi”. Ed è proprio per differenziare dopo i vivi anche i defunti in morti di serie A e morti di serie B, che negli anni 40 del secolo XX qualcuno sentì l’esigenza di sostituire il termine “sterminio”, pesante, ma troppo generico, con il più elitario “genocidio”, da riservare solo ai popoli eletti da Dio, ai “migliori” che erano stati colpiti negli anni 30 e 40 del XX secolo da “una tragedia senza pari”. La storia, per chi la vuole leggere tutta e non solo ciò che fa comodo alle sue tesi, ci dice invece che già nei secoli precedenti successe qualcosa di simile e di peggio.
Dopo l’introduzione del termine “genocidio” partì la corsa alla promozione in serie A dei propri morti, allo scopo di ottenere qualche rimborso in moneta sonante dagli incolpevoli nipoti dei colpevoli di tale crimine. Nel 2015, in occasione del centenario del “genocidio” armeno ad opera dei turchi durante la Grande Guerra, per informarmi meglio, acquistai tre libri sull’argomento: uno di Marcello Flores, un altro dell’armeno-statunitense nato in Turchia Vahakn Dadrian, e l’ultimo dello statunitense Guenter Lewy. Due di questi autori non hanno dubbi: fu genocidio. Uno solo, geloso del suo monopolio razzista sul genocidio, spiega che quello degli armeni non può essere catalogato come tale perché non fu programmato: che sfiga per gli armeni essere genocidati dai turchi che sulle stragi sono imprevedibili, poco ordinati, non programmano mannaggia a loro, ma improvvisano; anziché dai tedeschi che in queste cose sono più metodici. Ai lettori indovinare chi è dei tre.
In effetti il termine “sterminio” sembrerebbe più consono alle stragi di animali. Fa infatti venire in mente lo “sterminio dei bisonti”, negli USA quasi uno sport nazionale, che oltre al divertimento di sparare su una mandria da un treno in corsa per ammazzare la noia oltre al bisonte, aveva almeno altri due scopi: togliere ai pellerossa la loro principale fonte alimentare e indurli a sloggiare dai territori a loro assegnati e, nel caso di commercianti-cacciatori professionisti, rimpinguare il conto in banca. Su questo tema, per coloro ai quali il medico ha prescritto una dieta, per bloccare l’appetito consiglio la visione di un vecchio western di Richard Brooks L’ultima caccia, definito crepuscolare dalla critica, ma secondo me, anomalo, atipico per l’anno in cui è stato prodotto, il 1956, e che ben rappresenta “l’essenza stessa dell’America, l’immagine che il popolo americano ha costruito di se stesso nei secoli”.
Chi si occupa di diritti umani, dovrebbe obbligatoriamente leggere almeno superficialmente il preambolo e i 30 articoli della Dichiarazione Universale dei Diritti Umani allegata allo statuto dell’ONU il 10 dicembre 1948, dove per ciascun essere umano sono previsti diritti politici, civili, economici, sociali e culturali. Per i “migliori”, cioè gli imperialisti, i colonialisti, i neo-liberisti, alcuni di questi diritti sono insopprimibili, e devono essere sempre esigibili (come ad esempio il diritto di voto, la libertà di parola, la democrazia, ma sempre e solo quella made in USA, cioè la democrazia per le élite …); mentre tutti gli altri diritti, soprattutto quelli previsti nell’articolo 23 e seguenti, non sono tassativi come i precedenti, ma facoltativi (diritto al lavoro, a un’equa retribuzione, alla salute, alla sicurezza sociale …).
Nei Paesi “migliori”, occidentali, i diritti “insopprimibili”, quelli di serie A, sono apparentemente garantiti. Gli elettori, quelli non ancora totalmente schifati dalla classe politica che li governa, votano, ma poi, indipendentemente da chi vince, le scelte politiche ed economiche determinanti per la stragrande maggioranza dei popoli sono imposte da organismi internazionali designati dalle élite finanziarie: ad esempio, il famoso pilota automatico della durata di dieci anni predisposto dall’UE e annunciato da Draghi nel discorso d’insediamento a Palazzo Chigi. In Italia un embrione di finta democrazia era già presente verso la fine degli anni 70: ricordo un manifesto sindacale dei metalmeccanici che invitava a iscriversi alla Federazione Lavoratori Metalmeccanici con il seguente slogan: Partecipa, Discuti, Decidi. Alcuni buontemponi, come il sottoscritto più attenti ai mutamenti in peggio del sindacato e al tramonto della democrazia diretta, assembleare, ovvero la “democrazia dei poveri” diffusa nei luoghi di lavoro in quegli anni, cambiarono lo slogan in: Partecipa, Discuti, ma poi decide un altro.
Sulla “democrazia made in USA”, Gore Vidal, scrittore e sceneggiatore di grandi film (Ben Hur, Improvvisamente l’estate scorsa, Parigi brucia? …), cugino di Al Gore (candidato democratico alle presidenziali USA del 7 novembre 2000 che perse per 600 voti di differenza nella Florida governata dal fratello del candidato repubblicano George W. Bush, dopo vari riconteggi che si protrassero fino a Natale, bloccati infine dalla Corte Suprema che decise di proclamare vincitore Bush junior), rilasciò dichiarazioni tremende: “Gli Stati Uniti non sono mai stati una democrazia. Ne abbiamo parlato a lungo, perché sarebbe un bel sistema. Ma noi siamo governati da un’oligarchia. La nostra Costituzione (che è tra l’altro una buona costituzione) permette semplicemente ai proprietari bianchi di fare in pace i loro affari. Ma la gente non è rappresentata … Le elezioni sono solo uno show. Per partecipare alle elezioni i candidati devono racimolare denaro. Per raccattare soldi si legano a qualche potente lobby. Ed è quella che andranno a rappresentare. Non la gente …”.
Gli altri diritti, quelli facoltativi, di serie B, come il diritto al lavoro o la sanità universale e gratuita, nei Paesi “migliori” sono in rapida estinzione: e che diamine, mica siamo a Cuba o in Bielorussia! Negli USA, dove non ci sono quasi mai stati, il plurimiliardario Warren Buffet, afflitto dalla classica coscienza infelice tipica della borghesia, quasi disgustato dalla irrisoria facilità con cui continuava ad arricchirsi, chiese al governo di Washington di tassare di più i ricchi a cominciare da lui: “Ma vi pare giusto che io paghi in proporzione meno tasse della mia segretaria o della donna delle pulizie?” dichiarò. Poi scandalizzò ulteriormente destra e sinistra (dove esisteva ancora) con una sintetica, ma eccellente analisi sullo stato dei rapporti di forza tra le classi sociali: “La lotta di classe esiste e noi (ricchi) l’abbiamo vinta”. Quando ero giovane un personaggio simile sarebbe stato definito un borghese illuminato, di quelli che il PCI si filava negli anni 70 per accreditarsi come partito di governo, ma che Luigi Pintor liquidò in poche parole: “I borghesi sono illuminati solo quando qualcuno gli paga la bolletta della luce”.
Infine, la guerra al terrorismo. Ma chi sono i terroristi? Il 20 marzo 2003, il presidente George W. Bush presentò l’avvio dell’Operazione Iraqi Freedom, l’attacco finale all’Iraq baathista, con queste parole: “In questo conflitto l’America deve confrontarsi con un nemico che non ha rispetto delle convenzioni di guerra e delle norme morali”. Durante questa ennesima aggressione all’amorale Iraq, gli Stati Uniti usarono la tattica suggerita da Harlan Ullman, già docente all’Accademia della US Navy, denominata Shock and Awe, Colpisci e Terrorizza, “che ha lo stesso effetto di Hiroshima, ma senza usare l’atomica”, come la descrisse il suo ideatore. Se il sommo poeta dovesse riscrivere la Divina Commedia ai giorni nostri, senz’altro aggiungerebbe un girone infernale dove collocare tutti i presidenti degli Stati Uniti, nessuno escluso, perché le più spudorate menzogne sono da sempre la costante delle amministrazioni USA, democratiche o repubblicane non fa differenza.
