Circa “La questione comunista”, inedito di Domenico Losurdo.
nov 7th, 2021 | Di Thomas Munzner | Categoria: Teoria e critica
A giugno 2018 Domenico Losurdo ci lasciava. Sulla sua scrivania, racconta Giorgio Grimaldi, riposava un testo uscito dalla stampante ed in corso di preparazione. Nelle diverse versioni in esso troviamo due indici e le tracce di un progetto ambizioso. Si trattava nel suo complesso di una trilogia sul comunismo della quale la prima parte era uscita nel 2017, per Laterza, sotto il nome di “Il marxismo occidentale”[1], la seconda era appunto “La questione comunista”[2], e la terza, ancora nella mente dell’autore e quindi persa per sempre, doveva trovare forma in un testo sul comunismo cinese.
I sottotitoli recitavano, rispettivamente, “Come nacque, come morì, come può rinascere” (il marxismo occidentale), nel libro del 2017, e “Storia e futuro di un’idea” (comunista), in questo. I contenuti del terzo libro, indispensabile per comprendere la parabola dell’impresa tentata da Losurdo, si potrebbero intuire dal progetto del capitolo 4, presente nell’Indice 1 del secondo libro, che ne trattava[3]. Leggendolo troviamo, all’avvio del progetto di capitolo, una frase di enorme peso: niente di meno che “Pensare la Cina [significa] pensare il postcapitalismo”. Proseguendo, scopriamo che questo implica ragionare sulle nozioni di ‘capitalismo autoritario’, anziché ‘democratico’ (quale è l’uno e quale l’altro? Potrebbe non essere scontato[4]); ma anche individuare la differenza cruciale tra la ‘espropriazione politica’, e quella ‘economica’; quindi di ‘economia di mercato non capitalistica’, o di ‘socialismo riformato’; infine comprendere se si è davanti una forma di ‘capitalismo di Stato’ o dello ‘stadio iniziale del socialismo’. Ancora, ragionare sui sindacati (dei padroni i dei lavoratori); l’eguaglianza (‘più perfetta’, o ‘rozza’, anziché ‘radicale’). Infine, nei capitoli finali progettati nell’Indice 1, vediamo che pensare la Cina ed il postcapitalismo significa anche trarre conclusioni su ‘politica ed economia’ guardando a ‘la Cina e il mondo’; ovvero che si tratta di inquadrare il tema in una cornice geopolitica realista, cara al nostro. E, infine, per comprendere la traiettoria e l’orizzonte dell’impresa, alla luce delle tracce rimaste, dobbiamo concludere che bisogna cercare di definire due domande aperte alla dinamica del ‘conflitto delle libertà’[5] e quindi delle ‘lotte di classe’: la prima è se in Cina è in gioco una forma di ‘capitalismo autoritario’ o piuttosto una ‘transizione difficile e dall’esito incerto’? Ancora, se è in questione la ‘democratizzazione’ o la ‘plutocratizzazione’? Dalla risposta alla seconda domanda, sembra capire, deriva quella alla prima[6].
La mia interpretazione essenziale è che la traiettoria è scolpita dalla tesi centrale del Losurdo attento lettore di Hegel[7]: lungi dall’aderire alle forme di universalismo astratto, messianismo e radicalismo ribellista, l’impresa comunista può essere rivitalizzata solo se ha pieno rispetto del ‘movimento reale’ e impara quindi a muoversi nel ‘conflitto delle libertà’. Dunque se impara a non avere timore della necessità di gestire il potere. È, questa, la lezione che si può trarre dai ‘maestri’ cui incessantemente Losurdo si riferisce.
Carlo Formenti, nel suo blog, ha dedicato una intensa lettura al libro, sotto il titolo “Comunismo, democrazia e liberalismo”[8]. La ricostruzione, che mette a confronto anche un recente testo di Linera, si concentra in particolare sulla scheda nella quale il nostro viene alle mani con le tradizioni liberalsocialiste, riecheggiando in qualche modo tesi care alla tradizione del Pci togliattiano. Non c’è dubbio che questa piega sia ben presente nel testo, insieme ad una valutazione possibilista, tuttavia sconta il suo pronunciato carattere non finito. In sostanza l’intero libro mi appare nella sua essenza come un semilavorato costituito da ampie schede che affrontano in chiave storico-ricostruttiva altrettanti nodi problematici della tradizione che il testo tenta di oltrepassare. Tra queste quella liberalsocialista. Dalla lettura promana, in altre parole, un pronunciato senso di non definito.
Per orientarci in un materiale così complesso, dunque, tenteremo di intravvedere la traiettoria più probabile, quella più coerente con l’insieme della biografia del nostro e con i compiti che questa si dà. Una interpretazione da distante, compiuta senza l’accesso alla parola ed alla condivisione di vita, fatta sui testi. Quindi rischiosissima. Ma è l’opera, più che l’autore, che reca le tracce del senso della sua costruzione, della dinamica della tessitura e dei fili eterogenei che l’hanno costituita. L’operazione brevemente presente in questo articolo, quindi, nella sua necessaria ambizione si compie sulla ‘trilogia incompiuta’ vista come unica parabola; ovvero sul testo dato alle stampe “Il marxismo occidentale” e su quello odierno su “La questione comunista” ma guardandoli alla luce del futuro e perso “Pensare la Cina”. Correremo inevitabilmente il rischio della sovrainterpretazione; di aggiungere fili al tessuto del testo, e che questi, pur necessari, non si integrino.
