\ Una storia della critica del valore attraverso gli scritti di Robert Kurz
apr 19th, 2021 | Di Thomas Munzner | Categoria: Teoria e critica
Una storia della critica del valore attraverso gli scritti di Robert Kurz
di Anselm Jappe
Robert Kurz, il principale teorico della «critica del valore» in Europa, è morto il 18 luglio 2012 a Norimberga, in Germania, a causa di un errore medico; aveva 68 anni. Questa morte prematura ha interrotto un lavoro immenso che durava da 15 anni, e che in Francia si comincia appena ora a conoscere. Nato nel 1943 a Norimberga, dove ha trascorso tutta la sua vita, Kurz partecipa in Germania, nel 1968, alla «rivolta degli studenti» e alle intense discussioni in seno alla «nuova sinistra». Dopo una brevissima adesione al marxismo-leninismo, e senza aderire ai «Verdi» nel momento in cui effettuavano in Germania la loro svolta «realista», nel 1987 fonda la rivista “Marxistische Kritik“, ribattezzata “Krisis” qualche anno più tardi. La rilettura di Marx, proposta allora da Kurz e dai suoi primi compagni di lotta (tra cui Roswitha Scholz, Peter Klein, Ernst Lohoff e Norbert Trenkle), non li ha certo portati a farsi degli amici nella sinistra radicale. Tutti quelli che hanno visto i propri dogmi – come la «lotta di classe» e il «lavoro» – rovesciati e abbattuti uno dopo l’altro, in nome di una messa in discussione delle basi stesse della società capitalista: valore mercantile e lavoro astratto, denaro e merce, Stato e nazione. Kurz, autore prolifico e scrittore vigoroso, sovente polemico, collaboratore regolare di alcuni importanti giornali, soprattutto in Brasile, conferenziere notevole, sceglie tuttavia di rimanere al di fuori dell’università e delle altre istituzioni accademiche, e decide di vivere grazie a un lavoro proletario: vale a dire, impacchettando la notte le copie di un giornale locale.
La dozzina di libri e le centinaia di articoli da lui pubblicati si collocano, grosso modo, a due livelli: da un lato, un’elaborazione teorica di fondo, realizzata soprattutto attraverso dei lunghi saggi apparsi sulle riviste “krisis” ed “Exit!” (quest’ultima, fondata nel 2004, dopo la scissone del gruppo Krisis: entrambe le riviste continuano ad essere pubblicate); dall’altro, un commentario continuo relativo all’approfondirsi della crisi del capitalismo, insieme a un’indagine sul suo passato; fatto in particolare per mezzo della sua grande storia del capitalismo: “Il Libro Nero del Capitalismo” (1999), che in Germania, nonostante le sue 850 pagine, è stato un best-seller; ma anche “La guerra per l’ordine mondiale” (2003); “Le Capital-monde. Mondialisation et limites internes au système moderne de production marchande” (2005) ; e tutti i suoi articoli sui giornali [*1]. Il suo primo libro, “Il collasso della modernizzazione“ [*2], gli aveva già consentito di arrivare ad un pubblico più vasto. In quel libro affermava – proprio nel momento del «trionfo occidentale» che seguiva alla fine dell’Unione Sovietica – che la società globale della merce aveva i giorni contati e che la fine del «socialismo reale» era stata solo una tappa. Nel 1990, dopo la caduta del muro di Berlino e lo sgretolamento dei regimi dell’Est, la vittoria definitiva dell’economia di mercato e della democrazia occidentale sembrava essere diventata indiscutibile. Le divergenze di opinione attenevano soltanto al giudizio che di questo fatto si dava. Kurz e i suoi compagni erano praticamente quasi soli nel dire che il crollo dei paesi dell’Est non era altro che l’ultimo passo verso la crisi globale dell’economia di mercato, la quale aveva già minato alla loro base le fondamenta delle società occidentali (le quali pertanto avevano ben altri problemi che la conquista di nuovi spazi). Il disincanto dell’opinione pubblica dopo questi avvenimenti, non è affatto estraneo al successo de “Il collasso della modernizzazione” che, pubblicato nel settembre del 1991, si trovò a vendere rapidamente 20.000 copie, e venne definito dall’influente quotidiano “Frankfurter Rundschau“, come «la più discussa pubblicazione recente» [*3]. Tradotto ben presto in Brasile, divenne anche lì un grande successo.
