Glosse a “Il concetto di nazione.
apr 8th, 2021 | Di Thomas Munzner | Categoria: Dibattito PoliticoSul suo blog Carlo Formenti ha pubblicato[1] una recensione del testo spagnolo “La base material de la nación en Marx y Engels” di Carlos Barros. In questo testo proverò a ricostruire il suo argomento ed aggiungere qualche altro spunto. In particolare, dalla rilettura di un saggio di Lelio Basso su “La natura dialettica dello Stato secondo Marx”, contenuto in un libro autori vari del 1977, “Stato e teorie marxiste”[2]. Non si tratta, dunque, di trattare l’enorme tema del concetto di Stato (o, e non è ovviamente la stessa cosa, di nazione) nel marxismo, e neppure in Marx o Engels, ma di aggiungere una semplice glossa ad un passaggio.
Infatti, Carlo conclude il suo pezzo scrivendo:
“Se già ai tempi di Marx era impossibile fissare criteri universalmente validi per rispondere alla domanda su quali lotte nazionali sostenere, oggi l’impresa è ben più ardua: è giusto sostenere l’irredentismo catalano anche se assume i connotati di un “separatismo dei ricchi” (6); è giusto appoggiare le rivendicazioni di tibetani, uiguri e abitanti di Hong Kong contro il governo centrale della Cina Popolare, anche se è alimentato e sostenuto dall’imperialismo occidentale e ha caratteri esplicitamente antisocialisti? E ancora: ha senso attribuire un significato progressivo all’integrazione europea in nome dell’accelerazione dello sviluppo economico, anche se il costo di tale sviluppo è la subordinazione e l’impoverimento delle nazioni (e delle classi subalterne!) mediterranee da parte della Germania? È giusto considerare ideologicamente regressivo il carattere patriottico delle rivoluzioni bolivariane dell’America Latina? Rispondere a ognuna di queste domande richiede di svolgere un’analisi concreta di tutti i fattori economici, socioculturali, storici e geopolitici implicati in ogni singola situazione, dopodiché l’unico fattore di cui tenere conto – in ultima istanza - per dare loro risposta resta a mio avviso quello della valutazione degli interessi di classe in campo; certamente non quello dello sviluppo delle forze produttive” (corsivo mio).
Condivido completamente questa conclusione, ma proprio questo segna la distanza non solo dagli autori di metà ottocento citati da Barros, quanto anche da Basso almeno su un punto cruciale. Se con ciò si volesse dire che, allora, non si può essere marxisti senza aderirvi me ne farò una ragione.
Del resto “De omnibus dubitandum” era un motto preferito da Marx.
Quel che conta non è essere fedeli seguaci di questo o quello, ciò che conta è stare consapevolmente nel proprio tempo, apprendendolo anche nel pensiero, e mettersi nelle condizioni di agire in esso.
Nel Marx di Barros, descritto da Carlo, c’è piena consapevolezza che ogni concreta società ha una base nazionale; si costituisce in un concreto percorso sociale e culturale e sotto l’egemonia della classe direttiva, che in Europa è stata a partire dall’illuminismo la borghesia. Ci sono dunque ‘condizioni nazionali di produzione’ di natura storica (ovvero economica, naturale, sociale e politica) che sovraintendono alla costruzione della nazione come “totalità concreta”. Basso, come vedremo, porrà l’enfasi sulla circostanza che ogni Stato (sia nazionale sia plurinazionale) è sempre campo di scontro anziché unità organica. Quindi c’è un nodo di grande complessità e delicatezza nel momento in cui, parlando non di “Stato” bensì di “nazione”, questa viene rivendicata come intreccio concreto di vincoli la cui esistenza unisce tutti gli individui (creando un “noi” sovraordinato, almeno ad un certo livello, agli altri “noi” e quindi “loro”[3]). Si determina, quindi, un nesso “social-nazionale” che è fatto di materia complessa ma reale (interessi, relazioni, storia e memoria) e in ultima istanza a base economica. La glossa che Carlo produce, sulla scorta della sua lettura di Lukacs[4], a questo “ultima” è significativa: “Nella sua opera matura, Lukacs pone ad esempio l’accento sull’aggettivo ‘ultima’, nel senso che, dal suo punto di vista, la determinazione dei complessi sovrastrutturali (politica, cultura, diritto, ideologie, ecc.) sì fa sempre più indiretta e meno cogente a mano a mano che progredisce lo sviluppo dell‘essere sociale”. Rilevante è comprendere, precisamente, cosa è “lo sviluppo dell’essere sociale” in questa economia di discorso.
