SULLA FILOSOFIA IMPERFETTA DI COSTANZO PREVE
mag 31st, 2021 | Di Thomas Munzner | Categoria: Primo PianoSULLA FILOSOFIA IMPERFETTA DI COSTANZO PREVE
Ovvero: come valorizzare le intuizioni di un marxista eretico, riconoscendone i limiti ma anche andando al di là delle scomuniche di cui fu vittima
Dopo il post su Bordiga, proseguo la riflessione su alcuni autori che, pur avendo portato un contributo significativo alla teoria marxista, sono stati messi all’indice e rimossi dalla sinistra a causa delle loro tesi “eretiche” e politicamente “scorrette”. Questa seconda puntata è dedicata al pensiero di Costanzo Preve.
In uno dei miei ultimi lavori (1) ho dedicato un paragrafo al “caso Preve”, nel quale osservavo come il contributo di questo autore controverso e geniale alla teoria marxista sia stato oggetto di una rimozione radicale, se non di un vero e proprio linciaggio ideologico, sia per le sue critiche feroci a una sinistra in via di autodissoluzione (formulate in tempi in cui ciò era ancora considerato intollerabile), sia perché la scomunica di cui fu vittima a causa di tale “colpa”, contribuì ad esacerbarne il carattere ombroso, innescando certi suoi atteggiamenti provocatori che gli costarono un isolamento pressoché totale. In questo scritto proverò a spiegare i motivi per cui ritengo importante – tanto sul piano teorico quanto sul piano politico – rivisitarne certe intuizioni che meritano di essere approfondite cercando, al tempo stesso, di evidenziarne limiti e contraddizioni. A tale scopo prenderò in esame due testi distanziati da un quarto di secolo: La filosofia imperfetta (1984) e Finalmente! L’atteso ritorno del nemico principale (2009) (2). La parte dedicata a quest’ultimo testo anticipa alcuni dei temi che affronto nella Prefazione che ho scritto per una nuova edizione, prevista per il prossimo settembre.
Costanzo Preve |
1) La filosofia imperfetta
Il libro del 1984 si articola in cinque parti dedicate, rispettivamente, 1) ai tre “discorsi” che, secondo Preve, sostanziano il corpus teorico marxiano; 2) ad alcune delle principali correnti marxiste del Novecento; 3) al pensiero di Heidegger, indicato come la vetta più elevata del pensiero borghese novecentesco; 4) all’utopia concreta di Ernst Bloch; 5) all’ontologia dell’essere sociale di Gyorgy Lukacs. Tratterò esclusivamente delle prime due e della quinta, ignorando le sezioni dedicate a Heidegger e Bloch, sia per motivi di spazio, sia perché meno rilevanti rispetto alle questioni che intendo qui sollevare. I tre discorsi marxiani oggetto della prima parte sono: il discorso grande-narrativo, il discorso deterministico-naturalistico e il discorso ontologico-sociale (nella descrizione di quest’ultimo Preve fa ampiamente ricorso al capolavoro dell’ultimo Lukacs (3), che pur essendo trattato nella quinta e ultima parte, informa di sé tutte le parti precedenti).
Prima di affrontare la critica dei discorsi grande-narrativo e deterministico-naturalistico, segnalo che le stesse questioni sono affrontate – in modo meno sistematico e con terminologie differenti – in un dialogo fra il sottoscritto e Onofrio Romano, pubblicato da DeriveApprodi con il titolo Tagliare i rami secchi (4). Personalmente, ma credo di poter parlare anche a nome di Onofrio Romano, devo dire che quando registrammo il nostro colloquio non conoscevo ancora il testo di Preve del 1984, per cui, leggendolo, sono rimasto particolarmente colpito dalla convergenza dei punti di vista, in assenza di qualsiasi confronto diretto fra gli autori.
La definizione più sintetica – e graffiante – di discorso grande narrativo che troviamo nel testo di Preve è la seguente: metafisica immanentistica di un Soggetto che marcia cantando verso l’utopia sintetica di una società integralmente trasparente. Per chiarire meglio il senso di alcuni dei termini evocati (soggetto con la maiuscola, utopia sintetica, società trasparente) aggiungo quest’altro passaggio: La categoria di soggetto (così come si presenta nella cornice di questa narrazione, nota mia) è titolare di un’essenza che pretende di contenere in sé, in modo immanente, una teleologia necessaria, la quale funge da supporto teorico di una concezione del comunismo come utopia sintetica, in cui pubblico e privato, individuale e collettivo, si fonderanno insieme. Per semplificare: ciò che Preve pone alla nostra attenzione critica è il fatto che Marx fa propria, in alcune parti della sua opera, la tesi secondo cui il proletariato sarebbe “per sua stessa natura” votato a svolgere il ruolo di affossatore del modo di produzione capitalistico, nonché di protagonista di un rivolgimento sociale e politico in grado di generare un mondo in cui le contraddizioni fra pubblico e privato, individuale e collettivo risulterebbero superate, pacificate. Una pretesa che – sia detto per inciso – lo stesso Marx (per tacere di Lenin) mette in questione, laddove pone la distinzione fra classe in sé e classe per sé, aggiungendo che la conversione della prima nella seconda non è inscritta in alcun dispositivo destinale (la cui sola esistenza giustificherebbe la Esse maiuscola attribuita a tale soggetto metafisico). Mettiamo per ora fra parentesi la questione del comunismo come “società trasparente”, che verrà ripresa più avanti, e passiamo al discorso deterministico naturalistico, che appare strettamente intrecciato con quello appena descritto, con il quale condivide la tendenza a una sorta di antropomorfizzazione della storia, nella misura in cui affianca alla narrazione di un soggetto collettivo capace di fondare il senso e la direzione del processo storico, l’ipotesi che tale processo sarebbe animato da una necessità immanente.
