IL CAPITALISMO STA CROLLANDO, MA C’E’ POCO DA STARE ALLEGRI: IL PESSIMISMO RADICALE DI WOLFGANG STREECK
ott 6th, 2021 | Di Thomas Munzner | Categoria: Recensioni
Carlo Formenti
Nota introduttiva
E se il capitalismo dovesse crollare prima che (e senza che ciò avvenga per molto tempo) maturino le condizioni perché un nuovo ordine sociale possa prenderne il posto? A porre la domanda è Wolfgang Streeck, sociologo ed economista tedesco erede della Scuola di Francoforte, studioso di spessore, conosciuto soprattutto grazie al saggio Tempo guadagnato (1), un personaggio, insomma, che non sembrerebbe incline a formulare alla leggera ipotesi catastrofiste. Eppure, se gli si chiedesse di commentare l’ironica battuta “il capitalismo ha i secoli contati”, con cui un autorevole economista italiano liquidò le tesi dei teorici del crollo (2), Streeck obietterebbe che “Il fatto che il capitalismo sia finora riuscito a sopravvivere a tutte le previsioni di morte imminente non significa necessariamente che sarà in grado di farlo per sempre”(3).
La citazione è tratta da un libro appena uscito per i tipi di Meltemi (Come finirà il capitalismo. Anatomia di un sistema in crisi) che raccoglie una serie di saggi e articoli accompagnati da una lunga Introduzione. Un’opera in cui l’autore affronta anche alcune questioni di metodo relative alla sua disciplina, sostenendo, in particolare: 1) che il capitalismo non va studiato come un’economia, bensì come una società (dopo che i sociologi hanno a lungo subito l’imperialismo disciplinare degli economisti, argomenta, è giunto il momento di rovesciare il rapporto, perché il capitalismo di oggi non si può capire senza analizzarne le strette relazioni con la totalità delle relazioni sociali di tipo extraeconomico); 2) che il metodo da seguire per imboccare questa via è quello lasciatoci in eredità da Karl Polanyi (4), il quale sosteneva che la minaccia più grave del capitalismo nei confronti delle stesse condizioni di esistenza della società umana consiste nel rischio che “i rapporti sociali che governano la sua economia penetrino e si impossessino di rapporti sociali precedentemente non capitalistici”.
Per esporre le tesi provocatorie di Streeck, ho organizzato in cinque parti la lunga recensione che state per leggere: nella prima ricostruirò le tesi sostenute da Streeck in Tempo guadagnato e rilanciate in questo lavoro; nella seconda e nella terza esaminerò le due principali strategie attraverso le quali, secondo Streeck, il capitalismo tenta di prolungare ulteriormente la propria sopravvivenza: rispettivamente, il processo di mercificazione di tutti gli aspetti della nostra esistenza, e la liquidazione della democrazia politica; nella quarta prenderò in esame il modo in cui interpreta le analisi di Immanuel Wallerstein e altri autori sulla crisi sistemica in corso; nell’ultima mi occuperò della sua prognosi nefasta (il crollo è certo e imminente) in merito all’esisto di tale crisi, e della previsione secondo cui, alla inevitabile catastrofe, seguirà una lunga fase di “interregno” caotico.
Wolfgang Streeck |
I. Il gioco dell’oca. Ovvero: di quel tempo guadagnato resta poco
Negli ultimi cinquant’anni, sostiene Streeck, il capitalismo ha attraversato tre crisi. Nell’ordine: l’inflazione globale degli anni Settanta, l’esplosione del debito pubblico negli anni Ottanta e il rapido aumento dell’indebitamento privato nel decennio successivo, che è stato la causa principale del collasso dei mercati finanziari nel 2008. Inflazione debito pubblico e debito privato sono le strategie con cui si è tentato di risolvere il conflitto distributivo tra capitale e lavoro, spostando sempre più i rapporti di forza a favore del primo, ma queste tre soluzioni hanno finito per divenire esse stesse altrettanti problemi. Nel corso di questa fase storica, che siamo soliti definire con i concetti di neoliberismo e globalizzazione, scrive Streeck, “Le politiche governative oscillavano tra due punti di equilibrio, uno politico e l’altro economico, impossibili da raggiungere simultaneamente” (5), nel senso che, da un lato, se si cercava di soddisfare le aspettative di prosperità e stabilità si compromettevano i risultati economici, dall’altro lato, se ci si concentrava al contrario su questi ultimi, si finiva per mettere a rischio il sostegno sociale ai governi.
