O’Connor: tra Marx e Polanyi per unire “rosso” e “verde”
ago 27th, 2021 | Di Thomas Munzner | Categoria: Cultura e società
O’Connor: tra Marx e Polanyi per unire “rosso” e “verde”
di Bollettino Culturale
Con l’articolo intitolato “Capitalism, Nature and Socialism. A Theoretical Introduction”, pubblicato nel 1988 nel primo numero della rivista “Capitalism, Nature, Socialism” e che potete leggere in italiano nel libro “La seconda contraddizione del capitalismo. Introduzione a una teoria e storia dell’ecologia” edito da Ombre Corte e con un’ottima introduzione di Jacopo Nicola Bergamo e Emanuele Leonardi, James O’Connor presenta per la prima volta la sua teoria della “seconda contraddizione del capitalismo”, considerata fino ad oggi da numerosi analisti come una delle tappe più importanti nel tentativo di elaborare un marxismo sensibile alle tematiche dell’ambientalismo. O’Connor specificherà ulteriormente la sua proposta teorica ed empirica nella raccolta di testi che compongono il libro “Natural Causes: Essays in Ecological Marxism” pubblicato dieci anni dopo, nel 1998.
A differenza di John Bellamy Foster che vede Marx come un pioniere dell’ecologia, James O’Connor sostiene che nell’opera di Marx manca un’analisi del legame tra capitalismo ed ecologia, non venendo considerata l’ormai onnipresente distruzione ambientale nella sua teoria dell’accumulazione capitalista e nel suo progetto politico di socialismo. Con la teoria eco-marxista della “seconda contraddizione”, O’Connor cerca di risolvere ciò che identifica come un buco del pensiero marxiano. Afferma che un’analisi completa e adeguata del capitalismo non può essere soddisfacente se non include i sistemi naturali e il loro ruolo specifico nella produzione di valore e plusvalore, nonché nell’accumulazione di capitale. Inoltre, l’autore si propone di costruire una “teoria generale” che tenga conto dei legami tra: l’accumulazione di capitale, le tendenze del capitalismo a vivere crisi economiche ed “ecologiche” e i movimenti e le lotte sociali.
Come eco-marxista, O’Connor segue logicamente la premessa che una teoria marxista soddisfacente del cambiamento storico e dello sviluppo delle forze produttive deve tenere conto dell’ecologia. È l’obiettivo che si pone con l’elaborazione della “seconda contraddizione”, con la quale cerca di riformare ed ampliare il materialismo storico marxista. Sostiene che è sbagliato concentrarsi esclusivamente sul modo di produzione e sulle forze produttive e ignorare le “condizioni” ambientali o ecologiche che rendono possibile l’accumulazione di capitale. La “seconda contraddizione”, in quanto teoria marxista che integra la dimensione ecologica, permetterebbe di “correggere” il materialismo storico in un materialismo storico-ecologico. O’Connor sostiene che questa correzione richiede di identificare le contraddizioni ecologiche dello sviluppo capitalistico, compito che consentirebbe persino, secondo lui, di chiarire le idee e sostenere lo sviluppo dei movimenti ambientalisti. Questo sforzo teorico non può che essere interdisciplinare, integrando nelle parole di O’Connor “scienze ecologiche, economia politica e teorie sociologiche dei movimenti e dei cambiamenti sociali, nonché esperienze quotidiane e persone.”
Il capitale crea le proprie barriere o limiti distruggendo le condizioni materiali e sociali che rendono possibile la sua accumulazione? Questa è la domanda che guida O’Connor nella sua ricerca. La sua ipotesi principale è che la distruzione ambientale e sociale – sempre più intensa ed estesa – della cosiddetta “prima” e “seconda natura” a livello locale e globale, causata dalla ricerca dell’accumulazione di capitale, possa diventare una barriera significativa allo stesso processo di accumulazione.
Infatti, gli effetti “devastanti” della produzione capitalistica “sulla quantità e qualità di terra, acqua, aria, fauna selvatica” e sugli ecosistemi in generale, potrebbero creare barriere alla possibilità di accumulazione futura. Poi, di fronte a questi “effetti devastanti”, emergono a loro volta movimenti sociali che resistono a dette distruzioni, che -come le distruzioni- si dispiegano a livello locale e globale. Tutto ciò, secondo O’Connor, è costitutivo di una contraddizione che interviene nell’ambito del rapporto capitale-natura e che non è stata correttamente problematizzata da Marx e dal marxismo in generale. È questa contraddizione che, appunto, l’autore chiama la “seconda contraddizione” del capitalismo.
Ma perché parlare di “seconda” contraddizione, qual è la prima? Per O’Connor coesistono due contraddizioni nella sua proposta di materialismo storico-ecologico. Schematicamente, la “prima” -presentata come “tradizionale” nel pensiero marxista – interviene nel quadro del rapporto capitale-lavoro. L’altra – individuata da O’Connor e che sarebbe stata finora trascurata – interviene nell’ambito del rapporto capitale-natura. Inoltre, parallelamente al movimento operaio tradizionale che emerge come risultato della prima contraddizione, i “nuovi movimenti sociali” si presentano come nuovi soggetti della lotta contro il capitalismo che emergono dalla “seconda contraddizione”. Associati a questa contraddizione possono potenzialmente scatenare -al pari del movimento operaio-, una crisi del capitalismo e secondo O’Connor essere soggetto di “un altro tipo” di transizione al socialismo, una transizione che integrerebbe la dimensione ecologica nel materialismo storico tradizionale.