A fungere da modello ideale di questa seconda narrazione, argomenta Preve, è il concetto di necessità elaborato dalla scienza ottocentesca, che risponde a due requisiti fondamentali: da un lato un nesso rigoroso di causalità fra i fenomeni analizzati, dall’altro la possibilità di anticiparne e prevederne gli esiti processuali. Ebbene, secondo Preve (e credo sia difficile contestare questa sua convinzione), anche in Marx esistono tracce di una mentalità scientifico-idealistica in ragione della quale la moderna produzione capitalistica assume il volto di una entità cosalmente impersonale. In ciò si avverte chiaramente l’influenza del concetto di storia naturale, influenza che fa sì che le legalità di tipo naturalistico vengano estese sotto forma di specifici vincoli necessitanti a quella sezione della natura chiamata società. Dire che il comunismo è lo sbocco inevitabile, “scientificamente” prevedibile, della natura dinamica della moderna produzione capitalistica, argomenta Preve, non è diverso dal dire che il comunismo è il passaggio dalla preistoria alla storia attuato dal proletariato rivoluzionario. Se la teoria marxiana si potesse ridurre a queste due narrazioni, che contengono quattro miti (del soggetto, dell’origine, della fine e della trasparenza) avrebbero ragione i suoi più sofisticati detrattori borghesi, come Max Weber e Martin Heidegger (ai quali Preve dedica una parte che non ho qui modo di discutere). Senonché Preve sostiene, non solo che la teoria marxiana non può essere contenuta in questa cornice mitico-messianica, ma anche che gli elementi in questione sono secondari rispetto al filone fondamentale del pensiero di Marx che, come chiarito dall’ultimo Lukacs (5) è di tipo ontologico-sociale, per cui esclude a priori qualsiasi teleologia automatica della storia.
Approfondiremo quest’ultima asserzione più avanti, discutendo della filosofia di Lukacs e della lettura offertane da Preve. Prima affronterò la seconda parte del libro, nella quale l’autore prende avvio dal seguente interrogativo: visto che i marxismi dopo Marx si sono quasi sempre inspirati alle due narrazioni mitiche sopra descritte, piuttosto che all’ontologia sociale, è possibile superarli a partire da una interpretazione autentica dell’opera del maestro? La risposta non può che essere negativa, perché cento anni di interpretazioni sbarrano la strada del viaggio verso il contatto originale e autentico con Marx. Ma soprattutto occorre tenete presente che i “fraintendimenti” del testo originale non sono frutto di “errori concettuali”, bensì “immagini del mondo” (concetto che Preve ruba ad Heidegger) che rispecchiano precisi vincoli storici: L’incorporazione del marxismo autentico in una formazione ideologica è una forma di esistenza necessaria del marxismo, così come ogni modo di produzione esiste soltanto nella forma concreta di incorporazione in una formazione economico sociale). Questo punto di vista è omologo a quello del Lukacs critico delle ideologie di cui mi sono occupato su questa pagina (6) e che Preve rilancia a sua volta così: l’ideologia non è riducibile al concetto di “falsa coscienza”, ma è lo strumento sociale con cui gli uomini combattono in conformità ai propri interessi i conflitti che nascono dal contraddittorio sviluppo economico. Lo spazio ideologico è un sistema di regni combattenti né è prevedibile che scompaia in una totalità pacificata. Sull’ultima affermazione dovremo tornare perché, come vedremo, è in contraddizione con altre affermazioni dello stesso Preve, per ora possiamo accontentarci del concetto secondo cui le varianti (i “fraintendimenti”) del marxismo vanno lette come espressione di differenti insiemi di interessi conflittuali, storicamente determinati. Nel libro Preve analizza, fra le altre, due di tali varianti nel modo che descriverò qui di seguito.
La prima variante è il marxismo della Seconda Internazionale che ha avuto il suo massimo esponente in Kautsky. Costui, scrive Preve, non era un “rinnegato” (secondo l’accusa di Lenin). Al contrario, la sua era una versione “ortodossa” dell’ideologia marxista, non nel senso (del tutto impossibile, come sopra argomentato) della perfetta coincidenza con il pensiero di Marx, bensì nel senso di un punto di vista che rispecchiava la visione delle magnifiche sorti e progressive del proletariato industriale tedesco fra fine Ottocento e primo Novecento, una “immagine del mondo” che rispecchiava quella specifica composizione di classe e l’ascesa politica della socialdemocrazia che la rappresentava. La visione kautskyana del capitalismo, scrive Preve, era incorporata nel discorso deterministico naturalistico (evoluzione automatica di un organismo complesso destinato al “crollo”), mentre quella del proletariato era incorporata nel discorso grande narrativo (crescita cumulativa della coscienza politica di un soggetto associata alla crescita della grande industria moderna). Per questo gli era alieno il concetto leniniano di “anello debole” – che, come anche Gramsci riconobbe, era la vera “eresia” (7) – in quanto aveva sempre ragionato in base alla teoria di una transizione al socialismo che sarebbe necessariamente dovuta avvenire nei punti alti della produzione capitalistica.