La differenza tra l’economia pianificata e l’economia di mercato è solo relativa, ci dice Kurz nell’apertura del suo libro, mentre a pesare molto di più è invece la loro base comune: il «lavoro astratto» – o per meglio dire, il «lato astratto del lavoro» – che non produce alcun lavoro d’uso, ma unicamente valore e plusvalore, e che si esprime attraverso un continuo accrescimento del denaro in quanto «fine tautologico a sé stesso», al di là di qualsiasi bisogno reale. Il capitalismo si è formato («accumulazione primitiva») grazie a delle fasi alterne di interventismo statale – spesso brutale – e di autoregolazione del mercato. Una volta che si sono instaurati i primi capitalismi nazionali, per i nuovi arrivati è diventato sempre più difficile riuscire a inserirsi nel mercato mondiale. La rivoluzione russa, a prescindere dalla volontà dei suoi leader, non aveva – e non poteva avere – il comunismo come orizzonte, ma solo una semplice «modernizzazione di recupero», a partire dall’indirizzamento del plusvalore verso dei settori strategici. Lo stesso Lenin vedeva nell’economia tedesca della prima guerra mondiale – e più specificamente nelle poste tedesche – un modello da seguire. Le categorie di base della produzione capitalistica come il valore, il denaro, i salari, i prezzi, non sono mai state abolite in Unione Sovietica; abbiamo assistito, piuttosto, ad una ripetizione accelerata – e per questo tanto più brutale – dell’«accelerazione primitiva» la quale aveva preceduto in Occidente quella nascita del capitalismo cui avevamo assistito. Quando la coscienza occidentale rimase inorridita di fronte al «totalitarismo», essa in realtà stava solo guardando un’immagine concentrata del proprio passato. Dopo i primi successi ottenuti dall’URSS riguardo l’aumento della propria produzione, ci fu un irrigidimento delle sue strutture di potere; la sospensione della dinamica interna del valore esasperò fino all’assurdo i lati negativi, come ad esempio il disimpegno totale nei confronti della creazione di valore in relazione ai bisogni sociali. E fu così, che l’Unione Sovietica, nel giro di qualche anno, accumulò di nuovo un ritardo, e solo grazie all’imposizione di un’autarchia forzata riuscì a resistere per ancora qualche decennio alla competizione internazionale. Ecco perché è un tragico errore credere che si possa semplicemente rimpiazzare un modello «erroneo» con un modello «giusto»: l’economia di mercato non può essere applicata a volontà, ma è invece, al contrario, una bestia condannata a divorare sé stessa. Ogni aumento della produttività nei centri più avanzati, compromette e vanifica la produzione di valore in quei paesi che non riescono a tenere il passo; e allo stesso tempo comincia a non essere più possibile alcuna autarchia. È in una tale corsa, che prima sono crollate le economie del Terzo Mondo, e subito dopo quelle dell’Est, mentre si configurava una lotta finale tra gli stessi paesi occidentali.
Kurz analizza nel dettaglio quali sono le aporie che hanno minato fin alla base gli Stati che alla fine del XX secolo sono state le due «locomotive» dell’economia mondiale, cioè, la Germania e il Giappone. Non si stratta affatto di una crisi congiunturale, per quanto grave, ma dell’ultimo irrigidimento di un modello di produzione basato sull’utilizzo del lavoro astratto e della natura, e nel quale l’altissimo livello di produttività si trova in contrapposizione sempre più lampante con la sua subordinazione all’auto-movimento del denaro. Lo scenario che si delinea, per Kurz, è apocalittico: una parte sempre più importante dell’umanità, non viene più nemmeno sfruttata, ma rimane tagliata fuori da ogni connessione con l’economia e con la civiltà. Dalle sue reazioni disperate nascono guerre civili e spaventose possibilità di ritorno nella barbarie. Lo sfondo teorico di queste analisi è una rilettura dell’opera di Marx che non mette più al centro la «lotta di classe» bensì la natura distruttiva, e allo stesso tempo storicamente limitata, del lavoro astratto che crea il valore delle merci, rappresentato nel denaro, nel quadro del feticismo delle merci. La socializzazione basata sul valore di scambio è cieca e incosciente; non è affatto il risultato di una una volontà preesistente. Indifferente a qualsiasi contenuto, la forma valore, dal momento in cui si impone a tutta la società, non può fare altro che portare alla catastrofe. I soggetti collettivi, così come le classi, non sono affatto gli attori della storia, ma sono essi stessi costituiti – e poi in seguito dissolti – dal movimento del valore; e questa affermazione impone un ripensamento radicale del concetto di “lotta di classe“. Pertanto, il conflitto tra proletariato e borghesia non è altro che un conflitto all’interno del rapporto capitalistico. Il movimento operaio, lungi dall’aver avuto come obiettivo il superamento della società della merce, è stato in realtà un motore del pieno sviluppo di tale società: ha lottato con successo contro tutti i residui precapitalistici che venivano erroneamente identificati come essenza del capitalismo. Così, ha pertanto promosso il trionfo della logica astratta del capitale sugli interessi dei singoli capitalisti. Il risultato è stato quello di sostituire le classi tradizionali con quelli che ora sono dei ruoli intercambiabili, insieme alla realizzazione finale della forma merce, “dietro” la quale non si nasconde alcun soggetto-agente da smascherare.
Siamo così arrivati al momento in cui diventano attuali il «Marx esoterico» e la sua critica del feticismo, mentre smette di avere qualsiasi corso il marxismo «sociologico», che considera i soggetti sociali come se fossero prioritari – e non come un derivato – e crede di poter dominare gli automatismi del valore attraverso la volontà politica. A partire da questo, categorie come «imperialismo» e «colonialismo» vengono viste sotto una nuova luce: oramai, quelli che erano i presunti «centri imperialisti» non vogliono più fare delle conquiste durature, ma preferiscono tener fuori tutti quelli dei quali non hanno più bisogno. Il fascismo è stato – sempre secondo Kurz – un innesco violento nell’imposizione della forma merce, il cui risultato finale è la democrazia occidentale con le sue uguaglianze e le sue libertà formali. Pertanto il fascismo è stato solamente un «precursore». Ma non gli si può opporre una «vera» democrazia, allo stesso modo in cui l’uguaglianza formale delle porzioni di valore non può mai corrispondere ad una identità quantitativa: piuttosto, questa forma astratta di socializzazione deve essere superata.