Per procedere all’interpretazione, affrontandone i rischi, bisogna partire da una tesi: ogni testo è reso possibile dall’avversario verso il quale organizza i suoi materiali. Quello di Losurdo è, costantemente, questo a me pare, la duplice tenaglia che neutralizza il potenziale di liberazione della tradizione marxista occidentale: una tenaglia data dalla socialdemocrazia e dal radicalismo messianico come forme, entrambe, della fuga dal conflitto.
Avendo questo termine a mente si può, forse, tentare di individuare la piega che il testo avrebbe preso alla luce della destinazione (ovvero del lavoro perduto sulla Cina). Quindi prevedere il finale abbandono delle residue tracce del tempo lineare della rivoluzione, in favore di una acuta sensibilità alle forme sempre cangianti di quei concreti e sempre diversi ‘conflitti delle libertà’, che non si lasciano pietrificare dallo sguardo della medusa liberale, né di quella comunista novecentesca (occidentale). Quella che Losurdo cerca di mostrare è, insomma, una tecnica[9] ed una poetica[10] che possa guidare verso il nuovo secolo, senza riprodurre incessantemente il medesimo, e senza rifiutare il rapporto con il potere in vista di una malintesa ricerca di purezza. La difficoltà dell’impresa potrebbe spiegare come mai un file di lavoro, contente il libro, sia avviato il 26 luglio 2014 e l’ultima revisione abbia data 17 gennaio 2017, anno in cui esce “Il marxismo occidentale”, a stampa in aprile e quindi presumibilmente chiuso per la stampa al finire del 2016. Losurdo conclude il primo libro della trilogia con la bozza revisionata del secondo, poi ne ferma l’aggiornamento per diciotto mesi. Certo, sono mesi che nell’ultima fase sono presi dalla malattia terminale, ma il periodo è lungo. La pubblicazione era possibile, tuttavia probabilmente come nel primo e secondo, il secondo aveva bisogno per essere chiuso dell’avanzamento del terzo libro. In altre parole, per sciogliere i nodi difficilissimi evocati serviva una destinazione. Era necessaria una decisione circa la Cina.
Il comunismo è stato accusato nel tempo di essere una ‘utopia capovolta’, ovvero l’indicibile parola che designa il rovesciamento dell’ambizione in catastrofe. Accusato di riprodurre costantemente lo sforzo di raddrizzare il ramo storto dell’umanità e, allontanandosi dalla natura, di produrre quindi l’artificio, insopportabile ed arbitrario, che non può che darsi come fallimento e rovesciamento. Sia Norberto Bobbio, come Hayek, ricorrono a questo antico topos, evocato originariamente dal pensiero reazionario di Burke[11] e dei suoi contemporanei contro la rivoluzione francese. L’utopia di un tempo senza classi, luminoso, che non può realizzarsi nel mondo[12].
Da un altro lato il comunismo è stato accusato di connettersi troppo strettamente con il mito dello sviluppo illimitato delle forze produttive, e anche con ciò di rovesciarsi, ancora una volta, in catastrofe (questa volta per l’ambiente e quindi per la vita sulla terra). Mentre nel primo caso la sua opposizione veniva dal liberalismo, che si vede come utopia realizzata nello stato delle cose presenti (come vorrebbero Tocqueville e Popper), in questo altro gli viene opposto l’ideale di uno ‘stato stazionario’ che, di nuovo, affonda nella ‘utopia rovesciata’ proposta nel secolo XIX da John Stuart Mill, attaccato con decisione da Losurdo in quanto capace di proporre la castità forzata per le classi lavoratrici (perché non si moltiplichino, provocando una crisi malthusiana) e insensibile alle contemporanee stragi da inedia in Irlanda ed in India.
È dopo questo capitolo iniziale, che mostra in sostanza la connessione con il classico discorso reazionario delle damnatio verso il comunismo, avanzate da una parte liberale (palese o travestita) per la quale l’utopia è già realizzata nel presente, che Losurdo prende di petto la questione del liberalsocialismo. Si tratta essenzialmente del “socialismo per il popolo dei signori”; nel quale la causa della libertà è mutilata di ogni concretezza e deprivata della sua carica di conflitto (e, con ciò, della sua insopprimibile ambiguità). Certo, all’avvio l’autore ricorda come sia il Lenin di “Che fare?”, sia il Gramsci maturo, individuino una qualche connessione tra il compito della libertà avanzato dalla rivoluzione francese e quello che il socialismo deve avanzare. Una lezione che risale in Italia alla riscrittura togliattiana, la quale avanza contro il liberalismo radicale di “Giustizia e libertà” il punto di discrimine decisivo della questione coloniale. Secondo la sua proposta (avanzata come è bene ricordare nel contesto storico dell’Italia occupata dalle truppe americane e saldamente nel campo definito a Jalta), “i comunisti si proponevano di liberalizzarle [le conquiste democratiche e liberali contro l’antico regime] ed universalizzarle (mettendo fine alle tenaci clausole di esclusione della tradizione liberale) e di far valere tali conquiste anche nella materia dei rapporti economici e sociali, tenendo conto di volta in volta della concreta situazione storico-politica”[13]. In sostanza, si proponevano di creare un socialismo che non sia (solo) per ‘i signori’. Questo è il piano di discorso che viene attaccato, con buone ragioni, da Carlo Formenti che ne teme il potenziale trasformista.
