Islamismo e liberazione nazionale
ott 6th, 2021 | Di Thomas Munzner | Categoria: Contributi
Islamismo e liberazione nazionale
di Alessandro Mantovani
“…L’Islam vede la religione come un modo di vivere, un insieme di comportamenti, una legge, un ideale politico;[…] Ciò spiega come l’Islam abbia potuto tradursi, e continui a tradursi anche oggi, in un programma di unificazione politica e d’indipendenza nazionale […] la rivoluzione compiuta in nome degli ideali islamici costituisce uno dei fenomeni più grandiosi della nostra epoca.” (Ambrogio Donini, Breve storia delle religioni, Newton Compton, Roma, 1989).
Dicevo nella mia precedente nota sull’Afghanistan che l’opinione secondo cui i Talebani sarebbero “reazionari” ha acquisito anche presso le sinistre rivoluzionarie la solidità di un pregiudizio che non necessita di essere dimostrato. Su cosa si basa (consapevolmente o inconsapevolmente)?
- su di un diffuso – ma non comunista né marxista – sentimento anti religioso che denota sudditanza verso il laicismo borghese;
- sull’ignoranza del mondo islamico in generale, dell’islamismo radicale in particolare, e del ruolo storico di alcune tra le sue molte correnti nella lotta anti imperialista ed indipendentista dei paesi musulmani in specifico;
- sull’idea sommaria che islam, integralismo islamico ed oppressione della donna siano sinonimi;
- sull’”universale consenso”, da leghisti a movimentisti, che i talebani siano la peggior versione di tale misoginia di fondo;
- sull’ignoranza della complessità che caratterizza la società afghana, e del ruolo storico che vi rivestono i talebani;
- ultimo ma forse ancor più importante, sul misconoscimento della rilevanza del fattore nazionale nella storia, dell’importanza della formazione degli stati nazionali, dei processi che vi conducono.
Senza atteggiarmi ad “esperto”, ho cercato di affrontate questi cliché nel mio libro Rivoluzione islamica e rapporti di classe, Afghanistan, Iran, Iraq (Genova, Graphos, 2006), disgraziatamente per molti aspetti ancora attuale. In questo articolo riprenderò (molto succintamente) quanto scrivevo allora sui primi punti. In quelli che seguiranno riprenderò brevemente la mia analisi sull’Afghanistan ed i talebani cercando di aggiornarla con gli elementi a disposizione dopo vent’anni di presenza occidentale.
Il risveglio islamico
Molti dei nostri “rivoluzionari” occidentali, senza aver approfondito, ripetono a sproposito il famoso aforisma di Marx secondo cui la religione è “l’oppio del popolo”, traendone la conclusione che i comunisti debbano avere come proprio compito immediato estirpare la religione, assumendo come alfa ed omega il laicismo borghese (quello stesso, per intenderci, che diventando a sua volta dogmatico, vuole ad es., in Francia, obbligare per legge le donne islamiche a togliersi il velo). Ma il povero Marx non ha nulla a che fare con tale stupidaggine radical-borghese. Per lui, “il riflesso religioso del mondo reale può scomparire, in genere, soltanto quando i rapporti della vita pratica quotidiana presentano agli uomini giorno per giorno relazioni chiaramente razionali fra di loro e fra loro e la natura”1: vulgo, in una società socialista. In mancanza di un completo rivoluzionamento dei mezzi di produzione, e di un affrancamento dell’uomo dalla lotta individuale per l’esistenza e dalla tirannia del mercato, come diceva Lenin, “proclamare compito politico del partito operaio la guerra alla religione non è che una frase anarchica”2. Senza dilungarci sulla questione ricordiamo come a certe condizioni Lenin ammettesse perfino l’adesione di preti al partito socialdemocratico, e che, guarda, un po’, i bolscevichi al potere decisero di ammettere anche i musulmani come membri del partito comunista.
Sui rapporti amichevoli e rispettosi delle loro credenze religiose che il potere sovietico intrattenne, nei primi anni, verso le popolazioni musulmane inglobate all’interno dell’ex impero zarista, esiste ormai una discreta letteratura3. Documentato è anche l’appoggio ai movimenti nazionalisti islamici per una lotta all’imperialismo britannico4.
