Luigino Bruni, “L’arte della gratuità”.

nov 1st, 2021 | Di | Categoria: Recensioni

Luigino Bruni, “L’arte della grautità”

In questo piccolo libro, il cui sottotitolo è “Come il capitalismo è nato dal cristianesimo e come lo ha tradito[1], l’economista e teologo cattolico Luigino Bruni[2] prosegue la sua lettura delle relazioni tra il capitalismo e la religione rileggendo le loro profonde ed antiche radici intrecciate. Il legame esplicito è con quella tradizione che avanza il dubbio che il capitalismo abbia una natura cristiana (autori come Max Weber[3], Werner Sombart[4], poi Toniolo e Fanfani, ma anche Karl Marx e Walter Benjamin[5]). Per mettere alla prova questa ipotesi circa la natura cristiana dello ‘spirito del capitalismo’ Bruni cerca di inquadrarne il rapporto sin dal suo sorgere e dentro la tradizione ebraico-cristiana.

L’esito della ricerca non è automaticamente scontato: ne deriva che il capitalismo si radica abbastanza profondamente nella visione cristiana della ricchezza e povertà, e quindi dell’economia, nel senso che trova in essa alcuni dei presupposti per essere accettato come naturale ed imporsi. Per come la mette, anzi, la ricchezza ha sempre avuto una natura religiosa, e non solo nel protestantesimo descritto da Weber. La ricchezza ha infatti sempre esercitato sugli uomini il fascino di porli in qualche modo come Dio, di esporli di meno alla vulnerabilità, ha consentito di allungarne la vita (facendoli mangiare e curare meglio). Nella Bibbia, come in molte altre culture, cioè, “l’essere ricco è considerato una benedizione di Dio – non a caso usiamo l’espressione ‘beni’, cioè cose buone – e l’esser poveri una maledizione”[6]. E, naturalmente, questa potenza religiosa della ricchezza cresce man mano che prende spazio, nella modernità, l’area della vita sociale che viene coperta dal denaro. Ma, in un certo senso, il denaro era già dio, ben prima del capitalismo.

 

Lo mostra, anche in controluce, il linguaggio dei salmi, una delle fonti testuali più antiche della tradizione religiosa ebraica, quando scrive (Salmo 49, “Le ricchezze sono un nulla”):

“perché temere nei giorni tristi,

quando mi circonda la malizia dei perversi?

Essi confidano nella loro forza,

si vantano della loro grande ricchezza.

Nessuno può riscattare se stesso,

o dare a Dio il suo prezzo.

Per quanto si paghi il riscatto di una vita,

non potrà mai bastare

per vivere senza fine,

e non vedere la tomba.

[…] questa è la sorte di chi confida in se stesso,

l’avvenire di chi si compiace nelle sue parole”[7].

 

 

Dunque qui viene attaccato il riscatto della vita implicitamente promesso dalla ricchezza (si tratta di un riferimento all’antica norma giuridica e consuetudinaria per la quale alcuni reati passibili di morte potevano essere riscattati, dietro risarcimento all’offeso). Il denaro può riscattare la morte, rinviandola, ma non può evitare la condizione naturale di mortalità che è propria di ogni vivente.

È utile prestare attenzione all’argomento addotto, che dichiara l’infinità e quindi incommensurabilità nella metrica numerica e finita del denaro del valore della vita. Non si può dare a Dio il prezzo; per quanto si paghi non si può vivere senza fine. L’infinito non si traduce nel finito, non si può fare numero e non si può tradurre in cose. È impagabile. Nella misura in cui, quindi, il lavoro è l’uomo stesso, parte inseparabile della sua vita (come ricordano Polanyi[8] e lo stesso Marx), anche questo è impagabile.  Non può essere ridotto ad una metrica e quindi ad un insieme di merci. Il lavoro si dovrebbe pagare con altre metriche, fondate sul riconoscimento dell’uomo[9] e della sua dignità.