Nel testo, come suo uso, Losurdo ripercorre a grandissime falcate le figure apicali dei dibattiti che nel tempo si sono dati in occidente sul liberalsocialismo. Quindi le figure di Fourier e Saint Simon, quella di Bernstein, e dei tre momenti nei quali si è tentato un incontro tra liberalismo radicale e socialismo: Hobson, Rosselli, e Lasky. Il primo, insieme a Hobhouse, prende di mira la pretesa imperiale inglese di governare il mondo in favore del progresso. Analisi scientifica dell’imperialismo che va insieme alla denuncia politica, in seguito ripresa da Lenin, e che non si trattiene dal denunciare, nel 1914, la precipitosa adesione al patriottismo del socialismo europeo stesso. Negli anni del fascismo il secondo incontro mancato si ha con i fratelli Rosselli[14], in particolare Carlo, che riflette sulla crisi che portò all’affermazione di Mussolini e guarda con simpatia ed interesse alla Nep proposta nel 1923 dal rivoluzionario russo, come in seguito l’Unione Sovietica in occasione della guerra di Spagna. Ha chiaro, insomma, che il ‘conflitto delle libertà’ richiede di prendere posizione in senso concreto. La terza occasione si ha, al colmo dell’influenza sovietica sui movimenti di liberazione coloniale, con il laburista Lasky, che si sforza di tenere insieme le dimensioni della libertà politica da quella materiale, ovvero dal bisogno.
Negli stessi anni cinquanta Bobbio riesce a unire nella critica l’escatologia socialista e quella liberale, sicura della missione ‘civilizzatrice’ dell’occidente. Ma la filosofia della storia marxista gli appare comunque più coerentemente universalista, immune da clausole di esclusione insuperabili. Anche quando polemizza con Togliatti, nel 1954, conferma l’irriducibilità delle conquiste della libertà ‘formale’, senza, tuttavia, procedere alla contemporanea liquidazione della rivoluzione d’ottobre.
L’incontro non si realizza, per Losurdo, essenzialmente perché si polarizza nello scontro tra diritti economico-sociali e libertà formali (o “negative”, per dirla con Berlin). La distinzione appare al nostro sostanzialmente artificiale, le grandi potenze liberali non riconoscono affatto le libertà formali ai marginali ed ai vittimizzati e razzializzati proletari, mentre la lotta socialista passa spesso per la rivendicazione di libertà che Gaetano della Volpe avrebbe classificato “minor”. Sostiene questa svalutazione, da parte comunista, delle libertà ‘liberali’ (ovvero dell’articolazione formale e procedurale dei diritti politici), il mito dell’estinzione dello Stato, mentre, da parte liberale si manifesta costantemente la cieca apologetica insensibile alle dinamiche di classe e di oppressione nazionale. Dunque, come sintetizza il nostro: “il liberalsocialismo è nato da una riflessione autocritica del liberalismo, che però è stata sviluppata più per la questione sociale che per la questione coloniale”[15]. Si tratta della divergenza principale, il liberalsocialismo è essenzialmente una forma di fuga dal conflitto e dalla storia. Ciò perché in essa, nella storia, non si scontrano di solito in forma pura libertà e dispotismo, quanto, piuttosto, diverse forme di libertà tra di loro non equivalenti. Ciò si mostra in particolare evidenza nel ‘conflitto delle libertà’ che si attiva quando un uomo apparentemente libero, di fatto, muore di fame.
Lo riconosce anche Hobhouse che nel 1909[16], primo professore di sociologia britannico e molto vicino a John Stuart Mill. Questi riconosce l’importanza della questione sociale, e, di più, ammette anche la coercizione sindacale (ad esempio, verso i crumiri) in quanto, pur violando la libertà dell’individuo, purtuttavia ne assicura una più importante: quella che scaturisce dal contrasto all’ineguaglianza dei rapporti di forza tra datori di lavoro ed operai. Analogamente, nei rapporti tra le ‘metropoli’ e le ‘colonie’[17], e più in generale nelle relazioni internazionali, la libertà di taluni può essere in contrasto con regimi oppressivi più o meno mascherati. È possibile, in sintesi, che la libertà di alcune élite debba essere compressa per garantire quella dei più, o del paese. In questo senso si oppongono ‘libertà’ a ‘libertà’.
Il punto è che nel ‘groviglio’ che fattualmente si dà nella realtà sociale si è spesso costretti a scegliere tra queste diverse libertà. L’esempio di scuola che produce Losurdo è la dialettica delle colonie inglesi in cui le élite bianche, se lasciate all’autogoverno avrebbero represso duramente le popolazioni razzializzate e schiavizzate, dei cui servigi si servivano (siano esse importate dall’Africa o autoctone). Come ricordava lo stesso Hobhouse, “la libertà dell’uomo libero è la causa della grande oppressione degli schiavi” e la loro emancipazione ha, quindi, richiesto la cancellazione dell’autogoverno degli Stati del Sud. Storicamente la guerra, e la seguente dittatura militare, ripristinarono alcune condizioni di libertà formale (liberali) le quali, tuttavia, a conferma della profondità della contraddizione, si dissolsero di fatto non appena un accordo politico tra ex vinti e vincitori ripristinò le forme di autogoverno dei bianchi. Alla fine l’apartheid che ne seguì, con l’ondata di linciaggi dimostrativi almeno per un settantennio, ripristinò di fatto le condizioni servili; nel conflitto delle libertà aveva vinto quella dei bianchi[18].
