Circa Valérie Gérard, “Tracer des lignes: sur la mobilisation contre le pass sanitaire”
ott 6th, 2021 | Di Thomas Munzner | Categoria: Dibattito PoliticoCirca Valérie Gérard, “Tracer des lignes: sur la mobilisation contre le pass sanitaire”
di Alessandro Visalli
Un interessante dibattito rimbalza sulle colonne di “Sinistra in rete”, attraverso una confutazione sulla quale torneremo[1], muovendo da un libricino[2] disponibile in rete della filosofa francese Valérie Gérard. La Gérard si interroga sulla natura di quel movimento che ogni sabato batte le strade francesi contro il pass sanitario e che apparentemente ha preso la staffetta lasciata dai Gilet Gialli. La tesi della filosofa è che per giudicare un movimento non bisogna tanto prestare attenzione alle idee, quanto ai discorsi ed alle pratiche concrete. Ovvero agli atti ed agli affetti che mette in campo.
La tesi è quindi che il movimento in oggetto ha un segno diverso da quello dei Gilet Gialli, e per alcuni versi opposto (con tutto che alcuni leader dei GG sono presenti). Si tratterebbe infatti di un movimento individualista e iper-liberista. In sostanza la mobilitazione contro il pass sanitario, e contro la “società del controllo”, si muoverebbe in continuità con ambienti che la nostra non esita a chiamare di estrema destra o segue promotori disonesti di trattamenti inefficaci, no-vax, complottisti[3]. Un elemento che seduce la sinistra radicale è la critica del controllo sociale sicuritario, oltre, ed è un altro tema, il tentativo di non lasciare la piazza. O, come scrive, la pretesa di essere l’avanguardia illuminata che guida quelli che non sanno quel che fanno.
Quel che la preoccupa “sono le linee di forza che acquisiscono importanza nel campo politico e quello che questo movimento costituisce e prefigura”. E la diagnosi è impietosa:
“Quello che viene affermato è la libertà dell’individuo contro gli altri, la libertà di essere contaminato e incidentalmente di contaminare gli altri, ma anche quello di lasciare che il virus circoli, col rischio delle mutazioni e dunque di divenire più pericoloso e di far durare più a lungo l’epidemia e le restrizioni – e anche la disgregazione sociale – che le sono ovviamente legate. È una libertà puramente egocentrica per la quale il mondo può anche finire, ma le libertà puramente individuali non devono essere toccate. Sono degli individui-monadi autarchici, imperi in un impero, e quello che accade agli altri non gli interessa minimamente. È un discorso radicato in una visione spenceriana della società in cui la gente sana, con delle buone difese immunitarie, sopravviverà e tanto peggio per gli altri”.
Oppure si può anche riconoscere che alcune provenienze sono connesse ad una naturopatia che non è radicata solo nelle posizioni della sinistra (come ingenuamente si pensa), quanto anche della destra radicale. Anche qui si fa strada una posizione che suona più o meno così: “se io da sempre mi prendo cura di me non posso permettere che per colpa di altri (o per altri) una sostanza estranea entri dentro di me”. Una posizione che, al di là dell’eventuale realtà o adeguatezza, suona eticamente e politicamente irresponsabile. In sostanza si dice che se io sono in forma ed ho una (presunta) buona immunità (perché sono aderente alla ‘natura’) allora mi posso chiamare fuori. Che gli altri pensino a sé, fatti loro. Come scrive: “Non si tratta in nessun caso, ai loro occhi, di pensare a una forma di risposta collettiva contro la pandemia (mentre è evidente che la risposta non può che essere collettiva). Dell’idea che ci si prenda tutti e tutte la responsabilità di farsi vaccinare (e applicare delle misure serie per frenare la pandemia), di fermare insieme, in modo solidale, la circolazione del virus, non ne vogliono neanche sentir parlare”.