Costrette a barcamenarsi fra queste due alternative, le élite dominanti hanno tentato di legittimare le proprie scelte in tema di politica economica schierando partiti, media ed “esperti” in una ossessiva campagna propagandistica finalizzata a inculcare nei cittadini la convinzione che il crescente indebitamento pubblico era da imputare a maggioranze elettorali che “vivono al di sopra dei loro mezzi, sfruttando ‘il fondo comune’ delle loro società, e ai politici opportunisti che comprano il sostegno di elettori miopi con soldi che non hanno” (6). Sulla base di questa menzogna, ripetuta tanto spesso da acquisire lo statuto di verità indiscussa, si sono giustificati i tagli alla spesa pubblica, ai salari e al welfare. Nel contempo la concorrenza fra gli Stati, costretti a offrire condizioni favorevoli alle multinazionali e ai super ricchi per evitare delocalizzazioni e fughe di capitali, imponeva il ricorso a continui tagli alle tasse. Così aumentava il debito pubblico e la necessità di ricorrere ai prestiti da parte della grande finanza privata globale ma, sostituendo il gettito fiscale con il debito, commenta Streeck, “i governi hanno contribuito ulteriormente all’ineguaglianza, in quanto hanno offerto opportunità di investimento sicure a coloro il cui denaro non volevano o non potevano più confiscare e dovevano invece prendere in prestito” (7).
Il passaggio dalla crisi del debito pubblico a quella del debito privato si spiega con gli effetti del circolo vizioso appena descritto. Dal momento in cui il settore finanziario, paventando il potere degli Stati sovrani di cancellare il proprio debito, esercita pressioni sempre più forti sui governi, ai quali chiede rassicurazioni in merito alla loro capacità di ripagare i prestiti, si innesca infatti un secondo circolo vizioso: lo Stato democratico si trasforma in “Stato di consolidamento”, vale a dire in una macchina istituzionale il cui ruolo principale consiste nel consolidamento delle finanze pubbliche attraverso i tagli alla spesa; questa mutazione si traduce in disparità complessive nella domanda e/o in malcontento dei cittadini e, a questo punto, “l’industria finanziaria era felice di intervenire con prestiti alle famiglie, a condizione che i mercati del credito fossero sufficientemente deregolamentati” (8). Nasce così l’economia del debito privato che Streeck descrive come una “conversione dei lavoratori insicuri – mantenuti volontariamente insicuri per renderli lavoratori obbedienti – in consumatori sicuri, convinti, che adempiono felicemente ai loro obblighi sociali consumistici anche di fronte alla fondamentale incertezza dei mercati del lavoro e della occupazione” (9).
Anche questa tuttavia, come ha drammaticamente certificato la crisi del 2008, si è dimostrata una soluzione insostenibile, eppure ciò non ha indotto le oligarchie neoliberiste a cambiare rotta. Di fronte all’esaurirsi dei margini temporali di sopravvivenza del sistema, perseguiti con cinquant’anni di guerra di classe dall’alto condotta con vari mezzi, si è reagito con nuovi tentativi di guadagnare tempo di cui il quantitative easing è un chiaro esempio: “la BCE ha guadagnato tempo per l’euro inondando i mercati di denaro, come surrogato della mutualizzazione del debito, per mantenere bassi i tassi di interesse e solvibili gli Stati membri” (10). Ma nemmeno così si è risolto il problema, come dimostra il recente grido di allarme con cui la signora Yellen, di fronte al dilagare del debito Usa, al drammatico aumento dei costi energetici e ai problemi generati dalla crisi pandemica del covid 19, ha evocato la possibilità che si riaffacci lo spettro della stagflazione, fenomeno che negli anni Settanta del 900 ha innescato il ciclo infernale appena descritto. Come se il capitalismo, impegnato in una sorta di gioco dell’oca, fosse finito in una casella che recita: “torna al punto di partenza”.
In poche parole: tutti gli espedienti escogitati nell’ultimo mezzo secolo per guadagnare tempo sono falliti, e il capitalismo continua a ritrovarsi di fronte lo stesso problema: come garantire elevati tassi di profitto in un contesto di bassa crescita? Ebbene, risponde Streeck, nemmeno la catena di fallimenti cui è andato incontro possono indurre il sistema ad autoriformarsi e a cambiare rotta, per cui è lecito prevedere che “si cercheranno modi sempre nuovi per sfruttare la natura, estendere e intensificare l’orario di lavoro e incoraggiare ciò che il gergo chiama ‘finanza creativa’, in uno sforzo disperato per mantenere alti i profitti” (11). Il guaio è che, mentre negli anni Settanta si è riusciti a rinviare il disastro anche abbattendo drasticamente il costo del lavoro, oggi i margini per ridurlo ulteriormente sembrano esauriti, come certifica il dilagare dei populismi. E allora? Allora scattano le strategie che andiamo a descrivere nei prossimi paragrafi.