 

Il testo di Bruni, che svolge un esercizio di archeologia delle idee, sottolinea l’ovvia circostanza che il capitalismo, cresciuto in Europa, è cristiano (come riconosceva anche Carl Schmitt ogni concetto dell’economia moderna non è altro che un concetto teologico secolarizzato). Ma la questione da comprendere è che cosa del cristianesimo è entrato nel capitalismo, come lo ha fatto e cosa è rimasto fuori.

Da una parte, ovviamente, lo scambio, il dò-per-avere, era già presente nelle forme religiose antiche, che scambiano sistematicamente i doni per la grazia nei sacrifici, e tutte le categorie chiave, ‘prezzo’, ‘scambio’, ‘valore’, ‘dono’, ‘debito’, ‘credito’, ‘merito’, ‘ordine’, ‘premio’, ‘tributo’, ‘sacrificio’, sono sia religiose sia economiche. Esse si formano infatti come religiose, provenendo dall’esperienza di base della vita della comunità, e quindi sono insieme ‘economiche’ e ‘sociali’. Da questo punto, per Bruni, “la tesi più probabile è che con la rivoluzione agricola i commerci e le religioni si siano sviluppate insieme e che il matrimonio tra l’economia e il sacro sia avvenuto naturalmente all’alba delle grandi civiltà”[10]. Ne è indizio la nascita e lo sviluppo della moneta (qualunque essa sia), che avviene intorno ai templi ed è misurata per la necessità di calibrare i ‘sacrifici’, quindi le ‘colpe’ ed i ‘meriti (i ‘debiti’ ed i ‘crediti’). La stessa parola ‘pecunia’ deriva notoriamente da ‘gregge’ (pecus) e indica specificamente i capi di bestiame offerti in sacrificio, quindi contati e contabilizzati nei rapporti commerciali con la divinità. In sostanza, il necessario contesto di fiducia e di fede per dare corso al miracolo del denaro avviene nel sacro.

Ma qui c’è il primo elemento specifico messo in evidenza dal nostro. L’etica economica che informa la cristianità nel medioevo non è presa dalla tradizione interna, dai vangeli, piuttosto viene presa in prestito da quella ‘pagana’ del tardo impero. E con questa osservazione abbiamo un indizio su quel che si è perso e un precedente per quel che, poi, farà il capitalismo: a sua volta esso prenderà il posto della religione come ordinatore centrale del sociale trasmutandone/assorbendone i valori, come questa aveva fatto con l’etica romana. Con questo doppio passaggio metamorfico abbiamo infine nel capitalismo sia le tracce dell’etica stoica di Cicerone e Seneca sia quella delle beatitudini evangeliche. Al fine si è creata una nuova religione sincretica, potentissima, che come un parassita (Benjamin) ha trasmutato il cristianesimo (come questo aveva fatto in precedenza con l’etica romana). Insomma, il capitalismo è cresciuto nei nidi cristiani perché l’uovo somigliava a quelli che già c’erano.

E qui si ritrova la profondità, Bruni lo riconosce, dell’analisi del feticismo della merce di Marx, sono queste infatti ad avere il ruolo chiave. Il feticismo si ‘appiccica’ ai prodotti del lavoro quando sono presi nel circuito del valore come merci. Le merci sono dei feticci, in quanto realtà inanimate che nascondono un rapporto tra uomini, ovvero qualcosa di vivo e di “impagabile”. È dunque questa centralità, del circuito delle merci, che si attiva nel capitalismo e che lo attiva. Chiaramente come ben vede la “teologia della liberazione[11] nel linguaggio religioso il nome giusto per questo è ‘idolatria’.

È così che il cammello è passato per la cruna dell’ago.

Passando si è sostituito alla cultura della beatitudine e della gratuità (della Grazia) nutrendosi di essa come un parassita. Nelle fonti evangeliche il rapporto con la ricchezza è infatti complesso, diversi dei discepoli e lo stesso Gesù non sono ‘poveri’ ma questi ricuce la sua visione della ricchezza sulla grande tradizione biblica di Amos, Isaia, Giobbe e Qoelet[12]. Al contempo, però, mentre il Nuovo Testamento sviluppa una critica della ricchezza come eccesso di cui liberarsi è presente anche la tradizione che la vede come benedizione di Dio (presente sin da luoghi arcaici come la Genesi, la storia di Abramo e dei patriarchi). Quindi c’è un altro e terzo modello, presente negli “Atti degli apostoli”, per il quale le primissime comunità cristiane redistribuiscono internamente le ricchezze (non le danno ai poveri), in quanto hanno “un cuore solo ed un’anima sola”. Invece della povertà è qui esaltata la mancanza di bisogno tra i fedeli, condotta dalla comunione dei beni; i beni non sono spoliati e distribuiti, ma ritenuti in comune. Lo stesso concetto nelle Lettere di San Paolo, in cui tutto è centrato sul concetto di uguaglianza.

