L’operaismo. Un’antifilosofia della storia

set 28th, 2021 | Di | Categoria: Contributi

L’operaismo. Un’antifilosofia della storia

Giulia Dettori e Andrea Cerutti si concentrano sugli anni Cinquanta di Mario Tronti, la fase cioè in cui pone le fondamenta della sua riflessione teorica e politica. È il periodo in cui il futuro autore di Operai e capitale fa i conti con la tradizione del marxismo italiano e con la sua impronta idealista, con Gramsci e con la categoria di nazionale-popolare. La polemica con lo storicismo e con la linea Croce-Gramsci-Togliatti rappresenta un passaggio necessario per mettere al centro la negazione senza sintesi del capitale, il rifiuto ad asservirsi alla dialettica progressiva, la rottura. E per aprire Marx all’uso del grande pensiero conservatore. Per dirla con gli autori dell’articolo: «pensiero della crisi + marxismo = operaismo».

Che la fede illuministica nel progresso sopravviva in modo quasi ostinato – nonostante le leggi dell’evoluzione abbiano dimostrato che è piuttosto l’interazione, tanto complessa da risultare sconvolgente, tra casualità e adattamento a permettere la sopravvivenza per un certo lasso di tempo – è forse da imputare alla facile attrattiva di un tempo storico lineare e smodatamente ambizioso e alla sua analogia con la scrittura lineare delle culture occidentali. In considerazione di questo è fin troppo semplice trarre l’erronea conclusione naturalistica che tutto ciò che esiste, benché le istanze divine abbiano perso ogni significato, sia frutto di una volontà e abbia un senso. Nella sciocca eppur dominante fantasia di un’evoluzione inarrestabile, l’unica utilità del passato consiste nel sottomettersi al nuovo e nell’immaginare la Storia – sia quella della propria vita, sia quella di una nazione o del genere umano – come un progresso ineluttabile, e comunque non casuale. Tuttavia è dimostrato che la cronologia, l’assegnazione di numeri progressivi per ciascun nuovo arrivo, nella sua logica impotente, rappresenta, come ogni archivista sa, il meno originale di tutti i principi organizzativi, dato che si limita a simulare l’ordine.

 (Judith Schalansky, Inventario di alcune cose perdute)

Nel contesto del processo di destalinizzazione che segue all’«indimenticabile» 1956, con il progressivo affacciarsi in Italia di nuove forme di dominio capitalistico, caratterizzate da fenomeni di razionalizzazione e pianificazione, e dal sorgere di dibattiti sullo statuto teorico del marxismo italiano e sulla sua efficacia nell’interpretare queste profonde mutazioni, Mario Tronti, allora studente universitario di filosofia e membro della cellula giovanile del Pci, inizia a porre le fondamenta della sua successiva riflessione teorica e politica.

Di lì a poco sarà la svolta operaista. Per comprenderne la genesi è quindi fondamentale soffermarsi su quel delicato periodo storico, che va dal ’56 al ‘61, in cui viene attaccata dal punto di vista teorico la tradizione marxista italiana, dunque il marxismo come storicismo. Il ’56 rappresenta uno snodo cruciale:

«non c’era posto per bamboleggiamenti narcisistici o per le analisi dell’inconscio in quell’anno 1956, almeno su quella tormentata scena del mondo che era il movimento comunista internazionale. La grande crisi politica scatenò una grande crisi culturale. A poco a poco nella successione drammatica degli eventi, dal XX Congresso del Pcus, con relativo rapporto segreto, fino all’insurrezione e repressione ungherese, tutti i conti tornavano, magari al rovescio. Il ceto politico togliattiano si muoveva con passi felpati dentro le contraddizioni del sistema sovietico, volgarizzando per l’occasione l’anti-Croce gramsciano: un po’ più dialettica dei distinti, un po’ meno dialettica dei contrari. Noi eravamo giovani e liberi: volevamo, alquanto ingenuamente, il chiaro al posto dell’oscuro e ci veniva offerto un pur intelligente chiaroscuro. Fu il primo – sofferto ma deciso – «no» alla dirigenza del partito. Proprio perché non avevamo partecipato alla lotta, anzi alla guerra, antifascista, quel legame di ferro con la patria del socialismo non era diventato per noi una ragione di vita. E la guerra fredda la vivevamo da militanti, come «scontro di civiltà», non come conflitto per la spartizione del mondo» [1].