Non esiste alcun soggetto costituito – sia che si tratti della classe operaia, dei popoli del terzo mondo, delle donne o degli emarginati – non c’è alcun «polo buono» che si trova sul punto di prendere possesso del mondo, cui viene impedito di farlo attraverso la «manipolazione» o la violenza delle classi dominanti. Il valore è una forma «a priori» uguale per tutti, e il che significa che per ognuno, quelli che sono i suoi interessi si presentano sotto la medesima forma astratta di denaro e di «diritti democratici». Ragion per cui non esiste – contrariamente a quanto avviene in Theodor Adorno, cui la critica del valore deve molto – alcun «residuo non reificato» suscettibile di essere mobilitato. Ciò però non deve portare alla disperazione, come ha sostenuto la critica del valore negli anni ’90: è la società moderna ad aver sviluppato nel proprio seno tutto il potenziale di una società che possa essere basata sul concreto. Più tardi, Kurz è però diventato assai più scettico a tal riguardo. In proposito, di particolare importanza è stato il saggio “Subjektlose Herrschaft” [Dominio senza soggetto], pubblicato sul terzo numero di Krisis (1993). In esso, Kurz si occupa del «Dominio», una categoria molto in voga a partire dal fatto che appare essere più importante delle categorie economiche. Kurz prende le distanza dallo strutturalismo, compreso quello di Althusser, e dalla teoria dei sistemi. Per lui, il soggetto non è né un errore teorico né una semplice marionetta, ma piuttosto una «marionetta che tira da sé solo i propri fili». Il soggetto esiste, ma egli non è cosciente della propria forma, la quale prelude perfino qualsiasi possibilità di una coscienza di classe. Soggetto e oggetto non sono dei dati ontologici, ma vengono creati, entrambi, dall’inconscio. A fini della comprensione della costituzione feticistica di tale inconscio, tanto Freud quanto Marx sono qui utili, perché esso va visto come il prodotto di un processo storico e non come un dato individuale o naturale. Il dominio esiste effettivamente, ma non come un arbitrio personalizzato, quanto piuttosto come un fluido che pervade tutto. Fin dal suo inizio, la critica del valore si è proposta di leggere la storia come una «storia delle relazioni feticistiche», dove il valore – in quanto forma attraverso la quale si esprime il potere umano inconsapevole di sé stesso – è succeduto alla terra, ai legami di sangue e al totemismo. Inizialmente, questa lettura del susseguirsi delle costituzioni feticistiche ha portato ad affermare che una simile «preistoria» dell’umanità starebbe per finire. Tutte queste forme sono diventate una «seconda natura»; uno strumento indispensabile perché l’uomo possa differenziarsi dalla prima natura. Ma ormai è diventato tanto possibile quanto necessario per l’umanità procedere verso una «seconda umanizzazione», questa volta cosciente. Tuttavia ciò non può aver luogo senza uscire dal sistema feticista basato sul lavoro astratto e sul valore.
Assieme a queste ampie considerazioni sulla storia, nelle sue centinaia di articoli e di interventi, Kurz ha anche proposto le sue analisi dell’evoluzione del mondo contemporaneo [*4]. Secondo la critica del valore, il capitalismo sprofonda sempre più in una crisi irreversibile. È stata questa teoria della crisi, ad avere incontrato la più ampia accettazione pubblica, e Kurz è stato perfino definito da alcuni media come il «profeta dell’apocalisse». Negli ultimi 25 anni, e perfino nei momenti di apparente vittoria definitiva del capitalismo, negli anni ’90, Kurz ha sostenuto – basandosi su una lettura rigorosa di Marx – che le categorie fondamentali del modo di produzione capitalista stanno perdendo il loro dinamismo, e hanno raggiunto il loro «limite storico»: non si produce più abbastanza «valore». Oramai, il valore (che contiene il plusvalore, e pertanto il profitto), espresso in denaro, è l’unico fine della produzione capitalista; la produzione del «valore d’uso» è solo un suo aspetto secondario. Il valore di una merce è dato dalla quantità di «lavoro astratto» che si è reso necessario per la sua fabbricazione, vale a dire il lavoro in quanto puro dispendio di energia umana, senza badare al suo contenuto. Meno lavoro contiene una merce, meno «valore» essa ha (e bisogna che si tratti di lavoro che corrisponda al livello di produttività stabilito in un dato momento: dieci ore di lavoro di un tessitore artigianale possono «valere» solo un’ora, dal momento che egli in dieci ore produce ciò che un tessitore con una macchina produce in un’ora, allorché il regime di produzione si trova ad essere quello industriale). Fin dai suoi inizi, il capitalismo vive tale contraddizione: la concorrenza spinge ciascun capitalista a rimpiazzare con le macchine il lavoro vivo, in modo che questo gli garantisca un vantaggio immediato sul mercato (prezzi di vendita più bassi). Ma così facendo, a diminuire è tutta l’intera massa del valore, mentre le spesse per investire nelle tecnologie – le quali non creano alcun valore – aumentano. Di conseguenza, la produzione di valore rischia continuamente di strozzarsi con le sue proprie mani e di morire per mancanza di redditività. Il profitto – il volto visibile del valore, quello che interessa agli attori del processo mercantile – a lungo termine rimane possibile sono in un regime di accumulazione che funziona. Per molto tempo, il processo di espansione sia interna che esterna della produzione di merci (sia quelle destinate verso altre regioni del mondo che quelle all’interno delle società capitaliste) è stato in grado di compensare la diminuzione del valore nelle merci particolari. Ma a partire dagli anni ’70, la «terza rivoluzione industriale», quella della micro-informatica, ha reso «superfluo» il lavoro in proporzione tale che non è stato più sufficiente alcun meccanismo di compensazione. Da quel momento in poi, il sistema delle merci è sopravvissuto essenzialmente solo grazie al «capitale fittizio», vale a dire grazie ad un denaro che non è più il risultato di una creazione di valore ottenuta attraverso l’impiego produttivo della forza lavoro, ma che viene creato dalla speculazione e dal credito, e che si basa esclusivamente sui profitti futuri ancora da realizzare (tuttavia, giganteschi, e quindi impossibili da realizzare).