Immanuel Wallerstein |
II. Mercificazione senza limiti. Ovvero il capitalismo come cultura e stile di vita
La guerra di classe dall’alto messa in atto nei decenni seguiti alla rivoluzione neoliberista degli anni Ottanta ha potuto contare sia sui processi di delocalizzazione della forza lavoro nei paesi dove questa era a buon mercato e priva di tutele politiche e legali, sia su una radicale destabilizzazione dei regimi di protezione del lavoro nelle metropoli capitalistiche. A seguito del crollo del modello produttivo fordista e della fine del compromesso storico fra capitale e lavoro del trentennio glorioso, la classe operaia ha subito sconfitte devastanti, scrive Streeck, “anche per mezzo di una secolare espansione dell’offerta di lavoro disponibile, prima con l’ingresso in massa delle donne nel mondo del lavoro e poi con l’internazionalizzazione dei processi produttivi” (11). Nello stesso periodo (gli anni Settanta e Ottanta), aggiunge, le famiglie e le comunità tradizionali perdono rapidamente autorità, offrendo ai mercati l’opportunità di riempire un vuoto sociale in rapida crescita, “che i teorici della liberazione contemporanei avevano scambiato per l’inizio di una nuova era di autonomia ed emancipazione” (12).
Dopo avere notato, per inciso, che Streeck esprime qui implicitamente un giudizio analogo a quello di Boltanski e Chiapello (13) in merito alla complicità di fatto fra svolta liberista e culture libertarie post sessantottine, passiamo a descrivere come è potuta nascere questa paradossale equiparazione fra mercificazione dei mondi vitali ed emancipazione individuale.
Un primo nodo riguarda la dilatazione del ruolo dei consumatori ai fini della conservazione, rafforzamento ed estensione del meccanismo di accumulazione allargata. Del ruolo giocato in tal senso dal debito privato si è detto, ma con quali altri mezzi si è potuto incentivare il consumo in tempi di vacche magre? Streeck parte da una riflessione antropologico/psicologica. La scarsità, argomenta, “è in misura considerevole una questione di immaginazione collettiva”, e di questo gli uomini del capitale sono perfettamente consapevoli, per cui sanno che il sistema può prosperare solo se i consumatori “possono essere persuasi a scoprire sempre nuovi bisogni e quindi a rendersi psicologicamente poveri”. Naturalmente la persuasione psicologica non basta se i consumatori non possono permettersi di soddisfare questi nuovi bisogni, ma qui subentra, assieme al debito privato, quel paradossale meccanismo che altri autori hanno definito Wal Mart Economy, con riferimento alla grande catena discount americana che, vendendo prodotti di provenienza cinese a basso costo, ha consentito di tenere bassi i salari degli operai americani. “Comprando magliette o smartphone a buon mercato, commenta Streeck, i lavoratori dei paesi ricchi come consumatori fanno pressione su loro stessi come produttori, accelerando il trasferimento della produzione all’estero e di fatto minando i loro stessi salari, condizioni di lavoro e occupazione” (14).
Un altro apporto dei consumatori alla conservazione del sistema, non solo sul piano economico ma anche su quello culturale, consiste nella “personalizzazione” dei prodotti promossa dal post fordismo: ”più i prodotti si avvicinavano alle specifiche dei consumatori, più questi ultimi erano disposti a pagare”. Il marketing coopta i consumatori come co-progettisti del prodotto o servizio che intendono acquistare, alimentando l’illusione che si tratti di una merce costruita “su misura” per le loro peculiari esigenze – un meccanismo che ha toccato l’acme con lo sviluppo del commercio e del marketing online (15). Nel rarefatto ambiente sociale delle relazioni virtuali, l’atto di acquisto può svolgere addirittura un ruolo di auto-identificazione e auto-rappresentazione “che distingue l’individuo da alcuni gruppi sociali mentre lo unisce ad altri “. Una relazione che contribuisce a indebolire le tradizionali identità di classe (Streeck usa il termine sociazione per definire questo tipo di relazioni fondate su legami deboli, tipiche dei rapporti fra utenti dei social network).