Karl Kautsky |
La seconda variante è quella dell’operaismo italiano. Pur rendendo omaggio alle analisi dei Quaderni Rossi (e di Rainero Panzieri in particolare) sull’evoluzione dell’organizzazione capitalistica del lavoro e della composizione di classe nelle grandi imprese degli anni Sessanta, Preve nota come da quell’analisi si sia fatto derivare un concetto di composizione di classe che veniva eletto a unica forma di manifestazione concretamente empirica della classe operaia stessa. In altre parole, nella narrazione operaista, la composizione astrattista dell’operaio massa diveniva sinonimo della classe in quanto tale (e addirittura della classe in sé, nella misura in cui veniva tolta la stessa distinzione marxiana fra classe in sé e classe per sé (8)), con il risultato che questo racconto è entrato in crisi non appena è entrata in crisi la concreta composizione di classe su cui si basava. Preve scriveva nell’84, quindi non ha fatto in tempo a valutare le successive metamorfosi concettuali (dall’operaio sociale ai lavoratori della conoscenza) che il post operaismo ha escogitato per adattare una realtà radicalmente mutata al paradigma originario, ha però fatto in tempo a cogliere due tendenze teoriche specifiche della corrente “negriana” del post operaismo, in ragione delle quali, da un lato, si vaneggia sul “divenire comunista” del capitalismo, nella misura in cui il comunismo viene ridotto all’orizzonte del consumo di beni e servizi privi ormai del “valore” (lavoro) fruito da un unico soggetto collettivo (…) questi beni e servizi sono prodotti da macchine automatiche mentre il soggetto fruitore è affidato alla automaticità macchinica post moderna di flussi desideranti (9)); 2) dall’altro lato, la lotta di classe viene presentata come scontro fra potere e potenza, il primo identificato con il comando capitalistico, che cerca di reimporre l’infamia del lavoro produttivo (..) quando ormai non rimarrebbe che consumare gratis i prodotti senza valore della macchine, la seconda consistente nella forza vitale metafisicamente promanante dai nuovi soggetti sociali (giovani, donne, ecc.).
Facciamo un passo indietro al tema dei tre discorsi di Marx. Abbiamo visto come Preve liquidi i primi due – quello grande narrativo e quello deterministico naturalistico – identificando nel discorso ontologico-sociale l’asse portante del contributo che Marx ha dato alla liberazione umana dal giogo del modo di produzione capitalistico. È venuto il momento di definire cosa intende Preve con il termine discorso ontologico-sociale. Ecco la definizione: la proposizione ontologico-sociale è fondata sull’esistenza di una sola scienza, la storia, caratterizzata da processualità e specificità, e ancora: nel momento in cui Marx fa della produzione e riproduzione della vita umana il problema centrale, compare la doppia determinazione di una insopprimibile base naturale e di una ininterrotta trasformazione sociale di questa. Il materialismo storico non è ricerca di presunte leggi deterministiche, perché la conoscenza tipizzata del passato, cioè la ricostruzione dei nessi causali che ne hanno determinato lo sviluppo può avvenire solo post festum. Nessuna necessità immanente, nessuna teleologia perché teleologia e causalità sono compresenti solo ed esclusivamente nella categoria del lavoro, la quale fornisce il modello di ogni agire finalistico dell’uomo e, al tempo stesso, costituisce quella prassi fondativa che innesca i processi causali che trasformano natura e società.
Così Preve nella prima parte, dove anticipa il suo corpo a corpo con l’ultimo Lukacs che avverrà nella quinta e ultima parte. È da qui che Preve trae l’idea del lavoro come fondamento categoriale dell’ontologia sociale, che non è filosofia della storia ma assieme di possibilità ontologiche concrete e inscindibilmente collegate ai vari modi di produzione. Lukacs nega ogni forma di teleologia tanto nei processi naturali che in quelli sociali, la storia non ha il diavolo in corpo, ma è il prodotto delle decisioni alternative che gli esseri umani compiono per realizzare un fine determinato (e l’attività lavorativa è il modello di questa prassi fatta di decisioni alternative ed è, quindi, il modello di ogni agire umano). La teleologia sta solo in queste decisioni alternative, mentre la causalità nasce dal fatto che esse generano sequenze causali necessarie che a loro volta danno luogo a specifiche soglie di irreversibilità storica. Né il soggetto delle decisioni è in grado di controllare la “direzione” delle sequenze causali che mette in atto (per questo le “leggi” del processo sono ricostruibili solo post festum). Le leggi economiche infatti non sono altro che la sommatoria impersonalizzata delle alternative individuali (“non sanno ciò che fanno ma lo fanno”, ripete Lukacs ossessivamente sulle tracce di Marx).