Quindi, un’altra preoccupazione costante -e più di natura politica- di O’Connor con la sua nuova proposta eco-marxista è quella di fornire al pensiero marxista una teoria che offra un quadro adeguato per analizzare e comprendere i cosiddetti “nuovi movimenti sociali” emersi negli ultimi decenni del XX secolo (ad esempio il movimento ecologista, femminista, contadino e indigeno che hanno le proprie origini, forza e portata e la loro convivenza con il movimento operaio tradizionale).
O’Connor è consapevole della forza e della rilevanza delle critiche al marxismo fatte dai (cosiddetti) post-marxisti che sottolineavano la mancanza di capacità analitica del marxismo di fronte alla questione del conflitto sociale, in particolare il conflitto legato ai movimenti sociali nati negli anni ’60 e ’70. Nella prospettiva della “nuova teoria dei movimenti sociali” a cui appartenevano questi autori, sostenevano la riluttanza del marxismo a riconoscere la rilevanza e la diversità dei protagonisti di un conflitto sociale del tutto nuovo (in termini di origini geografiche, classe sociale, etnia, genere…). Allo stesso modo, nell’analisi di questo conflitto è stato messo in discussione il determinismo del marxismo, cioè la sua tendenza a considerare soggetti sociali strutturalmente orientati al conflitto. Di conseguenza, il marxismo si limiterebbe a studiare la ricchezza delle “nuove soggettività” associate ai “nuovi movimenti sociali” e sarebbe sbagliato rimanere bloccati nella tradizionale contrapposizione tra le classi sociali (e per inciso continuare a vedere la classe operaia come il soggetto privilegiato della trasformazione storica). L’approccio marxista tradizionale non offre, secondo i post-marxisti, la possibilità di comprendere il carattere multiclassista, la diversità e la specificità di questi “nuovi movimenti sociali”.
Sebbene O’Connor condivida in parte queste critiche, non è disposto ad abbandonare l’interpretazione marxista della storia e vuole esplorare fino a che punto sia ancora valida per comprendere la nuova realtà del conflitto sociale promossa dai “nuovi movimenti sociali”. A differenza dei post-marxisti, O’Connor afferma, ad esempio, che sebbene non sia più l’unica dimensione in gioco, la “dimensione di classe” è ancora particolarmente rilevante. Di conseguenza, la teoria della seconda contraddizione del capitalismo deve essere intesa come un tentativo di risposta teorica e politica alle critiche dei post-marxisti. O’Connor la progetta con lo scopo di esaminare la possibilità di una coalizione tra il movimento operaio e i “nuovi movimenti sociali”, unendo le forze sociali esistenti contro il capitale, invece di dividerle.
Si propone di rispondere alla teoria post-marxista dei “nuovi movimenti sociali” disegnando una controteoria legata al pensiero marxista, la nozione di contraddizione, il degrado delle “condizioni di produzione” e la sua proposta di un materialismo ecologico. Criticando specificamente Carlo Carboni, O’Connor esprime il suo rifiuto del post-strutturalismo di questo autore e la sua enfasi sulla “site-specificity” dei movimenti sociali, che rende impossibile qualsiasi istanza universale. Contrariamente a questo autore, O’Connor rifiuta di accettare che “universalismo” e “unità” siano parole che significano “totalitarismo”. Critica con forza la lettura proposta dal post-marxismo e in generale dalla “nuova teoria dei movimenti sociali”, che secondo lui sono influenzate dall’”individualismo metodologico” neoclassico nella sua concezione della soggettività e dell’azione collettiva, che diventa una mera raccolta di azioni individuali.
La lotta dei “nuovi movimenti sociali” è in realtà una lotta per la protezione delle “condizioni di produzione” del capitale, una lotta per la “democratizzazione dello Stato” e della “burocrazia popolare”. Contrariamente ai post-marxisti, O’Connor vuole vedere con i “nuovi movimenti sociali” i segni di una lotta per una “democrazia radicale”. Si pone come imperativo pensarli come fenomeni globali, poiché l’assenza di questa prospettiva implicherebbe che essi “rimangano al livello di battaglie locali o di problemi isolati che tenderanno a distruggersi nel corso dei loro tentativi di decostruzione del marxismo.”
O’Connor è particolarmente veemente nella sua critica al punto di vista di un altro post-marxista, Claus Offe, secondo il quale le lotte dei “nuovi movimenti sociali” sarebbero “indipendenti dalla classe sociale”. Da una posizione più integrata con l’ecologia politica critica, O’Connor sostiene che i problemi ambientali, in particolare quelli relativi a ciò che identifica come il degrado delle “condizioni di produzione”, sono sempre problemi riscontrati e/o determinati dalla classe sociale, nel senso che in generale qualsiasi problema di distruzione ambientale colpisce più i “poveri” che i “ricchi”. Per lui i problemi ambientali sono assolutamente una questione di classe.
Fedele al suo impegno politico che implica il superamento del capitalismo, O’Connor, da questo punto di vista, è anche molto preoccupato di mantenere la possibilità di un’alleanza tra “rosso” e “verde” e rifiuta la “frammentazione” che potrebbe nascere dalla moltiplicazione delle “identità sociali” che non necessariamente entrano in contatto o collaborano e possono anche essere in conflitto. In assenza di tale collaborazione, O’Connor suggeriva già negli anni ’90 che si poteva raggiungere una situazione in cui un “FMI dell’ecologia avrebbe imposto soluzioni autoritarie” alla distruzione dell’ambiente.