Qui la questione non è di prova scientifica (che nessuno è in grado di discutere con la necessaria competenza, se non scegliendo la ciliegia del principio di autorità che conferma i propri orientamenti), ma di preferenze per delle relazioni. E quindi la preferenza che delimita la scelta della Gérard è quella per il modo di vivere e legarsi agli altri, quindi “una preferenza per un mondo in cui si è solidali gli uni con gli altri per far fronte a un pericolo, a un virus, più che per uno in cui si lascia ciascuno a vedersela da solo con la sua pretesa natura o la sua fortuna, le sue eredità o capitali sociali”.
La potenza che si manifesta nel movimento rinvia al contrario alla distruzione di ogni solidarietà, ad un immaginario politico ultra-liberale ed anti-egualitario. Anche i pochi che cercano di far sentire la propria voce su agende più condivisibili, per la sanità pubblica, per la vaccinazione obbligatoria in categorie a rischio primario (e diffusa nel terzo mondo), per la revoca dei brevetti, non danno il tono al movimento. Che resta offuscato dalle grida per la ‘libertà’, per ‘la libera scelta del proprio corpo’, etc. Preso interamente in una enorme confusione e caos (che riconosceranno tutti gli autori che qui leggiamo) che fa uso di volta in volta delle citazioni del “biopotere”, applicato fuori senso per misure di mutua protezione (qui la nostra cita Agamben), o dalla ripresa delle posizioni di Raoult (che la nostra chiamar direttamente “impostore” e “manipolatore”). Un movimento nel quale è finito per passare, per essere accettato, che “la resistenza al sistema, al potere, allo Stato, al governo, si allei col covid-scetticismo” e nel quale “si è fatto troppo poco per separare le due questioni, quella della resistenza all’indurimento autoritario del regime e quella della protezione reciproca da organizzare collettivamente, per combattere insieme il virus e proteggersi a vicenda”. Vedremo nell’ultimo intervento che l’intera esistenza di un “noi” che si dovrebbe difendere è negata in radice.
Per l’autrice, invece, si poteva combattere ad un tempo Macron e il virus. Il presidente francese, come i premier italiani, non ha infatti investito abbastanza su scuola e trasporto, ha manifestato carenze nelle politiche di vaccinazione, nei controlli negli aeroporti e nelle procedure di accesso al paese, ha prodotto un’azione piena di contraddizioni e insufficienze. Ma un punto bisogna tenerlo fermo: “Il campo di forza costituito dal movimento attuale non è né egualitario né emancipativo. Prospera sulla confusione. Per questo è tanto più importante tracciare delle linee chiare”.
Questa posizione molto netta, e con toni anche qui e là problematici, viene commentata con favore da Marcello Tarì[4] e con sfavore da Michele Garau.
Il primo a tutta evidenza parla da una posizione più radicale e segnala la disgregazione e sconfitta del senso di direzione e comunanza di quel movimento che nel finire degli anni novanta si riunì sotto le bandiere “no global”. Chiarisce “l’esplosione, dispersione e dileguamento di quel Noi reticolare che, seppure non ha sconfitto il capitalismo, quantomeno era apparso potesse essere la base a partire dalla quale «vivere e lottare»”. E con essa anche l’inevitabile decomposizione di tutti i “noi”, per quanto piccoli, che erano sorti intorno a questa prospettiva (che aveva raccolto, per un breve attimo, gli orfani della lotta di classe).
Precisamente questa confusione produce l’ambiente nel quale il concetto di libertà è slittato, anche nella sinistra radicale, dal “noi” (che si è perso) all’ “io”. Cioè che ha finito per ancorarsi a ciò che “il so”, “io voglio”, “io giudico”.