I fatti hanno dimostrato, ad esempio, che nella seconda guerra del Golfo (17 gennaio/28 febbraio 1991 – la prima fu quella tra Iraq e Iran, 1979-1988) l’Iraq si attenne a tutte le convenzioni internazionali, mentre i fuorilegge, tanto per non cambiare, furono gli Stati Uniti. Nonostante l’Assemblea Generale dell’ONU il 4 dicembre 1990 avesse votato unanimemente, con il solo voto contrario degli Stati Uniti, una risoluzione che vietava attacchi militari contro reattori nucleari (come già previsto dal primo protocollo aggiuntivo della Convenzione di Ginevra), gli USA non esitarono a bombardare quattro impianti nucleari, nonché una fabbrica di pericoloso latte in polvere e parecchi altri stabilimenti dove pensavano si producessero letali armi chimico-batteriologiche. Il 16 febbraio gli inglesi bombardarono un affollato mercatino rionale di Falluja provocando 130 morti e 87 feriti. Tre giorni prima la nazione “migliore” non si fece scrupoli a bombardare il rifugio numero 25 di Al Ameriya a Baghdad perché si sospettava che Saddam Hussein si fosse mescolato ai civili. Un caccia Stealth sparò due missili: il primo perforò il bunker, e il secondo s’infilò con precisione nel buco ed esplose provocando 408 vittime tutte civili: donne, uomini, vecchi e bambini, ma Saddam non c’era. Un portavoce del Pentagono con la faccia come il culo dichiarò: “Saddam Hussein ha messo intenzionalmente dei civili nel rifugio-bunker per causare uno scandalo internazionale. La nostra strategia non cambia, se la popolazione irachena vuole essere al sicuro dorma nel suo letto. Saddam non trarrà beneficio dall’incidente da lui stesso provocato”. Norman Schwarzkopf, comandante dell’operazione Desert Storm affermò: “Saddam sa bene che noi non colpiamo i civili: lo sa così bene che si nasconde fra di loro. Inoltre, in base alle convenzioni di Ginevra, se un obiettivo civile ne cela uno militare si può colpirlo ugualmente”. Quel rifugio, credo ancor oggi visitabile, è stato lasciato così come si presentava dopo l’attacco dei “migliori”, con le orme dei corpi impresse dal calore sprigionato dal missile sulle pareti di cemento e sul pavimento; sono stati aggiunti solo fiori e le foto delle vittime. A proposito di razzismo e di morti di serie A e di serie B, il lettore provi a immaginare le reazioni del mondo occidentale se le 408 vittime anziché irachene fossero state metti caso israeliane: si sarebbe scatenata l’apocalisse, non solo mediatica.
E a proposito di apocalisse, se si dovessero bombardare tutti gli Stati che, chi più chi meno, non rispettano tutti i diritti umani previsti dalla Dichiarazione, sul pianeta Terra vi sarebbero solo macerie e cadaveri. Forse si salverebbe solo lo Stato del Vaticano.
AFGHANISTAN, VITTORIA
Avevo 23 anni, quando il 31 gennaio 1968 giunse notizia che l’esercito nordvietnamita e i patrioti vietcong, che stando alla propaganda USA avrebbero dovuto essere stati ormai debellati, avevano iniziato una grande offensiva militare nel Vietnam del Sud contro le basi USA, denominata Offensiva del Tet, il capodanno vietnamita, giorno in cui di solito negli anni precedenti la guerra s’interrompeva. La notizia che più sbalordì l’opinione pubblica occidentale e quella statunitense in particolare, fu quella dell’ambasciatore USA a Saigon svegliato e fatto evacuare alle ore 3 in piena notte dal suo letto, a causa di 19 vietcong che camuffati con divise sudvietnamite, pronti a tutto e votati alla morte, erano penetrati nelle cantine dell’ambasciata: edificio fortificato, considerato di massima sicurezza, inaccessibile a estranei, di cui i vietcong presero in breve possesso e tennero testa ai marines per sei ore. Ricordo che la sera seguente con una decina di amici e compagni discutemmo in una apposita riunione di questo evento così clamoroso: un esercito di contadini, diciamo pure un esercito di straccioni, ma appoggiato dalla stragrande maggioranza del popolo, che metteva in estrema difficoltà militare e politica la prima potenza mondiale e l’esercito collaborazionista sudvietnamita, un classico Davide contro Golia. Per questa figuraccia, il democratico Lyndon Johnson non ritenne opportuno di ricandidarsi alla presidenza degli Stati Uniti per un secondo mandato.
Dopo quasi otto anni di guerra contro il corpo di spedizione francese, infine circondato e assediato nella base aerea di Dien Bien Phu, che si arrese nel luglio 1954 all’esercito nazionalista del Viet Minh guidato da Ho Chi Minh, e 13 anni di guerriglia contro l’occupazione militare USA, l’Offensiva del Tet segna l’inizio della fine dell’avventura degli Stati Unti in Indocina che si concluderà il 30 aprile 1975 con una precipitosa fuga, mentre i carri armati nordvietnamiti e i vietcong entravano vittoriosi nell’allora Saigon. Dicono gli esperti, che l’offensiva del Tet per i vietcong fu certamente un grande successo mediatico, ma dal punto di vista militare fu una sconfitta: i dati forniti dagli USA parlavano di 38.000 vietcong uccisi e “solo” 4.000 marines caduti. L’offensiva del Tet servì ad ampliare il fronte interno negli Stati Uniti: non passava giorno che non solo negli USA, ma in tutto il mondo, si svolgessero grandi manifestazioni che chiedevano la fine dell’intervento militare in Vietnam. Non ricordo la data, ma in quel tempo a Torino si svolse una manifestazione nazionale per il Vietnam che definire oceanica è troppo poco, a mia memoria senza dubbio in assoluto la più grandiosa mai svoltasi a Torino nel secondo dopoguerra. Per dare l’idea, la grande piazza Vittorio Veneto, luogo del concentramento, era stracolma, ci si spostava molto a fatica, ed erano gremite all’inverosimile anche tutte le vie laterali, il corso Cairoli, il Lungopo, il ponte sul Po, e tutto il percorso del corteo fino a piazza San Carlo. Corteo che durò ore, costretto a procedere assai lentamente, con tanti partecipanti che non riuscirono neanche a muovere un passo.
L’offensiva del Tet mandò messaggi importanti a quei popoli del Terzo Mondo che volevano liberarsi dall’abbraccio soffocante, mortale del colonialismo dei “migliori”, perché dimostrò concretamente, per dirla con una frase ripetuta sovente dal presidente Mao Tse Tung, che “L’imperialismo è una tigre di carta”. E fu anche un’iniezione di fiducia, di speranza per quei movimenti che in tutto il mondo lottavano per migliori condizioni di vita, di studio e di lavoro: insomma dimostrò che si può non essere succubi dei “migliori”, che nulla è già scritto, che cambiare il mondo si può.
Non c’è bisogno di essere un esperto di Afghanistan per capire che il fatto principale, la notizia più eclatante che viene da Kabul è che un Paese oppresso perché occupato dalle potenze straniere, imperialiste, coalizzate in quella organizzazione terroristica chiamata NATO, dopo 20 anni di resistenza e guerriglia si è liberato degli occupanti, e senza quasi sparare un colpo per arrivare a Kabul, è finalmente padrone del suo destino, così come fu per il Vietnam nel 1975. E’ un’ottima notizia per i sostenitori dell’autodeterminazione di tutti i popoli, prevista fra l’altro dalla carta dell’ONU, perché mette in crisi profonda la religione laica dei “migliori”, quella degli interventi umanitari a suon di bombe, e dell’esportazione della democrazia made in USA. Verrebbe da dire col Che: creare due, tre, molti Afghanistan.