Ma qui, nello stesso momento in cui riconosce i limiti di fondo del liberalsocialismo, Losurdo si affretta a sottolineare che anche il movimento comunista ha comunque qualcosa da imparare. Ciò perché se è vero che il liberalsocialismo è un discorso che rifugge il conflitto, e che nasce dalle classi privilegiate, tuttavia il comunismo tende ad essere catturato sempre dall’atteggiamento proprio delle classi subalterne. Questo a mio parere è lo snodo principale del testo, che aveva bisogno per essere messo a fuoco del punto di fuga del testo sulla Cina. Nascendo, infatti, dall’esperienza esistenziale di queste, resta prigioniero senza avvedersene delle “angustie e dei limiti insiti in una condizione di penuria, di fatica e di miseria disperate”. Tende, quindi, ad idealizzare l’austerità, a trasfigurare la penuria come “luogo della pienezza spirituale e dell’eccellenza morale”. Ne scaturisce una sorta di epica del ribelle, del marginale, una qualche tendenza al luddismo, che già Adam Smith individuava con precisione[19], seguito in questo dallo stesso Marx in parecchi luoghi centrali della sua opera.
Insomma, se è vero che da una parte il liberalsocialismo resta sempre incapace di comprendere in profondità la dinamica del conflitto delle libertà, dall’altra il comunismo, dice il nostro, scivola sempre nel populismo. Nei momenti più consapevoli, con l’opera di Marx, resiste a tale piano inclinato, ma resta una tendenza costante. Che ha tante facce, dalla ‘decrescita’ e la lotta allo sviluppo delle forze produttive in nome della semplicità della natura al messianismo.
Una tendenza che in occidente soprattutto si manifesta nel messianismo. In una sorta di trasfigurazione secolarizzata della pressione religiosa per il riscatto completo e immediato, e per la purezza. Tutti i grandi cicli rivoluzionari ci sono passati attraversando una fase religiosa, che interpreta l’enorme pressione della speranza di immediato riscatto dei ceti popolari sempre frustrati nella storia. Una speranza che ha, a volte, creato l’energia distruttiva per rovesciare la situazione, ma che, ogni volta, quando ha vinto è stata poi ricondotta a forme più normali, burocratiche, razionali. Perché alla fine bisogna governare.
Quello che il messianesimo, spinta naturale e perfettamente comprensibile in chi dalla vita ha avuto sempre e solo sconfitte, promette è, niente di meno, che il nuovo mondo non assomiglierà in nulla a quello passato. In esso si avrà un “totalmente altro”. Alcuni esempi propri della tradizione comunista sono rappresentati dall’eterno ritorno del mito della dissoluzione dello Stato. Quello Stato di cui i ceti popolari vedono normalmente solo la faccia matrigna e del quale quindi non comprendono il funzionamento complesso. Chi ha spesso subito tende spontaneamente ad essere anti-autoritario (senza fare distinzione tra autorità, autorevolezza, oppressione e potere), ma in questo modo, se ha successo, spinge senza volere verso un rovesciamento. Dopo aver vinto rende impossibile qualsiasi decisione secondo regole generali, fondata sul consenso e le ragioni appropriate, quindi sul controllo democratico, e, con ciò, finisce di fatto con il favorire l’esercizio del potere arbitrario di una stretta minoranza. Quello che si identifica come “anti-autoritarismo” si rovescia quindi spesso nel “comunismo di caserma”. Questa attesa del “totalmente altro”, ovvero di ciò che, per dirla con Benjamin, fa saltare il continuum della storia, torna sempre a galla.
Ma non è stato mai possibile cambiare il mondo senza prendere il potere; affermare il socialismo ha sempre voluto dire passare per una fase “di Stato”. O, per meglio dire, ha sempre significato creare uno Stato forte che governi l’economia, restando in relazione stabile con la base e gli interessi popolari.
Dimenticarlo, come avviene in tutti coloro che liquidano sommariamente l’esperienza di quello che Losurdo chiama, in accordo con gli stessi, ‘socialismo con caratteristiche cinesi’ è la dimostrazione esatta del peso preminente nel movimento comunista occidentale delle tendenze messianiche e populistiche. L’intera parabola della trilogia mancata, dal libro sul marxismo occidentale a quello sulla Cina, ha questo, specifico e preciso, obiettivo polemico.