“…sosteniamo con pazienza – disse Zinoviev al “Congresso dei Popoli d’Oriente“di Bakou, nel 1920 – i gruppi che non sono ancora con noi e che perfino, in certi casi, sono contro di noi: è il caso, ad es., della Turchia, dove, come sapete, il governo sovietico dà appoggio a Kemal Pascià. […] Il movimento diretto da Kemal vuole liberare la “sacra persona” del califfo dalle mani dei suoi nemici. È forse un punto di vista comunista? No. Ma rispettiamo lo spirito religioso delle masse e sappiamo dare loro un’altra educazione. […]. Affrontiamo con prudenza e circospezione le credenze religiose delle masse lavoratrici dell’Oriente e degli altri paesi”.5
Che l’Islamismo potesse cementare in senso anti-coloniale i popoli asiatici era già stato detto da Lenin nel 1913 a proposito delle “masse popolari di Giava” in lotta contro l’Olanda, “tra le quali si è risvegliato il movimento nazionalista sotto la bandiera dell’Islam”6. La complessità della «questione orientale» continuò ad essere discussa, tanto da venir collocata all’ordine del giorno del IV Congresso dell’Internazionale comunista, nel 1922. In quella occasione la condanna del panislamismo enunciata al II Congresso fu criticata da alcuni delegati, tra cui l’indonesiano Malaka, che sostenne come la parola d’ordine del fronte antimperialista in Asia non potesse escludere alcuni movimenti panislamici. Le tesi approvate dicevano tra l’altro:
“Nei paesi maomettani il movimento nazionalista all’inizio trova la propria ideologia nei dettami politico-religiosi del panislamismo […]. Tuttavia, man mano che si diffondono i movimenti di liberazione nazionale, anche i dettami politico-religiosi del panislamismo sono sostituiti da esigenze politiche concrete […]. L’Internazionale comunista, tenendo conto […] del fatto che i rappresentanti dell’aspirazione nazionale all’indipendenza possono essere gli elementi più disparati a seconda delle diverse circostanze storiche, sostiene appunto qualsiasi movimento nazional- rivoluzionario contro l’imperialismo.”7
Prego il lettore di tenere bene a mente che il movimento comunista, come ho evidenziato in grassetto, “sostiene appunto qualsiasi movimento nazional-rivoluzionario contro l’imperialismo”. Ne riparleremo alla fine di queste pagine.
Veniamo a bomba: che la lotta rivoluzionaria possa assumere carattere religioso, per i marxisti, lungi dall’essere una bestemmia, è una ovvietà: il cristianesimo segnò la condanna del modo di produzione schiavista, Maometto la ribellione dei beduini contro il mercantilismo della Mecca, il calvinismo l’inizio dell’etica capitalistica, i puritani inglesi la prima rivoluzione borghese della storia. Protestantesimo, calvinismo e puritanesimo pretendevano di rappresentare – proprio come l’islamismo radicale – un ritorno alla purezza religiosa delle origini, e quanto a combattere contro gli svaghi e la musica – cosa che tanto scandalizza un Salaman Rushdie o i divi di Hollywood che si commuovono per le donne afghane – Calvino non scherzava certo (e nemmeno i più recenti puritani americani, se è per quello). E vogliamo parlare dei Catari, degli Hussiti, e di tutte le sette millenariste? Non erano integralisti quelli? Certo, non distruggevano le statue di Budda ma incendiavano castelli e conventi, con le loro biblioteche e le opere d’arte che contenevano. Eppure annunciavano la nascita di un nuovo mondo, certo diverso da quel mondo di giustizia che immaginavano, ché anzi annunziavano l’alba dell’era borghese. Ma la loro forza d’urto, malgrado molte sconfitte, fece ruzzolare avanti il pesante carro della storia, stritolando molte ossa sotto le sue spietate ruote.
Altri tempi, si dirà. Per noi sì, ma non per loro. Loro, cioè i “barbuti”, i barbari. Se tali li consideriamo, perché non concedergli la licenza per gli stessi delitti commessi durante le nostre lotte di religione? Non basta possedere uno smartphone o un bazooka per aver superato i rapporti sociali precapitalistici e pre borghesi, e dunque perché la politica non si rivesta delle bandiere religiose per smuovere le masse.