Un secondo tema cruciale consiste nella conversione dei cittadini in clienti. A mano a mano che i governi si impegnano a gestire la transizione a un sistema politico post democratico (16), promuovendo la privatizzazione dei servizi sociali in ragione della presunta superiorità del privato sul settore pubblico (tipico in tal senso il modo in cui si sono legittimate le privatizzazioni di radio tv e Tlc, presentando il modello tradizionale come antiquato e non rispondente alle esigenze degli utenti) i cittadini vengono incoraggiati a percepirsi come clienti della pubblica amministrazione, ed essi accettano questo cambiamento di status, scrive Streeck, perché “la cittadinanza è per sua stessa essenza meno ’comoda’ della clientela e, se misurata con gli stessi criteri, è destinata irrimediabilmente alla sconfitta”. Questo perché “il ruolo di cittadino richiede una ben ammaestrata disponibilità ad accettare decisioni a cui ci si era originariamente opposti o che sono contrarie ai propri interessi. I risultati sono quindi solo raramente ottimali dal punto di vista dell’individuo” (17). Un altro argomento per presentare il neoliberismo come una società più favorevole all’emancipazione individuale.
Veniamo infine al terzo fenomeno che, secondo Streeck, ha contribuito ad assecondare il progetto neoliberista, vale a dire il cambiamento degli stili di vita (in particolare di quelli degli strati medio-alti delle classi medie). Le società capitaliste occidentali sono sempre più formate da single, coppie senza figli o con pochi figli. Ciò è dovuto alla pressione di un’ideologia che impone all’individuo di considerarsi “imprenditore di se stesso”, il che comporta tirarsi il collo per accumulare “capitale umano” e lottare con il coltello fra i denti in una competizione di tutti contro tutti. I membri del ceto medio si trovano così a dover soddisfare obblighi di carriera e di consumo sempre più impegnativi, per cui devono passare sempre più tempo a lavorare. Le coppie, in particolare, hanno meno tempo da dedicare ai figli, per cui devono esternalizzarne la cura al mercato e “dipendono da una forza lavoro sotto pagata di domestici, in particolare di babysitter, che si solito sono immigrati, perlopiù donne”. Ricordiamo per inciso che un’autrice come Nancy Fraser (18), sostiene che questo processo di mercificazione del lavoro riproduttivo finirà per rivoltarsi contro il sistema, nella misura in cui questo rischia di segare il ramo su cui è stato seduto per secoli (cioè il lavoro di cura gratuito delle donne). Per parte sua Streeck mette in luce come, nell’immediato, si venga così a creare una spaccatura fra gli interessi della classe media autoctona e quelli degli immigrati, nel senso che i servizi a basso costo erogati dai secondi consentono alla prima di reggere i ritmi di lavoro e di vita infernali imposti dal mercato.
Friedrich von Hayek |
III. Il divorzio fra liberalismo e democrazia
Le origini di ciò che chiamiamo post democrazia affondano le radici nella crisi del regime fordista: a fronte dei tassi di crescita sempre più bassi generati dalla crisi strutturale iniziata negli anni Settanta del secolo scorso, il capitale reagisce aumentando i tassi di profitto attraverso una distribuzione sempre più sbilanciata a suo favore. La democrazia redistributiva del fordismo che, per trent’anni aveva agito come un volano della crescita, diventa un ostacolo per il funzionamento ottimale del modello neoliberista, quindi il capitale deve liberarsi dei vincoli e delle regole imposti dalle politiche economiche dei sistemi misti emersi dal compromesso postbellico fra capitale e lavoro. “Non c’è stato nessun putsch, scrive Streeck, le elezioni continuano a svolgersi, i leader dell’opposizione non vengono mandati in prigione e le opinioni possono essere espresse liberamente sui media, sia tradizionali che nuovi. Tuttavia, man mano che una crisi si susseguiva a un’altra, e la crisi fiscale dello Stato di dispiegava, l’arena del conflitto distributivo si spostava verso l’alto e si allontanava dal mondo dell’azione collettiva dei cittadini verso luoghi decisionali sempre più remoti” (19).