Gyorgy Lukacs |
Prima di proseguire è il caso di “tradurre” questi due ultimi paragrafi. Semplificando drasticamente: per Lukacs (e per Preve che ne sposa le tesi) 1) il lavoro, in quanto attività umana volta a modificare la natura al fine di realizzare un prodotto che esiste già come idea nella sua mente prima di essere materializzato, è il modello di ogni processo teleologico, o meglio è l’unica via attraverso cui il fattore teleologico penetra nel mondo reale, visto che né la storia naturale né quella umana incorporano una teleologia immanente; 2) il lavoro, inteso non solo come ricambio organico uomo-natura, ma anche e soprattutto in quanto somma di decisioni dirette a influenzare la coscienza di altri uomini in modo che essi compiano da sé, “spontaneamente”(10), gli atti lavorativi desiderati dal soggetto della posizione, genera catene causali che producono effetti necessari e irreversibili, nonché imprevedibili da coloro che le mettono in atto, ed è per questo che le ”leggi” del processo storico sono comprensibili solo post festum; 3) da 1) e 2) deriva che la realtà sociale è da intendersi non come il prodotto di una necessità di tipo causale naturalistico, bensì come un insieme di possibilità generate dal combinato disposto delle decisioni umane e dalle catene causali da esse generate; 4) queste possibilità non potranno mai essere realizzate senza l’intervento della posizione teleologica umano sociale; il che significa: 5) che la trasformazione rivoluzionaria del presente non avviene in ragione di processi “automatici” ma solo grazie alla conversione della progettualità lavorativa in progettualità politica consapevole (il cui esito non è necessario/prevedibile ma appartiene a sua volta all’ordine della possibilità). Fin qui si è visto come in questo libro Preve segua quasi passo passo la lezione di Lukacs, ora vedremo come, quando si impegna nel tentativo di offrirne una attualizzazione politica, se ne discosti progressivamente, fino a “fraintenderne” (per il significato del termine vedi sopra) talvolta lo spirito e talaltra anche la lettera.
In primo luogo, Preve dà per acquisito il fatto che Lukacs si collochi nel campo del “marxismo occidentale”, in opposizione – sia pure non sempre esplicita – con il “marxismo orientale”. Ricostruire i termini di tale opposizione richiederebbe qui troppo spazio, per cui mi limito a ricordare che Preve – diversamente da Domenico Losurdo, che ha fatto a sua volta ricorso a tale distinzione (11) – negativizza il marxismo orientale assimilandolo, di fatto, al Diamat staliniano, e concedendo solo qualche limitato credito al maoismo (laddove la Cina post maoista viene assimilata all’URSS in quanto Paese in cui si sarebbe restaurato il capitalismo), mentre pur criticando il marxismo occidentale (vedi sopra l’analisi del kautskismo e dell’operaismo) ne salva il superiore potenziale di sviluppo filosofico. In questo senso manifesta, oltre a una tendenza dogmatica che riproduce l’eurocentrismo di Marx ed Engels (12), anche una totale chiusura nei confronti delle inedite sfide teoriche poste dagli sviluppi del “socialismo reale”, liquidando con un’alzata di spalle, per esempio, la suggestione di un’autrice come Rita di Leo, la quale si poneva l’obiettivo di analizzare come funziona concretamente un modello di società caratterizzato dalla dominanza del fattore politico sul fattore economico. Posto che Lukacs, pur esplicitamente critico nei confronti dello stalinismo, non ha mai abbandonato la speranza nella riformabilità dei sistemi a socialismo reale (per cui avrebbe sicuramente accolto con estremo interesse l’esperimento cinese), Preve come giustifica questa sua attribuzione di Lukacs al campo del marxismo occidentale? Per rispondere mi concentrerò su due temi, che chiamano entrambi in causa la mancata critica dell’universalismo astratto quale imprescindibile presupposto del pensiero filosofico occidentale (universalismo che Lukacs assume contraddittoriamente, mentre Preve sposa integralmente). I temi in questione sono l’ideologia giuridica e la questione della estraniazione.
Parto dalla questione del diritto. Preve parte dalla constatazione che, per Lukacs, la riproduzione sociale è un complesso di complessi relativamente autonomi (linguaggio, economica, diritto, sessualità, guerra, arte ecc.) che mutano nel tempo e muta anche la collocazione di ognuno di essi nella gerarchia riproduttiva dell’insieme sociale. Da qui discende il fatto che nessuno di tali complessi può essere inquadrato in una gerarchia fissa che attribuisce all’economia il ruolo di struttura e a tutti gli altri quello di ideologie sovrastrutturali. Ciò vale, ovviamente, anche per il diritto. Preve sfrutta quindi questo passaggio per forzare una presunta valorizzazione lukacsiana del potenziale emancipativo contenuto nella formalità e nell’astrattezza del diritto borghese. Ora ciò è in contraddizione con la negazione di Lukacs di una concezione astratta della storia come progresso verso livelli sempre più elevati di civiltà (concezione che peraltro lo stesso Preve dovrebbe rifiutare, nella misura in cui essa si basa implicitamente sulla presupposizione di una tendenza al “meglio” immanente al processo storico). Inoltre lo stesso Preve riconosce che Marx tende a vedere nei discorsi di tipo etico una variante della concezione giuridica della società, concezione da lui respinta in quanto dal superamento dello sfruttamento non deriva una “giustizia socialista” bensì il superamento della forma giuridica in quanto consustanziale alla forma economica (per cui il diritto è per definizione diritto borghese e non “diritto umano”). Tuttavia Preve si distanzia qui da Marx e dal disprezzo dei diritti umani tipico delle legislazioni del socialismo reale.