In conclusione, oltre all’obiettivo di colmare le lacune teoriche nel pensiero marxista, sembra che nell’elaborazione della sua teoria eco-marxista, O’Connor avesse anche forti motivazioni politiche. Il suo uso della nozione di “contraddizione” e non, ad esempio, di “conflitto” o “disordini sociali” per analizzare i “nuovi movimenti sociali” è inteso anche a contenere ciò che identifica come “nemici” epistemologici oltre che politici. La sua preoccupazione di federare un fronte anticapitalista attorno a tutte le “cause” difese dai “nuovi movimenti sociali” (che, secondo lui, si identificano con la difesa delle “condizioni di produzione”) riflette una resistenza alla frammentazione delle diverse soggettività associate a ciascuna di queste cause e quindi l’annientamento della possibilità di un comune “telos delle lotte” contro il capitale tra i diversi movimenti sociali. Pur riconoscendone la molteplicità e diversità, è sempre alla ricerca delle dinamiche di unificazione di tutti questi nuovi movimenti tra di loro e con il vecchio movimento operaio, nel quadro della possibilità di costruire una lotta comune e coerente a livello globale.
O’Connor ci ricorda che nel pensiero marxista la contraddizione che interviene nel quadro del rapporto capitale-lavoro si articola principalmente tra due fondamentali categorie marxiste: le forze produttive e i rapporti di produzione. Tuttavia, se c’è una contraddizione nel quadro della relazione capitale-natura come postulato da O’Connor, quali sono le categorie tra le quali si svolge? O’Connor sostiene che c’è un vuoto in questo senso nel quadro teorico marxista, e introduce una nuova categoria: le “condizioni di produzione”, che occupano un posto centrale nella sua proposta teorica: la “seconda contraddizione”.
O’Connor definisce tre grandi “condizioni di produzione” nel capitalismo:
1. Le “condizioni personali della produzione”
2. Le “condizioni fisiche esterne”
3. Le “condizioni comunitarie e generali della produzione sociale”
Le “condizioni personali della produzione” corrispondono semplicemente alla forza lavoro e alle condizioni della sua riproduzione: il livello di benessere fisico e mentale degli operai. Le “condizioni fisiche esterne”, dal canto loro, corrispondono schematicamente alla “natura”, il livello di qualità e salute degli ecosistemi come ambiente complesso di sistemi, dinamiche e cicli, nonché processi di trasferimento di energia, materia organica e inorganica. Infine, “le condizioni comunitarie e generali della produzione sociale” sono l’infrastruttura fisica, i mezzi di comunicazione, trasporto e produzione di energia, così come condizioni di ordine sociale e culturale “che possono essere valorizzate dal capitale” come l’istruzione, i servizi pubblici…, vale a dire quello che O’Connor chiama “capitale comunitario”.
Allo stesso modo, questa condizione include lo “spazio urbano”, vale a dire ciò che O’Connor chiama “natura urbana capitalizzata” o altri spazi strutturati e che strutturano il capitale.
Le “condizioni fisiche esterne” possono essere schematicamente associate alla “prima natura”, e le “condizioni comunitarie e generali della produzione sociale” alla “seconda natura”.
O’Connor attribuisce a Marx il termine “condizioni di produzione” e la classificazione nelle tre categorie che abbiamo appena visto. Tuttavia, Marx non ha mai usato esplicitamente questo schema o fatto riferimento alle “condizioni di produzione” come categoria fondamentale della sua analisi del capitale e del capitalismo. O’Connor costruisce la categoria delle “condizioni di produzione” partendo da una raccolta di paragrafi selezionati dall’opera di Marx. Sebbene O’Connor riconosca che Marx non abbia teorizzato questa nozione “sistematicamente”, nei suoi scritti tende ad attribuirne la paternità a Marx, come se fosse una parte inevitabile del suo quadro teorico. Le critiche più forti alla rilevanza di questa nuova categoria coniata da O’Connor sostengono che raccoglie solo strani usi della formulazione “condizioni di produzione” disseminata nell’opera di Marx.
O’Connor mette, inoltre, in luce il ruolo dello Stato nella produzione e nella regolazione delle “condizioni di produzione” del capitale “nelle quantità e qualità desiderate, nei tempi e nei luoghi adeguati”. Lo Stato, insomma, è incaricato di questo compito che secondo O’Connor “i singoli capitalisti non possono realizzare né da soli né insieme”.
Questo ruolo dello Stato come intermediario tra “capitale e natura” implica, secondo O’Connor, la “politicizzazione delle condizioni di produzione”. Di conseguenza, la disponibilità e la qualità delle “condizioni di produzione” per il capitale dipendono dal potere e dal rapporto di forza che il capitale è in grado di imporre con lo Stato, ma anche che i movimenti sociali sono in grado di imporre, nonché dal tipo di “strutture statali che mediano o nascondono conflitti sulla definizione e l’uso delle condizioni di produzione”.
Mentre le istituzioni statali spesso beneficiano del capitale in prima istanza, O’Connor sostiene che lo Stato invoca il benessere e l’interesse generale come motivo primario delle sue decisioni e azioni per legittimare gli sforzi per (ri)produrre le condizioni di produzione (pensiamo, per esempio, alla costruzione di una strada, alle spese nei servizi pubblici…). In questo senso, c’è la possibilità che la “società civile” ei movimenti sociali influenzino la riproduzione delle “condizioni di produzione” che corrispondono allo Stato e al capitale. O’Connor sostiene che quando lo Stato non si prende adeguatamente cura delle “condizioni di produzione”, è esposto a “una crisi di legittimazione”, che può assumere la forma di “una crisi politica” per i partiti al governo. Inoltre, quando il capitale distrugge le sue “condizioni di produzione” in maniera troppo estrema, lo Stato non è in grado di ripararle o ricostruirle e la “seconda contraddizione” può manifestarsi.