Secondo Kurz, questa teoria della crisi ineluttabile si trova presente in Marx, ma lo è in un una maniera frammentaria e ambigua (nei Grundrisse, il «Frammento sulle macchine» è il passaggio più significativo): l’accumulazione del capitale non è una modalità stabile che potrebbe continuare all’infinito e alla quale solo la «lotta degli oppressi» porrà fine, come aveva proclamato tutto il Marxismo dopo Marx. Kurz dimostra che la «teoria del collasso», lungi da essere oggetto di ampio consenso da parte dei marxisti, come viene spesso sostenuto, è stata piuttosto un «serpente marino». Alcuni teorici si accusavano a vicenda di fare affidamento su di essa, ma quasi nessuno ammetteva che il capitalismo si sarebbe potuto scontrare con i propri limiti interni prima dell’arrivo di una rivoluzione proletaria. Secondo Kurz, le uniche teorie che analizzano tali limiti – quella di Rosa Luxemburg (L’accumulazione del capitale, 1912) e quella di Henryk Grossman (La legge dell’accumulazione e del crollo del sistema capitalista, 1929) – rimasero a metà strada e non riuscirono ad esercitare alcuna influenza reale sul movimento operaio. Kurz, presenta pertanto la sua propria teoria della crisi come se fosse una novità assoluta, resa possibile dal fatto che il limite interno della produzione di valore, previsto da Marx su un piano teorico, è stato effettivamente raggiunto negli anni ’70. A partire da qualche anno, dopo essere stata negata pe molto tempo, questa crisi è diventata visibile anche a sinistra. Ma per Kurz, le spiegazioni attualmente offerte dagli «economisti di sinistra» (in realtà, dei semplici keynesiani), i quali riducono il problema al «sottoconsumo», sono troppo miopi. Nel quadro della società di mercato, non c’è più alcuna soluzione possibile che non rientri nella camicia di forza del valore, nel momento in cui le tecnologie hanno sostituito quasi interamente il lavoro umano. Quando ogni merce non contiene più nient’altro se non delle dosi «omeopatiche» di valore – e, quindi di plusvalore, e di conseguenza di profitto – non cambia niente per quel che attiene alla loro utilità (eventuale) per la vita. Ma per un modo di produzione basato sul valore, una situazione del genere è fatale; e in una società completamente sottomessa all’economia, il crollo di questa rischia di trascinare nella barbarie l’intera società. Di certo, Kurz non si limita a queste considerazioni generali, ma analizza in dettaglio l’evoluzione della crisi. Leggendo in senso contrario, quelle che sono le statistiche ufficiali, dimostra, tra le altre cose, che la Cina non salverà il capitalismo, e che la ripresa tedesca si basa, come tutto il resto, su dei nuovi debiti, i quali dopo la crisi del 2008 sono serviti solo a spostare i cosiddetti «crediti marci», dislocandoli dal settore privato e portandoli verso gli Stati; e in genere i servizi sono del lavoro «improduttivo» (nel senso che non producono valore) e non possono sostituire i posti di lavoro perduti nell’industria, ecc. Kurz dimostra perché né i «pacchetti di stimolo» neokeynesiani né le cure di austerità abbiano la minima possibilità di risolvere la crisi, e meno che mai lo abbiano le proposte per «creare posti di lavoro»: il problema di fondo – ma anche l’unica speranza! – è costituita proprio dalla «fine del lavoro». Lavoro e valore, merce e denaro non sono degli aspetti eterni della vita umana, ma invenzioni storiche relativamente recenti. Attualmente stiamo vivendo la loro fine; una fine che, naturalmente, non si verificherà da un giorno all’altro, bensì nello spazio di qualche decennio, come viene precisato da Kurz, e nel fare questo si allontana un po’ dalle sue precedenti previsioni, più «catastrofiche», per quel che riguarda il prossimo futuro.