Dunque:
“dagli insorgenti di Capitol Hill a quelli che assaltano i centri di vaccinazione in Francia, la tendenza emergente è che quegli Io si aggregano e formano delle folle compatte le quali inclinano naturalmente verso pulsioni anarco-fasciste. Sarebbe ingenuo credere sia una novità dovuta a questo momento storico costituito dalla pandemia ma, come sempre quando si tratta di storia delle mentalità, era qualcosa che era già qui da tempo e a cui l’evento pandemico ha dato la possibilità di riconoscersi e mostrarsi a cielo aperto. Nello stesso identico modo in cui la pandemia ha permesso che strumenti tecnologici per la produzione-consumo-controllo individualizzanti, anch’essi già presenti da tempo nelle nostre abitazioni e nelle nostre tasche, cioè installati nella nostra mente, abbiano ricevuto una nuova coerenza logistica che permette ai governi e alle corporation di fare un «salto di qualità». Gli uni sono lo specchio degli altri, ovvero gli uni sono funzionali agli altri, avendo come base comune il delirio monocratico dell’Ego. Spirito dell’Io e spirito della Tecnica, unificati nel capitalismo apocalittico, costituiscono un dispositivo diffuso, un gas atmosferico attraverso cui spira e regna lo «spirito di questo mondo», spirito della separazione e dell’angustia”.
Si tratta, dunque, di un concetto angusto di libertà che è penetrato anche nel campo che dovrebbe opporvisi. Persa la prospettiva anticapitalista comune, smarrito il “noi”, è restato solo lo “stare bene, padrone della mia vita”.
Questo è il senso letto nell’articolo della Gérard e rimarcato da Tarì:
“il suo puntare una cruda luce sul fatto che lo sfondo ideologico e le pratiche di quel movimento non hanno nulla di emancipativo o liberante, nonostante gli sforzi di quelli che cercano di portarvi un discorso contro il controllo sociale, ma che è un exploit sostanzialmente ultra-liberista, dove ciò che conta è solo il mio desiderio, la mia salute, la mia scelta, il mio corpo, la mia libertà, la mia festa, la mia vita e, al limite, la mia piccola cerchia. Gérard è chiara e tagliente: si tratta in fin dei conti della libertà feroce di un Io, alleato ad altre individualità che si immaginano vere, forti e vincenti, usata contro i più fragili. Il problema è che questi Io, pochi o tanti che siano, sono all’offensiva”.
Questo è un punto da scolpire: “libertà feroce di Io, alleati ad altre individualità che si immaginano vere, forti, vincenti” e che, per questo, rifiutano qualunque per quanto minimo sacrificio. Gli altri se la cavino da soli.
Per Tarì, insomma, anche se il testo della Gérard “non è abbastanza antagonista” solleva una questione vera. Il taccheggiare, l’assecondare la confusione e dare spago a “una massa di narcisi egoisti truccati da anti-sistema”. Quindi, alla fine, “Quello che resta del campo antagonista o alternativo davanti all’evento maggiore di quest’epoca balbetta, non sa bene che dire né che fare e quello che fa e dice spesso lo fa e dice male, cercando di darsi delle ragioni per essere presente o assente. Capisco che non sia facile, comprendo il balbettamento e anche gli errori. Sono in gran parte anche le mie difficoltà, il mio balbettamento e i miei errori, ma detesto l’ipocrisia, l’ambiguità e la furberia”.
Quella di chi non sa distinguere tra chi esprime in sostanza una “adesione piena all’individualismo ultrà” che domina sulla scena. Chi immagina l’intera realtà come nemica, malvagia e rivolta contro se stessi. Chi ha una visione chiaramente paranoico-ossessiva (così la definisce) che vede solo biopotere, apparati securitari, potere medico, occulti centri di controllo e masse di stupidi che rifiutano la ‘verità’.
“È come se un brutto sogno notturno assumesse al risveglio la dignità di manifesto politico del giorno. I concetti che per un periodo hanno costituito l’armatura di un discorso antagonista all’ordinamento del mondo, che sono stati usati per comprendere il presente, vengono così banalizzati e stravolti in una ideologia bipartisan i cui aderenti, per essere davvero coerenti, dovrebbero onorare Trump e Bolsonaro come i veri padri nobili della “nuova resistenza”; quelli infatti se ne sono sempre fottuti tanto dei vaccini che di tutto il resto. Per contro, in tale visione totalizzante, non esistono i morti, i malati, i deboli, i poveri, gli ultimi, i Sud del mondo. O comunque non contano nulla nella mia lotta contro lo sfregio alla mia libertà”.