Come ricordato all’inizio del saggio, l’ipotesi di partenza della “seconda contraddizione” è la presunta tendenza “autodistruttiva” del capitale, cioè una capacità di violare le stesse condizioni che ne rendono possibile l’accumulazione. Sostiene che il capitale (e più specificamente i singoli capitalisti), nella sua ansia di cercare la massima redditività, distrugge ciecamente le sue “condizioni di produzione” invece di occuparsi della (ri)produzione e disponibilità e dell’eventuale esaurimento di queste a lungo termine. Per sostenere la produzione e accumulare, il capitale deve disporre delle sue “condizioni di produzione” in quantità e qualità accettabili. Se questa tendenza “autodistruttiva” non viene controllata, il capitale può imporre le proprie barriere (e persino limiti) all’accumulazione. Questo è il paradosso sulla base del quale O’Connor costruisce la proposta teorica della “seconda contraddizione”.
O’Connor sostiene che la contraddizione comunemente analizzata nella teoria marxista si verifica nel quadro del rapporto tra capitale e lavoro, e si verifica proprio tra le forze produttive ei rapporti sociali di produzione. O’Connor considera soprattutto la contraddizione tra la produzione di valore da un lato e la realizzazione di questo valore e plusvalore dall’altro. Per O’Connor questa è la “prima contraddizione” del capitalismo e il motore principale della crisi del capitalismo.
O’Connor sostiene che la costruzione di una teoria eco-marxista richiede di considerare una “seconda contraddizione”, che sarebbe rimasta al di fuori del pensiero marxista fino ad oggi. Questa “seconda contraddizione” interviene nell’ambito del rapporto capitale-natura, o più precisamente tra accumulazione capitalistica e “condizioni di produzione”. Essa avviene cioè tra i rapporti sociali di produzione/forze produttive da un lato e le “condizioni di produzione” del capitale dall’altro.
Nella seconda contraddizione, le forze produttive ei rapporti sociali di produzione sono ancora presenti, ma ora sono uniti dalla stessa parte dell’”equazione”. Ora agiscono contro le condizioni di produzione.
Sostengo che O’Connor trova la “seconda contraddizione” effettuando un’opposizione sistematica, un confronto e un’analogia con ciò che identifica come la “prima contraddizione”. In altre parole, definisce le principali dinamiche e caratteristiche della “seconda contraddizione” prendendo la “prima” come punto di riferimento costante e sistematico.
O’Connor sostiene che oggi il capitalismo si trova ad affrontare processi costitutivi di entrambe le contraddizioni, sebbene ipotizzi che i processi costitutivi della “seconda contraddizione” siano aumentati costantemente negli ultimi decenni del XX secolo. Seguendo scrupolosamente questo metodo di analogia sistematica, trovato nella sua forma più cruda nel suo articolo seminale del 1988, O’Connor ha costruito la “seconda contraddizione” in tutte le sue dimensioni, sia quella economica sia quella “sociale”.
La “seconda contraddizione”, come abbiamo visto, deriverebbe dalla tendenza dei capitalisti – quelli che O’Connor chiama i “capitali individuali” – a “minare”, “trascurare, ledere o distruggere” le “condizioni di produzione”, invece di garantirne la cura e la (ri)produzione. In altre parole, il perseguimento dell’accumulazione porta “i rapporti di produzione e le forze produttive capitalistiche, combinate”, ad “autodistruggersi” e ad “esternalizzare” continuamente i loro costi alle “condizioni di produzione”. Questa tendenza “autodistruttiva” nell’appropriazione e nell’uso della forza lavoro, delle infrastrutture urbane e della “natura esterna” e dell’ambiente, implica meccanicamente l’aumento dei costi di questa appropriazione e questo uso dei tre tipi di “condizioni di produzione” identificato da O’Connor. Di conseguenza, i singoli capitali possono influenzare significativamente i propri guadagni così come quelli di altri capitali (e anche il capitale nel suo insieme), e quindi la loro capacità di produrre e accumulare. Questo aumento dei costi con la distruzione delle condizioni di produzione costituisce la “causa fondamentale” della “seconda contraddizione”.
Il comportamento dei “capitali individuali”, classicamente guidati da ciò che Marx chiama la politica dell’et après moi le déluge, può avere conseguenze drammatiche per il capitale nel suo insieme (oltre che, ovviamente, per i lavoratori, l’ambiente e le “condizioni di vita” di molti popoli e comunità in generale). In questo senso, la “prima” e la “seconda contraddizione” hanno un “motore” comune: l’imperativo imposto ai singoli capitali di cercare di aumentare la propria redditività per evitare la scomparsa (conseguenza delle “leggi coercitive della concorrenza”).
Va notato che Marx evoca in varie parti del suo lavoro situazioni contraddittorie in cui gli interessi a breve termine dei singoli capitalisti e i loro comportamenti hanno impatti negativi a lungo termine sulla classe capitalista nel suo insieme. Si parla, ad esempio, della tendenza dei singoli capitali a ricercare innovazioni tecnologiche per ottenere plusvalore (assoluto e relativo), che hanno come conseguenza una riduzione del numero dei lavoratori e una riduzione della massa di plusvalore che il capitale può produrre.
È la stessa opposizione tra gli interessi dei singoli capitali e della classe capitalista nel suo insieme che sarebbe all’origine della “seconda contraddizione”. Quando i singoli capitali scelgono di prendersi cura delle “condizioni di produzione” (ad esempio, un’azienda chimica che implementa un miglior controllo della contaminazione dell’ambiente che comporta costi aggiuntivi), possono essere esposti a una situazione economica sfavorevole e nel peggiore dei casi, essere portati al fallimento. Le “leggi coercitive della concorrenza” spingono i singoli capitali a ricercare i propri interessi a breve termine ed a trascurare, degradare o non conservare le “condizioni di produzione”. Essendo queste comuni al capitale preso nel suo insieme (localmente come globalmente), il loro degrado colpisce il capitale nel suo insieme.