La finanziarizzazione dell’economica e la speculazione, lungi dal costituire le cause dell’attuale crisi, al contrario hanno contribuito per molto tempo a ritardarla, e continuano tuttora a giocare tale ruolo. Ma così facendo, è andato accumulandosi un potenziale di crisi ancora più grande, che per prima cosa farà sì che si rischi l’esplosione di una gigantesca inflazione globale, come segno della svalorizzazione del denaro in quanto tale. Addossare la responsabilità di tutto questo ai «banchieri» o a una sorta di cospirazione neoliberista, come viene fatto da quasi tutte le critiche espresse a sinistra, significa, secondo Kurz, non riuscire a cogliere il problema. Ecco perché egli si dimostra piuttosto scettico riguardo il potenziale di emancipazione dei nuovi movimenti di protesta, dei quali stigmatizza anche le derive antisemite, palesi o implicite. Kurz accusa spesso la sinistra – in tutte le sue varianti – di non volere uscire veramente dal quadro capitalistico, che di fatto essa considera come se fosse eterno. Ragion per cui, a partire da ciò, essa propone solo una distribuzione un po’ più giusta del valore e del denaro, senza tener conto del ruolo negativo e distruttivo di queste due categorie , né del loro esaurimento storico. Peggio ancora, i diversi rappresentanti della sinistra finiscono spesso per proporsi come co-gestori dello scivolamento verso la barbarie e la miseria. Anziché correre dietro i movimenti di contestazione e adularli, Kurz oppone costantemente ad essi la necessità di assumere una critica anticapitalista radicale (nei suoi contenuti, e non solo nelle sue forme!). Non basta cambiare il personale dirigente gestionale: il capitalismo è un sistema feticistico e inconsapevole, retto dal «soggetto automatico» (l’espressione è di Marx) della valorizzazione del valore. Il dominio personale dei proprietari legali dei mezzi di produzione sui venditori di forza lavoro è solamente la traduzione «sociologica», visibile alla superficie, del meccanismo autoreferenziale dell’accumulazione del capitale.
Nel suo ultimo libro, “Denaro senza valore“ [*5], Kurz schiera l’artiglieria pesante della critica dell’economia politica su un piano essenzialmente concettuale . Pubblicato pochi giorni dopo la morte dell’autore, questo libro tuttavia non rappresenta né una summa né un testamento teorico: è stato concepito come se fosse la prima parte di un ampio progetto di rifondazione della critica dell’economia politica. Kurz affronta quattro grandi temi interconnessi tra di loro: la fondamentale differenza tra le società pre-capitaliste, proto-capitaliste e capitaliste e il ruolo che in esse gioca il denaro; la nascita del capitale e del valore di mercato a partire dal XV secolo; la logica interna del capitale, quando essa arriva ad essere pienamente sviluppata; la contraddizione interna e il limite interno logico che si frappone all’accumulazione capitalista nel corso della sua evoluzione storica e fino ai nostri giorni. Nel mentre che procede attraverso una serrata polemica con alcuni marxisti tedeschi poco noti all’estero ( Michael Heinrich, Hans-Georg Backhaus, Elmar Altvater, Wolfgang Friedrich Haug ) – passando per dimostrazioni alquanto sottili – Kurz arriva a dei risultati che sono sorprendenti per la loro semplicità. Egli non si riferisce a quasi nessun autore della tradizione marxista, ma unicamente a Marx (solo Adorno e il Lukàcs di Storia e Coscienza di Classe sembrano servirgli da ispirazione parziale, e più che altro per quanto concerne l’approccio dialettico). Kurz non pretende affatto di ristabilire «ciò che Marx ha veramente detto», ma cerca di approfondire il lato più radicale e innovativo del suo pensiero. Una parte della sua opera – il «Marx essoterico» – rimane, secondo Kurz, sul territorio della filosofia borghese dei Lumi e della sua fede nel «progresso» e nei benefici del lavoro. È in quell’altro lato – rimasto minoritario e frammentario – che il Marx «esoterico» ha messo in atto una vera e propria rivoluzione teorica, che in più di un secolo quasi nessuno è stato in grado né di comprendere né di continuare. Questi aspetti differenti della teoria di Marx sono strettamente interconnessi (e non si tratta affatto di «fasi» successive!). Il nucleo più profondo, imperniato sulla teoria del valore, è diventato davvero attuale solo con il declino del capitalismo. Kurz perciò non si propone di «interpretare» Marx, né di «correggerlo», ma di riprendere le sue intuizioni più feconde, anche se questo significa opporsi alle altre idee del maestro.