Infine, sulle stesse colonne Michele Garau ha una posizione del tutto opposta, ed è quella riportata da “Sinistra in rete” (che ha evidentemente scelto la parte in cui stare). Garau parte da un preambolo nel quale riconosce che l’intero dibattito collassa e si polarizza mischiando piani sanitari, tecnici, politici ed epidemiologici in un modo che si interseca con la questione diversa delle potenzialità conflittuali delle proteste in corso. Il piano della critica scientifica è rigettato dall’autore, che in proposito ricorda la presa di posizione contro Illich dello stesso Foucault[5]. Non si può criticare una formazione di sapere assumendone linguaggio e categorie, ovvero immettendosi nel suo proprio campo di interrogativi e di competenze tecniche. Si fa inevitabilmente la figura del dilettante o del ‘raccoglitore di ciliegie’[6].
La domanda è quindi:
“È possibile schivare questo rischio? È accettabile individuare un campo di battaglia nel progetto di manipolazione e mappatura del vivente, di raccolta di dati biologici e quadrillage poliziesco che il dispositivo del passaporto vaccinale porta con sé, senza per questo entrare nel merito dell’efficacia sanitaria del vaccino, ma soprattutto delle alternative più o meno credibili al suo utilizzo? È legittimo criticare il modo in cui l’emergenza è stata affrontata, compreso il perseguimento della campagna vaccinale come assoluta panacea, l’ospedalizzazione sistematica a discapito di qualsiasi cura domiciliare, senza perdere la lucidità rispetto alle dimensioni del problema? Si può, inoltre, guardare con interesse al conflitto sul passaporto sanitario in termini politici, di sintomo epistemologico e di rifiuto della presa delle istituzioni, mediche ed economiche, sui corpi, andando oltre il linguaggio della medicina?”
Evidentemente Gérard propone come criterio alternativo l’affinità verso le ‘forme di vita’ elette, l’intesa sulle visioni dell’esistenza, il “fondo antropologico”. Una posizione che Garau non può accettare completamente. Per lui si tratta, al contrario, di accettare il rischio di frammentarietà, di balbettamento, ma non esimersi completamente dalla critica verso il complesso delle tecniche e dei registri scientifici, e relativi apparati. Criticare quindi, malgrado il rischio di incomprensione, la politicità intrinseca, la decisionalità, le caratteristiche di strategia e comando, proprie della razionalità scientifica come ‘istituzione’.
Anche se l’autore non crede che questa mobilitazione darà una scossa e che avrà carattere di permanenza e lungo respiro, purtuttavia resta legato ad un principio metodologico che enuncia così: “un conflitto non si giudica dagli enunciati iniziali dei suoi soggetti, dalla loro identità. Un principio metodologico semplice che è soggetto a brusche oscillazioni e non fornisce garanzie, quello di privilegiare il divenire degli eventi rispetto alla sostanza dei ruoli, delle etichette, del calcolo sociometrico”. Un principio chiaramente e radicalmente anti-marxista, di evidente matrice anarchica (per chi conosce le famiglie ideologiche del novecento).
Se, quindi, il nostro ammette tranquillamente che “in gran parte il profilo delle persone che scendono in strada sia lo stesso, con la medesima costituzione antropologica «ultraliberale» ed un’analoga e spuria visione del mondo”, e quindi resta sempre il rischio di “essere travolti dal fango”, purtuttavia rifiuta di squalificare gli elementi di verità presenti (la riduzione dei corpi a fondo e mappatura dei dati[7]), sulla base di un mero “giudizio antropologico”.
Ricapitoliamo:
Garau non mette affatto in discussione il “giudizio antropologico” di iper-liberismo, lo accetta per vero, ma nega che questa diagnosi debba guidare l’azione. Perché lo nega? Il motivo è semplice e netto, e lo scrive molto bene: “In quanto al progetto di difendere o ricucire il legame sociale, resto convinto che il gioco delle forme di vita, il loro conflitto e la loro composizione come sola essenza di un agire etico, passi dalla sua distruzione e frammentazione”. Quel che vuole produrre è quindi, ed anche nel mezzo di una pandemia, una “secessione” e uscita dalla civiltà presente; intende arrivare ad un “fuori esistenziale e politico”. E, per questo, per lui bisogna ammettere che questa prospettiva “non si può intravvedere da nessuna altra parte che in desideri e immaginari che sono, da principio, ‘ultraliberali’.”