Ci vuol proprio tutta l’islamofobia che ci appesta per non comprendere ciò che non è certo una sorpresa per chi conosca appena un poco la storia dei paesi maomettani; per non ricordare la lunga tradizione rivoluzionaria anticolonialista e antimperialista dell’islamismo: per dimenticare la lotta antinglese nel Sudan (1881-1899), condotta dal Mahdi («l’atteso», sorta di messia) Muhmnmad Ahmad con una confraternita paramilitare di tipo religioso diffusa soprattutto tra i contadini; o quella iraniana del 1891- 92, sempre contro l’Inghilterra, anch’essa promossa da religiosi: oltre ai contadini e al clero si muovevano i suk e i bazar rovinati dalla concorrenza occidentale. Espressione dell’antimperialismo di questi ceti «arretrati», fu al-Afghani (1849-1905), persiano sciita che si dichiarò afghano sunnita e teorizzò il panislamismo. E saranno proprio gli Ulema a cacciare lo scià e gli americani con lui… Passando all’Algeria, nel 1931 vi fu fondata l’”Associazione dei dotti musulmani” con lo slogan «L’Islam è la mia religione, l’arabo la mia lingua, l’Algeria la mia patria», divenuto corrente ai tempi della guerra di liberazione nazionale contro la Francia (pregasi riguardare il film “La battaglia di Algeri” di Gillo Pontecorvo, per vedere se erano o no “terroristi” quei combattenti). E si potrebbe continuare.
Né sarebbero dovute sfuggire le ragioni del perdurare e rafforzarsi delle correnti antimperialiste islamiche in seguito al riflusso e al fallimento del nazionalismo «laico», del nasserismo, del baathismo, ecc. Con il declino di questo nazionalismo, infeudato all’Unione Sovietica stalinizzata e incapace di realizzare un’autentica modernizzazione, si diffuse in tutto il mondo islamico, fra gli artigiani, i militari, gli insegnanti e il basso clero, il movimento dei “Fratelli musulmani”, fondato nel 1928 in Egitto con un programma di rifiuto globale di tutto ciò che rappresenta l’Occidente. Il suo fondatore, Hassan al-Banna (1906-1949), riformista, sosteneva che l’lslam, se fedele alle origini, aveva in sé la capacità di affrontare le sfide della modernità. Ma la maggior parte dei membri della “fratellanza musulmana” si riferirono alla dottrina di Sayyid Qutb (1906-1966), antesignano delle tendenze più estremiste, che attaccò come empi e asserviti all’imperialismo i regimi arabi usciti dalla decolonizzazione e ne predicò il rovesciamento. E non è un movimento islamista, Hamas, quello che – dopo il tradimento dell’OLP e di Al Fatha, e i vergognosi accordi di Oslo – tiene ancora alto le stendardo della lotta palestinese contro il sionismo?
Mille sono le sfumature, le correnti dell’Islam in generale e del radicalismo islamico in particolare, ed è assurdo attribuire a tutta questa multiforme elaborazione lo stigma della conservazione, quasi che tutto fosse apparentabile al dogmatismo saudita, puntello agli interessi degli emiri e sceicchi di origine “feudale”.
Se la religione è passata da rivoluzionaria a controrivoluzionaria in più occasioni, non solo è esistito anche il processo opposto, ma lo stesso destino appartiene al cosiddetto “laicismo”: passo avanti nella rivoluzione borghese europea, esso può divenire un potente freno al progresso storico dove e quando, invece di essere un’elaborazione autonoma, è stato – è il caso dell’Afghanistan e di molti altri paesi – importato o copiato dall’Occidente, e rappresenta perciò una forma di colonizzazione culturale e di conculcamento delle energie nazionali dei popoli emergenti. Ecco allora che le pose occidentalizzanti di molti governi e di certe classi possidenti del terzo mondo nascondono sovente borghesie o peggio clan compradori tenuti in piedi dalle potenze imperialiste, e la cultura degli uomini in giacca e cravatta, e delle donne coi capelli sciolti, i tacchi alti e la gonna corta, non è talvolta altro che il lubrificante culturale del “made in USA”, Japan o Germany, mentre le esaltazioni religiose della piccola borghesia e del contadiname possono riflettere, “in forma reazionaria” parafrasando Engels, il cemento interclassista della rivoluzione nazionale in quanto si contrappongono al tradimento di questa da parte delle classi filo- occidentali reazionarie e compradore.