Rispetto ai suoi precedenti libri, Kurz approfondisce qui due temi che precedentemente erano rimasti essenzialmente impliciti. Egli afferma che ciò che noi chiamiamo «valore» e «denaro» non esisteva affatto prima del XIV e del XV secolo, e sostiene che i fenomeni che nelle società precapitalistiche ci appaiano come denaro o come valore, in realtà svolgevano una funzione fondamentalmente diversa. Il capitalismo non è nato come un’escrescenza particolare su un’esistenza atemporale – in ogni caso, molto antica – del valore e del denaro, bensì è nato insieme ad essi. Kurz si limita a fare solamente delle breve escursioni nella storia «fattuale», però esamina in dettaglio le strutture delle «categorie» della critica dell’economia politica. A tale scopo si rende necessario sbaragliare l’«individualismo metodologico» (identificato con il «positivismo») che egli ritiene essere il fondamento di ogni pensiero borghese, e che avrebbe «infettato» anche quasi tutto il marxismo. Presente nel pensiero dello stesso Marx, a fianco della sua ispirazione più autenticamente dialettica, spiegherebbe quelle che sono le contraddizioni nella sua opera. Kurz non era mai stato così esplicito sui fondamenti metodologici. Tuttavia, non si tratta di ricominciare – come si è fatto negli anni ’70 – a fare i gargarismi con il termine «dialettica», e renderlo un metodo universale. Kurz trae sempre la propria energia dalla polemica contro un avversario: qui, c’è l’incapacità del pensiero borghese di riuscire ad andare oltre quelli che sono i fatti isolati e i loro eventuali «effetti reciproci» Il «Tutto» non è semplicemente la somma dei singoli elementi particolari, ma esso possiede una sua qualità propria; gli elementi particolari non sono ciò che sembrano essere a prima vista, come nella visione empirica. Essi rivelano la loro vera natura solo se vengono compresi in quanto determinati dal tutto. Tuttavia, Kurz non si lascia andare a fare delle considerazioni metodologiche in maniera astratta, ma sviluppa il suo approccio a partire da un dato oggetto: non si tratta di analizzare (come spesso ha fatto lo stesso Marx, quanto meno nel primo volume del Capitale) la struttura di un singolo capitale particolare – anche fosse un capitale «ideal-tipico» – per poi in seguito concepire il «capitale totale» come se fosse l’aggregazione di tutti questi capitali particolari; cosa che non farebbe altro che riprodurre la struttura del singolo capitale particolare. Analogamente, la singola merce particolare è analizzabile solo in quanto parte della massa totale delle merci.
Kurz inizia il suo libro discutendo un problema che apparentemente riguarda piuttosto la filologia marxiana. Nel primo libro del Capitale, Marx analizza la merce e il suo valore in maniera puramente logica. È la stessa catena logica che porta poi in seguito all’esistenza del denaro; occorre fare ancora qualche altro passo per arrivare al capitale. Questa successione logica riflette anche una successione storica? Su questo Marx non è per niente chiaro e sembra esitare. Per il vecchio Engels, invece, e per i marxisti successivi, il discorso è ovvio: la logica corrisponde alla storia. Si tratta dell’approccio «logico-storico». Secondo tale approccio, il valore di mercato esisteva assai prima del capitale. Per migliaia di anni, sarebbe avvenuta una «produzione di merci semplici», senza il capitale. Da sempre, o quasi, gli uomini attribuiscono un «valore» ai loro prodotti sulla base del lavoro che vi hanno impiegato per fabbricarli. Analogamente, anche il denaro esisterebbe da moltissimo tempo, anche se prima serviva solo a rendere più semplici gli scambi. Il capitalismo sarebbe arrivato solo quando si è accumulato cos’ tanto denaro al punto da diventare capitale e trovarsi di fronte una forza lavoro «libera». Un simile approccio, protesta Kurz, «naturalizza» e «ontologizza» il valore e il lavoro, trasformandoli in condizioni eterne di qualsiasi vita sociale. Anche la società post-capitalista si dovrà ridurre così ad essere qualcosa che assomiglia all’«applicazione cosciente della legge del valore» (un tale ossimoro è stato uno degli obiettivi dichiarati del «socialismo reale»!) o ad altre forme di «mercato senza troppo capitalismo». Kurz riprende, spesso correggendola, la «nuova lettura di Marx», proposta in Germania a partire dal 1968 da parte di alcuni allievi di Adorno (Hans-Georg Backhaus, Helmut Reichelt): nella sua analisi della forma valore, Marx avrebbe esaminato le categorie della merce, del lavoro astratto, del valore e del denaro così come esse si presentano in un regime capitalista compiuto «che cammina sulle proprie gambe». Si tratterebbe di una ricostruzione concettuale che parte dall’elemento più semplice, la «forma-merce semplice», per arrivare alla genesi «logica» del denaro; l’esistenza del denaro, che in questa deduzione appare come una conseguenza, è in realtà già un presupposto dell’analisi della forma più semplice. Il valore, come quantità di lavoro astratto esiste solamente laddove esistono il denaro e il capitale. Le tappe intermedie della costruzione marxiana, quali la «forma-valore sviluppata» in cui lo scambio delle merci avviene senza la mediazione del denaro-merce, sono delle semplici tappe della dimostrazione; esse non corrispondono a niente di reale. Senza l’esistenza di un denaro-merce (il metallo prezioso), i valori non possono rapportarsi gli uni agli altri in quanto valori. Pertanto, una produzione di merci senza denaro non può esistere, e la teoria marxiana della forma valore è valida unicamente per il capitalismo. La condizione di mancanza di chiarezza, nell’analisi della forma valore da parte di Marx stesso, corrisponde tanto a quelle che sono delle difficoltà espositive (simultaneamente, i presupposti coincidono con le conseguenze, e viceversa) quanto all’oscillare – da parte di Marx – tra prospettiva storica e prospettiva logica, tra dialettica ed empirismo. Pertanto: senza denaro niente valore, senza soldi niente capitale. Ma si potrebbe subito ribattere che il commercio, i mercati e il denaro – e perfino i soldi coniati – esistono da migliaia di anni. Per l’interpretazione storico-logico tradizionale, ciò non costituisce affatto un problema: ci assicura che il valore è sempre esistito, così come il denaro a partire da un certo periodo in poi – ma solo in quanto «nicchie», vale a dire, solo ai fini dello scambio delle eccedenze. Per quanto riguarda la loro struttura, si sarebbe trattato dello stesso denaro e dello stesso valore che abbiamo oggi. Il graduale aumento di questi scambi, soprattutto alla fine del Medioevo, portò alla formazione del capitale. Kurz rimprovera al marxismo – quando nel suo approccio positivista ragiona così – di non discostarsi dalla scienza borghese, la quale si limita a considerare solo dei fatti isolati: vedendo una persona che dà un sacco di grano in cambio di una pepita d’oro nell’antico Egitto, oppure nel Medioevo e oggi, conclude che si deve trattare sempre della stessa cosa: merce in cambio di denaro, perciò commercio. quindi mercato…