Come sottolinea in un passo espressivo: “il populismo individua il luogo dell’eccellenza morale nel mondo degli umili e degli oppressi, di coloro che sono lontani dal potere. Ma, se diventano protagonisti di una rivoluzione vittoriosa, gli umili e gli oppressi cessano di essere tali, e i populisti cadono in crisi”[20]. Ne è precisa espressione la parabola tenuta dalla sinistra radicale, in particolare dalla sua componente operaista, rispetto al movimento di liberazione coloniale: nella prima fase, dagli anni cinquanta ai sessanta, le eroiche rivolte in sudamerica, Africa e Oriente, per lo più schiacciate dagli eserciti coloniali Usa, britannici, francesi, avevano tutto l’appoggio entusiasta e romantico. Ma quando, negli anni seguenti, hanno via via vinto e formato governi di ispirazione più o meno socialista, in sudamerica, Africa ed oriente, allora, come scrissero Negri e Hardt, si passò a dire che “dall’India all’Algeria, da Cuba al Vietnam, lo Stato è il regalo avvelenato della liberazione nazionale”[21]. Il paragrafo, contenuto in “Impero” che ha titolo “Il regalo avvelenato della liberazione nazionale” è da questo punto di vista esemplare: parte dal riconoscimento che la sovranità nazionale, nel contesto delle lotte di liberazione coloniale, ha significato libertà dal dominio straniero e autodeterminazione dei popoli. Ma, ottenuta la sconfitta del colonialismo, denuncia la circostanza per cui “la funzione progressista della sovranità nazionale è sempre stata accompagnata da potenti strutture di dominio interno”. Da qui, trascurando di prendere in carico la funzione di questo ‘dominio’ verso le forze interne (che è spesso diretto contro le borghesie interne di stampo coloniale, cosiddette ‘compradore’, le quali sono il reale punto di controllo coloniale, che non è mai, e non è mai stato, solo o principalmente un dominio esterno e militare[22]) Negri e Hardt proseguono concludendo che, quindi, lo sforzo dei leader post-coloniali, da Gandhi a Ho Chi Minh, di modernizzare il paese sia solo un “trucco perverso”. La lotta per la modernizzazione infatti galvanizza con la promessa di indipendenza e liberazione effettive che comporta, ma poi porta al potere un nuovo gruppo dirigente e quindi crea una “nuova borghesia”. Allora “l’Ottobre non arriva mai, i rivoluzionari restano invischiati nel ‘realismo’ e la modernizzazione finisce per essere controllata dal mercato mondiale”. Evidenziando unilateralmente questo rischio e dilemma (se non si sviluppano le forze produttive si resta deboli e dipendenti, d’altra parte se ci si mette sulla strada dello sviluppo accelerato di queste, come la Cina di Deng non nominata ma esempio primario, allora si entra in relazione con il mondo e questo può determinare altre forme di dipendenza e interdipendenza economica), gli autori concludono che: “il nazionalismo delle lotte anticoloniali e antimperialiste funziona effettivamente al contrario e i paesi liberatesi dal dominio coloniale si ritrovano infine sottomessi all’ordine economico mondiale”. Dunque, per Negri il concetto di sovranità è ambiguo, “se non completamente contraddittorio” (in ciò si manifesta il passaggio dal dominio diretto, coloniale, all’impero che è oggetto del testo).
L’argomento ha il suo peso, lo stesso Losurdo come abbiamo visto ne produce una versione, ma il concetto di sovranità se è effettivamente ambiguo, come quasi tutto nella vita del resto, è da Negri e Hardt forzato nella direzione del completamente contraddittorio perché ciò gli serve a difendere una prospettiva neo-anarchica e populista: bisogna infatti restare sempre all’opposizione, sempre sconfitti, marginali, vittimizzati, perché in ciò riposa l’eroismo della causa. L’attesa messianica del ‘totalmente Altro’ non si può sporcare con il fango del concreto presente, ambiguo, incerto, impuro. Qui il pubblico del libro (che, come noto ha avuto un enorme e duraturo successo) ha diretto la scrittura.
Come scrive Losurdo, ed è il centro della trilogia, “il ribellismo, per definizione incapace di riconoscersi in una realtà politica e sociale concreta e determinata” si intreccia sempre con populismo e messianismo ed è espressione “ancora una volta di una tendenza che è propria delle classi subalterne, in questo soprattutto della piccola borghesia intellettuale, che è priva di esperienza di gestione del potere e che spesso è scarsamente interessata ad acquisirla”[23]. Ne sono perfetta espressione anche molti toni presi nella odierna crisi pandemica dalle forze che si autorappresentano e comprendono come ‘ribelli’: l’assoluta indisponibilità a ragionare in direzione dei vincoli obiettivi e delle condizioni di possibilità delle azioni di governo, per non perdere la purezza eroica della postura radicale. L’ambiguo diventa quindi subito contraddittorio e l’incompleto immediatamente insufficiente, il parziale diventa radicalmente perverso, ingiustificabile, arbitrario e incomprensibile. Ci si chiama quindi fuori per non condividere alcun elemento della logica di governo, dichiarando con ciò il proprio strutturale disinteresse a occuparsene, e si fa gloria della propria marginalità (anche nel dibattito). Ci si sente ‘illuminati’, ‘risvegliati’, ottenendo almeno una compensazione morale[24].
Questa ‘sinistra rivoluzionaria’ (ma anche quelle forze che si dichiarano ‘oltre la destra e la sinistra’) nel momento in cui sistematicamente pensa se stessa come quella che non ha alcuna compromissione con tutte le forme di potere (e quindi da ogni discorso sui vincoli, le conseguenze), dalle quali rifugge inorridita, si rivela “incapace di condurre una lotta coerente, sul piano ideologico oltre che su quello immediatamente politico, contro lo smantellamento dello Stato sociale”. Anzi, al di là delle etichette retoriche in effetti, in ogni singolo caso concreto (in quanto non si può dare Stato sociale senza esercizio del potere burocratico, senza distinguere tra diritti, senza conflitto delle libertà), si schiera con l’attacco neoliberale ad esso. Ma senza saperlo.