O’Connor asserisce che l’”appropriazione autodistruttiva” dei tre tipi di “condizioni di produzione” da parte del capitale (e il ripristino delle “condizioni di produzione trascurate”), causa costi aggiuntivi. Cita numerosi esempi. Secondo lui, questi costi sono aumentati costantemente negli ultimi decenni, al punto da rappresentare oggi “la metà o più del prodotto sociale totale”.
La maggior parte degli esempi citati da O’Connor corrispondono a casi di degrado della seconda categoria di “condizioni di produzione”, le “condizioni fisiche esterne”.
In particolare, cita il riscaldamento globale, le piogge acide, la salinizzazione della falda freatica, i rifiuti tossici e l’erosione del suolo, fenomeni che hanno un effetto diretto sulla produzione e sui profitti di molti capitali. Evoca un caso ancora più in dettaglio: l’uso di pesticidi nell’industria del cotone centroamericana che avrebbe ripercussioni sui profitti, sul capitale e sulla salute pubblica.
Nell’ambito della legittimazione del suo esercizio di costruzione di una teoria eco-marxista, O’Connor avalla e allo stesso tempo critica le concezioni della natura di Marx ed Engels.
La sua posizione sembra oscillare tra “naturalismo dualistico” e “naturalismo dialettico”. Afferma, ad esempio, che le “leggi autonome” ei “principi di sviluppo” della “natura” non possono essere ignorati e mette in luce la “sorprendente complessità” degli ecosistemi su cui si basa la produzione capitalistica. Tuttavia, O’Connor è anche sensibile alle posizioni che promuovono una concezione metabolica e dialettica del rapporto società-natura. Ad esempio, concepisce le categorie delle forze produttive dei rapporti di produzione come pratica “nello stesso tempo culturale e naturale”. Allo stesso modo, sostiene che il lavoro “media natura e cultura, linguaggio/intersoggettività ed ecologia -e a sua volta è mediata da esse-, compreso il linguaggio dell’ecologia e l’ecologia delle lingue”. In altre parti del suo lavoro, O’Connor fa anche ragionamenti inclini al “social-costruttivismo”. Sostiene, ad esempio, che si deve tener conto del carattere storicamente prodotto delle forme della natura, che viene progressivamente “capitalizzato”. Afferma anche che ciò che chiamiamo “natura” è quasi sempre una “seconda” natura o una “natura sociale”. Riconosce anche che la definizione di “condizioni di produzione” deve essere considerata nel quadro di uno “spazio sociale e ambientale”, “soggettivizzato e storicizzato”, e che il rapporto capitale-”condizioni di produzione” è dialettico.
Le “condizioni di produzione”, nel frattempo, sono viste sia materialmente che socialmente mediate. Da un punto di vista più politico, O’Connor presenta anche la sua proposta contro l’”ambientalismo borghese”:
“Limiti alla crescita in termini di ‘scarsità di risorse’, fragilità ecologica, tecnologia industriale dannosa, valori culturali distruttivi, tragedie dei beni comuni, sovrappopolazione, consumo dispendioso, produzione inarrestabile che ignorano o distorcono le teorie di tipo marxista sulle forme di natura storicamente prodotte e accumulazione e sviluppo capitalistici”.
Qui, O’Connor rifiuta esplicitamente posizioni legate al neomalthusianesimo. Tuttavia, allo stesso tempo, rifiuta una completa “storicizzazione” della natura e ne riconosce i processi autonomi e universali che determinano fortemente l’agire umano:
“Sebbene il marxismo sia riuscito a dimostrare come il concetto di natura sia ‘socialmente costruito’ nei diversi modi di produzione, l’irriducibile autonomia di ciò che rende possibile e limita i progetti umani, viene solitamente disprezzata o emarginata (sebbene non dallo stesso Marx, che chiaramente affermato che la produzione è mediata da ‘processi naturali indipendenti dall’uomo’).”
Notiamo poi che la concezione della natura di O’Connor sembra essere una sintesi tra “naturalismo dualistico” e “social-costruttivismo”.
Essendo fondata la seconda contraddizione sulle conseguenze del degrado e perfino della distruzione da parte del capitale delle condizioni materiali e sociali della sua accumulazione, O’Connor non può sottrarsi alla questione, problematica per chi si dichiara marxista, dei “limiti ecologici” o “naturali”. Sebbene O’Connor non menzioni questo concetto nella formulazione della “seconda contraddizione”, è implicitamente presente nel suo ragionamento. Infatti, nelle sue stesse parole, è proprio perché il degrado e la distruzione delle condizioni di produzione possono portare a eventuali “carenze” che è possibile una crisi impiantata sulla “seconda contraddizione” che minaccerebbe la “sostenibilità” dell’accumulazione di capitale.
O’Connor riconosce questo fatto in un paio di passaggi nel suo libro “Natural Causes: Essays in Ecological Marxism”. Afferma tuttavia che la “scarsità” di cui parla non è “scarsità” nel senso di Malthus. Secondo lui, sarebbero “scarse” in senso eco-marxista in quanto socialmente e storicamente prodotte nel quadro del modo di produzione capitalistico. Tuttavia, la distinzione non appare così netta e, con questo approccio, O’Connor accetta chiaramente la possibilità di “limiti naturali” all’accumulazione, rompendo con il rifiuto “tradizionale” del pensiero marxista al riguardo. Questa situazione riflette il rischio per gli eco-marxisti di “cedere terreno” in qualche modo agli approcci del “conservazionismo neomalthusiano”. È così che O’Connor si trova di fronte a un rischio: conciliare il riconoscimento imperativo (data la struttura della sua teoria della “seconda contraddizione”) della realtà e la possibilità di “limiti naturali” per il capitalismo con il riconoscimento della validità del “naturalismo dialettico”.