Nel 1958 Tronti partecipa al primo convegno di studi gramsciani promosso dall’Istituto Gramsci, mentre nel 1959 pubblica un contributo per il volume collettivo La città futura. Saggi sulla figura e il pensiero di Antonio Gramsci. In questi due interventi, intitolati rispettivamente Alcune questioni intorno al marxismo di Gramsci e Tra materialismo dialettico e filosofia della prassi: Gramsci e Labriola, viene proposta una lettura fortemente critica del retroterra idealistico e storicistico della tradizione marxista italiana.

Per Tronti si tratta di un paradigma lontano dall’originale pensiero marxiano, formatosi in Italia alla fine dell’Ottocento, a partire da Labriola, per passare attraverso l’interpretazione di Benedetto Croce, Giovanni Gentile, Rodolfo Mondolfo sino a Gramsci e ai Quaderni del carcere, dove tutto questo materiale, sedimentatosi negli anni, trova una definitiva sistematizzazione. In quest’arco di tempo prende appunto forma una peculiare tradizione marxista, il cui tratto originale è racchiuso nella formula «filosofia della praxis»:

«ebbene, noi vediamo che tutto il dibattito intorno al marxismo, in Italia, conclude proprio a questa definizione. Il termine non va concepito, dunque, come un altro nome che viene dato al marxismo, ma come un’altra interpretazione che viene data del marxismo. Dietro la diversa definizione sta un diverso contenuto del pensiero» [2].

Questo diverso contenuto di pensiero è dovuto al fatto che la filosofia italiana, tra Ottocento e Novecento, si è sviluppata, principalmente, lungo due linee: da un lato quella che ha inizio con la diffusione del pensiero di Hegel in Italia e, soprattutto, con l’operazione di decomposizione e ricomposizione del suo sistema filosofico avviata da Bertrando Spaventa e rimodulata poi, con accenti diversi, da Gentile e Croce; dall’altro, la linea di pensiero formatasi nello stesso arco di tempo dall’incontro della filosofia italiana con il marxismo e con la traduzione di questo incontro nella filosofia della praxis.

«Marx è dunque alle origini dell’idealismo italiano. E se per un verso lascia un’impronta ben visibile sullo sviluppo di questo pensiero, per un altro verso ne viene da esso radicalmente improntato. In Italia non è stato soltanto Marx a civettare con Hegel; ma anche Hegel a civettare con Marx. Conclusione: abbiamo avuto un Hegel tendenzialmente marxiano e un Marx decisamente hegeliano» [3].

Cosa resta di Marx a questo punto? Quasi niente:

«se il marxismo è stato solo un tentativo, parzialmente riuscito, di rivedere e aggiornare, di riempire e di concretare la filosofia hegeliana, allora, una volta che è stato esperimentato ed è pienamente riuscito un nuovo e diverso tentativo, il marxismo ha assolto alla sua funzione storica e può ben considerarsi una cosa del passato. Prima si fa gravitare tutto Marx intorno a Hegel, poi si toglie Hegel dal centro e si dice: vedete che Marx non riesce a girare da solo […] Il marxismo come “filosofia della prassi” è ciò che rimane del marxismo, dopo che è stato liquidato dall’interpretazione idealistica» [4].