Questi “luoghi remoti” sono, fra gli altri, le lobby in cui si concentra il “potere materiale” degli oligarchi, un potere che ha raggiunto dimensioni tali “da consentire alla riprovevole disuguaglianza economica che lo sottende di riprodursi a dispetto della democrazia politica. Questo perché permette ai super-ricchi di comprare sia le maggioranze politiche sia la legittimità sociale”. È il sistema delle “porte girevoli” che consente ai tecnocrati di trasferirsi dagli uffici governativi a quelli dell’alta finanza e viceversa, una pratica che certifica come la finanza rappresenti ormai un governo a sé, nella misura in cui gli Stati strozzati dal debito sono indotti a chiedere continuamente prestiti e consigli al settore finanziario privato. Il processo di finanziarizzazione dell’economia ha trasformato di fatto quest’ultimo “in un governo privato internazionale che disciplina le comunità politiche nazionali e i loro governi pubblici, senza essere in alcun modo democraticamente responsabile”.
Il punto di approdo di questo processo verso “una dittatura hayekiana di mercato” – con allusione alle tesi del guru del neoliberismo Friedrich von Hayek (20) – è quello che Streeck definisce Stato del consolidamento: “uno stato di consolidamento può essere descritto come uno Stato in cui gli obblighi commerciali di mercato hanno la precedenza sugli obblighi politici di cittadinanza, laddove i cittadini non hanno accesso a risorse politiche o ideologiche con cui contestarlo” (21). Un esempio evidente di tale regime è l’Unione Europea, la quale, più e meglio di uno Stato nazionale, può imporre la sua volontà ai governi democratici grazie all’indipendenza politica della BCE che “si traduce nella capacità senza precedenti di soddisfare gli interessi dei mercati finanziari e in una dipendenza senza precedenti da questi”. Le riforme istituzionali – come il Fiscal Compact – che la Unione ha imposto a paesi che, come l’Italia e la Francia, in precedenza accettavano un’inflazione e una spesa pubblica elevate per mantenere la pace sociale, hanno annullato il compromesso di classe che ne orientava le scelte di politica economica.
Privati della possibilità di far valere i propri interessi attraverso i tradizionali canali di partecipazione democratica (anche a causa, è il caso di aggiungere, del tradimento di quei partiti e sindacati “di sinistra” che hanno assecondato la transizione alla post democrazia invece di opporvisi), i cittadini hanno avuto solo due possibilità: delegare ai movimenti populisti il ruolo di dare voce alla loro rabbia, oppure lasciarsi irretire dalle messinscene di un sistema politico che, espropriato di qualsiasi reale potere decisionale, si limita a gestire “un catalogo infinito di opportunità di pseudo-partecipazione e pseudo-dibattiti”, del quale fanno parte ”le guerre culturali, le scelte di vita, il politicamente corretto, l’età e il sesso dei politici, nonché il loro aspetto, il modo in cui si vestono e parlano” (22).
IV. Una crisi senza fine?
Posto che, come si è visto, Streeck ritiene che nessuna delle strategie adottate dal capitalismo per uscire dalla crisi iniziata negli anni Settanta ha funzionato, ne deriva una domanda: il capitalismo ha un futuro? È lo stesso interrogativo che dà il titolo a un libro a più voci uscito nel 2013 e curato da Immanuel Wallerstein (23). Ed è appunto da questo libro che Streeck prende le mosse per tentare a sua volta di dare una risposta.
In un primo momento Streeck si limita a elencare le tesi dei vari autori del libro in questione: 1) Wallerstein “colloca il capitalismo contemporaneo alla base di un ciclo di Kondrat’ev senza alcuna prospettiva di una nuova ripresa”. Prognosi negativa quindi, anche perché sempre Wallerstein considera definitamente e irreversibilmente esaurito l’odine mondiale fondato sull’egemonia del modello statunitense (e, com’è noto, sia lui che Giovanni Arrighi ritengono che il sistema capitalista non possa sopravvivere in assenza di un modello egemonico fornito da un paese guida); 2) Calhoun crede che il capitalismo verrà rimpiazzato da un’economia socialista centralizzata o da un capitalismo di Stato in stile cinese, dando per scontato che i mercati potranno esistere anche in futuro, anche se le modalità specificamente capitaliste della proprietà e della finanza saranno decadute; 3) Michael Mann traccia un modello di società umana che non si fonda su una serie di sistemi bensì su reti multiple e sovrapposte di interazione, quattro delle quali – potere ideologico, economico, militare e politico – sono le più importanti, per cui lo sviluppo del capitalismo è influenzato anche da ideologie, guerre e Stati; dopodiché prospetta “l’eventualità che un comportamento irrazionale interferisca con i calcoli razionali dell’interesse, persino dell’interesse della sopravvivenza”; 4) per Randall Collins il capitalismo è soggetto a una debolezza strutturale a lungo termine associata alla dislocazione tecnologica della forza lavoro umana alle macchine, per cui è convinto che “la dislocazione tecnologica della forza lavoro porrà fine al capitalismo, con o senza l’ausilio della violenza rivoluzionaria, entro la metà di questo secolo”. Sempre Collins motiva tale convinzione con l’argomento che, mentre il lavoro è stato gradualmente sostituito dalla tecnologia da duecento anni a questa parte, con l’avvento dell’informatica e dell’intelligenza artificiale questo processo sta raggiungendo il suo apogeo” e, dopo aver distrutto la manodopera operaia, sta attaccando e annientando anche la classe media, per cui cui prevede tassi di disoccupazione del 50-70% entro la metà del secolo.