Come risolve O’Connor questo paradosso? Smarcandosi esplicitamente da Marx.
In effetti, sostiene che sulla questione dei “limiti naturali”, Marx era accecato dal suo antimalthusianesimo, dalla sua “opposizione a qualsiasi teoria che possa ‘naturalizzare’, e quindi reificare, le condizioni economiche del capitale”, e “il suo rifiuto di ogni spiegazione naturalistica dei fenomeni sociali”. Tutto ciò gli avrebbe impedito, secondo O’Connor, di “fare due più due”.
Inoltre, sostiene che le attuali condizioni storiche e il livello di degrado delle “condizioni di produzione” non erano quelle di Marx, quindi non poteva capire che il “danno alle condizioni di produzione e le conseguenti lotte sociali sono barriere auto-imposte dal capitale, perché la natura storica non è stata capitalizzata fino al punto in cui è oggi”. Qui O’Connor conferma la sua chiara inclinazione verso una concezione dualistica ed essenzialistica del rapporto società-natura e che si potrebbe qualificare come un “conservazionismo neomalthusiano”, sostenendo che Marx ha sottovalutato “il grado in cui lo sviluppo storico del capitalismo come modo di produzione si era basato sull’esaurimento delle risorse e sul degrado della natura”.
Le ambiguità nella concezione della natura di O’Connor e la sua tendenza a oscillare tra posizioni nettamente divergenti impediscono alla sua teoria della “seconda contraddizione” di godere di chiare e solide basi filosofiche in questo ambito. O’Connor dà l’impressione di adeguare le sue fondamenta filosofiche ai suoi obiettivi politici (riconciliare marxismo ed ecologia di fronte all’evidenza dei problemi ecologici e alle resistenze ad essi a livello globale, e rispondere alle critiche post-marxiste). Se questa impressione è giustificata, costituisce un grave vizio teorico che indebolisce notevolmente la proposta di O’Connor, almeno in quella che mi propongo di chiamare la “dimensione materiale” della seconda contraddizione.
Abbiamo visto come la “seconda contraddizione” consista nel fatto che i singoli capitali sono portati, in conseguenza delle loro tendenze “autodistruttive”, a degradare e distruggere le “condizioni di produzione”, che generano costi di (ri)produzione o sostituzione di queste condizioni, e quindi riduce potenzialmente la redditività dei capitalisti e del capitale nel suo insieme, e generalmente introduce barriere significative all’accumulazione. Oltre a descrivere il meccanismo della nuova teoria proposta da O’Connor, ho indicato dei difetti a livello teorico che potrebbero limitarne la rilevanza. Tuttavia, fino ad ora, mi sono concentrato principalmente sulle conseguenze materiali del degrado e della distruzione delle “condizioni di produzione”, e quindi degli aspetti fisici.
Tuttavia, analizzando a fondo la proposta di O’Connor, il lettore si rende conto che la “seconda contraddizione” non consiste solo in una tensione tra il capitale e le sue “condizioni di produzione”, ma anche nel fatto che il capitale costituisce un “rapporto sociale antagonistico”. Oltre alla dimensione fisica, è quindi opportuno considerare un’altra dimensione, una seconda dimensione della “seconda contraddizione”, una dimensione sociale associata all’esistenza di conflitti e movimenti sociali, risultante e costitutiva della “seconda contraddizione”. Ricordiamo che uno degli obiettivi di O’Connor è anche quello di fornire al pensiero marxista strumenti che gli permettano di prendere in considerazione, cogliere e analizzare i cosiddetti “nuovi movimenti sociali”.
Per chiarire meglio questa distinzione e contribuire allo sforzo teorico di O’Connor, propongo che sia necessario identificare due dimensioni distinte della “seconda contraddizione”, due fonti distinte di quella che O’Connor identifica come una “crisi dei costi”: una prima dimensione legata alla distruzione delle “condizioni di produzione” e della loro disponibilità per il capitale, e una seconda dimensione legata alle richieste e alle azioni dei “nuovi movimenti sociali”.
La prima dimensione ha a che fare con l’offerta di mezzi di produzione, l’aumento dei costi di produzione e la minore redditività. È direttamente associato alla distruzione delle “condizioni di produzione”. La seconda dimensione ha a che fare con la capacità dei movimenti sociali di stabilire un rapporto di forza con il capitale. È indirettamente collegato alla distruzione delle “condizioni di produzione”.
Si potrebbe sostenere che è anche possibile identificare due dimensioni distinte in quella che O’Connor chiama la “prima contraddizione”. La prima di queste due dimensioni sarebbe una dimensione fisico-economica e direttamente associata alla redditività, allo sfruttamento fisico dei lavoratori e alla continuo tentativo del capitale di pagare salari minimi, il quale può impedire al capitale di realizzare valore e plusvalore logorando la forza lavoro. D’altra parte, il movimento operaio e sindacale nel suo insieme con le perdite che le sue azioni possono comportare per il capitale rappresenterebbero la “seconda dimensione della prima contraddizione”, una dimensione sociale, con effetti indiretti sulla redditività.
Abbiamo visto che O’Connor interpreta l’esistenza dei “nuovi movimenti sociali” come una reazione sociale al deterioramento e alla distruzione delle “condizioni di produzione”, perché queste sarebbero legate alle “condizioni di vita” di comunità, popoli, e diversi gruppi e attori sociali. Vale la pena chiedersi, quindi, fino a che punto le “condizioni di produzione” del capitale coincidono con le “condizioni di vita” di questi gruppi? C’è un’isomorfia tra questi due concetti o solo poche sovrapposizioni? Qualsiasi tipo di analisi che dimostrerebbe il contrario violerebbe il ruolo centrale che O’Connor attribuisce alla sua categoria di “condizioni di produzione”.