Inoltre essa si autorappresenta come “difensore delle cause perse”, eroe solitario, intransigente, come voce che chiama nel deserto[25]. La critica e la sorveglianza si muta, per via di radicalizzazione, in impolitica, in rifiuto di confrontarsi con i problemi legati all’organizzazione di un mondo comune; la volontà di rendere alla luce si rovescia nell’oscurare, nel rendere passivo, nell’impedire la leggibilità. La passione politica diventa forza vocata alla distruzione dell’azione collettiva, in favore della vaga idealizzazione di un luogo “altro” e “sano” (necessario, per creare il punto di leva dal quale denunciare come “insana” l’azione politica tutta). Questo “corpo” è chiaramente il “popolo”, che è implicitamente rappresentato come unitario, senza divisioni, omogeneo. Secondo la classica lettura di Rosanvallon questa modalità della im-politica si afferma perché “l’idea di alternativa si è erosa” e la “percezione stessa della radicalità ha cambiato natura. Essa ormai ha abbandonato la prospettiva di un grande avvenire, immaginandosi invece con le modalità di una voce morale inflessibilmente preposta a stigmatizzare i potenti o a risvegliare i dormienti. La radicalità oggi è semplicemente il dito quotidiano che denuncia, il coltello che gira in permanenza le piaghe del mondo e non più il cannone che cerca di prendere d’assalto la cittadella del potere al termine di una battaglia decisiva”[26].
Come ricordava anche Gramsci, insomma, le forme di ‘blanquismo’, tutto fatto di frasi, di declamato ribellismo, sovversivismo, antistatalismo concreto e idealizzazione, sono in realtà delle espressioni di apoliticismo e di evasione dalla realtà (psicologicamente e socialmente comprensibile) e quindi in effetti, contrariamente a quel che sembra, anche dal conflitto sociale. Il conflitto reale non prende mai, infatti, la forma pura di un angelo contro un demone, ma ha sempre quella, ambigua, del ‘conflitto delle libertà’. In questo modo, rifiutando di compromettersi con le ragioni, si perviene alla sostanziale rinuncia a modificare l’esistente ed il ribellismo si rovescia nel suo contrario (e dal suo contrario viene spesso usato). Un buon esempio prodotto nel testo è nel sostegno che ‘i ribelli’ hanno dato alla rimozione forzata, a mezzo di guerra coloniale, del colonnello Gheddafi.
Confesso che chi scrive, negli anni ottanta organizzò nella facoltà di architettura di Napoli una protesta contro l’operazione El Dorado Canyon, nella quale aerei della US Air Force, AU Navy e US Marine Corps bombardarono la Libia in rappresaglia di un attentato ad una discoteca tedesca. Reagan aveva scelto sin dall’inizio il regime del colonnello Gheddafi, allineato al tempo con l’Unione Sovietica e centro dei movimenti anticoloniali nell’Africa del Nord e nel vicino Medio Oriente (per cui anche fortemente anti-Istraeliano), come suo bersaglio primario. Gli sforzi del regime libico di creare una federazione di stati africani non allineati con l’occidente e liberi dal controllo della moneta francese (ovvero dal Franco CFA[27]) erano evidentemente insopportabili. Il 14 aprile 1986 gli aerei decollarono da una base RAF e il 15 colpirono, senza passare sullo spazio aereo di Italia, Francia e Spagna, che avevano negato il permesso di sorvolo. Gheddafi e la sua famiglia si salvarono perché furono avvisati all’ultimo momento (forse da Bettino Craxi) ma morirono circa sessanta persone. La mattina dopo il Collettivo politico di architettura appese una bandiera americana e fece una protesta nel cortile, un’ora dopo arrivò la digos.
Non ho cambiato idea, nel “conflitto delle libertà” bisogna sapere con chi stare, e per saperlo occorre guardare al quadro generale.
La questione è che populismo, ribellismo e messianismo non sono idee, sono forme di ‘falsa coscienza necessaria’[28] che scaturiscono dalle condizioni oggettive di vita delle classi subalterne e dei popoli oppressi. Ma sono forme che ne neutralizzano potentemente la stessa azione. Tendendo a rovesciarla in sostegno all’oppressore e in capitolazionismo. Intrappolato in questa falsa coscienza il movimento comunista (occidentale) non riesce a fare i conti con il mondo reale ed a darsi gli strumenti per superarlo, a venire a patti con la costante divaricazione tra progetto e svolgimento storico effettivo. Di fronte alle giravolte della storia esso resta sempre spiazzato e confuso, scegliendo invariabilmente la strada più semplice e sbagliata. Per fare qualche esempio dalla storia del movimento operaio internazionale: mentre tutti si aspettavano la rivoluzione al punto più alto si è presentato l’imperialismo che l’ha provocata al punto più doloroso[29] (e Lenin, facendo la teoria mentre la prassi era in corso, l’ha dovuta fare ‘contro Marx’); mentre il colonialismo ed imperialismo sembravano aver consumato tutto lo spazio, Hitler (ma anche Mussolini con la Grecia) lo ha rivolto contro i paesi semicentrali ed ex imperiali; mentre si considerava che solo le città e le classi operaie, almeno in formazione, potevano essere rivoluzionarie, Mao ha fatto una rivoluzione anticoloniale di contadini, della campagna contro la città in molti sensi; mentre l’ondata di rivoluzioni anti-colonialiste sembrava riportata sotto controllo, nel finire degli anni settanta, Deng Xiaping ne ha inventato una nuova tappa, usando con una mossa da arti marziali la forza dell’occidente per svilupparsi (e ora ne vediamo il lungo esito)[30].