Ma quando il cristianesimo inizia vincere nei ceti alti della società allora, tra il 404 ed il 405, capita che due giovani, Valerio Piniano e Melania la giovane, provano effettivamente a disfarsi della loro grande ricchezza per vivere asceticamente in povertà. Dunque affrancano i loro 8.000 schiavi e vendono le proprietà, l’esito è che i primi restano senza protezione e le seconde vanno in rovina. L’episodio, noto nelle “vita Melanie”, contribuisce ad un vasto dibattito teologico tra il IV e il V secolo. Si tratta di scegliere tra i tre modelli: povertà, ricchezza comunitaria o ricchezza come grazia.

 

 

 

In questo contesto si scontrano due prospettive irriducibili:

-       Agostino di Ippona, che prevale, sposta l’accento dal disfarsi delle ricchezze materiali a quello di disfarsi piuttosto delle passioni cattive. Lo spostamento è decisivo e recupera la cultura pagana e l’etica tradizionale romana; la ricchezza in sé torna ad essere buona, ma come tutti i beni può corrompersi. Ciò che conta sono piuttosto i valori spirituali come la concordia, la filantropia, quindi le elemosine, ovviamente anche l’ordine e l’amor civicus. In sostanza Agostino riprende quasi in toto, ricorda Bruni, l’etica economica romana classica, “inclusa l’idea che i ricchi sono necessari per la gestione del potere e del buon governo”[13].

-       Pelagio, al contrario, recupera dai Vangeli una visione negativa della ricchezza, la quale non si può acquisire senza ingiustizia. Collegandosi alla filosofia stoica la salvezza è legata alle opere per cui i ricchi, per salvarsi dovevano intanto rinunciare alle ricchezze e poi cercare di passare per la cruna. Come scrive nel “De divinis”, “un ricco che rimanga in possesso delle sue ricchezze, non può entrare nel Regno”[14]. Il motto di Pelagio è “togli i ricchi e non ci saranno anche i poveri”, e perde contro quello di Agostino “togli la superbia e la ricchezza non ti recherà nocumento”.

Vincendo, Agostino, allarga la cruna dell’ago anche perché la dottrina presente nei Vangeli era decisamente troppo esigente. Il cristianesimo nel passaggio dal mondo antico al medioevo piuttosto recupera l’etica presente in esso e produce un’ideale che può essere possibile perseguire per tutti, senza imporre una trasformazione dell’assetto dei poteri nella società.

Ma qui si innesta infine una divisione tra l’etica per tutti, in sostanza quella romana trascendizzata, e quella per pochi, che è di ispirazione evangelica ma è riservata ai monaci. Un doppio binario che sarà poi sciolto dalla riforma protestante. Nel monachesimo si trova, al contempo, una delle più rilevanti radici dell’economia di mercato; stranamente è da qui che nasce il capitalismo. Secondo la lettura di Bruni, infatti, “è stato il monachesimo il primo grande episodio di ‘eterogenesi dei fini’ dell’economia moderna”. In esso viene messa a punto la cooperazione produttiva vasta, stabile e razionale. Non è presente solo in essi, fuori dei grandi monasteri compare episodicamente in ‘fabbriche’ come l’Arsenale di Venezia, i cantieri delle cattedrali, alcune grandi botteghe di artisti o di artigiani, ma questi erano centinaia, la praticavano sistematicamente e duravano anche 500 anni e più.