È anche legittimo chiedersi fino a che punto i costi pagati dal capitale attraverso la seconda dimensione della “seconda contraddizione” possono essere pienamente compresi dalla categoria delle “condizioni di produzione” del capitale? O’Connor sostiene che, come categoria teorica, le “condizioni di produzione” catturano adeguatamente la diversità delle richieste dei “nuovi movimenti sociali”. Sarebbe addirittura possibile, secondo O’Connor, identificare ogni tipo di “nuovo movimento sociale” con una delle tre “condizioni di produzione”.
In queste circostanze, vale anche la pena chiedersi fino a che punto i “nuovi movimenti sociali” sono consapevoli che, difendendo le loro “condizioni di vita”, finiscono per difendere le “condizioni di produzione” del capitale? Sono consapevoli che, difendendo la loro qualità di vita, agiscono nel senso di una perpetuazione e stabilizzazione del capitalismo? Invocare una reazione di rifiuto sociale alla tendenza “autodistruttiva” del capitale a minare le stesse condizioni materiali e sociali che rendono possibile l’accumulazione, è suggerire che i soggetti politici presenti nei movimenti sociali difendono consapevolmente il capitale ?
Nella sua formulazione della “seconda contraddizione”, O’Connor cita esplicitamente l’economista e storico ungherese Karl Polanyi tra le sue principali fonti di ispirazione. Chiuderò il saggio cercando di spiegare la profondità di questa influenza nell’elaborazione della “seconda contraddizione”, rispondendo alle ultime questione rimaste sul tavolo.
O’Connor fa esplicito riferimento a Polanyi nella definizione stessa delle “condizioni di produzione”, presentate da O’Connor come “merce-fittiza”, nel senso che l’economista ungherese ha dato a questo concetto: beni considerati come merce ma che non sono stati prodotti con l’obiettivo di essere venduti sul mercato. Tuttavia, l’influenza di Polanyi sul lavoro di O’Connor va oltre questo aspetto.
Secondo O’Connor, Polanyi è stato uno dei primi ad analizzare come il “mercato autoregolato” ei rapporti capitalistici di produzione abbiano portato al deterioramento e alla distruzione delle proprie “condizioni di produzione” sociali e ambientali. Polanyi sostiene che il mercato “autoregolato” spinge verso la “mercificazione” generalizzata di “tutte le dimensioni della vita sociale”, un processo che implica:
“… lo sfruttamento della forza fisica dei lavoratori, la distruzione della vita familiare, la devastazione dell’ambiente, il disboscamento, l’inquinamento dei fiumi, la dequalificazione professionale, il crollo delle tradizioni popolari e il generale degrado dell’esistenza , comprese le abitazioni e le arti, nonché le innumerevoli forme di vita privata e pubblica che non erano direttamente coinvolte nell’ottenimento di profitti”.
Riconosciamo qui, in effetti, chiari elementi di ciò che O’Connor ha identificato come la distruzione delle “condizioni di vita”. Non chiarisce, tuttavia, quale sia il livello di sovrapposizione che esiste tra “condizioni di vita” e “condizioni di produzione”.
È probabilmente nelle riflessioni su quella che ho chiamato la seconda dimensione della “seconda contraddizione” che appare più chiaramente l’affinità del lavoro di O’Connor con Polanyi, in particolare con i famigerati concetti di “contromovimento” e “doppio movimento”.
Per Polanyi gli effetti socio-ambientali della “mercificazione” di beni come “terra” e “lavoro”, e l’”azione deleteria” del mercato capitalista sono intollerabili per la “società”, e soprattutto per i settori di essa che sono direttamente colpiti da questi effetti distruttivi, “soprattutto, anche se non esclusivamente, la classe operaia e i proprietari terrieri”. Secondo lui, la tendenza del capitalismo a includere lavoro, terra e moneta “nel meccanismo di mercato” implica un’inaccettabile sussunzione al mercato della “sostanza stessa della società”. Di conseguenza, la “società” crea meccanismi di vario genere (…) per combattere questi effetti e proteggere e conservare “cultura”, “uomo e natura” e anche il modo di produzione esistente ”.
Questa dinamica è ciò che Polanyi chiama “contromovimento”. E addirittura concepisce la storia dell’avanzata (e della generalizzazione) del mercato capitalista come un perpetuo “doppio movimento”. Un primo “movimento” consiste da un lato in una tendenza alla “mercificazione” (la trasformazione di beni non prodotti per la vendita sotto la forma di merce, “merce fittizia”), mentre il secondo movimento, il “contromovimento”, è una reazione della “società” a questo movimento e consiste in una sorta di “protezionismo sociale”:
“Per un secolo le dinamiche della società moderna sono state governate da un doppio movimento: il mercato si espandeva continuamente, ma questo movimento conviveva con un contromovimento che controllava questa espansione, orientandola in determinate direzioni. Questo contromovimento era di vitale importanza per la tutela della società, ma era al tempo stesso compatibile, in definitiva, con l’autoregolamentazione del mercato e, quindi, con il sistema di mercato stesso.”