Eppure in nessun passaggio di Lukacs ho trovato qualcosa che possa giustificare questa presa di distanza, per cui mi pare che Preve vada a cercarla piuttosto in quella parte finale della Ontologia dove Lukacs affronta le questioni della estraniazione e della transizione al socialismo (una parte, come ho sottolineato nelle mie “Glosse” (13), in cui il discorso appare abbozzato e tutt’altro che risolto). L’estraniazione, argomenta Preve, è generata dal fatto che mentre lo sviluppo delle forze produttive presuppone lo sviluppo delle capacità umane, quest’ultimo non produce obbligatoriamente lo sviluppo della personalità umana. E qui Preve si avviluppa (ma va detto che anche Lukacs si barcamena faticosamente fra diverse piste) in una serie di contraddizioni. Cosa si intende per sviluppo della personalità umana? Posto che Preve afferma che l’universalizzazione è possibile solo sulla base del capitalismo; posto che l’universalizzazione viene concepita come effetto collaterale dell’astrattizzazione e che la possibilità del rapporto non estraniato fra individualità particolare e genere umano è ontologicamente consentita dallo stesso progetto di astrattizzazione causato dal rapporto capitalistico di produzione; posto che (a proposito di diritti umani) Il comunismo è al di là e non al di qua della soglia ontologica irreversibile prodotta dal diritto borghese formale e astratto; posto che il comunismo è visto anche come momento della lotta della personalità individuale per la conquista della genericità in sé. Posto tutto ciò, non siamo qui pericolosamente vicini a regredire all’universo mitico che Preve ci invita a rinnegare nella prima parte?
È pur vero che Preve cerca di salvare capra e cavoli aggrappandosi al concetto di possibilità (il capitalismo rende possibile, non necessario il passaggio a un rapporto non estraniato fra particolarità e generalità, lo sviluppo delle forze produttive rende possibile non necessario lo sviluppo della personalità umana, ecc.), ma questo non basta a dissipare la sensazione che si riaffacci la visione di un processo lineare e irresistibile verso il paradiso del comunismo realizzato come regno di una personalità umana universale e pacificata, cioè verso la fine della storia. Il tutto reso possibile solo dal flusso principale della storia (borghese e occidentale), messa al riparo delle deviazioni laterali del “barbarico” comunismo orientale. Insomma siamo in pieno clima anni Ottanta, all’inizio del processo di marcescenza di un comunismo occidentale che di lì a poco sarà pienamente reintegrato nel regime neoliberale. Per capire se e in quale misura la catastrofe ha contribuito a modificare l’atteggiamento di Preve faremo ora un salto di 25 anni, fino al testo del 2009.
2) Il nemico principale
Nei 25 anni che separano La filosofia imperfetta da L’atteso ritorno del nemico principale è successo di tutto: la caduta dell’Unione Sovietica, lo scioglimento del Pci e la sua trasformazione in partito liberale, la degenerazione della sinistra radicale convertitasi nei nuovi movimenti, esclusivamente votati alla rivendicazione di diritti civili e individuali, il tragico arretramento dei rapporti di forza delle classi subalterne occidentali, travolte dai processi di globalizzazione e finanziarizzazione dell’economia e dal tradimento delle loro organizzazioni tradizionali; l’ascesa della Cina socialista, sempre più in grado di contendere agli Stati Uniti l’egemonia mondiale.
Come ha cambiato tutto ciò l’immagine del mondo di Preve? Non ne ha fortunatamente provocato la conversione all’ideologia mainstream della sinistra liberale; al contrario, ha suscitato il suo odio nei confronti di questa sinistra fino a ripudiare il significato stesso di tale parola, al punto da indurlo ad assumere provocatoriamente certe suggestioni della Nuova Destra, nella misura in cui rilanciano concetti e parole d’ordine già patrimonio delle sinistre rivoluzionarie, come nel caso di questa citazione del filosofo francese Alain de Benoist: Il nemico principale è sempre quello che è insieme più nocivo e più potente. Oggi è il capitalismo e la società di mercato sul piano economico, il liberalismo sul piano politico, l’individualismo sul piano filosofico, la borghesia sul piano sociale, e gli Stati Uniti d’America sul piano geopolitico. Perché citare De Benoist: una reazione dettata dall’irritazione e dal disgusto nei confronti di una sinistra in avanzata fase di decomposizione; o semplicemente perché quelle affermazioni apparivano condivisibili a prescindere dal campo ideologico da cui provenivano? Sciogliere questo dubbio mi sembra secondario rispetto al fatto che gli inquisitori si sono concentrati sulla fonte della citazione, ignorandone il contenuto; si sono cioè precipitati a condannare il dito ignorando la luna che il dito indicava. Molti altri “intellettuali eretici” “- come Jean-Claude Michéa, Hosea Jaffe, Domenico Losurdo fra gli altri – sono stati messi all’indice, ma solo Preve è stato sottoposto a un vero e proprio linciaggio, rimuovendo il suo contributo alla comprensione dell’epoca di passaggio che il mondo vive in questo inizio di secolo. Ma veniamo al modo in cui Preve sviluppa la suggestione di De Benoist.