Per restare a Mao, a proposito di contraddizioni, dovrebbe essere evidente a tutti che la contraddizione principale era l’occupazione imperialista dell’Afghanistan da parte delle potenze occidentali, mentre ad esempio, la condizione della donna in quel Paese è una delle contraddizioni secondarie. Spiace ripetere cose che ho già scritto e citato non so più quante volte, ma siccome anche in questo caso calzano a pennello, spero che repetita iuvant. Gli antifascisti, quelli veri, quelli che il fascismo l’hanno combattuto con le armi in pugno rischiando la vita, di fronte all’aggressione all’Etiopia da parte di Mussolini nel 1935-36, decisero nel 1938 di distogliere dal fronte spagnolo tre combattenti italiani soprannominati i Tre Apostoli, Paulus, Petrus e Johannes, cioè Barontini, Rolla e Uckmar, per mandarli a istruire, organizzare e guidare gli arbegnuoc, la resistenza etiope contro l’occupazione fascista. Ailé Selassié addirittura nominò Ilio Barontini vice imperatore d’Etiopia. Il Negus Neghesti, il re dei re, era tutt’altro che un democratico o un progressista, tant’è che nel suo impero sussistevano ancora forme di schiavitù. La propaganda fascista dell’epoca presentò l’aggressione all’Etiopia come una missione liberatoria, civilizzatrice: “Se mo dall’artipiano guardi er mare, Moretta che sei schiava tra le schiave, Vedrai come in un sogno tante navi, E un tricolore sventolar per te. Faccetta nera, bell’abissina, Aspetta e spera che già l’ora s’avvicina, Quando saremo vicino a te, Noi te daremo un’altra legge e un altro Re. La legge nostra è schiavitù d’amore, Ma è libertà de vita e de pensiere, Vendicheremo noi Camicie Nere, Gli eroi caduti e liberando te. Faccetta nera, piccola abissina, Te porteremo a Roma, liberata, Dar sole nostro tu sarai baciata, Sarai in camicia nera pure te. Faccetta nera, sarai romana, E pe’ bandiera tu c’avrai quella italiana, Noi marceremo assieme a te, E sfileremo avanti al Duce e avanti al Re”. Come si può notare, mutatis mutandis, la propaganda italiana e occidentale degli ultimi 20 anni sull’aggressione all’Afghanistan è quasi una fotocopia di quella di Mussolini sull’aggressione all’Etiopia. La differenza sta nel fatto che gli antifascisti dell’epoca non si fecero fuorviare dalla propaganda, perché avevano ben chiaro che il problema principale non era la schiavitù delle abissine, ma era l’aggressore Benito Mussolini, e che Ailé Selassié era semmai un avversario del tutto secondario.
In Occidente si scambiano le due contraddizioni: quella principale, la liberazione dell’Afghanistan dal dominio coloniale occidentale e dai collaborazionisti, i cosiddetti signori della guerra, da sempre finanziati da Arabia Saudita, Pakistan e USA - Abdul Rashim Dostum, Gulbuddin Hekmatyar conosciuto come il macellaio di Kabul, Ismail Khan il leone di Herat, il figliolo del mitico leone del Panjshir Ahmad Massoud … - diventa secondaria, e la si nasconde. E quella secondaria, la condizione delle donne, diventa quella principale. Chi opera questo rovesciamento, sono i guerrafondai imperialisti travestiti da pacifinti dirittumanoidi che lavorano per la ripresa della guerra civile tra le etnie afghane come Bernard-Henri-Léwy, i Nando Mericoni, i fan di Veltroni del Kansas City detto Un americano a Roma, gli adoratori dell’american way of life, i buonisti, finti “femministi”, in realtà radicalmente razzisti, qualcuno magari a sua insaputa, ma pur sempre razzisti. Che non si danno pace per la sconfitta dei gringos che hanno lasciato l’Afghanistan in condizioni peggiori di come l’avevano trovato, e che hanno pure la faccia tosta, per non dire di peggio, di porre delle condizioni ai vincitori, anziché risarcire il Paese per i danni umani e materiali arrecati: insomma pagate e non fatevi più vedere da quelle parti, è l’unica cosa di buon senso da fare.
Ma chi sono i talebani, gli studenti delle scuole coraniche? Dalle loro dichiarazioni pubbliche si evince innanzitutto che non sono un gruppo omogeneo, che al loro interno vi sono le posizioni più diverse, da quelle ortodosse ad altre più pragmatiche. Hanno sempre combattuto i terroristi dell’ISIS, che invece gli USA hanno per tanto tempo vezzeggiato e armato per usarli, ad esempio, contro Assad in Siria nel 2012. Nelle loro operazioni belliche contro i cosiddetti signori della guerra e contro l’occupante occidentale, i talebani hanno sempre cercato di non coinvolgere i civili perché coscienti che senza l’appoggio della maggioranza della popolazione non avrebbero mai potuto vincere; perché come diceva sempre il presidente Mao, un guerrigliero deve sapersi (e potersi) muovere tra la popolazione “come un pesce nell’acqua”.
Da sempre si sono comportati come un partito di lotta e di governo, per usare un’espressione di moda: solo poche ore dopo che gli aerei si erano schiantati contro le Twin Towers l’11 settembre 2001, gli Stati Uniti accusarono Osama Bin Laden di esserne il responsabile e pochi giorni dopo vennero a sapere dal Pakistan che Bin Laden era ospite dei talebani in Afghanistan e ne richiesero l’estradizione. Da notare che i componenti dei commando che l’11 settembre colpirono le Twin Towers e il Pentagono, erano di varie nazionalità, ma fra loro non c’erano né afghani né iracheni. I talebani confermarono che Bin Laden, che il mullah Omar definiva “un piccolo uomo”, si trovava in Aghanistan, e il loro portavoce il 20 settembre correttamente rispose che “se gli Stati Uniti lo vogliono devono fornirci le prove che è colpevole”. Ari Fleischer, portavoce della Casa Bianca rispose duro che “il presidente Bush non vuole negoziati con l’Afghanistan né vuole fornire le prove che abbiamo …”. Gli USA sapevano chi era il mandante di quegli attentati, cioè l’Arabia Saudita, ma se l’avessero rivelato pubblicamente non avrebbero più avuto il pretesto per attaccare l’Afghanistan, che era sicuramente un’operazione già programmata da molto tempo: basta pensare che per Desert Storm nel 1990-1991 ci vollero circa sei mesi di preparazione, per Enduring Freedom nel 2001 meno di un mese! Il 7 ottobre, partì l’aggressione all’Afghanistan, a cui anche l’Italia partecipò volentieri grazie al voto quasi unanime del Parlamento. E il 20 marzo del 2003 sarà la volta dell’aggressione finale all’Iraq. Kabul verrà conquistata il 13 novembre 2001. Il giorno seguente il presidente George W. Bush pronuncia le seguenti ultime parole famose: “L’Afghanistan è stato liberato e le forze della coalizione continuano a dare la caccia ai talebani e ad Al Qaeda (…)”.
Che succederà alle donne afghane? Sul futuro delle donne afghane, i sedicenti esperti, sempre gli stessi, che non fanno informazione, ma solo propaganda e caciara, quelli che schiamazzano dal mattino alla sera ogni giorno nei talk show televisivi, i Sansonetti, gli Sgarbi, i Capezzone, eccetera, sembrano assai preoccupati. Fino alla sera prima sfoggiavano le loro vaste conoscenze su virus e vaccini, ma a fine agosto si tramutarono nel giro di poche ore in ultras femministi e consumati afghanologi. Non so negli altri Paesi, ma in Italia si nota una tendenza per cui i comici si trasformano in politici, e i politici cercano di rubare il mestiere ai comici. Grillo è diventato un politico e non fa più ridere, mentre i politici tendono a imitare le macchiette che di loro fa Maurizio Crozza. Tra Crozza e i politici vi è ormai una forma acuta di osmosi cazzara per cui non si riesce più a distinguere l’originale dall’imitazione.