Per Kurz, i fatti empirici, senza una «critica categoriale» che li collochi in quello che è il loro contesto, non dimostrano niente. Ragion per cui, se non è determinato cosa sia il denaro nel modo di produzione capitalista (e non solo la sua funzione pratica, bensì ciò che esso è) non siamo in grado di decidere se le conchiglie o i pezzi d’oro che circolano nelle società non capitaliste corrispondevano realmente al denaro in senso moderno. Cosa questa che Kurz nega risolutamente. Storicamente, il denaro precede il valore, viene detto. Ma quale denaro? Il denaro in senso capitalista – sostiene Kurz – nasce in seguito alla diffusione delle armi da fuoco, a partire dalla fine del XIV secolo. Ciò che a noi sembra essere denaro nelle società pre e non capitaliste svolgeva piuttosto quella che era una funzione sacrale: nato dal sacrificio, il dono faceva circolare i prodotti nel contesto di una rete di obblighi, in cui coloro che erano investiti di un potere sacrale giocavano un ruolo centrale. Si trattava di un’altra forma di feticismo. Ovviamente c’era produzione e circolazione di beni, ma non esisteva alcuna «economia», né «lavoro» o «mercato», nemmeno in forme rudimentali o «non ancora sviluppate» (come sostiene Kurz in opposizione a Karl Polanyi, col quale è d’accordo su altri aspetti). Kurz affronta solo brevemente un’analisi storica del ruolo del denaro (riservandola ad opere future che purtroppo non appariranno) e si limita a citare solo alcuni autori. Tra questi, il medievalista Jacques le Goff, il quale nega l’esistenza del «denaro» nel Medioevo (e che Kurz contrappone a Fernand Braudel, per il quale invece il «mercato è universale»). Il denaro premoderno non aveva alcun «valore»: la sua importanza non derivava dal fatto di essere la rappresentazione, quantitativamente determinata, di una «sostanza» sociale generale, come lo è il lavoro nelle società moderne. Pertanto, agli occhi di Kurz, il capitalismo non costituisce una intensificazione delle forme sociali antecedenti, ma piuttosto una violenta rottura. L’enorme sete di denaro, suscitata dalla corsa agli armamenti a partire dall’inizio del XV secolo in poi, rappresenta il Big Bang della modernità, che in poche generazioni ha generato un sistema basato sul denaro (il quale cambia così completamente di funzione: da simbolo, nel quadro di un legame personale di obbligazione, esso diventa principio di mediazione sociale universale, rappresentante materiale del lavoro astratto), oltre al valore-lavoro, al lavoro astratto stesso, al capitale, e ovviamente allo Stato (anch’esso cambia la sua funzione). Così facendo, Kurz ha aperto un vasto cantiere, in cui rimane ancora quasi da fare tutto.
Il rifiuto dell’«individualismo metodologico», ha portato frutti anche per quel che riguarda la rilettura kurziana di Marx e la critica dell’adattarsi da parte del marxismo ai criteri dell’economia politica borghese (marginalista e neoliberista). Secondo Kurz, numerose difficoltà nella teoria di Marx (come, ad esempio il famoso problema della trasformazione di valori in prezzi) scompaiono nel momento in cui si abbandona l’analisi della merce particolare e del capitale particolare a favore del capitale totale (categoria che può essere colta solamente come concetto, e non su un piano empirico), e dove le merci particolari e i capitali particolari nono sono altro che delle «aliquote». Questo spostamento dell’asse concettuale dal capitale particolare al capitale totale (Marx esitava tra i due approcci, e Kurz lo libera, per così dire, dalle sue incertezze), permette effettivamente a Kurz di gettare luce in maniera sorprendente su alcuni problemi, come quello relativo al rapporto tra saggio di profitto e massa di profitto, oppure sulla questione del lavoro produttivo. Senza dubbio molti «economisti marxisti» non saranno d’accordo, ma difficilmente potranno evitare di misurarsi con gli argomenti di Kurz. La discussione supera definitivamente i confini di una battaglia erudita tra economisti marxisti, nel momento in cui arriva alla questione del «limite interno» della produzione capitalistica, dovuto alla caduta della massa totale di valore. Kurz dedica a questo l’ultima parte del suo libro, chiarendo alcuni argomenti che aveva lasciato in sospeso da tempo. In ogni caso, la fine del libro arriva un po’ inaspettata: Kurz si chiede se stiamo nuovamente andando verso un «denaro senza valore». Mentre quella che è la massa nominale di denaro nel mondo (ivi comprese le azioni, le quotazioni degli immobili, i crediti, i debiti, i prodotti derivati finanziari) continua ad aumentare costantemente, ciò che il denaro dovrebbe rappresentare, il lavoro, si riduce a delle porzioni che diventano sempre più piccole. In questo modo, il denaro non ha più quasi valore «reale», e una sua gigantesca svalutazione (all’inizio, sotto forma di di inflazione) sarà inevitabile. Pur tuttavia, dopo secoli in cui il denaro ha costituito una mediazione sociale su scala sociale sempre maggiore, la sua svalutazione, non organizzata ma improvvisa, non può altro che provocare una gigantesca regressione sociale e l’abbandono di gran parte dell’attività sociale nel momento in cui non è più «redditizia». La fine della traiettoria storica del capitalismo così di riportarci verso un «perverso ritorno» del sacrificio, a una nuova barbarie postmoderna. In effetti, il capitalismo si trova sul punto di annullare perfino quei magri «progressi» che ci aveva portato, e domanda continuamente agli uomini dei «sacrifici» per poter salvare il feticcio-denaro. I tagli nella sanità pubblica ricordano a Kurz i sacrifici umani della storia antica che venivano praticati per calmare degli dei collerici, e chiude “Denaro senza valore” con l’affermazione che «i sanguinari sacerdoti aztechi appaiono umani e gentili se paragonati ai burocrati-sacrificatori del feticcio globale del capitale arrivato al suo storico limite interno» [*6].