Dietro il disprezzo di molti pretesi marxisti verso le forme ideologiche che esprimono i processi storici in corso nel mondo afro-asiatico si nasconde in realtà lo sciovinismo culturale dell’imperialismo, la sudditanza verso i valori “laici” dell’Occidente e l’opinione infantile che la minigonna sia un simbolo di libertà e che il mondo intero debba o possa seguire lo stesso percorso, finché, un bel giorno, col proletariato al potere, il mondo avrà il familiare aspetto delle mura domestiche.
Il pullulare di movimenti nazional-religiosi ha in Medio Oriente ed in Asia centrale una solida base sociale: Il contadiname è progressivamente disgregato dallo sviluppo di un’economia mercantile d’esportazione (monocoltura del cotone in Egitto, datteri in Irak, per es.). La sovrabbondanza di braccia che ne deriva, rendendo superfluo l’uso di macchine, ha effetti perversi: ostacola il decollo di un’industria nazionale e di un’agricoltura moderna; non permette perciò, se non localmente, lo sviluppo di un vero proletariato, sostituito da un semi-proletariato diseredato che lascia il posto nei settori chiave alla più qualificata manodopera estera; d’altronde l’industria del petrolio, la più avanzata, necessita di pochissimi addetti, e questi sono sovente stranieri. La piccola e media borghesia urbana cade in rovina: i suoi traffici e le lavorazioni artigiane cedono di fronte all’afflusso dei grandi capitali esteri (prestiti, ecc.) e all’invasione delle merci prodotte in serie dall’industria occidentale. I funzionari statali e i tecnici subordinati e meno colti si trovano soggetti ovunque alle nuove classi compradore, se non direttamente subordinati a manager o a personale specializzato straniero. La cultura nazionale, al pari dell’economia, è soffocata dall’influenza occidentale, “laica” e liberale: gli sceicchi e i Khan sempre più spesso vestono all’occidentale, e i loro rampolli passano la giovinezza all’estero studiando nelle università americane o europee, padroneggiano la lingua dei “neo-colonizzatori”, comprano SUV Toyota e BMW, portano il rolex e i rayban, fumano Marlboro, amano Van Gogh e Picasso, vanno in vacanza a Parigi, in Svizzera o a Londra, fanno shopping da Armani. Ciò che è più importante, per la loro cultura superiore mettono le mani su tutte le cariche importanti. Perfino le loro donne, non solo portano gonne corte o pantaloni, truccano gli occhi e la bocca come le loro amiche di New York o di Berlino, ma a loro volta, educate all’occidentale, penetrano nelle funzioni medio-alte dell’amministrazione statale e dei servizi. In una parola, mentre gli intellettuali piccolo borghesi, istruiti nelle scuole locali, in mano ai religiosi, in difficoltà con l’inglese e il francese, surclassati sul piano sociale, vedono nella cultura e nei valori dell’Occidente il nuovo Satana e ritornano all’Islam contro gli empi (uomini e donne emancipate che li schiacciano), nei bazar e nei suk monta l’odio sordo verso le merci occidentali. Per diverse ragioni, tutte queste classi, dal contadino all’operaio ancora semi-proletarizzato al mercante all’intellettuale (e tra gli intellettuali, i più numerosi e rappresentativi, gli esponenti del clero) trovano dunque nella rivendicazione dell’Islam, nell’odio verso l’Occidente e nella crociata contro la sua longa manus israeliana, un terreno di convergenza e un programma che le divide dalle oligarchie dominanti. È una miscela contraddittoria, in cui si trovano mescolate istanze radicali e istanze reazionarie. Ma è una miscela esplosiva ed è da decenni pressappoco la sola a dar filo da torcere agli imperialisti ed ai potentati locali.
Ricordiamoci le parole di Marx: non è importante ciò che una classe pensa di sé stessa, ma ciò che sarà obbligata a fare. Per estensione possiamo dire: non importa che l’islamismo si illuda di tornare alle proprie origini, non sarà questo il risultato dei movimenti che vi si richiamano. L’Iran sta a dimostrare che la teocrazia non ha impedito, ma anzi favorito, non solo lo sviluppo economico, non solo la dialettica politica (in Iran si vota, si discute, vi sono fazioni politiche – più o meno rigoriste, o “liberali” – che si contendono il potere, cosa impensabile ai tempi dello scià), ma persino la condizione femminile, malgrado lo chador, è notevolmente migliorata: il numero di figli per donna è crollato a livello occidentale, più della metà degli studenti sono donne, le donne lavorano, e così via. In altre parole, il paese, divenuto indipendente, si è imborghesito.