E allora per arrivare alle conclusioni su chi sono i talebani e sulla questione femminile in Afghanistan, parafrasando Totò che fu uno dei più seri uomini politici italiani, si può dire che i giovanotti sono studenti che studiano, che si devono “prendere una laura, laura, e tenere la testa al solito posto, cioè sul collo.; Un punto e un punto e virgola!”. Fortunatamente per tutta l’umanità, il mondo è sempre meno unipolare, si allontana un pochino la prospettiva di un altro secolo americano e la vittoria dei talebani in Afghanistan potrebbe accelerare questa tendenza. Quella che Marcos definì la quarta guerra mondiale, dichiarata dal neoliberismo globalista contro l’intera umanità, iniziata dai “migliori” subito dopo la tragicomica disfatta del comunismo novecentesco, vede un’imprevista sconfitta militare degli aggressori. Cina e Russia possono e debbono rappresentare un’alternativa all’Occidente per le scelte del governo talebano; che spero e immagino abbia capito che per fare uscire il Paese dalle condizioni miserrime in cui l’hanno lasciato i “migliori” ha bisogno dell’impegno di tutto il suo popolo, in primis delle sue donne, ex collaborazionisti esclusi. Auguri Afghanistan.
P.S. Chi ha ancora dei dubbi o pensa che abbia esagerato su ciò che ho scritto sin qui su colonialismo, imperialismo, razzismo dell’uomo bianco, propaganda occidentale, può andarsi a rivedere, ma soprattutto a risentire, un mirabile servizio andato in onda sul TG delle 20 di La7 martedì 19 ottobre scorso, annunciato da uno scandalizzato campione del giornalismo progressista italiano, il dottor Mentana. Le orrende immagini mostravano dirigenti talebani che, anziché onorare i caduti degli eserciti occidentali occupanti nel compimento della missione civilizzatrice, osavano commemorare i loro martiri, definiti dal Mentana “terroristi”, morti per l’indipendenza dell’Afghanistan, con la presenza dei parenti dei caduti. Decisamente disgustosi, riprovevoli, ingrati questi talebani!
LA REPUBBLICA PRESIDENZIALE
In occasione del referendum del settembre 2020 ricevetti un numero infinito di inviti a votare contro la riduzione della rappresentanza parlamentare, martellamento che diminuì leggermente quando resi note le motivazioni per cui avrei invece votato a favore. Ricordo in particolare un “pacifista” di Viterbo, ossessionato assai, un caso clinico, che scriveva di violenza, razzismo, dittatura e, mediamente ogni tre righe, ricorreva la parola fascismo, a suo dire principale effetto diretto del maschilismo. Ricapitolando, in caso di diminuzione dei parlamentari, Costituzione stravolta, democrazia seppellita, patriarcato, dittatura, fascismo e altre tremende piaghe che si sarebbero abbattute sul nostro disgraziato Paese: un clima più rigido, vento, neve, freddo, bufère, le bùfere … acqua, vento e nebbia, nebbia, eh, la nebbia: a Milano quando c’è la nebbia non si vede. Non prevedeva l’arrivo delle zanzare coreane, quelle più intonate all’autunno-inverno, in realtà spie del dittatore Kim Jong-un travestite da zanzare, ma non poteva mancare una grande moria delle vacche, come voi ben sapete. Punto! Due punti!! Massì, fai vedé che abbondiamo, abbondandis adbondandum.
Ma davvero il pericolo maggiore, l’avversario principale per i lavoratori, per la democrazia italiana è oggi questo neo-fascismo, impersonato da quei quattro gatti che hanno dato l’assalto alla sede della CGIL a Roma? E’ sempre successo nella storia che alla caduta di un regime, rimangano degli scampoli di nostalgici, di revanscisti, a cui si aggiungono nuovi adepti che, pur non avendo vissuto in quel regime, ma essendo profondamente delusi dal regime democratico che l’ha sostituito, per consolarsi e darsi una prospettiva di felicità, si auto-convincono che si stava meglio quando si stava peggio. Non succede solo per il fascismo: vi sono ancora monarchici che desiderano il ritorno di casa Savoia, ad esempio Antonio Tajani vicepresidente e coordinatore di Forza Italia. O quelli che per risollevare il Sud sognano il Regno delle Due Sicilie con i Borbone.
In Italia, il fascismo, quello vetero, sansepolcrista, quello del manganello e dell’olio di ricino, che fu finanziato dal grande padronato, industriali e agrari, e che servì ad impedire che si ripetesse in Italia quanto avvenuto in Russia pochi anni prima, nell’ottobre 1917, ha esaurito il suo compito storico 76 anni fa. Il neo-fascismo, quello presente nella Repubblica democratica fondata sul lavoro, bombarolo, stragista, golpista, in combutta con i servizi segreti, che aveva anch’egli il compito di sbarrare la strada al movimento dei lavoratori, viene messo a riposo dai padroni nel 1980, perché divenuto inutile dopo la storica disfatta dei lavoratori FIAT arrampicati ai cancelli di Mirafiori. Da allora, per 40 anni, fino allo scorso 9 ottobre, non c’è stata più la necessità della strategia della tensione, delle bombe, di devastare Camere del Lavoro come accadeva nel secolo scorso, anche perché Confindustria ha trovato un nuovo alleato. Ha richiamato in panchina i neofascisti perché da un quarantennio a questa parte ha ottenuto la più completa collaborazione/complicità della troika sindacale e della “sinistra governista” per operare il totale smantellamento dei diritti e delle conquiste dei lavoratori. L’assalto alla CGIL di Roma va letto quindi come il tentativo dei neo-fascisti, temporaneamente disoccupati, di alzarsi dalla panchina ed entrare in campo per cercare un nuovo ruolo nello scacchiere politico, spacciandosi per vendicatori del tradimento sindacale, per difensori degli interessi di quei lavoratori che ormai la sedicente “sinistra” e la troika sindacale hanno da tempo abbandonato, svenduto, in cambio di poltrone governative. Ce lo spiegano gli stessi forzanovisti, l’audio degli eventi culminati nell’assalto alla CGIL chiarisce ogni dubbio. E allora la liquidazione di Forza Nuova per via giudiziaria o parlamentare è una delle solite armi di distrazione di massa, un bersaglio civetta, fumo negli occhi, un contentino/bluff/melina per sviare l’attenzione da problemi più seri, con l’abituale uso dell’antifascismo come “richiamo della foresta” per serrare i ranghi dei propri supporter. Tanto più che il giorno dopo essere dichiarato fuorilegge, lo stesso gruppo potrebbe riaprire con altro nome: mi permetto di suggerire “Forza Nuovissima Freschissima” (FNF) il cui acronimo mi sembra più pregnante. Il neofascismo andrebbe battuto politicamente, ma il nemico principale è un altro, e qui casca l’asino.
Nella storia della Repubblica democratica fondata sul lavoro, non c’è mai stato un governo più esplicitamente rappresentativo dell’attuale “governo dell’assembramento”, degli interessi di mafie, lobby, delinquenza mini e maxi, speculatori vari, evasori fiscali …, categorie che sono sempre state i più potenti motori dello sviluppo italiano: insomma, il governo dei “migliori” è il top, il miglior governo possibile per i padroni. Difatti tutti, ma proprio tutti i provvedimenti presi dal governo Draghi, non solo quelli economici, per far ripartire l’economia, sono estremamente coerenti con l’obiettivo di incrementare la ripresa dei profitti di suddette categorie, sciogliendo quei lacci e lacciuoli che impediscono il pieno dispiegarsi di quegli interessi. Dice a questo proposito il senatore Nicola Morra, presidente della Commissione Parlamentare Antimafia: “Siamo abituati a pensare alle mafie come una parte avversa al sistema ed invece sono parte integrante perché consentono di nascondere la polvere sotto il tappeto e di far arricchire ancora di più quelli che accumulano profitti illeciti (11 ottobre 2021)”.
La riforma Cartabia della giustizia è la colonna portante del progetto draghiano. Non è vero che la ministra è incompetente perché non ha mai messo piede in un tribunale, come hanno dichiarato anche alcuni magistrati. La sua riforma è precisamente mirata a neutralizzare con l’improcedibilità processuale eventuali indagini giudiziarie pericolose per quelli che Draghi ha individuato come i progetti e i soggetti più idonei per la ripartenza economica dell’Italia, assicurandogli l’impunità. E tra i progetti indispensabili per l’Italia, poteva mancare il mitico Ponte sullo Stretto di Messina? Certo che no. Quello che il professor Tomaso Montanari, storico dell’Arte e rettore dell’università per Stranieri di Siena, definisce precisamente così: “E’ un segnale infallibile, da anni: il #pontesullostretto è lo stigma di mafiosi, corrotti, mestatori, politici finiti, venditori di fumo, berlusconiani nativi e di ritorno, telepredicatori del progresso de noantri, servi dei padroni, sviluppisti d’antan, sauditi e pennivendoli … Ritengo che il Ponte sullo Stretto sia ormai il manifesto ideologico del peggio di questo Paese. Oltre a essere esattamente il contrario di quella sostenibilità (ambientale, economica, sociale) che la viceministra (Teresa Bellanova di Italia Viva, viceministro delle Infrastrutture e della Mobilità Sostenibile, ndr) dovrebbe servire”.