Per concludere quindi ed infine la mia interpretazione del percorso lungo ed incompiuto della ‘trilogia’: la lezione da trarre è che le cose si sviluppano sempre inaspettatamente e bisogna sempre partire da queste. Ovvero dalle lotte reali e dalle reali forze in campo, non dalla purezza autoattribuita. Bisogna partire dal “conflitto delle libertà”, non dall’attesa della parusia.
O, per usare le parole della chiusa di Losurdo, dobbiamo:
“costruire una società post-capitalista e post-imperialista, una società però che non può e non deve essere più immaginata coi colori di un’utopia che, con la sua eterna bellezza, distoglie l’attenzione dalle ‘lotte reali’ e dal ‘movimento reale’”.
[1] - Domenico Losurdo, “Il marxismo occidentale”, Laterza 2017.
[2] - Domenico Losurdo, “La questione comunista”, Carocci, 2021 (postumo).
[3] - Materia che poi, nell’Indice 2, è stato espunta per diventare, appunto, il progetto di un nuovo libro che non vedrà mai la luce.
[4] - La nozione, centrale, di “conflitto delle libertà” gioca nel non rendere scontato che quando Losurdo, in un indice di prova mette a confronto tra occidente ed oriente cinese da una parte un “capitalismo autoritario” e dall’altro uno “democratico” intenda, come dovrebbe essere scontato ad un occhio abituato alla retorica occidentale, attribuire il primo alla Cina ed il secondo all’occidente. Infatti la questione non è se sia ‘autoritaria’ una forma di governo, se reprima delle libertà, ma verso chi sia autoritario e quale libertà reprima, in favore di quale altra libertà. Dunque potrebbe benissimo darsi che sia quello cinese ad essere una forma di capitalismo in transizione che coltiva germi democratici e forme di libertà estese a parte decisiva del popolo, mentre quello occidentale sia autoritario verso le medesime componenti popolari. Che la democrazia sia dove meno si vede, in quanto la sua forma e la sua sostanza non coincidono.
[5] - Termine cruciale nell’ultimo Losurdo scolpito a partire dal libro del 2013 “La lotta di classe”: ovvero il nesso necessario e strutturale tra la liberazione della classe operaia dall’oppressione e della nazione dall’imperialismo. Il “conflitto delle libertà” è quello che si determina nella situazione concreta e storicamente data e che si può giudicare, prendendo posizione, solo osservando il funzionamento complessivo dei rapporti tra i diversi attori e gli effetti provocati su di essi. Può succedere che una lotta per la liberazione nazionale sia allo stesso momento, o per i suoi effetti, anche lotta per lo schiacciamento e l’oppressione di altri, può accadere il contrario (come nell’imperialismo politicamente orientato di Disraeli). Si tratta di un “conflitto” policentrico, dunque, e non binario, nel quale occorre sforzarsi sistematicamente di applicare uno sguardo alle determinazioni strutturali e oggettive della situazione. È noto l’esempio ottocentesco della lotta di liberazione, nazionale e quindi interclassista, polacca. Nella situazione data (che non va estrapolata all’oggi), per Marx ed Engels, quando il proletariato polacco si mette alla testa della lotta di indipendenza nazionale, portando con sé anche le altre classi, allora svolge con questo solo fatto un “ruolo internazionalista”. Il ruolo internazionalista ha basi oggettive, e non soggettive, perché getta le fondamenta necessarie per una cooperazione diversamente impossibile. Fino a che i paesi sono connessi con una catena di sfruttamento e disprezzo le classi dominanti hanno buon gioco, negli uni e negli altri, di cooptare quelle subalterne distribuendo una parte del ‘dividendo’ del dominio. Ovvero una quota di risorse estratte, sotto forma di migliori salari estratti dalle ragioni di scambio istituite con le colonie (minor prezzo delle materie prime, o del lavoro importato, e maggior prezzo dei prodotti esportati nei mercati ‘captivi’) e, probabilmente principalmente, una parte del senso di superiorità implicato nel rapporto di dominio. Questa strategia di controllo, che al tempo di Marx è messa a punto dai politici della seconda generazione, Disraeli e Napoleone III, ma anche Bismarck, impedisce la rivoluzione nei paesi avanzati e perpetua le condizioni di schiavitù negli uni e negli altri. È, quindi, il vero nodo della situazione, qualunque lotta internazionalista passa di qui.
[6] - Tentando una sintesi la traccia si potrebbe leggere nel seguente modo: la Cina è la più plausibile traccia, o cantiere, del post-capitalismo, ma la cosa passa per un conflitto “delle libertà”, che passa per i difficili e dialettici rapporti tra politica ed economia e il contesto dei conflitti mondiali tra autonomia e dipendenza (ovvero per la transizione egemonica). Il progetto è in bilico tra ‘capitalismo autoritario’ e ‘plutocratico’ e una transizione difficile ed incerta, ma possibile, a una effettiva democratizzazione di una economia di mercato, ma non capitalista che è, in effetti, un possibile stadio iniziale del socialismo (ovviamente, ‘con caratteristiche cinesi’).
[7] - Si veda in particolare l’importante Domenico Losurdo, “Hegel e la libertà dei moderni”, La scuola di Pitagora editrice, 2011.
[8] - Carlo Formenti, “Comunismo, democrazia e liberalismo”, Socialismo del secolo XXI, 19 ottobre 2021.
[9] - τέχνη, la capacità pratica di operare per raggiungere un fine basata sulla conoscenza ed esperienza.