Che a muoversi siano élite come quella che ha espresso Bin Laden, rampollo di un’aristocrazia non più solo parassitaria, non più legata solo alla rendita petrolifera, bensì all’investimento produttivo di capitale e alla finanza internazionale; che siano guerriglieri come i membri delle frazioni armate palestinesi non più controllate da notabili come Arafat e dalla vecchia borghesia compradora, corrotta e compromessa con l’Occidente e con lo stesso Stato di Israele; che siano gli intellettuali islamisti oppure i militanti dei movimenti integralisti che allignano intorno alle moschee delle comunità musulmane presenti in Europa e negli Stati Uniti, è evidente che non ci troviamo di fronte ad un fenomeno marginale, bensì ad un insieme articolato di percorsi sociali e politici, i quali, in ogni caso, in tutta la loro contraddittorietà, dimostrano che il mondo arabo e islamico, dopo la ventata nazionalistica del secondo dopoguerra, dopo la nazionalizzazione del canale di Suez, il panarabismo di Nasser e la guerra di liberazione algerina, è nuovamente attraversato da spinte sovversive. Queste spinte, se spesso si incarnano in movimenti che restano minoritari, godono tuttavia di un largo consenso da parte delle masse, le quali, a loro volta, negli ultimi decenni, a partire grosso modo dalla «rivoluzione» iraniana, hanno a più riprese fatto sentire il loro peso: dai moti del pane in Siria, in Egitto, in Libano e in Algeria, all’Intifada, alle agitazioni islamiche e della Cabilia, alle “primavere arabe”.
Profonde differenze di sviluppo economico e sociale marcano questo vasto mondo, ben lontano da una maturità in senso capitalistico. E tuttavia, oltre che dal richiamo all’Islam – non univoco ma contrassegnato da divisioni, dall’esistenza di sette e tendenze anche opposte – quest’area immensa, che comprende centinaia di milioni di uomini, è accomunata dall’oppressione imperialistica. A questa rispondono, in modo differenziato, le varie classi e i vari strati, a seconda del quadro sociale più o meno avanzato di questo o quel paese. Da una parte stanno la vecchia aristocrazia imborghesita, ormai non più solo percettrice di rendite, ma di profitti da capitale produttivo che, come al-Qaida, preferisce l’azione di gruppi organizzati, anche compromessi in passato, in Afghanistan e nei Balcani, con i servizi segreti americani, relegando sullo sfondo le masse diseredate, di cui teme un movimento autonomo. Dall’altra parte abbiamo movimenti piccolo-medio borghesi o plebei, che si esprimono nei martiri che si fanno saltare in aria o in rivolte come i moti del pane. Dall’altra ancora abbiamo movimenti, come lo “Stato Islamico”, che non si propongono alcun programma di avanzamento sociale, e che tuttavia mettono in discussione i confini imposti dal colonialismo e si pongono in armi contro tutto lo statu quo.
Tutte queste componenti altro non sono che l’espressione di un generale risveglio nazionale del mondo arabo ed islamico: un risveglio contraddittorio, in cui le diverse classi sociali – alcune legate al passato precapitalistico, altre rivolte al futuro borghese e capitalista – entrano non solo combattendo contro il neo colonialismo e l’imperialismo, bensì tra loro stesse; ma proprio queste contraddizioni rispecchiano l’ampiezza e la ricchezza del processo.
È solo all’interno di questa cornice globale e di lunga durata che movimenti indigesti alle nostre sinistre come i talebani in Afghanistan, vanno studiati ed interpretati. Cercheremo di farlo nei prossimi articoli.
Il ruolo della questione nazionale nella storia
Avevo detto all’inizio di tenere a mente queste parole del IV Congresso del Comintern concernenti anche proprio i movimenti islamisti di allora: il movimento comunista “sostiene appunto qualsiasi movimento nazional-rivoluzionario contro l’imperialismo”.