Sulla riforma Cartabia della giustizia che trasforma ancor di più la Carta “più bella del mondo” in carta di Cambronne, mi sarei aspettato una mobilitazione da parte degli intransigenti Guardiani della Costituzione e della Democrazia, quelli che gridavano al fascismo al tempo del referendum sulla riduzione dei parlamentari, quelli della dittatura sanitaria che scendono in piazza per difendere la libertà di non vaccinarsi e/o contro il green pass, quelli che “è tutto un complotto mondiale” per “diminuire la popolazione mondiale”, per far guadagnare di più le case farmaceutiche … Invece nulla, silenzio tombale. Come se non fosse successo niente. E costoro non si sono neppure accorti che negli ultimi dieci anni in Italia sono avvenuti due colpi di Stato, di quelli senza carri armati nelle strade e senza spargimento di sangue, in gergo detti “golpe bianco”. Di fatto non siamo più una repubblica parlamentare, ma siamo passati a una repubblica presidenziale: non è più il Parlamento che sfiducia il governo in carica facendogli mancare la maggioranza, ma questo compito è passato al presidente della Repubblica, che dietro suggerimento di Confindustria e con il placet europeo designa autoritariamente un nuovo governo più sensibile alle grida di dolore di Confindustria, e indipendentemente dal voto espresso dal popolo nelle urne. Nel novembre 2011 toccò al presidente del Consiglio Berlusconi, che nel tripudio della “sinistra” fu obbligato alle dimissioni da Giorgio Napolitano, il peggior presidente della Repubblica che l’Italia abbia mai avuto, e lo sostituì col neo-senatore a vita Mario Monti che portò in dote ai lavoratori la ministra Elsa Fornero. Nel febbraio 2021 è la volta del presidente Sergio Mattarella che, preoccupato che i soldi europei ottenuti in prestito dal governo in carica non finiscano quasi tutti a Confindustria, ma siano sprecati in assistenzialismo, sostituisce il governo Conte 2 con il “governo dell’assembramento” dei “migliori” di Mario Draghi, supportato da un brain trust di alto profilo, tipo l’aspirante premio Nobel per l’Economia Renato Brunetta con annessa la “migliore” esperta di pensioni, Elsa Fornero.
Per il futuro sono tre le ipotesi in campo. Al momento tutto fa pensare che dopo le elezioni politiche del 2023 sarà presente in Parlamento una robustissima maggioranza di destra, da Fratelli d’Italia al PD ripieno di oriundi rignanesi, che avrà i numeri per adeguare in senso presidenzialista la Costituzione della Repubblica. L’“uomo solo al comando” è sempre stato il sogno delle destre estreme e anche di quelle meno estreme, dai relitti del fascismo alla loggia massonica P2, ai variegati aspiranti golpisti della Prima Repubblica, che servirebbe a chiarire il destino di Draghi: c’è chi lo vorrebbe al Quirinale e chi a Palazzo Chigi. Con il presidenzialismo ci potrebbe essere la quadratura del cerchio perché Draghi potrebbe essere contemporaneamente presidente della Repubblica e presidente del Consiglio dei Ministri. Tutti i mezzi di disinformazione non parlano ancora apertamente di presidenzialismo, ma la loro propaganda è tutta diretta a mettere in evidenza le qualità di Draghi che ascolta tutti, ma poi decide per conto suo, a elogiare le sue capacità decisionali mentre i partiti bisticciano, sono inconcludenti, non riescono a mettersi d’accordo nemmeno sul ddl Zan, che è un’altra delle armi di distrazione di massa attualmente in campo. Insomma, il popolo italiano ha la fortuna di avere trovato “l’uomo della Provvidenza” conosciuto e stimato in tutto l’orbe terracqueo e farebbe bene a sfruttare questa imperdibile opportunità.
La seconda ipotesi che l’establishment sta valutando è quella di un ticket Berlusconi-Draghi, l’ipotesi più piccantina delle tre: Berlusconi presidente della Repubblica e Draghi presidente del Consiglio. Aria nuova al Quirinale: le stanze sorde e grigie che rinascono a nuova vita grazie a spettacoli di burlesque e/o di bunga bunga, equipe di igieniste non solo dentali che volteggiano leggiadre davanti a rigidi e apparentemente impassibili corazzieri; l’istituzione del corpo delle corazziere, come le amazzoni bodyguard della buonanima Gheddafi, con le aspiranti selezionate accuratamente dal presidente, perché è ora di finirla con le disuguaglianze di genere, dall’alto deve venire l’esempio. Una rivoluzione anche nella classifica europea della diplomazia: Berlino della “culona” viene superata alla grande da Roma del Cavaliere, che diventa la più accogliente sede diplomatica con la sistemazione in una stanza del Quirinale del lettone di Putin per incontri bilaterali riservati. Berlusconi, come faceva ai suoi tempi il signor Cerutti, lascerà la luce dello studio accesa tutta la notte, così i cittadini romani che passeranno di lì penseranno che sta vegliando sull’Italia, mentre invece, esattamente come Lui, si sta facendo i cavoli suoi. Per la carica di presidente della Repubblica, più che di Draghi o di residuati della Prima Repubblica e disoccupati della Seconda, Berlusconi deve temere solo la concorrenza di Pier Ferdinando Casini.
Infine la terza ipotesi, la più imprevedibile negli esiti. Non è escluso che, una volta eletto il presidente della Repubblica nel febbraio 2022, visti i sondaggi sulle intenzioni di voto, qualche partito o coalizione che ritiene di aver ormai raggiunto il top dei consensi, decida di passare all’incasso. La grandissima incognita per il partito o la coalizione interessati a far cessare prematuramente la corrente legislatura è l’astensionismo sempre più record che si è manifestato anche nell’ultima tornata amministrativa: più della metà dell’elettorato ha ritenuto che sulla scheda non fosse presente un simbolo o un candidato che potesse rappresentare le sue istanze e/o il suo malcontento. Sulla scarsa partecipazione al voto potrebbe aver inciso – ma in minima parte – la mancanza di big nelle liste, visto che al loro posto sono state schierate in campo le terze o quarte linee. Ad esempio, a Torino si contendevano la poltrona di sindaco due sconosciuti ai più, candidati dopo accanite “lotte intestinali” fra bande all’interno del PD e alla coalizione di centrodestra, che hanno infine prodotto Stefano Lo Russo e Paolo Da Milano. Per dire della popolarità di costoro: nel rituale dibattito della domenica mattina fra pensionati un poco rinco davanti all’edicola sotto casa mia, abbiamo fatto credere a un pensionato che Lo Russo fosse un lontano cugino di La Russa e un altro pensionato campanilista era contrariato, perché il centrodestra non era riuscito a candidare uno di Torino e ha dovuto far venire Paolo da Milano: prima i torinesi, perdinci!
Ormai scomparsi i riferimenti identitari forti che c’erano nella Prima Repubblica, l’elettorato, in particolare quello che faceva riferimento alla sinistra, è da tempo in libera uscita, passato all’astensione o pronto a votare chiunque prometta di ribaltare lo statu quo. Nel maggio 2014 alle Europee, una buona parte di questa massa di elettori si riversò su Matteo Renzi (40,8%), che prometteva una rottamazione totale della vecchia classe politica a cominciare dal suo PD. Al M5S andò il 21,1%, mentre Fratelli d’Italia si dovette accontentare del 3,7%. Oggi, sette anni dopo, secondo gli ultimi sondaggi, Renzi, che ha mantenuto solo ciò che aveva promesso a Confindustria, vale al massimo il 2%: da italo-vivo a italo-moribondo. Nelle Politiche del marzo 2018 il M5S che si illudeva di aprire “il Parlamento come una scatoletta di tonno” ottenne il 32,7%, ma scoprì che il Parlamento era un bunker inespugnabile di privilegi e fu respinto con perdite. I buoni provvedimenti che è riuscito comunque ad adottare sono stati in parte o del tutto cancellati dal governo Draghi, vedere ad esempio il cashback che proprio perché ha ottenuto più che discreti risultati nella lotta all’evasione fiscale è stato fra le prime misure ad essere abolite dai “migliori”.