Streeck ritiene che ognuna delle tesi appena elencate contenga un nucleo di verità, ma rifiuta di inquadrarle in un ordine gerarchico. La sua è infatti una diagnosi di multimorbilità in cui diversi disturbi coesistono e si rafforzano a vicenda, per cui espone il proprio punto di vista attraverso la seguente metafora: ”la fine del capitalismo può essere immaginata come una morte sopraggiunta per innumerevoli ferite o per una molteplicità di infermità, ognuna delle quali sarà tanto più incurabile quanto più tutte richiederanno cure contemporaneamente” (24). Questa crisi multipla è accelerata dal trionfo del capitalismo nei confronti dei propri nemici, nel senso che in passato socialismo e sindacalismo “ponendo un freno alla mercificazione, hanno impedito al capitalismo di distruggere i suoi fondamenti non capitalistici – fiducia, buona fede, altruismo, solidarietà all’interno delle famiglie e delle comunità, ecc. “. Col venir meno di tali ostacoli e risorse in questione sono destinate a un rapido deperimento: per usare la metafora di Nancy Fraser, citata in precedenza, il capitalismo sta segando il ramo su cui siede. O, per dirla con Polanyi, un sistema politico interamente conquistato dagli interessi capitalistici non è in grado di proteggerli dalla distruzione. Tuttavia il fatto che la salvezza del capitalismo dipenda da una politica sensibile, almeno in parte, alle ragioni dei movimenti sociali, commenta Streeck, non impedisce ai singoli capitalisti di “fare un’ultima puntata prima che il casinò fallisca”.
Karl Polanyi |
V. Chi può impedire il crollo e, se ciò è impossibile, cosa verrà dopo?
Se il compito della politica è impedire che la crisi degeneri in crollo, occorre riconoscere che si tratta di un compito impossibile. Per assolverlo, riportando il capitalismo nell’ambito del governo democratico, occorrerebbe niente di meno che, da un lato impedire che il lavoro, la terra e la moneta subiscano una completa mercificazione, dall’altro lato de-globalizzare il capitalismo. Ma oggi non esiste alcun governo dotato dell’autorità necessaria per farlo. È per questo che, argomenta Streeck, è ora di prendere atto del fatto che se il capitalismo è finora riuscito a sopravvivere a tutte le previsioni di morte imminente ciò non significa che sarà in grado di farlo per sempre.
Citando Lenin e Gramsci, Streeck, ricorda che, se è vero che un ordine sociale va in pezzi solo se e quando le sue élite non sono più in grado di mantenerlo, è altrettanto vero che, per spazzarlo via, ci devono essere nuove élite capaci di progettare e instaurare un nuovo ordine. Ma oggi queste condizioni non si danno: la società capitalista si sta disintegrando, ma ciò non avviene per mano di un’opposizione organizzata che mira ad instaurare un ordine sociale migliore. Ciò significa che il capitalismo sopravvivrà comunque? Niente affatto, risponde Streeck: “Perché il declino del capitalismo continui (…) non è richiesta alcuna alternativa rivoluzionaria e certamente nessun piano generale di una società migliore”; il sistema crollerà sotto il peso delle sue contraddizioni interne e “come risultato della vittoria sui suoi nemici – che (…) hanno spesso salvato il capitalismo da se stesso costringendolo ad assumere una nuova forma” (25). Dopodiché che cosa succederà? Avremo un lungo periodo di entropia sociale, risponde Streeck, un interregno in cui il capitalismo, prima di andare all’inferno, “resterà sospeso nel limbo, morto o sul punto di morire per overdose di se stesso, ma ancora molto presente, poiché nessuno avrà il potere di spostare il suo corpo in decomposizione dalla strada” (26).