La posizione è quindi compiutamente e consapevolmente anarchica (e probabilmente di un anarchismo ‘accelerazionista’): “L’elaborazione di un tipo di «libertà comunista», irriducibilmente altra dal presente, non sta in nessun’osservanza della responsabilità sociale, in nessun piegarsi in sacrificio alla collettività come norma universale”, e quindi viene indicato chiaramente l’avversario, ovvero “i bizzarri rigurgiti socialisti di quei compagni che delirano di vaccini come «bene comune» o atto d’amore verso la comunità”.
Il suo romanticismo (direi piccolo-borghese, ma qui mi perdonerà) scaturisce dalla motivazione di questa scelta, che segue immediatamente: “fare una manifestazione selvaggia, anche solo per chiedere di tornare alla vita di prima, per rivendicare la mera e individualistica riproduzione materiale – tra lavoro e consumo – è comunque una condizione per esperienze più vive ed autentiche della semplice obbedienza”. Si ricollega quindi ed infine alla esperienza piazze contro il lock down, anche se il programma non era generalizzabile, se rasentava l’egoismo. Lo rivendica.
Gramsci, nel 1919[8], scriverà che gli anarchici, in sostanza, “puntano a ridurre tutto ad una avventura romantica”. Non potrebbe essere più chiaro.
L’autore conclude, infatti:
“è sempre bene tenere a mente che nessuna nuova idea di libertà verrà impressa dall’esterno a questa condizione. Mentre cortei selvaggi e disordini estemporanei animano le strade della mia città, mentre ministri ed organi di informazione agitano minacce estremistiche, convocano il pericolo terroristico per un tirapugni ed il cazzotto (sacrosanto) ad un giornalista, mi pare che l’ultima cosa da fare sia tracciare le linee sbagliate. Ammettere di balbettare, di essere interdetti di fronte alla realtà e di faticare a prendere posizioni chiare, come mostrano queste righe scritte malvolentieri, mi sembra una migliore soluzione. E se in questa confusione la linea che delimita un punto credibile da cui pensare e attaccare non è stata forse ancora disegnata, è certo che passerà più probabilmente tra i farfugliamenti inarticolati dei tumulti, con tutti i loro pericoli e le loro scorie (anche con i loro deliri) che in mezzo alla tiepida saggezza di chi resta ben allineato”.
Se poi, mentre il nostro amico si sente vivo ed autentico, mentre sperimenta, farfuglia, accetta i deliri, qualcuno muore (magari qualche inutile vecchio come Sepulveda) non fa niente. L’importante è sollevare la “forza anonima che mina il legame sociale”, scontandone gli effetti antisociali, irresponsabili e particolaristici dai quali muove. L’importante, lo dice chiaramente, è distruggere il “patto sociale”.
Ovvero, come cita:
“L’oscuro spettacolo delle rivolte del 2011 aveva un aspetto stranamente conformista, e il focus sul saccheggio dei beni di consumo indica l’enorme potere dell’immaginario consumistico e l’uniformità ideologica del periodo neoliberale contemporaneo. Quelli che si sono rivoltati non erano gruppi politicizzati che lottavano per un mondo più giusto ed equo. Non hanno fatto richieste a chi era al potere, e non erano in possesso di una visione ideologica di un percorso storico nuovo e progressivo. Consapevolmente, non volevano cambiare nulla. Erano sussunti dall’avventura esperienziale della rivolta e, per quanto riguarda i saccheggi, volevano quello che potevano. Inconsciamente, volevano cambiare tutto ciò che riguardava il loro essere-nel-mondo”[9].
Dunque, direi che siamo perfettamente d’accordo, tutte queste sono mobilitazioni neoliberali e non vogliono cambiare nulla.
Ma, dico, per questo non basta il capitalismo?
Di sicuro a me basta per sapere dove stare.