Una menzione particolare merita la senatrice del M5S Nunzia Catalfo, ministra del Lavoro e delle Politiche Sociali con il governo Conte 2, per i suoi svariati tentativi di introdurre anche nel nostro Paese il Salario Minimo Legale (SML) esistente in tutta Europa, tranne che in Grecia e in Italia. Se ricordo bene, l’Europa ci ha richiamato più di una volta su questa anomalia. La signora Catalfo mi è sembrata una donna molto riservata, l’ho vista poche volte in tv e solo per interviste sulle problematiche di sua competenza, ma mai in trasmissioni dove tante sue colleghe più note di lei starnazzavano da mattina a sera sui più svariati argomenti. Questa vicenda del SML spiega meglio di tante parole la condizione miserevole in cui è stata precipitata la quasi totalità di salariati, sottoccupati, disoccupati, falsi autonomi, lavoratori in nero, lavoratori con contratti pirata … Sul quando, come e perché ciò sia avvenuto, e i nomi e cognomi dei rapinatori dei diritti e dei salari dei lavoratori si veda sul sito del CIVG “Chi sia stato non si sa” scritto due anni or sono.
La ministra Catalfo ha più volte convocato le parti sociali per illustrare le sue proposte sull’introduzione anche in Italia del SML. Si trattava di stabilire la cifra sotto la quale nessun salario può scendere. Per fare un esempio, la vigilanza privata e le colf sono pagate la fantastica cifra di cinque euro e rotti lordi all’ora. La ministra proponeva nove euro lordi per un salario mensile intorno ai 1.000 euro, niente di bolscevico, perché era nella media europea. Si trovò a sbarrargli la strada non solo la ovvia opposizione delle organizzazione padronali, ma anche quella della troika sindacale. Che avendo già svenduto negli ultimi 40 anni tutti i diritti e le conquiste dei lavoratori, se accettasse un aumento dei salari deciso dal governo perderebbe l’ultima prerogativa, svelandosi urbi et orbi per ciò che è diventato questo sindacato: un costoso baraccone totalmente inutile per i lavoratori, ma utilissimo per i padroni. Ovviamente con l’arrivo dei “migliori” al governo, anche il SML è stato accantonato.
Per concludere, la logica direbbe che gran parte del voto di questa massa di astensionisti dovrebbe riversarsi sul partito che sulla carta è l’unica opposizione al governo dei “migliori”, ma molti stanno accorgendosi che in realtà Giorgia Meloni è una opposizione di sua maestà. E non si vede all’orizzonte un outsider in grado di offrire una proposta convincente al dilagante disagio sociale e/o di coagulare il variegato, folkloristico dissenso di gruppetti di scoppiati, fuori di testa, suonati, scappati di casa, sbiellati, rinco, storditi … che il Covid sta moltiplicando, che si esprime in ogni week end in alcune città italiane: non sono molte persone, non esiste un leader carismatico, e no green pass non mi sembra un obiettivo entusiasmante, elettoralmente mobilitante, per lo meno all’altezza di quelli precedenti, rottamazione della classe politica e apertura della scatoletta di tonno. Anzi, queste manifestazioni per la “libertà” di non vaccinarsi, contro il green pass, non faranno che portare acqua al mulino del presidenzialismo che le vere libertà le vuole restringere per davvero. Insomma costoro lavorano (inconsapevolmente?) per il re di Prussia. E di fronte a questo marasma non solo intellettuale, è assai probabile che il presidenzialismo sarà considerato unanimemente l’unica ancora di salvezza. Auguri Italia.
DEMOCRAZIA O CAPITALISMO
Il deperimento della democrazia, quella che avevamo conosciuto nell’immediato secondo dopoguerra dopo un ventennio di fascismo, è sotto gli occhi di tutti; un fenomeno non solo italiano, ma mondiale, quello del deterioramento di tutti i sistemi cosiddetti “democratici”. Ciò avviene perché la nuova fase del capitalismo iniziata a metà degli anni 70 è sempre più in antitesi con forme democratiche di governo, perché si scontra contro quelle Costituzioni come la nostra, scritta da persone che avendo vissuto sulla loro pelle il ventennio fascista, esprimeva un fortissimo desiderio di libertà e di benessere diffuso. Il capitalismo neo-liberista per realizzare ancora maggiori profitti non può più sottostare a quello spirito e a quelle regole condivise più di 70 anni fa: difatti Berlusconi, non molti anni fa, definì sovietica la nostra Costituzione. Lo smantellamento del welfare con la privatizzazione di servizi essenziali, come la sanità ad esempio, è una delle conseguenze più evidenti di questa incompatibilità fra capitalismo e benessere sociale ed economico diffuso: nel 1992 l’Europa di Maastricht nacque proprio per realizzare questo obiettivo, cioè adeguare il capitalismo europeo a quello d’oltre oceano. Insomma, oggi più che mai l’alternativa è secca, un compromesso socialdemocratico non è più possibile perché la voracità del capitalismo non può permettersi di tollerare lo spirito dei padri costituenti, le esigenze del pianeta Terra, né tanto meno occuparsi delle necessità basilari della stragrande maggioranza dei suoi abitanti. Tutti siamo perciò chiamati a scegliere fra democrazia e ambiente da una parte e capitalismo globalizzato dall’altra, perché le due cose assieme non possono convivere, tertium non datur.
La sinistra, che avrebbe dovuto essere l’alfiere delle tematiche democratiche e di quelle ambientali, in Italia ha iniziato un inesorabile declino un quarantennio fa. Oggi sopravvivono a stento nelle riserve alcune piccole tribù con i loro riti tradizionali, i loro totem, ciascuna con il suo sakem, con percentuali elettorali da prefisso telefonico per chi chiama da fuori Roma, e destinate più prima che poi a estinguersi definitivamente. Vi sono cause ben precise che hanno determinato questo esito, non è colpa del “destino cinico e baro”. Tutte le cause possono essere ricondotte a quella che secondo me è la principale: tutta la “sinistra” sopravvissuta non ha ancora fatto i conti fino in fondo col 900. In certi casi non li ha ancora nemmeno iniziati perché taluni non si sono ancora accorti che viviamo in un altro secolo.
Mai come in questo momento cruciale, potenzialmente rivoluzionario, in cui ogni scelta compiuta dalla classe dirigente sarà determinante per il futuro del Paese e delle prossime generazioni, occorrerebbe la presenza di una grande forza politica che rappresentasse autorevolmente gli interessi degli ultimi, dei lavoratori, delle classi popolari. Invece, l’unica categoria che non ha più forme di rappresentanza dei suoi interessi né in Parlamento, né nel Paese, è proprio quella dei lavoratori, delle classe popolari, degli ultimi. Anzi, oggigiorno essere poveri o disoccupati è diventata una colpa grave. Sul Reddito di Cittadinanza,Giorgia Meloni, quella che fa finta di fare opposizione al governo Draghi, dice: “Va abolito, è come il metadone per i tossicodipendenti”. E Renzi d’Arabia, quello mantenuto dall’Arabia Saudita oltre che da quegli italiani che pagano le tasse, per non essere da meno della Meloni: “La gente deve soffrire, rischiare, provare, correre, giocarsela e se non ce la fai ti diamo una mano, ma bisogna sudare ragazzi, i nostri nonni hanno fatto l’Italia spaccandosi la schiena, non prendendo i sussidi dallo Stato”. Per trovare partiti e organizzazioni sindacali che difendevano gli interessi dei lavoratori occorre ritornare ai 30 anni gloriosi del capitalismo (1945-1975), quelli che Hobsbawm definì l’età dell’oro.