Una notevole confusione esiste, anche all’estrema sinistra, tra rivoluzione democratico-borghese e formazione dello stato nazionale. Nel XIX e XX secolo, è ben vero, i due processi hanno viaggiato spesso in parallelo: l’indipendenza italiana e la riunificazione tedesca, per quanto moderate, si accompagnarono, se non all’introduzione della democrazia, quantomeno all’introduzione di costituzioni liberali. Analogamente, nel secondo dopoguerra, la “decolonizzazione” vide l’introduzione nelle ex colonie di misure e riforme democratico-borghesi più o meno radicali. Ma rivoluzione borghese, formazione dello stato nazionale e guerra di indipendenza nazionale non necessariamente coincidono: Francia e Spagna furono stati indipendenti e nazioni molto prima che vi avvenisse la rivoluzione borghese. Lo stesso può dirsi della Cina, che cadde poi sotto il tallone dell’imperialismo.
In Europa, il processo di formazione dello stato moderno coincide inizialmente con l’affermarsi dell’assolutismo monarchico contro il particolarismo feudale e prosegue con l’assoggettamento della nobiltà alla corona. È un processo di guerre, incluse guerre dinastiche e religiose, che iniziano perlomeno nel XIV secolo e si concludono nel XX. È anche un processo incompiuto dato che i Balcani e l’Europa centro-orientale sono ben lontani da una sistemazione ottimale. Al di fuori del “vecchio continente” la guerra di liberazione dell’Etiopia dal colonialismo italiano è stata attuata dal Negus neghesti (“re dei re”) Hailé Selassié, e l’unificazione ed indipendenza dell’Arabia Saudita sono state intraprese dalle classi aristocratiche e dalle tribù, alle quali del resto si deve la ribellione araba, appoggiata dagli inglesi, contro l’Impero Ottomano.
Questa manciata di esempi serve ad indicare la varietà e complessità dei processi di formazione degli stati nazionali, in molte aree del mondo ancora incompleti, segnatamente laddove – come nel Medio Oriente ad esempio – il colonialismo e l’imperialismo hanno imposto confini fittizi all’interno dei quali condannare ad una precaria convivenza gruppi etnici e religiosi conflittuali. I comunisti, ovviamente, parteggiano per le soluzioni più radicali e democratiche della questione nazionale, e ovunque possibile per una soluzione proletaria, come nella Russia zarista, col suo cumulo di problemi nazionali irrisolti. Essi dunque si riservano il diritto di criticare e combattere contro le componenti più retrive del movimento nazionalista, ma non chiudono gli occhi di fronte al fatto che, comunque vi si pervenga, l’indipendenza nazionale e la formazione dello stato nazionale (che, lo ripetiamo, non sono la stessa cosa) rappresentano risultati storici “progressivi”.
“La dominazione straniera inceppa il libero sviluppo delle forze economiche. Perciò la sua distruzione è il primo passo della rivoluzione nelle colonie: perciò l’aiuto dato alla distruzione del dominio straniero nelle colonie non è, in realtà, un aiuto al movimento nazionalista della borghesia indigena, ma l’apertura del cammino per il proletariato oppresso.”8
L’indipendenza è un requisito indispensabile della formazione – foss’anche in un futuro lontano – di uno stato nazionale, di un mercato nazionale, di una nazione moderna, e dunque del moderno proletariato. Anche laddove l’eliminazione del giogo straniero sia ottenuta da forze sociali e politiche che appaiano o siano legate al passato, essa abbatte uno dei principali ostacoli verso la modernizzazione. Che i passi successivi di questa si compiano “dall’alto”, alla maniera del Bismarck o dello zar Alessandro II, o dal basso, come nella “grande rivoluzione” francese o in quella russa, o da una combinazione di entrambe, sarà poi la storia a deciderlo. “Una nazione, uno stato”, e “autodecisione delle nazioni”, come Lenin non si stancherà di ribadire, sono anche direttive strategiche proletarie.
Il movimento proletario occidentale ha avuto ed ha una grande difficoltà a comprendere appieno il ruolo delle questioni nazionali nel mondo contemporaneo. Si possono citare in proposito i dibattiti all’interno dei bolscevichi, dove la tendenza dell’ “economismo imperialistico” (Radek, Bucharin, ecc.) negava tra le due rivoluzioni russe l’importanza del fattore nazionale in Europa (posizione analoga assumerà Rosa Luxemburg), con Lenin schierato sul versante opposto. Al nostro caso, quello dell’atteggiamento verso la questione afghana, si adatta meglio forse l’attitudine, presente nel movimento socialista della Seconda Internazionale, di negare l’appoggio della classe operaia dei paesi progrediti ai “barbari” movimenti di resistenza alla penetrazione coloniale, vista quest’ultima come storicamente progressiva.