Gramsci, con la filosofia della praxis, vuole capovolgere e trasformare il marxismo in uno storicismo e in umanesimo finalmente assoluti e superare, così, sia il materialismo storico di matrice engelsiana sia l’idealismo italiano, in quanto ancora imbrigliato in quegli elementi teologici e metafisici che separano il momento teorico dal momento pratico e offrono una soluzione speculativa al problema del rapporto tra economia, politica e storia. Tale tentativo rimane però, secondo Tronti, invischiato in quella dialettica hegeliana che pure vorrebbe superare. In altre parole, Gramsci si smarrisce proprio per quel suo carattere tipicamente italiano, che gli impedisce di risalire oltre un marxismo già all’origine improntato di hegelismo e idealismo:

«non basta rovesciare la prassi degli idealisti per far camminare correttamente la storia; così come non basta rovesciare la dialettica di Hegel per ritrovare il senso giusto nel movimento della realtà. Non basta riempire la prassi per rendere reale la storia; così come non basta concretare la dialettica per rendere storica la realtà.» [5]

A questo punto, lo sforzo gramsciano di ripercorrere la linea genealogica Labriola-Croce-Gentile, per approdare all’autentica filosofia del marxismo, deve essere, secondo Tronti, messo da parte perché quella linea, fatta propria dal Pci togliattiano, è ormai compromessa con una filosofia, quella idealistica e storicistica, che in Italia ha finito per affermarsi come filosofia nazionale.

Il nuovo compito per i militanti comunisti è allora quello di deviare radicalmente da questa linea ormai consumata per ritornare a Marx attraverso un’altra via, quella del marxismo come scienza, su cui stanno lavorando in quegli anni Galvano Della Volpe e i suoi allievi, in particolare Lucio Colletti:

«l’obiettivo di Gramsci, di trovare una filosofia originale del marxismo, che fosse altrettanto lontana dall’idealismo e dal positivismo tradizionali, era legittimo. Ma esso non è stato raggiunto. La soluzione si muove nell’ambito del primo indirizzo. E oggi ci troviamo a formulare lo stesso problema; l’esigenza di un marxismo che sia altrettanto lontano dalla filosofia della prassi e dal materialismo dialettico: che non si riduca a una metodologia puramente tecnica del sapere e dell’agire umano, e che non pretenda di concludere in sé una metafisica totale e definitiva; un marxismo che si ponga, con semplicità, come scienza» [6].

Sulla scia delle critiche espresse da Della Volpe alla lettura storicistica di un Marx in continuità con Hegel, Tronti esalta la rottura tra i due, poiché Hegel non ha bisogno di essere concluso e aggiornato attraverso Marx. Egli è anzi già la conclusione e, più precisamente, è proprio la conclusione che Marx rifiuta[7]. Se Hegel infatti porta a compimento l’idealismo, Marx inaugura un nuovo capitolo della storia del pensiero, distaccandosi progressivamente dalla dialettica e dalla filosofia hegeliane. La sua teoria, al contrario di quella di Hegel, demolisce le visioni totalizzanti e mira a scardinare le costruzioni ideologiche per ricondurre la comprensione storica ai rapporti materiali di produzione che intercorrono in una determinata formazione economico-sociale.

Per Tronti il marxismo deve essere scienza e non filosofia:

«certo che noi dobbiamo rivendicare la novità, l’originalità, l’autonomia del marxismo. Ma le novità del marxismo nei confronti di ogni altra filosofia, consiste nel non porsi più come filosofia. La sua originalità consiste nell’opporre alla filosofia la scienza, anzi nel concepire la propria filosofia soltanto come scienza, come «concezione specifica di un oggetto specifico»; la sua autonomia consiste nel concepire il proprio metodo di indagine autonomo, in generale da tutta la vecchia filosofia speculativa, e in particolare dalla filosofia speculativa hegeliana che aveva concluso e inverato tutta la vecchia filosofia, in virtù di quel suo logico procedimento che ripeteva l’oggettivo procedimento, cioè il concreto metodo storico, economico, politico, giuridico, della formazione economico-sociale capitalistica, della società borghese moderna» [8].