Nel definire il nemico principale sul piano economico, Preve sostituisce il termine modo di produzione capitalistico al termine capitalismo, in quanto il primo consente di calare la determinazione del concetto astratto di capitalismo nella pluralità delle società capitalistiche concrete (vedi in proposito l’analogo concetto espresso nel precedente libro), ma soprattutto preferisce usare il termine società di mercato, in quanto economia di mercato è definizione troppo generica, in quanto lo scambio mercantile convive tranquillamente con formazioni sociali precapitalistiche (ma anche con formazioni sociali postcapitalistiche, anche se, come vedremo più avanti Preve non condivide tale affermazione). Il modo di produzione capitalistico è una società di mercato nel senso che, diversamente da tutte le formazioni sociali che la hanno preceduta, fa dello scambio mercantile il fattore coattivo di tutti i rapporti sociali (14). Una centralità ossessiva che, con l’avvento della globalizzazione neoliberale, attinge livelli tali da caratterizzarla come nemico globale e complessivo del Genere Umano in quanto tale.
Passiamo al nemico principale in politica, cioè quel liberalismo che, scrive Preve, rappresenta, con la società capitalistica di mercato, uno dei due volti inscindibili di un’unica forma oligarchica di dominio. Nel trattare il tema Preve compie due mosse. La prima, destinata ad aggravare la sua posizione di fronte al tribunale delle sinistre, consiste nel prendere le distanze da chi insiste nell’indicare quale nemico assoluto il Fascismo benché questo regime appaia irreversibilmente tramontato. L’antifascismo senza fascismi è il sintomo del fatto che il liberalismo, di destra centro e sinistra, nella misura in cui dispone esclusivamente della ricchezza privata quale unico criterio di riconoscimento sociale, necessita di una serie di ideologie di legittimazione etica integrativa, la principale delle quali è l’esaltazione degli immortali valori dell’antifascismo. La seconda mossa chiama invece in causa tre diverse critiche radicali dell’individualismo liberale: la prima appartiene a Michéa, il quale rilancia il detto di Marx secondo cui l’uguaglianza formale e astratta finisce inevitabilmente per accrescere le disuguaglianze reali; la seconda è quella di Castoriadis, il quale riconosce nel liberalismo le stigmate del disincanto come valore, del narcisismo come profilo antropologico e del nichilismo come nuova metafisica di fondazione; la terza rievoca un detto di Mo Ti (antico filosofo cinese) che recita: in una società in cui ognuno considera di fatto valido il proprio criterio di giudizio e disapprova quello degli altri, la conseguenza è che i più forti si rifiuteranno di aiutare i più bisognosi, ed i più ricchi si rifiuteranno di dividere le loro ricchezze.
Nel definire il nemico principale sul piano sociale, la borghesia, il discorso di Preve si fa più originale, nella misura in cui si discosta dal concetto marxiano di borghesia come insieme dei proprietari privati dei mezzi di produzione. In primo luogo perché osserva come il processo di produzione capitalistico possa essere messo in moto da soggetti non-borghesi, come la realtà contemporanea dimostra ampiamente, tanto che oggi il termine più corretto da adottare sarebbe oligarchie capitalistiche. Inoltre, e qui il ragionamento si fa più sottile, perché la borghesia “classica” era portatrice di una “coscienza infelice” che induceva le sue menti più brillanti a rinnegare il proprio ruolo storico. Coscienza infelice di cui oggi non rimane traccia alcuna se non nella patetica figura di quelle “anime belle” che trasformano l’impotenza in supremo valore morale.
Quanto ai motivi per cui Preve concorda con de Benoist nell’indicare negli Stati Uniti il nemico principale in geopolitica, cito qui di seguito le sue motivazioni: E siccome questa superpotenza, oggi, è anche il supremo garante strategico-militare del capitalismo (1), della società di mercato (2), del liberalismo politico (3), della teologia interventistica dei diritti umani (4), della nuova religione olocaustica del complesso di colpa interminabile dell’umanità (5), della sottomissione dell’Europa costretta alla cosiddetta “posizione del missionario” (6), della proliferazione di basi militari atomiche in tutto il mondo (7), del modello culturale televisivo del rimbecillimento antropologico universale (8), della secolarizzazione del presunto mandato messianico assegnato da Dio ad una nazione protestante eletta (9), più altre determinazioni che qui non riporto per brevità, ne consegue che non il popolo americano, non la nazione americana, ma soltanto la superpotenza geopolitica imperiale americana è il nemico principale. Esaurito il ragionamento sul concetto di nemico principale vengo a tre degli argomenti trattati in questo libro che mi paiono più interessanti: 1) gli spunti critici nei confronti di certi aspetti del pensiero di Marx, che riprendono temi trattati nel libro analizzato in precedenza; 2) il problema della difficoltà di tradurre l’identità di classe in azione politica; 3) il giudizio storico sul socialismo reale (e anche qui rileviamo elementi di continuità con l’opera precedente).
Sulle critiche a Marx. Preve rifiuta l’idea del comunismo come fine della storia, intesa come fine del conflitto sociale, e quindi come fine della politica. La formula da ciascuno secondo le sue capacità, a ciascuno secondo i suoi bisogni, che Marx associa a una visione irenica che dipinge un futuro in cui la politica dovrebbe dissolversi in amministrazione della cose, piace molto alla sinistra postmoderna e “antipolitica” dei giorni nostri, ma fa venire i brividi a Preve, il quale non crede in una utopistica ricomposizione di tutti i conflitti fra interessi collettivi (e qui mi pare si possa affermare che c’è un chiaro passo avanti rispetto ai discorsi sulla possibile realizzazione futura di una “personalità umana universale e pacificata” che abbiamo letto sopra). Preve rifiuta inoltre la separazione fra storia del pensiero politico e storia del pensiero economico moderni: il modo di produzione capitalistico, scrive, coincide in tutto e per tutto con ciò che chiamiamo modernità, per cui il tentativo di salvare il contenuto emancipativo della modernità, qualificandola come il solo aspetto culturale specifico della legittimazione simbolica del modo di produzione capitalistico può avere quale unico risultato l’esaltazione di quella divinità idolatrica chiamata Progresso. Marx non era esente dalla fascinazione da parte di questa divinità, soprattutto laddove esalta il carattere “progressivo” dei rapporti capitalistici nella misura in cui soppiantano i precedenti rapporti schiavistici e feudali.