Per Polanyi il “contromovimento” non è una semplice “resistenza al cambiamento” ma “una reazione a una dislocazione che ha aggredito l’intero edificio della società” nella piena consapevolezza che questo processo potrebbe portare alla distruzione della “stessa organizzazione della produzione che il mercato aveva creato”. Il “protezionismo sociale” che motiva questo “contromovimento” include la tutela della famiglia, della vita umana, ma anche delle condizioni dell’“agrarismo”, cioè, ad esempio, della proprietà fondiaria (collettiva e/o individuale). Questo “movimento” è secondo Polanyi uno dei principali motori dei conflitti sociali nel capitalismo, e all’interno del quadro si scontrano vari tipi di “classi”: mercanti, lavoratori e proprietari terrieri.
In altre parole, Polanyi conferisce qualità autostabilizzanti al capitalismo. Di fronte alle dinamiche autodistruttive del capitale, la “società” – ovvero i settori sfruttati della popolazione nel capitalismo e le cui condizioni di vita sono violate o “sovvertite” “- reagisce e la sua reazione ha un effetto stabilizzante sul capitalismo stesso come sistema di organizzazione sociale. Tuttavia, Polanyi non è molto chiaro nello specificare se questa stabilizzazione sia cosciente o meno. In altre parole, per tornare alle questioni poste da noi prima di questo excursus, non si sa fino a che punto il “protezionismo sociale” a cui fa riferimento Polanyi – e che adotta O’Connor – consideri la difesa dello stesso sistema che li sfrutta, e quali sono le sue eventuali aspirazioni rivoluzionare.
Approfondendo lo sforzo di confronto sistematico e di analogia che O’Connor compie tra la “prima” e la “seconda contraddizione”, riprendo qui alcune riflessioni di David Harvey. Il geografo considera credibile il fatto che il movimento operaio possa anche avere una sorta di effetto “stabilizzante” sul capitale, frenando la sua ambizione di sfruttamento “totale” del lavoro. Il supersfruttamento della forza lavoro può infatti incidere gravemente sulla sua qualità (e quantità), al punto che questa tendenza a volerlo usare sempre di più rappresenta una minaccia di crisi per il capitale.
Tutte queste riflessioni suggeriscono che se i “nuovi movimenti sociali” costituiscono una forza interna che impone in prima istanza costi aggiuntivi e barriere all’accumulazione del capitale, in seconda istanza potrebbero rappresentare una forza che stabilizza il capitale, perché proteggendo le sue “condizioni di vita ”, i movimenti sociali nel loro insieme temperano la tendenza del capitale a distruggere ciecamente le sue “condizioni di produzione” in un modo che può portare a una crisi duratura. In questo caso, allo stesso modo in cui le azioni aggregate dei singoli capitalisti (motivate dalla ricerca immediata del profitto e della concorrenza) possono portare a una risultante negativa per il capitale nel suo insieme, le azioni aggregate dei movimenti sociali (motivate dalla tendenza a tutelare le proprie “condizioni di vita”) possono portare a un risultato positivo per il capitale nel suo complesso.
In ogni caso, il “protezionismo sociale” di Polanyi è per O’Connor il motore della resistenza sociale alla distruzione delle “condizioni di produzione”. Per lui, i “nuovi movimenti sociali” possono essere intesi come una manifestazione della “società” che lotta per impedire la mercificazione delle “condizioni di produzione”. Forse potremmo precisare che in questo caso si tratta di “condizioni di produzione” in quanto corrispondono a “condizioni di vita”, che sono quelle che i movimenti sociali consapevolmente difendono. Questo protezionismo sociale, in ogni caso, è suscettibile di imporre barriere sostanziali all’accumulazione del capitale ed essere costitutivo di una “seconda contraddizione”. Così, per O’Connor, le dinamiche imposte dal “doppio movimento” e dal protezionismo sociale individuate da Polanyi sono l’anello mancante per dare coerenza all’impalcatura teorica che accompagna la “seconda contraddizione” attorno alle “condizioni di produzione”, nel caso della seconda dimensione della seconda contraddizione.
O’Connor vede il suo sforzo di costruzione della teoria eco-marxista come una continuazione logica del pensiero marxista, ma non vede alcun problema nel rivolgersi all’opera di Karl Polanyi nonostante il fatto che non sia un autore marxista.
O’Connor salva i contributi antropologici e sociologici di Polanyi, e la sua comprensione del capitalismo al di là della mera ricerca dell’accumulazione, e il fatto che per questo autore fattori sociali e politici possono essere così determinanti nello sviluppo di una crisi, come i fattori economici. Inoltre, nella sua critica al capitalismo, Polanyi attribuisce grande importanza all’”impatto desocializzante dello sviluppo industriale” e alle reazioni ad esso. Contrariamente al pensiero marxista tradizionale, Polanyi ha sempre rifiutato di separare in modo dicotomico le reazioni politiche al capitalismo: “progressista” da un lato (il movimento operaio) e conservatore/reazionario dall’altro (la difesa delle comunità tradizionali). Tutti questi sono stati senza dubbio elementi determinanti dell’influenza del lavoro di Polanyi su O’Connor. In particolare, lo sforzo teorico di O’Connor per promuovere un’alleanza tra movimenti sindacali e “nuovi movimenti sociali” è sicuramente ispirato più dall’approccio di Polanyi che dal pensiero marxista tradizionale e dal suo rifiuto del movimento ambientalista.
Polanyi, insomma, pone meno enfasi di Marx su categorie che provengono dall’economia politica e preferisce mettere in luce gli aspetti socio-antropologici dell’analisi del capitale e del mercato capitalista. Forse si può sostenere che a livello teorico, l’eco-marxismo di O’Connor è un tentativo di costruire un marxismo ecologicamente sensibile che ha integrato concetti chiave polanyiani come “merce fittizia” e “contro/doppio movimento”. In altre parole, si può sostenere che l’opera di O’Connor è un tentativo di sintesi tra il materialismo storico marxista e gli elementi della teoria sociale di Karl Polanyi.