[10] - ποίησις, una facoltà ed un’arte che ha a che fare con la fabbricazione, il fare, creare, il comporre.
[11] - Nel libello “A vindication of natural Society”, che Edmund Burke ancora giovane scrive contro gli scritti postumi del grande politico libertino Henry St. John Visconte di Bolingbroke, pubblicati nel 1754, viene attaccato il tono di astratta teorizzazione fondata sulla mera ragione, che come un acido corrosivo scioglie tradizioni e dispone al fuoco della critica le istituzioni e la religione. Per il nostro ciò porta necessariamente, passando per il deismo, all’anarchia e alla critica della società civile ed ogni governo. Come successivamente scriverà la natura umana, piuttosto, è ricca di sentimenti passionali e sentimenti, complessi, di cui la ragione è solo parte e non primaria. La politica ed il governo degli uomini deve quindi essere improntata, più che alla critica astratta e artificiale, alla prudenza e saggezza aristotelica che tenga conto dei valori condivisi, della tradizione e dei costumi e quindi di tutte quelle componenti non razionali che inducono ad agire.
[12] - Si veda l’appena pubblicato ed interessante Norberto Bobbio, “Mutamento politico e rivoluzione. Lezioni di filosofia politica”, Donzelli 2021.
[13] - Losurdo, “La questione comunista”, cit., p. 74
[14] - Carlo e Nello Rosselli sono due indimenticabili ed eroiche figure dell’antifascismo italiano, il primo in particolare è il principale teorico del “socialismo liberale”, ispirato al laburismo inglese e non marxista. Nel 1929 fondò a Parigi “Giustizia e libertà” e nel 1936 si impegnò nella guerra civile spagnola insieme agli anarchici. Nel 1937 insieme al fratello fu ucciso da sicari fascisti francesi mandati da Roma.
[15] - Losurdo, cit., p. 96.
[16] - Leonard Trelawny Hobhouse, “Democracy and reaction”, London 1905.
[17] - Per un inquadramento del tema si veda Alessandro Visalli, “Dipendenza. Capitalismo e transizione multipolare”, Meltemi 2020.
[18] - Per una viva descrizione si può leggere il bellissimo libro di Angela Davis, “Donne, razza e classe”, Alegre, 2018 (ed. or. 1981).
[19] - Si veda, ovviamente, Adam Smith, “La ricchezza delle nazioni”, Utet, 1975 (ed. or. 1772).
[20] - Losurdo, cit., p.162
[21] - Hardt, Negri, “Impero”, Rizzoli 2000, p.133 e 112.
[22] - Si veda su questo, Alessandro Visalli, “Dipendenza”, op.cit.
[23] - Losurdo, cit., p. 163.
[24] - Sulla paradossale logica rovesciata (e mimetica) di questo sentirsi ‘risvegliati’ e ‘illuminati’, perché coraggiosamente e individualmente si è riusciti ad ‘unire i puntini’ si veda l’utile ricostruzione che il Collettivo Wu Ming 1 fa nel suo Wu Ming 1, “La Q di complotto. Come le fantasie di complotto difendono il sistema”, Alegre, 2021.
[25] - Si tratta della figura retorica centrale nell’età dell’anti-politica, il cui modello potrebbe essere individuato in Marat, che per Rosanvallon “Nel suo Chaines de l’esclavage, pubblicato nel 1774, pone questa preoccupazione al centro della sua visione. <per restare libero- scrive- bisogna avere sempre gli occhi aperti sul governo; bisogna spiare i suoi passi, opporsi ai suoi attacchi, reprimere le sue perversioni> (p.4421) L’obiettivo dell’azione politica, sottolinea, è di esercitare un controllo continuo sugli atti degli uomini giunti al potere. Anche quando sono scelti da voi, sorvegliarli ininterrottamente è un dovere per tutti>. Ma l’Ami du people, che egli pubblica a partire dal 1789, andrà ben presto oltre questi primi obiettivi, che il saggio Alain un secolo e mezzo dopo avrebbe approvato. Marat in effetti prende brutalmente le distanze dal potere: ben presto arriva a immaginarlo solo sotto le sembianze di un macabro e implacabile strumento per cospirare e complottare. Ai suoi occhi, per definizione ogni governo diventa dispotico, potere inesorabilmente tirannico, arsenale machiavellico. Con Marat, è stato giustamente osservato, ‘l’attività politica del cittadino si perde anima e corpo nel controllo’. Di qui la passività politica che paradossalmente ne deriva: il potere a forza di essere vilipeso e denunciato finisce per costituirsi come una fortezza che si considera impossibile da conquistare; si è eretto a potenza inaccessibile, radicalmente estraneo ai cittadini. Per Marat il potere è in fondo paradossalmente inteso sotto le sembianze di una tirannia invincibile; non si ritiene che possa divenire democratico.” (Rosanvallon, “La politica nell’età della sfiducia”, Città aperta 2009, p. 250).
[26] - Rosanvallon, cit, p. 239
[27] - Si veda Fanny Pigeaud, Ndogo Saba Sylla “L’arma segreta della Francia in Africa”, 2018.
[28] - Per questo concetto, esattamente in questa applicazione, si può leggere anche l’ultima opera di Costanzo Preve.
[29] - Ovvero non in Inghilterra e Germania, ma in Russia e Cina.
[30] - Losurdo, cit., p.183.
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