Scrive Preve in proposito: Personalmente, non sono un ammiratore incondizionato di questo aspetto borghese-progressivo del pensiero di Marx, ed anzi lo considero uno dei punti più deboli e datati del suo pensiero. Ma non è questo il problema. Il fatto è che Marx non ha chiarito bene quale sia il criterio che permette di stabilire quando questa funzione progressiva cessa, e quando comincerebbe invece la funzione regressiva. Per essere più precisi, Marx ha bensì fornito un criterio di giudizio, ma l’ha fornito errato, individuandolo nel momento storico dell’insorgenza dell’incapacità di sviluppare ulteriormente le forze produttive, con conseguente stagnazione, parassitismo, eccetera. Insomma, il capitalismo diventerebbe “reazionario” soltanto quando non è più in grado di sviluppare le forze produttive ed i capitalisti da imprenditori creativi diventano percettori oziosi di rendite, tipo i signori feudali. Ora, mi sembra chiaro che questo volenteroso criterio è del tutto errato. Il capitalismo continua a produrre imprenditori di valore ed a sviluppare in modo vertiginoso le forze produttive. Ed allora non può essere questo il criterio giusto. Il criterio deve tornare ad essere pienamente filosofico, e cioè “umanistico”, e deve essere individuato nel modello di illimitatezza della produzione capitalistica complessiva e nell’imbarbarimento sociale ed antropologico delle forme di vita capitalistiche. E qui devo dire che il passo avanti maturato in questo quarto di secolo che separa le due opere mi sembra decisivo, nella misura in cui Preve si sbarazza delle illusioni in merito al potenziale emancipatorio del capitalismo che ancora nutriva nel precedente lavoro
Veniamo alla possibilità di tradurre in azione politica l’identità di classe. Qui Preve è decisamente più vicino a Lenin che a Marx. Già nel libro precedente aveva ammesso che a tutt’oggi non possediamo una teoria dello stato e del partito che abbia veramente superato Lenin, nel senso che resta valido il giudizio leniniano in merito alla incapacità delle classi subalterne, serrate nella morsa di un sapere limitato alla particolarità e prossimità diretta, di comprendere i meccanismi della riproduzione politica, economica e geopolitica della società in generale. Il guaio è, argomenta Preve, che la borghesia (che oggi veste i panni delle nuove oligarchie capitalistiche) è una signora classe, assai più coesa e abile del volonteroso e confuso proletariato. E a confonderlo ancora di più contribuiscono quegli intellettuali “di sinistra” che si impegnano a descrivere il secolo delle rivoluzioni proletarie come un museo degli orrori (15), che demonizzano il Novecento quasi volessero prevenire la malaugurata ipotesi che le classi subalterne ci possano riprovare.
la caduta del Muro |
Viceversa Preve non si limita a difendere il Novecento dall’accusa di essere stato il secolo degli orrori: difende anche l’esperienza del comunismo novecentesco dalle denigrazioni che gli arrivano dagli esponenti del settarismo di sinistra. Questa è senz’altro una novità rispetto al ripudio totale che 25 anni prima aveva manifestato nei confronti del socialismo reale, e che ora invece sostiene che andrebbe rivendicato come un esempio di proprietà collettivo-comunitaria di tipo non capitalistico, anche se ovviamente deformata da rapine burocratiche di vario tipo. Tuttavia questo cambiamento di prospettiva non si spinge fino a mettere in discussione l’affermazione dogmatica secondo cui questo gigantesco esperimento di ingegneria sociale sarebbe fallito ancora prima di concludersi con una restaurazione capitalistica di tipo selvaggio, attuato attraverso una maestosa controrivoluzione delle classi medie sovietiche. Ammesso e non concesso che ciò sia vero, è inspiegabile la rigidità con cui Preve liquida anche la rivoluzione cinese, rifiutandosi di prendere atto del fatto che, in questo caso, l’esperimento ha prodotto – invece del disastro russo – la straordinaria ascesa della Cina al rango di grande potenza mondiale, in grado di confrontarsi da pari a pari con il “nemico principale” statunitense. Preve arriva addirittura a liquidare il regime postmaoista con la sprezzante definizione di “capitalismo confuciano”.