Bisogna notare almeno due cose: da una parte il centro di tutto non erano gli abati, quanto la “regola”. Dall’altra nasce anche una nuova e radicale etica del lavoro, esemplificata dalla massima “ora et labora”. La cosa è molto profonda, le due pratiche non sono distinte, sono un’unica liturgia della regola. Si prega lavorando e si lavora pregando. E mentre ci si immerge in questo spirito il tempo rallenta, diventa denso, si resta in un altro ritmo di vita. Si vive, e si può ancora sperimentare se si prova, in un tempo più lungo e profondo, nel quale il lavoro è vocazione. Vale in sé e per sé, non per la merce o per la sua quantità, il suo numero, per il denaro.

Su questa tradizione, facendogli fare un salto, interviene il francescanesimo che fu (anche per le istituzioni che creò), la prima scuola di vero e proprio pensiero economico. Nel medioevo sono i francescani che creano i “Monti di Pietà”, e ritornano a fare esile il cammello. “Oh, ignota ricchezza! Oh ben ferace! Scalzasi Egidio, scalzasi Silvestro dietro allo sposo, sì la sposa piace” (Dante, “Paradiso”, XI, 84). Si tratta, nuovamente, di un tentativo di distinguere la proprietà dei beni dal loro uso. Ma un tentativo che nuovamente fallisce[15] e al fine produce una nuova eterogenesi.

 

Al contempo la Chiesa, al principio del nuovo millennio, decide definitivamente che non è il merito del singolo sacerdote o monaco a qualificare le sue opere e la validità degli atti (quello di dire messa, di sposare, e via dicendo), quanto il sacramento che ha validità intrinseca essendo fondato su Cristo. È l’Opus ex opera operato, è la stessa opera ad operare. Uno dei punti sui quali agisce la riforma di Lutero. Il monachesimo ed il francescanesimo delle origini erano di diversa opinione, per loro è una forma di vita e deve essere coerente, o non si è monaci. In sostanza non hanno la rete di protezione di una opera che promana la sua validità indipendentemente.

 

La rete che protegge dalla imperfezione delle intenzioni e delle relative azioni è riprodotta infine dal capitalismo che separa le merci dalle intenzioni (ed anche dalle condizioni di produzione), producendo un suo peculiare “opus operatum”. Nessuna relazione tra la cosa e le qualità morali del produttore è rilevante (relazione che, invece, è sempre presente nel mondo antico e medioevale, si veda su questo Mauss[16]). La cesura avviene quindi separando drasticamente la natura di feticcio della merce e l’alienazione del produttore (Marx) dal valore. Questo, con il capitalismo, diventa pienamente ex opera operato, non c’è più traccia delle persone nascoste sotto l’involucro delle cose. Questa mossa decisiva si vede già molto bene nell’etica calvinista raccontata da Weber[17], nella quale l’etica del lavoro e la vocazione (beruf) è sconnessa dalle qualità morali, ma viene ricondotta ad una radicale ed anti-pelagiana dottrina della predestinazione e della ricchezza come segno di elezione. È paradossale, il protestantesimo nasce anti-pelagiano, perché valorizza la ricchezza come segno di salvezza, ma vi torna quando disprezza il consumo delle ricchezze ed il godimento dei beni. La salvezza torna infine ad essere associata alle opere e quindi, necessariamente, la povertà diviene nuovamente segnale di condanna e oggetto di disprezzo.

Si riconosce qui una sorta di affinità elettiva tra capitalismo e mondo protestante che è stata spesso osservata. Nel mondo cattolico, piuttosto, a partire dalla sistemazione data dall’abate Genovesi[18] sono stati privilegiati approcci etici, che non slegano i risultati sociali dalle intenzioni individuali. La metafora della “mano invisibile” (pur presente in Vico e Genovesi) è centrale solo per i protestanti e l’antropologia nordica, nell’umanesimo latino è sussidiaria. Per essa “nella società capitalistica non c’è bisogno di nessuna azione collettiva, nessun ‘noi’, nessuna relazione, nessun incontro”[19]. Invece nel mondo latino il principio economico fondamentale è la mutua assistenza ed i poveri non sono considerati maledetti da Dio. In esso la ricchezza prodotta dalle fabbriche è sospetta, e per questo quelle di maggior successo, e più stabili, cercano sempre un rapporto con il territorio. Si sforzano di restituire una relazione (esemplare in proposito la vicenda di Adriano Olivetti[20]).