Per rendere ancora più macabro tale scenario, Streeck invita a riflettere sul fatto che esistono soggetti sociali e politici (nei quali, aggiungo io, è difficile non riconoscere tanto i liberali “progressisti” quanto il radicalismo libertario “di sinistra”) convinti che “la disintegrazione sistemica e l’entropia sociale possono essere considerate un progresso storico verso la libertà individuale e una società libera”; convinti che “la vita in una società sottogovernata di questo tipo può essere glorificata come una vita in libertà. Non vincolata da istituzioni rigide e costruita autonomamente attraverso accordi volontari tra individui consenzienti che perseguono liberamente le loro priorità idiosincratiche” (27).
Il sordido interregno che ci aspetta dopo il crollo durerà tanto più quanto più reggeranno i principi e i valori dell’etica neoliberale “di automiglioramento competitivo, di coltivazione instancabile del proprio capitale umano commerciabile”; la dedizione entusiastica al lavoro e l’accettazione ottimista e faceta dei rischi inerenti a un mondo senza governo politico; il culto della resilienza (“più resilienza gli individui riescono a sviluppare, scrive Streeck, meno domanda ci sarà per un’azione collettiva per contenere le incertezze prodotte dalle forze di mercato”); in una parola: l’esaltazione di una vita nell’incertezza come vita nella libertà. Vivremo – o meglio già viviamo – in un mondo governato da quattro imperativi: coping, hoping, doping, shopping. Coping, ovvero come gli individui rispondono con improvvisazioni alle emergenze inflitte da un ambiente sociale sottogovernato. Hoping, ovvero la speranza fiduciosa sostenuta da sogni tanto più coltivati quanto più irrealistici. Doping, ovvero lo spaccio di droghe per i vincitori legali e altamente redditizie per l’industria farmaceutica, illegali e altamente redditizie per il crimine organizzato per i vinti. Shopping, ovvero l’etica di “individui consumatori che aderiscono a una cultura dell’edonismo competitivo che deve rendere obbligatori speranze e sogni mobilitandoli per sostenere la produzione e alimentare il consumo nonostante la bassa crescita, le disuguaglianze e l’indebitamento”.
Considerazioni critiche conclusive
Il modo in cui Streeck descrive la crisi del sistema capitalista mi sembra difficilmente contestabile, anche e soprattutto perché ha l’indiscutibile merito di non limitarsi – a differenza di molti autori, anche in campo marxista – a coglierne solo gli aspetti economici, ma ne mette in luce la natura multiforme, chiamando in causa le contraddizioni e i problemi che coinvolgono gli equilibri geopolitici, ambientali, le istituzioni dello Stato, la cultura, gli stili di vita, ecc. Il suo, come si è più volte sottolineato nell’articolo che avete appena letto, è un approccio che rinvia a quello di Karl Polanyi, nella misura in cui il nocciolo duro – e la gravità – della crisi in atto da mezzo secolo viene identificato negli effetti controfattuali dell’assoluto trionfo neoliberista su ogni forma di resistenza delle classi subalterne; trionfo che comporta, da un lato, l’eccessiva estensione del processo di mercificazione di ambiti sociali in precedenza esclusi dai rapporti di mercato, dall’altro la neutralizzazione del ruolo di “freno” dei contromovimenti sociali che in passato avevano svolto il compito di preservare il sistema dalle sue stesse pulsioni autodistruttive (vedi la metafora di un sistema che sega il ramo su cui siede da secoli).
Il punto è: questa analisi giustifica la tesi sull’assenza di futuro del capitalismo? Possiamo davvero credere che il sistema sia destinato a crollare spontaneamente, senza subire spallate da parte di un progetto politico finalizzato a sostituirlo con un altro modello di società? Non si rischia così di ricadere in una visione determinista, “oggettivista”, del processo storico, accettando un punto di vista che rimpiazza l’imperialismo del paradigma economico con quello del paradigma sociologico? Abbiamo visto come, a un certo punto, Streeck chiami in causa Lenin e Gramsci, laddove costoro sostengono che un ordine sociale va in pezzi solo se e quando le sue élite non sono più in grado di mantenerlo, ma aggiungono che, per spazzarlo via, occorrono nuove élite che siano pronte (e capaci!) di progettare e instaurare un nuovo ordine. Ebbene, se la situazione fosse realmente questa, non si può negare ogni fondamento alla tesi del crollo, e di un susseguente interregno caratterizzato dal caos e dall’entropia, avanzata da Streeck. Prima di rassegnarci a un simile scenario, però, occorre ragionare su quello che considero il maggior punto di debolezza dell’analisi su cui tale scenario è fondato.