Dietro questa clamorosa semplificazione si nasconde certamente il deficit di conoscenza economica, sociale e politica di un filosofo che evidentemente ignora – o sottovaluta – le argomentazioni di autori come - fra gli altri – Giovanni Arrighi (16), che descrivono la Cina come un sistema socialista con presenza di mercato e con conflitti di classe che potrebbero condurlo sia verso una restaurazione capitalistica, sia verso una più avanzata forma di socialismo. In particolare, Arrighi sottolinea come il permanere del controllo statale sui settori produttivi strategici e sulle banche, di uno sviluppato sistema di servizi pubblici, e di una politica estera difficilmente definibile come imperialistica, inducono a prendere atto del fatto che, finché il potere politico mantiene il controllo sull’economia, si può aggiungere mercato a volontà senza che il sistema possa essere definito capitalista (discorso che ricorda l’argomento di Rita Di Leo citato in precedenza, che tuttavia, come si è visto, Preve si rifiuta di accogliere). Se a ciò si aggiunge lo straordinario risultato di avere ridotto il numero dei cittadini in condizioni di povertà da più di ottocento a quattordici milioni, di avere mantenuto i livelli di occupazione nel momento in cui la crisi li aggrediva duramente nei paesi capitalisti occidentali, e di avere pilotato l’economia del Paese da un modello mercantilista fondato sui bassi salari a un modello autocentrato, grazie ad un aumento consistente e generalizzato delle retribuzioni, è evidente che il “miracolo” cinese, più che a una conversione del Partito-Stato ai principi e ai valori del liberismo, è da attribuirsi al permanere di consistenti elementi di socialismo (ed è esattamente per questo che scatena l’aggressività del capitalismo occidentale).
Ma non è solo questione di ignoranza e disinformazione. Qui gioca, a mio parere, il nodo filosofico che avevamo evidenziato discutendo le tesi della Filosofia imperfetta, e che un quarto di secolo dopo è rimasto irrisolto. Il fatto è che Preve non riesce a realizzare che, così come riconosce che il modo di produzione capitalista – in quanto astratta categoria idealtipica – esiste solo attraverso una pluralità di formazioni sociali concrete, dovrebbe riconoscere che lo stesso vale per il rapporto fra il modello ideale di socialismo e la realtà delle diverse, concrete società socialiste in cui tale modello si è storicamente incarnato. Ritengo che ciò gli è impedito dal fatto che è rimasto legato a categorie filosofiche “universali”, né la frequentazione della ontologia sociale lukacsiana basata sul lavoro è bastata a riportarlo con i piedi per terra. Preve non riesce a digerire il “socialismo in stile cinese” perché non riesce ad afferrare la specificità storico-geografica di un immenso Paese con millenni di storia alle spalle, che ha sviluppato il suo grandioso esperimento sociale in coerenza con la concezione del tempo che ha ereditato dalle sue tradizioni culturali, e che ha elaborato un concetto di transizione socialista concepito come un processo secolare, caratterizzato da avanzate e ritirate, vittorie e sconfitte. Non ci riesce perché resta ancorato a una visione del mondo sostanzialmente eurocentrica, tipica di quel marxismo occidentale del quale, pur odiandolo, non ha potuto sbarazzarsi del tutto.
Note
(1) Cfr. C. Formenti, Il socialismo è morto. Viva il socialismo, Meltemi, Milano 2019, pp. 86-90.
(2) La filosofia imperfetta. Proposta di ricostruzione del marxismo contemporaneo, Franco Angeli, Milano 1984; una nuova versione di Finalmente! L’atteso ritorno del nemico principale è prevista per il prossimo settembre per i tipi di Inschibbolleth.
(3) G. Lukacs, Ontologia dell’essere sociale, 4 voll., Pgreco, Milano 2012.
(4) C. Formenti, O. Romano, Tagliare i rami secchi, DeriveApprodi, Roma 2019.
(5) Vedi nota 3
(6) “Glosse all’ontologia dell’essere sociale di Gyorgy Lukacs” apparse in quattro puntate su questo blog.
(7) Mi riferisco ovviamente alla nota frase di Gramsci secondo cui i bolscevichi avevano fatto una rivoluzione “contro il Capitale”, nel senso che la loro impresa aveva sovvertito l’idea marxiana, condivisa dall’ortodosso Kautsky, secondo cui la rivoluzione avrebbe potuto svolgersi solo nei punti alti dello sviluppo capitalistico.
(8) Cfr. M. Tronti, Operai e capitale, Einaudi, Torino 1966.
(9) Più su Marx, del quale si valorizza quasi esclusivamente il “Frammento sulle macchine” dei Grundrisse, la retorica post operaista si fonda soprattutto sulle teorie di autori come Michel Foucault e Gilles Deleuze.
(10) Come ho notato altrove (vedi nota 6) questa formulazione somiglia alla definizione di potere in Max Weber.
(11) Cfr. D. Losurdo, Il marxismo occidentale. Come nacque, come morì, come può rinascere, Laterza, Roma-Bari 2017.
(12) Sull’eurocentrismo di Marx ed Engels ho ragionato in un post apparso su questo blog, a partire dall’antologia di loro scritti India, Cina, Russia (a cura di Bruno Maffi), il Saggiatore, Milano 1960.
(13) Vedi nota 6.
(14) Un ragionamento che rievoca le tesi di C. Polanyi ne La grande trasformazione (Einaudi, Torino 1974), senonché Preve non apprezza il contributo di questo autore nella misura in cui – come sostengo in questo scritto – lo stesso Preve resta impaniato in una visione “continuista” (ancorché non teleologica) del processo storico.
(15) Cfr. M. Revelli, Oltre il Novecento, Einaudi, Torino 2001.
(16) Cfr- G. Arrighi, Adam Smith a Pechino, Feltrinelli, Milano 2008. Del dibattito in campo marxista sulla natura dell’economia e della società cinesi mi sono occupato ne Il capitale vede rosso, Meltemi, Milano 2020.
CARLO FORMENTI