 

Un altro aspetto si trascina nella doppia metamorfosi del parassita cristiano verso l’etica greco-romana e di quello capitalista verso quella cristiana: l’etica del merito e della perfezione che è estranea all’insegnamento evangelico originario e deriva dalla prima metamorfosi. Il capitalismo è, come il liberalismo che ne è il fratello siamese, una utopia di società perfetta. Dunque è, necessariamente, come sottolinea molto bene la ‘teologia della liberazione’ una cultura della colpa. Perché gli uomini sono imperfetti e sono chiamati ad un compito impossibile. Questo ideale di perfettismo, preso dal mondo antico, viene però incubato nel monachesimo (dove era tenuto sotto controllo dalla forte impostazione comunitaria), e, uscendo dalle mura della ‘regola’, diviene infine tecnica di governo della colpa. La cosa accade già nella pratica penitenziale del tardo medioevo (dove, gradualmente, viene monetizzata e fatta oggetto di una sorta di partita doppia del debito, per cui la pena viene trafficata, scambiata e in qualche modo diventa un ‘titolo’). La trasformazione è graduale e decisiva, ed avviene in uno dei luoghi della metamorfosi più importanti: dall’annuncio evangelico originale, per il quale siamo amati a prescindere dalla presunta perfezione, si passa al management della colpa necessaria per gestire l’imperfezione tramite la confessione e la penitenza. Il monachesimo irlandese vede, ad esempio, la confessione come una questione privata tra monaco e padre confessore (ovvero questa viene individualizzata e privatizzata). Gradualmente viene anche formalizzata; una minuziosa classificazione di colpe e penitenze elabora una vera e propria tecnica contabile. E di tariffe. Nel Penitenziale di Colombano si legge che se qualcuno spergiura deve fare penitenza per sette anni.

Di qui il passo breve e necessario è di staccare penitenza e peccatore. Quindi con i pellegrinaggi e le altre forme di penitenza Dio può essere soddisfatto (come qualunque creditore) indipendentemente da chi le faccia. La penitenza diviene moneta scambiabile. Una vera e propria merce con i suoi mercati. Peccava tizio e, purché solvibile, caio faceva per lui il pellegrinaggio. Si arriva dal XII secolo in poi a mettere a punto veri e propri algoritmi di commutazione tra pene, e poi alle indulgenze.

Quando arriva Lutero ormai l’economia della salvezza e quella del denaro sono intrecciate strettamente. Dunque, “il primo ‘spirito del capitalismo’ si era già sviluppato nel mondo medioevale, ma non era avvenuto tanto nei mercati di panni e nelle banche delle città italiane del Trecento, ma molti secoli prima tra i monaci penitenti e nei mercati delle penitenze e dei meriti”[21].

 

In definitiva l’Europa mercantile si sviluppa, intorno alla scoperta dell’America con l’immane flusso di oro, argento, merci e schiavi che comporta, perché “i cristiani da secoli erano stati abituati a ragionale di prezzo, debiti, crediti nelle sfere più intime della vita, della morte, di Dio”. Chiaramente, quando i riformatori aboliscono gli ordini religiosi, divenuti luoghi di privilegio, e la confessione insieme a tutta la contabilità delle penitenze, intesero combattere l’idea ‘pelagiana’ che la salvezza fosse questione di opere. Ma il luogo dell’ascesi si spostò nel lavoro e nell’economia ‘secolare’. Spostata dalla vita ritirata dal mondo la via per acquisire il merito presso Dio, e la salvezza, divenne la perfezione e la vocazione nel lavoro e nell’economia.