Per quale motivo la critica del valore, malgrado la sua innegabile forza intellettuale, ha solamente un impatto piuttosto limitato sulla critica del capitalismo? Perché quelli che Kurz ha definito come «dinosauri» marxisti (anche nelle loro versioni postmoderne) e gli economisti «alternativi» keynesiani [*7] - che secondo lui sono legati alla fase del capitalismo che si è appena conclusa e il cui discorso è da 40 anni che rimane sempre lo stesso – dovrebbero essere nuovamente diventati dei punti di riferimento per coloro che vogliono combattere la devastazione della vita da parte del capitale? Kurz non aveva mai smesso di sostenere che il capitalismo era sul punto di scomparire insieme ai suoi vecchi avversari, in special modo il movimento operaio e i suoi intellettuali, i quali avevano completamente interiorizzato il lavoro e il valore, e il cui orizzonte non è mai andato oltre l’«integrazione» degli operai – e successivamente degli altri gruppi «subalterni» – nella società della merce. Perché la critica del valore, che pretende di aver compreso il carattere fondamentalmente nuovo della situazione attuale, non riesce, se non difficilmente, a ottenere «successo» pubblicamente?
Una prima ragione – probabilmente la meno importante – è dovuta all’assenza di una strategia di occupazione dello spazio pubblico: Kurz e gli altri fondatori della critica del valore, non sono né degli accademici né de giornalisti mass-mediatici, e si limitano unicamente a sfruttare quelli che sono gli spazi che vengono loro messi a disposizione. Inoltre, la prosa di Kurz, per quanto possa essere pungente e brillante nei suoi scritti «divulgativi» popolari, nelle sue opere più teoriche è talvolta di difficile lettura, e ancora più di difficile traduzione. Fondamentalmente, sono soprattutto la teoria della crisi e il suo mettere in discussione la lotta di classe a suscitare delle resistenze. Per Kurz, non ci troviamo più in presenza di una crisi «ciclica», o di «crescita» del capitalismo, ma viviamo quella che è la fine di una lunga epoca storica, senza poter sapere se il futuro sarà migliore, o se invece coinciderà piuttosto con il cadere in una situazione in cui la grande maggioranza della specie umana smetterà di essere utile ad essere sfruttata, ma sarà semplicemente «superflua» (per la valorizzazione del capitale). E nessuno sarà più in grado di gestire una simile macchina imballata. Tale prospettiva viene rapidamente rimossa, poiché essa fa paura, ed è molto più spaventosa che dire che ci sono dei malvagi speculatori che rubano i nostri soldi (ma lo Stato ristabilirà la giustizia per il popolo!). La critica del valore mette sotto accusa quasi tutte le forme di opposizione passate e presenti per essersi lasciati ingabbiare nella forma valore, se non di avere addirittura contribuito al suo pieno sviluppo. Pertanto, ha rifiutato quasi tutta la tradizione marxista, ed è entrata frequentemente in polemica con quelli che ne sono i suoi rappresentanti contemporanei, rompendo con il consesso e con i riti degli ambienti accademici marxisti. Di conseguenza, questi ambiti le hanno contrapposto, fino a quando hanno potuto, una «cospirazione del silenzio». Ma anche coloro che riconoscono il potere euristico della lettura della realtà capitalistica proposta dalla critica del valore, le rimproverano spesso di non indicare una «pratica» possibile. Kurz è chiaro a tale proposito: la teoria è già una forma di «prassi», ed essa contribuisce soprattutto a de-naturalizzare le categorie della vita capitalistica. Creare una società in cui la produzione e la circolazione delle merci non passano più attraverso la mediazione, resasi autonoma, del denaro e del valore, ma vengono organizzate secondo i bisogni; ecco qual è l’enorme compito che si impone dopo secoli e secoli di società della merce. Anche se Kurz ne formula la necessità, egli non spiega come arrivarci. Ma sono assai poche le teorie che si sono avvicinate, quanto ha fatto la sua, al «cuore di tenebra» del sistema feticistico del capitale.