La strategia di Togliatti, incardinata sulla filosofia italiana, più attenta alla questione meridionale e al concetto di nazionale-popolare che allo sviluppo della classe operaia nelle grandi fabbriche del nord, più interessata alla mediazione politica e istituzionale che al conflitto sociale, alla democrazia progressiva piuttosto che alla rottura rivoluzionaria, aveva esaurito, alla fine degli anni Cinquanta, la propria funzione progressiva. Il Pci non sembra in grado di «afferrare» la contingenza, di capire ciò che di nuovo si affaccia nella struttura sociale, nei luoghi di lavoro, nelle forme del dominio capitalistico. Soprattutto, munito di quegli arretrati strumenti teorici, non riesce a comprendere come la grande trasformazione della realtà produttiva e sociale italiana determini un nuovo soggetto antagonista, la classe operaia, protagonista di nuovi comportamenti di ribellione e di insubordinazione nei luoghi di lavoro.

Il periodo in cui Tronti scrive i due saggi sulla tradizione marxista italiana coincide, infatti, con lo scoppio di una serie di scioperi in fabbrica che svelano una soggettività già tutta politica volta a rovesciare i rapporti di forza esistenti saltando le riforme graduali di struttura mediate nell’alveo della democrazia progressiva dal partito e dal sindacato. Vi è quindi un filo diretto che lega tra loro gli studi su Gramsci e sulla tradizione marxista italiana alla successiva fase operaista. Esso rappresenta il tentativo di sganciarsi dallo storicismo e dalla categoria di nazionale-popolare per volgersi all’analisi della classe operaia e preparare il bagaglio di armi concettuali e di strategie per lo scontro con il capitale.

L’esito cui giunge la riflessione di Tronti all’inizio degli anni Sessanta, influenzata come si è visto dal dibattito sul rinnovamento del marxismo teorico in Italia e dalla messa in questione del gramscismo e del togliattismo, è la riattivazione di categorie teoriche marxiane come strumenti di analisi di classe e di intervento diretto nelle lotte operaie, che nella fase operaista si declineranno prima nella riscoperta della fabbrica come luogo dello scontro diretto tra operai e capitale e poi nella rivoluzione copernicana e nella teorizzazione del punto di vista di parte.

Peraltro, la critica radicale allo storicismo non solo prepara il campo all’operaismo ma crea una segreta connessione – poi sempre più evidente – tra quest’ultimo, soprattutto nella versione trontiana, e la grande tradizione del pensiero della crisi. Da Burkhardt a Nietzsche, da Weber a Benjamin: conservatori e rivoluzionari, non importa, accomunati da una medesima visione antistoricista. Vista da questa prospettiva la storia appare un campo di forze in conflitto, i cui fatti non possono essere ordinati in modo finalistico. Da un punto di vista scientifico, quindi lucido e realista, la storia appare come la confutazione empirica di qualsiasi ordinamento morale del mondo; se ne ricava che non esiste alcuna legge della storia, nessun senso provvidenziale e che l’idea di progresso è semplicemente priva di fondamento.

«Quando si dice storia si dice […] le classi, le nazioni, gli Stati, le razze, le religioni, e i conflitti che si scatenano, le prospettive immaginabili che si aprono, le strade percorribili che si chiudono, i tentativi, gli esperimenti, i fallimenti, ma anche i successi, gli sviluppi, i salti, in mano a forze, potenze, che trovano di fronte a sé difese, resistenze, e cioè potenti contro-forze, con cui il rapporto si decide o sul tavolo della trattativa o sul campo di battaglia» [9].

Dunque, pensiero della crisi + marxismo = operaismo.

L’attacco allo storicismo, contenuto in quei primi interventi di Tronti, costituisce il tentativo di portare il marxismo fuori e lontano dall’asfittica e provinciale ideologia italiana. La classe operaia non può e non deve essere pensata come la portatrice di una missione storica universale, il suo compito semmai, nell’ordine profano del mondo, sarà quello di riscattare se stessa, solo se stessa, attraverso l’organizzazione politica. Dunque, dove cercare nella classe operaia l’elemento politico? Proprio nel punto di contrasto alla storia. Da un lato, anche attraverso le lotte, essa svolge la funzione di motore dello sviluppo capitalista: le condizioni di lavoro migliorano progressivamente e su questo si allestisce il parco dei divertimenti della dialettica storicista-progressista, tutto si tiene, riformisti, rivoluzionari immaginari, borghesi illuminati; solo i reazionari, preoccupati dai loro meschini interessi materiali, possono opporsi a questa irresistibile marcia trionfale dello spirito verso futuri radiosi. Dall’altro, ecco il politico, il lato oscuro, negativo e antistoricistico della classe. Così riletta, la polemica contro la linea Croce-Gramsci-Togliatti rappresenta un passaggio necessario per mettere al centro la negazione senza sintesi del capitale, il rifiuto ad asservirsi alla dialettica progressiva, la rottura. Appunto, il politico contro la storia. In ciò consiste il cuore dell’operaismo.