In primo luogo, va detto che il riferimento a Lenin e Gramsci è monco: è pur vero che Gramsci è l’autore della celebre (e di questi tempi fin troppo citata) battuta sul vecchio che muore ma il nuovo non può (ancora) nascere. Ma è altrettanto vero che sia lui, e ancor più Lenin, non concepiscono la possibilità di un “vuoto” di potere. Lenin, in particolare, nega che esistano situazioni senza via di uscita, in cui il sistema vegeta senza trovare soluzioni: se ci sono le condizioni oggettive per rovesciarlo, ma soprattutto un soggetto politico in grado di sfruttarle, cade, altrimenti trova il modo di riprodursi e conservare il proprio potere. Forse si tratta solo di “tempo guadagnato”, come sostiene Streeck, ma quello che resta in piedi è pur sempre capitalismo, non un ibrido indefinibile, e tale resterà finché non nascerà un soggetto politico in grado di buttarlo giù.
Per dirla altrimenti: ciò che manca nella visione di Streeck, è la dovuta considerazione del peso dell’elemento soggettivo nella storia. Una miopia che – assieme al persistere di un pregiudizio eurocentrico – gli impedisce di prendere in considerazione l’esistenza di un’alternative politiche esterne all’Occidente, alle metropoli americane ed europee. La sua spietata analisi dell’integrazione delle classi medie occidentali – disposte ad accettare il ruolo di consumatori, clienti di uno Stato “privatizzato”, nonché spettatori di una politica spettacolarizzata, personalizzata e ridotta a officiare le commedie del politicamente corretto – coglie nel segno. Ma siamo sicuri che è solo da questi paesi e da queste classi sociali che potrebbe/dovrebbe venire la spallata? Streeck letteralmente non vede l’assedio alle metropoli occidentali da parte della Cina (che cita solo episodicamente, dando per scontato che faccia ormai parte a tutti gli effetti del campo capitalista, ancorché di Stato) e degli altri Paesi socialisti in Asia e America Latina. Per concludere: con buona pace di Streeck, e non senza aver reso omaggio alla sua straordinaria capacità di analisi dei meccanismi della lunga crisi capitalistica dai Settanta a oggi, ritengo priva di fondamento la sua tesi “crollista”. Il capitalismo continuerà a sopravvivere, cercando e trovando scappatoie, ancorché precarie e temporanee, finché non matureranno uno o più soggetti sociali e politici in grado di dargli il colpo di grazia. Se ciò non dovesse succedere in tempi relativamente brevi, non andremo incontro a nessun interregno, bensì alla peggior barbarie.
Note
(1) W. Streeck, Tempo guadagnato, Feltrinelli, Milano 2013.
(2) G. Ruffolo, Il capitalismo ha i secoli contati, Einaudi, Torino 2008.
(3) W. Streeck, Come finirà il capitalismo. Anatomia di un sistema in crisi, Meltemi, Milano 2021, p. 14.
(4) K. Polanyi, La grande trasformazione, Einaudi, Torino 1974.
(5) Come finirà il capitalismo, cit., p. 32.
(6) Ibidem, p. 86.
(7) Ivi.
(8) Ibidem, p. 33.
(9) Ibidem, p. 12.
(10) Ibidem, pp. 163-164.
(11) Ibidem, p. 119.
(12) Ibidem, p. 123.
(13) L. Boltanski – E. Chiapello, Il nuovo spirito del capitalismo, Mimesis, Milano 2014.
(14) Come finirà il capitalismo, cit., p. 46.
(15) Ho analizzato questo meccanismo in Felici e sfruttati, Egea, Milano 2011.
(16) Cfr. C. Crouch, Postdemocrazia, Laterza, Roma-Bari 2003.
(17) Come finirà il capitalismo, cit., p. 133.
(18) Cfr. N. Fraser, Fortunes of Feminism, Verso, London – New York 2015.
(19) Come finirà il capitalismo, cit., p. 38.
(20) Cfr. F. von Hayek, la via della schiavitù, Rubettino, Cosenza 2011.
(21) Come finirà il capitalismo, cit., p. 157.
(22) Ibidem, p. 246.
(23) I. Wallerstein, R. Collins, M. Mann, G. Derluguian, C. Calhoun, Does Capitalism Have a Future, Oxford University Press, Oxford 2013.
(24) Come finirà il capitalismo, cit., p. 27.
(25) Ibidem, p. 28.
(26) Ibidem, p. 61.
(27) Ibidem, p. 63.