 

Altro luogo cruciale della trasformazione, qui della merce, è il secolare mercato delle icone e delle reliquie, strettamente connesso ai pellegrinaggi. Anche qui nei lunghi secoli medioevali, e in Europa, il commercio delle reliquie divenne un vero e proprio fenomeno commerciale globale. Si trattava di pseudo-merci che occupavano i mercati, rendendoli promiscui e, al contempo, resistenti alla completa razionalizzazione. La rivoluzione protestante eliminò l’ambiguità, lasciando sole le merci. Nacque il “culto senza oggetto” di cui parla Benjamin. Nel cacciare il mondo incantato, ricco e denso del medioevo la riforma in effetti, senza volere, portò l’incantesimo nelle merci stesse.

 

Merci alle quali si attaccò in qualche modo anche la logica sacrificale. Una logica antica e proto-economica, per la quale per ottenere la grazia desiderata occorre sacrificare cose di valore. Anche qui l’insegnamento originario evangelico è anti-sacrificale. E ciò che passa nella istituzionalizzazione della Chiesa tardo antica e medioevale è, invece, un contesto teologico sacrificale che “ha offerto a rapporti di potere asimmetrici e feudali una giustificazione spirituale, chiamando sacrificio ciò che era, semplicemente, sfruttamento”[22]. Questa dimensione è oggi presente in tutte le imprese, in particolare grandi, dove si viene continuamente chiamati al sacrificio in cambio della promessa della grazia.

Come scrive Bruni in questo caso “sono i lavoratori che devono offrirsi, spontaneamente, sull’altare”. Il culto del capitalismo ha bisogno infatti delle persone intere, e le chiama al sacrificio di sé; a privarsi spontaneamente della vita sociale, della possibilità di mettere al mondo figli (e questo vale in particolare per le donne ‘in carriera’), ad un voto di castità e celibato, al rinvio del matrimonio. Scavando sotto le possibilità stesse di riproduzione della società.

 

Così il cerchio si chiude. Il capitalismo è diventato l’unica religione.

 



[2] - Di cui abbiamo giù letto, “Il mercato e il dono”, Università Bocconi, 2015, nel quale descrive l’economia civile della tradizione che proviene dall’economista napoletano Antonio Genovesi (morto 1769), autore di “Lezioni di economia civile”, 1765 (il primo trattato di economia europeo, nove anni prima de “La ricchezza delle nazioni”) e nel quale mostra come il capitalismo abbia natura religiosa, simbolica e spirituale; quindi “Fondati sul lavoro”, Vita e Pensiero 2014, nel quale ricostruisce la tradizione che nel monachesimo inquadra il lavorare come rapporto di cura e custodia della terra. E quindi anche come dono, reciprocità, vocazione. Infine, il piccolo “La piramide delle vittime”, una lettura del libro di Qoèlet nell’Antico Testamento.

[4] - Werner Sombart, “Il capitalismo moderno”, 1902

[5] - Walter Benjamin “Il capitalismo come religione”, 1921.

[6] - Bruni, “L’arte della gratuità”, Vita e Pensiero, 2021, p. 13.

[7] - Salmo 49, 6-13.

[8] - Karl Polanyi, “La Grande Trasformazione”, 1944.

[9] - Si veda su questo Luigino Bruni, “Fondati sul lavoro”, 2014.

[10] - Bruni, cit., p.24

[11] - Si veda Hugo Hassmann, Franz Hinkehammert, “Idolatria del mercato. Saggio su economia e teologia”, 1989.

[12] - Si veda Luigino Bruni, “La piramide delle vittime”.

[13] - Idem, p.41.

[14] - Il testo è di attribuzione incerta, ma circola molto nelle élite romane nel V secolo.

[15] - Nel 1322 Papa Giovanni XXII rettificò la “regola” e sancì l’impossibilità del solo uso dei beni, restituendo all’Ordine francescano la piena proprietà dei Beni di cui disponevano.

[16] - Marcel Mauss, “Saggio sul dono”,

[18] - Antonio Genovesi, “Lezioni di economia civile”, Vita e pensiero, 2019 (ed. or. 1765), si veda anche Luigino Bruni, “Il mercato e il dono. Gli spiriti del capitalismo”, Bocconi 2015.

[19] - Bruni, cit., p.71

[20] - Si veda, Vittorio Ochetto, “Adriano Olivetti”,

[21] - Bruni, cit., p. 81.

[22] - Bruni, cit., p.97

 

ANDREA ZHOK

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