Vedere il politico contrapposto alla storia significa sostanzialmente valorizzare il momento della singolarità che afferra l’occasione, perché solo questo dispone a un agire politico rivoluzionario, mentre lo storicismo non è disposto a vedere l’evento e, quindi, manca la decisione. In una formula: il culto della storia preclude la possibilità di farla. Lo storicismo appare quindi, in definitiva, malgrado le apparenze, una scuola di adattamento allo stato di cose presente: nel suo incessabile ruminare gli eventi spariscono nella loro singolarità e vengono riordinati ex post in modo che il presente appaia come l’inevitabile frutto storico del passato. Nella dialettica della storia non ci sono pertanto sconfitte, semmai solo vittorie mediate.

Tuttavia, la rivolta dei contadini di Müntzer, la Comune di Parigi, la rivoluzione sovietica non vivono nel flusso della storia, che, anzi, li ha travolti. Possono rivivere solo nella nostra mente come eventi unici e solo in questo modo, secondo l’insegnamento di Benjamin, potranno essere sottratti al corteo dei vincitori. La rivoluzione, se mai questa parola tornerà a essere dicibile, avrà pertanto bisogno di una nuova categoria di storici che, rivolti al futuro, rianimino il passato contro il presente.

Da ultimo, visto che da lì siamo partiti, allo storicismo togliattiano bisogna pur riconoscere una sua efficacia: il Pci visse a lungo e raccolse rilevanti consensi (almeno se paragonato alle altre esperienze comuniste d’Occidente), riuscì a tenere tutto insieme – proletari illuminati, bottegai illuminati, classe media illuminata, intellettuali illuminati, insomma la gente per bene – al prezzo di inibire e combattere qualsiasi agire pratico-teorico radicalmente conflittuale. Questa immane fatica non gli ha però risparmiato una fine ingloriosa, i cui effetti sono tuttora presenti nei suoi epigoni, che, mentre il nemico non cessa di vincere, continuano a cantare le lodi del progresso.

Note [1] M. Tronti, Noi operaisti, in G. Trotta – F. Milana, a cura di, L’operaismo degli anni Sessanta. Da Quaderni rossi a classe operaia, DeriveApprodi, Roma 2008, p. 30. [2] M. Tronti, Tra materialismo dialettico e filosofia della prassi. Gramsci e Labriola, ora in Id., Il demone della politica. Antologia di scritti (1958-2015), Il Mulino, Bologna 2017, pp. 67-68. [3] Tronti, Tra materialismo dialettico e filosofia della prassi, cit., p. 87. [4] Ibidem. [5] Ivi, p. 93. [6] Ivi, p. 94. [7] Ivi, p. 313. [8] Ivi, pp. 320-321. [9] Tronti, Noi operaisti, cit., p. 14.

Immagine: Silene Magnini, Adrian Tranquilli, Luca Valerio, Fiori di spighe, 1997

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Andrea Cerutti (Torino, 1968) è un avvocato. È animatore del blog trontiano www.azioneparallela.org. Insieme a Giulia Dettori ha curato il volume collettaneo La rivoluzione in esilio. Scritti su Mario Tronti, di prossima pubblicazione per Quodlibet.

Giulia Dettori è dottoranda all’Università La Sapienza. Il tema della sua ricerca è filosofia e tradizione nel marxismo italiano (1956-1968). Insieme ad Andrea Cerutti ha curato il volume collettaneo La rivoluzione in esilio. Scritti su Mario Tronti, di prossima pubblicazione per Quodlibet.

Machina 

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