E’ implicito che parlando di sinistra si escluda il PD che è una delle sfumature del vasto assortimento di destre presenti oggi nel panorama politico italiano. Già negli anni 70 nell’allora PCI i comunisti erano una piccola minoranza, erano marginali. La maggior parte della dirigenza, quella che gestiva il partito, che si spacciava per comunista, faceva parte della corrente “migliorista”, accanitamente antioperaia, filo-padronale, che ha mal sopportato le lotte dei lavoratori degli anni 70, vedi i Fassino, i Veltroni, i Macaluso, gli Amendola, i Napolitano, i Lama … Questi dirigenti che da “comunisti” avrebbero dovuto rappresentare gli interessi dei lavoratori, e che invece facevano comunella coi padroni, già si faticava assai ad accostarli alla sinistra, figuriamoci che ci potevano azzeccare col comunismo: “Una beata minchia!” avrebbe risposto Cetto la Qualunque. In una puntata di Porta a porta dell’ottobre 2000 andata in onda in occasione del 20° anniversario dei famosi 35 giorni alla FIAT Mirafiori dell’ottobre 1980, presenti Piero Fassino, Cesare Romiti, Fausto Bertinotti, Iole Vaccargiu, Pietro Passarino …, il Fassino, che all’epoca dei fatti era responsabile fabbriche del PCI, dichiarò papale papale che in quella decisiva vertenza aveva sempre pensato che gli operai avessero torto e i padroni ragione. Il risultato finale di queste contraddizioni non poteva che essere la scomparsa della sinistra, e Matteo Renzi il naturale approdo di quel percorso PCI-PDS-DS-PD.
LA LIBERTA’ E LA SPERANZA
Vi sono alcune parole/concetti fondamentali che non hanno più lo stesso significato di qualche decennio fa. La parola libertà in primis: io sono rimasto ancora dell’idea che “la libertà non è uno spazio libero, libertà è partecipazione” come cantava uno degli ultimi intellettuali di sinistra, ma che, come diceva lui, non era della sinistra. Oggigiorno invece la libertà sta tutta nel non vaccinarsi, perché “la Costituzione non ne prevede l’obbligo” e poi “chissà cosa ci mettono dentro”, ci infilano dei “microchip per controllarci” (sarà Putin o la CIA?), “serve a modificare il nostro DNA” (qui potrebbe esserci lo zampone di Lukashenko su ordine di Putin certamente), e l’ultima che ho ascoltato in tv qualche settimana fa: “Non faccio il vaccino perché rende impotenti”. Volevo ben dire, ecco perché in Italia non si fanno più bambini!
Quando ero un ragazzino, primi anni 50, ricordo che mia madre mi portò a fare tutti i vaccini prescritti. Per frequentare la scuola credo fosse obbligatorio essere vaccinati, a inizio anno dovevi esibire il certificato. Uno dei vaccini, se non sbaglio quello contro il vaiolo, ti lasciava una cicatrice sul braccio, uscivi marchiato come un vitello, ma non ricordo e non ho letto di manifestazioni No-Vax né di qualcuno che gridasse al fascismo o paventasse una dittatura sanitaria. All’epoca sia al governo che all’opposizione non c’erano ancora tanti cialtroni come ci sono attualmente. I padri costituenti, quelli che la Costituzione “più bella del mondo” l’avevano scritta, tutte persone che avevano provato il fascismo sulla loro pelle, erano attentissimi a che la Carta fosse rigorosamente rispettata: e chi meglio di loro poteva conoscere il significato più profondo della parola libertà? Al giorno d’oggi sembra invece che il dover esibire un documento che certifica l’assunzione del vaccino per entrare in determinati locali pubblici o per accedere al posto di lavoro, sia incostituzionale, profondamente lesivo della dignità umana, della libertà. Si mette in contrapposizione una presunta libertà individuale, il diritto di non vaccinarsi, al diritto collettivo alla salute pubblica; si mette in concorrenza l’idea di libertà collettiva a salvaguardia di tutti, quella cantata da Giorgio Gaber, con l’idea della libertà individuale.
Quando negli anni 60/70 lavoravo alla FIAT Mirafiori Carrozzeria, gli operai del reparto verniciatura, il posto più insalubre di tutta la catena, si fermavano spontaneamente un giorno sì e l’altro pure, perché la FIAT spesso non rispettava gli accordi sulla sicurezza. Queste fermate provocavano sovente la “mandata a casa” da parte della FIAT di tutti gli operai delle linee produttive, a monte e a valle della verniciatura. Era veramente una lotta continua tra la FIAT che, per ricavare più profitto, cercava di risparmiare sui materiali antinfortunistici e sulle costose procedure di sicurezza/salvaguardia della salute degli operai. E gli operai che tentavano di difendere il più possibile la loro salute che non poteva e non voleva essere barattata con alcuna somma di denaro. Ovviamente episodi simili succedevano in tutti i reparti, non solo in verniciatura. Per i delegati sindacali di quell’epoca, la salute delle maestranze stava al primo posto nell’agenda delle rivendicazioni.
Mentre nella prima ondata della pandemia vi erano operai che denunciavano, di spalle per non farsi riconoscere, le fabbriche dove i padroni non fornivano mascherine e non facevano rispettare le distanze prescritte dai decreti, oggi la situazione si è ribaltata. A Trieste, che inopinatamente è diventata la capitale dei No Green Pass-No Vax, sono i lavoratori, o meglio, una minima parte dei portuali, che contestano l’obbligatorietà del documento per accedere al posto di lavoro perché, come diceva il loro leader uscito dal cilindro dell’illusionista, tale Stefano Puzzer, il Covid “è poco più di una normale influenza stagionale”, non c’è da preoccuparsi. Questo Puzzer pratica il nomadismo sindacale: prima nell’USB poi nella FISI, che non è la Federazione Italiana Sport Invernali, ma la Federazione Italiana Sindacati Intercategoriali con sede a Eboli (SA), sigla sconosciuta, bazzicata da qualche medico complottista e da personaggi di estrema destra vicini a CasaPound. Azzardo un pronostico: scommettiamo che alle prossime elezioni il Puzzer, stanco di frequentare il porto, tenterà di far fare al suo portafogli un salto di quantità, presentandosi candidato magari con Fratelli d’Italia o con la Lega?
Come si vede, la situazione su tutti i fronti e sotto tutti i punti di vista è ingarbugliata assai, con un’eccezione. Fino a tutti gli anni 60 c’erano destra e sinistra, e anche i più digiuni di politica capivano subito che la destra faceva gli interessi delle classi agiate, e la sinistra quelli dei meno abbienti. Adesso le carte sono state mischiate per cui succede che i cani alle volte miagolano e i gatti abbaiano. Ad esempio, ho ascoltato Renzi affermare in tv qualche settimana fa che lui è di sinistra, e ho detto tutto. Siamo in un caos ben organizzato con largo uso di fake news e di armi di distrazione di massa, che serve ad evitare che si parli della ciccia, cioè dei soldi che arrivano dall’Europa e del loro impiego. Mentre i politici e i giornalisti fanno finta di azzuffarsi su fascismo/antifascismo, vaccini, terze dosi, green pass, colori delle Regioni, chiusure eventuali, ecc., le mafie, le lobby, la delinquenza, speculatori vari, cioè le categorie che Draghi sa essere le sole a poter far ripartire l’Italia, passano all’incasso. Bisogna riconoscere che il capitalismo ha sempre avuto una grande capacità a trasformare le disgrazie in altrettante occasioni di business e anche il Covid non è sfuggito a questa regola. Invece sui rimasugli della sinistra, il Covid ha provocato frammentazioni ulteriori. Il problema di fondo è che la sinistra vive ancora del 900 e nel 900, e non ha metabolizzato la disfatta che ha consumato da un quarantennio a questa parte. C’era modo e modo di perdere, e la sinistra ha scelto quello peggiore, sputtanandosi, perdendo credibilità, tradendo le aspettative, rinunciando al suo ruolo. Qualsiasi iniziativa possa prendere adesso non è detto che sortisca effetti positivi, perché la sinistra non è solo più fuori tempo massimo, ma è finita proprio fuori dalla storia.