La solidarietà alle lotte e guerre di liberazione, nel secondo dopoguerra, non mancò, ma poggiava su di un equivoco: l’idea che esse (come la Cubana, la Cinese, la Vietnamita, ad es.) fossero “socialiste” e non, come di fatto erano, movimenti democratico-borghesi in lotta per realizzare, non un impossibile “socialismo in un paese solo”, bensì un capitalismo nazionale autonomo. L’appoggio mancò invece quando, come con l’instaurazione della Repubblica islamica in Iran, si ebbe a che fare con l’ondata di rinascita islamista di cui abbiamo parlato sopra. Quanto alla lotta di liberazione dell’Afghanistan contro l’occupazione russa, essa, mentre raccolse il plauso di quanti sposavano la politica americana di contenimento dell’URSS, non raccolse a sinistra la minima simpatia, d’un lato perché combatteva contro un paese sedicente “socialista”, dall’altro in quanto i mojhaeddin si richiamavano in maggioranza all’Islam avversando le riforme moderniste introdotte dal governo filorusso (tra cui la tutela dei diritti femminili), dall’altro ancora perché erano finanziati ed armati dagli “amerikani” (con la k)9. L’avversione delle sinistre per la guerra di indipendenza nazionale afghana non mutò, ed anzi si aggravò ulteriormente, con l’arrivo al potere dei talebani, e durante la loro lotta contro l’intervento occidentale, e non è cessata fino ad oggi.
Anche se si riveste di nobili motivi quali la difesa dei diritti femminili minacciati dai talebani, è una posizione sciovinista.
Nelle note che seguiranno – affrontando la collocazione dei talebani in materia nazionale, agraria, dei diritti femminili, e sotto altri profili – proporrò una lettura “progressiva” del loro ruolo storico complessivo.
Note
1 Il Capitale, I/1, Roma, Rinascita, 1956, p. 93.
2 L’atteggiamento del partito operaio verso la religione, in Opere complete, vol. 15.
3 Mi limito a citare DAVE CROUCH, Les bolchéviks, l’Islam et la liberté religieuse, «Socialist Review», December 2003; HÉLÈNE CARRERE D’ENCAUSSE, Réforme et révolution chez les musulmans de l’empire russe, Paris, Presse de la Fondation Nationale des Sciences Politiques, 1966.
4 Alp Yenen, The other jihad: Enver Pasha, Bolsheviks, and politics of anticolonial Muslim nationalism during the Baku Congress 1920 https://scholarlypublications.universiteitleiden.nl/access/item%3A2976614/view
5 L’Internationale Comuniste et la libération de l’Orient- Le Premiér Congrés des Peuples de l ‘Orient – Bakou 1920, Editions de L ‘Internationale Comuniste- compte rendu stenographique, Feltrinelli reprint, 1967.
6 Il risveglio dell’Asia, Opere Complete, vol. 19
7 Tesi sulla questione orientale, in Aldo Agosti (a cura di), La Terza Internazionale Storia documentaria, I, 1919-1923, Roma, Editori Riuniti, 1974, p. 791.
8 Tesi supplementari sulle questioni nazionali e coloniali votate dal II Congresso dell’Internazionale Comunista – Mosca 1920.
9 La versione di sinistra del complottismo (che abbiamo altrove chiamato “cherchez la CIA”) attribuisce ogni avvenimento del mondo all’intervento occulto degli onnipotenti servizi segreti americani (e al Mossad). La cosa assume spesso aspetti surreali, come quando, nel momento stesso in cui Washinton era in guerra con lo Stato Islamico Siro-Iracheno, si continuava a martellare che i “tagliagole” dell’ISIS non erano che un creazione della CIA. Già lo si comincia a fare a proposito dell’Afghanistan, col fiorire di paradossali dietrologie secondo cui, ad es., sarebbero sottobanco gli stessi USA ad aver voluto la vittoria dei talebani (la prova sarebbe la liberazione del capo dei negoziatori talebani a Doha Abdul Ghani Baradar). Curiosamente, da questa condanna universale di collusione malefica con gli “amerikani” sono assolti i curdi siriani… Da qualche parte – si dice – dovevano pur procurarsi le armi… Ma già, dimenticavamo che nel Rojava è in corso, sotto l’ombrello del presidente Assad, un esperimento di “socialismo in una sola provincia”…
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