C’è chi invece la lezione del 900, pur in un contesto molto diverso da quello italiano, l’ha compresa bene; e dove ciò è successo lo scontro di classe ha avuto un esito diametralmente opposto a quello verificatosi in Italia. Dopo la tragicomica fine del comunismo novecentesco, il Venezuela è stato protagonista della prima rivoluzione del terzo millennio contagiando anche una parte dell’America Latina, che dopo quasi due secoli non è più solo il cortile di casa degli Stati Uniti. La novità più evidente di questa rivoluzione venezuelana è che è stata chiamata Bolivariana, rifacendosi agli ideali di Simon Bolivar detto El Libertador, il patriota, internazionalista ante litteram, che nell’800 si era battuto per la liberazione dei popoli latino-americani dal colonialismo. Il tenente colonnello Hugo Chavez durante i due anni di prigionia dal 1992 al 1994 per il fallimento del suo tentativo di colpo di Stato lesse tutte le opere di Gramsci, e il suo Movimento Quinta Repubblica (MQR), poi diventato Partito Socialista Unito del Venezuela (PSUV), per vincere le elezioni nel 1998 scelse di premere principalmente sul tasto del nazionalismo, della liberazione dall’imperialismo USA, e proponendo un programma per abbattere povertà e analfabetismo, con potenziamento del welfare state, nazionalizzazione dei pozzi petroliferi e una diversa redistribuzione dei proventi del petrolio: tutti obiettivi poi concretamente realizzati, nonostante tentativi di golpe, boicottaggi, e dure sanzioni economiche decretate dai “migliori” (Israele, Regno Unito, Spagna e USA) contro il Venezuela. Il comandante Chavez nei suoi 14 anni di governo è stato sempre rieletto alla grande in quattro turni elettorali, ha vinto una decina di referendum e nell’aprile 2002 ha subito un tentativo di colpo di Stato organizzato da Fedecamara (la Confindustria venezuelana), dall’alto clero della Chiesa Cattolica, dai partiti dell’opposizione borghese e da una parte dell’esercito, sostenuti da tutti i media. I “migliori”, monopolisti di “esportazione della democrazia”, riconobbero immediatamente il governo golpista del capo di Fedecamara Carmona Estanga, ma nei due giorni successivi il popolo venezuelano sceso in massa nelle piazze per difendere il suo governo, appoggiato dalla maggioranza dell’esercito, riportò sulla sua poltrona il legittimo presidente.
Le ripetute vittorie elettorali di Chavez sono certamente dovute al programma rivoluzionario del suo MQR poi PSUV: ad esempio nel 2007, nazionalizzò l’industria petrolifera e usò i soldi degli introiti per alzare il tenore di vita degli strati bassi della popolazione invece di arricchire ancor di più i ricchi: senza dubbio una scelta sovversiva, rivoluzionaria che provocò le reazioni golpiste dei “migliori”. Ma è tutto il programma bolivariano che ha convinto i ceti meno abbienti che non avevano mai votato, a recarsi alle urne per affidare il futuro del Venezuela al chavismo. Il merito di Chavez è stato quello di aver resuscitato un sentimento seppellito ormai da decenni anche in Italia: la speranza di poter cambiare lo stato delle cose. E’ il sentimento che si respirava la sera di lunedì 17 ottobre 2005 nella piazzetta antistante la Camera del Lavoro di Milano, dove Hugo Chavez, in visita ufficiale in Italia, presenti un migliaio di spettatori, tenne un discorso in spagnolo di un’ora abbondante sulla situazione politica mondiale e sul socialismo del XXI secolo. Mi trovavo nel recinto riservato alla stampa e uno degli organizzatori della serata, scambiandomi per un giornalista, mi informò che tutta la piazzetta era monitorata e sui tetti erano appostati tiratori scelti a protezione del presidente del Venezuela, che com’era noto era attenzionato dai “migliori” Paesi democratici: Arabia Saudita, Israele, Stati Uniti in ordine alfabetico per non far torto a nessuno. Che hanno da sempre la simpatica abitudine di aggiornare periodicamente la lista dei personaggi, “terroristi” ovviamente, da eliminare perché nocivi per gli interessi dei “migliori”. Il pubblico rifiutò la traduzione dallo spagnolo che avrebbe appesantito il discorso. Visto come era messa la sinistra italiana già allora, Chavez mi parve un marziano. Su Internet si può ancora vedere e ascoltare senza traduzione tutto il discorso del Comandante. Per gli ultimi sviluppi della Rivoluzione Bolivariana e sulle ultime elezioni regionali stravinte dal PSUV di Maduro leggere l’articolo di Pino Arlacchi Venezuela, sono i poveri l’arma segreta del chavismo su Il Fatto Quotidiano del 24 novembre 2021.
A proposito di speranza. Mio padre (1906-1959), figlio di un operaio, con un diploma tecnico entrò in FIAT nel 1924. Nel 1939 conobbe mia madre (1909-1986), impiegata delle Ferrovie, figlia di un capostazione a Torino PN; si sposarono martedì 9 dicembre 1941. L’Italia era entrata nella seconda guerra mondiale da un anno e mezzo esatto. Secondo Mussolini quella guerra doveva essere una sbrigativa formalità, come il noto spaghetti-western Vado … l’ammazzo e torno. Invece alle 7,53 di domenica 7 dicembre 1941 (due giorni prima che i miei si sposassero) la flotta giapponese attaccò la base militare USA di Pearl Harbor nelle Hawaii dove era ormeggiata più di metà della flotta USA, e la guerra divenne veramente mondiale. A mio padre, che all’epoca era un capetto alle acciaierie FIAT SIMA, in via Cigna 115 in Barriera di Milano, un giorno arrivò un avviso di trasferimento/deportazione in Germania per aiutare l’alleato tedesco nello sforzo bellico. Ma la FIAT lo dichiarò “indispensabile allo sforzo bellico italiano” e restò a Torino. Furono molti i lavoratori italiani che dalla Germania non tornarono mai più: mio padre avrebbe potuto essere uno di quelli, e il sottoscritto non sarebbe mai nato. Poi nel 1944, sotto occupazione tedesca, i miei decisero di fare un figlio; e così nacqui il 2 dicembre 1944 in una clinica pediatrica in piazza Vittorio Veneto. I miei genitori mi parlarono raramente della guerra, forse perché volevano rimuoverla dalla loro memoria. Mio padre mi raccontò solo due episodi che gli erano capitati nei quali si salvò solo grazie a un colpo di fortuna. Una cosa è certa: ci voleva coraggio, o forse incoscienza, per fare un figlio in una situazione di così estrema precarietà, in cui in ogni momento si rischiava la vita; ma, come mi raccontò mia madre, che ogni giorno andava in chiesa a pregare, dentro di loro era maturata la fondata speranza che la guerra sarebbe prima o poi finita.
Ecco, la speranza dovrebbe essere la componente essenziale di qualsiasi programma politico che guardasse soprattutto ai giovani e ai meno abbienti e facesse loro intravedere un futuro meno squallido e misero del presente. Invece oggigiorno non c’è alcuna speranza che la guerra ingaggiata dal capitalismo finanziario, globalizzato, contro l’umanità abbia termine, non si vede la fine del tunnel; il massimo che si prospetta è un ritorno alla normalità pre-Covid, proprio quella “normalità” che ci ha regalato il Covid. Quando al contrario ci sarebbe la necessità di un sovvertimento sociale e politico che sostituisca le esigenze del mercato, dell’Europa, della NATO … mettendo al primo posto i bisogni primari della “gente”, l’eliminazione dello schiavismo nei rapporti di lavoro, la sanità pubblica in sostituzione di quella privata … insomma, ciò che quella sera a Milano Chavez definì il socialismo del XXI secolo, l’unico rimedio in grado di salvare l’umanità e il pianeta. Di questo bisognerebbe discutere, invece si fanno manifestazioni e si dicono fesserie su vaccini, green pass … “Il livello è basso” direbbe l’indimenticabile professor Pazzaglia.
Torino, 25 novembre 2021 Cesare Allara