L’interpretazione dei testi prodotta dallo studioso spagnolo segnala una certa incertezza terminologica nelle fonti (cosa per certi versi scontata, trattandosi di testi lungo quaranta anni e di due autori diversi, se pure strettamente connessi) quando utilizzano termini come “nazione”, “paese”, “popolo”, “patria”, e fanno uso della coppia “Stato/Società Civile” (che appare come sinonimo di “nazione”). Coppia che, in effetti, è presente nel corpus marxiano sin dalla lettura giovanile di Hegel, per il quale è notoriamente centrale[5]. Questa coppia strutturale slitta, nell’opera matura, in “Struttura/Sovrastruttura”, ma spostando significativamente il focus. Secondo un’influente lettura soccorrerebbe in tal senso il concetto di “autonomia relativa” tra società civile e le diverse articolazioni dello Stato che Marx stesso proporrebbe in un passaggio de “Il 18 brumaio di Luigi Bonaparte”. In esso chiarirebbe che, pur essendo ovviamente lo Stato capitalista in rapporto con la lotta di classe, questo abbia una “autonomia relativa” nei confronti delle stesse classi dominanti che se ne servono. Precisamente, anche delle stesse classi “politicamente dominanti”[6]. Rileggendo quindi questa interpretazione di Poulantzas, connesso alla scuola althusseriana, lo Stato svolgerebbe essenzialmente la funzione di organizzazione politica delle stesse classi dominanti, e di disorganizzazione politica di quelle dominate, ma tutto ciò con ‘autonomia relativa’. Si tratterebbe del fatto che le strutture politiche, giuridiche, ideologiche (che creano soggettività), sono connesse ma anche parzialmente autonome dall’economico. Non ne discenderebbero automaticamente e non senza un qualche filtro, una specifica deviazione, una messa in forma. Lo snodo specifico indicato è che nel momento in cui lo Stato (e le sue strutture giuridiche ed organizzative) svolge la funzione d’ordine che gli è propria (ovvero organizzazione e disorganizzazione), è tuttavia necessario che si rappresenti come unitario. Qui la forma dello “Stato/nazione”, e quindi “Stato/popolo” diventa preminente, e con essa un potenziale eccedente i meri interessi delle classi politicamente dominanti (in altre parole questa struttura le costringe ad una prospettiva più inclusiva e più di medio-lungo termine rispetto a quella che il mero istinto di riproduzione ed accumulazione consiglierebbe).
A parte l’analisi filologica del testo, che non soccorre adeguatamente la lettura poulantziana, resterebbe da chiarire la dimensione “relativa” di questa autonomia, e trovare un posto alla dialettica tra rappresentanza politica e sovranità popolare, alla simmetria morfogenetica tra la struttura presunta paritaria dello scambio mercantile (ideologizzato) e le forme giuridico-politiche delle libertà ed eguaglianza formali. Oppure, quale conseguenza ed esito, le forme della presunta e rivendicata separatezza tra “sfera dell’interesse generale”, rappresentata dallo Stato nel suo complesso, e sfere degli ‘interessi particolari’ che nella sua neutralità apparente questo parifica astrattamente. Creando, in realtà, le condizioni perché il potere scaturente dallo scambio mercantile dispieghi pienamente i suoi effetti. Di qui la proposta, es. in “Critica del programma di Gotha”, del Marx maturo di superamento della diagnosticata autonomizzazione dello Stato “politico-burocratico” rispetto al livello di base dei bisogni, della produzione e della conoscenza, producendo quella che si può leggere come una ricomposizione strutturale. Dunque, né l’estensione del mero suffragio, o dell’accesso alla dimensione politico-burocratica, né, parimenti, l’ulteriore espansione della macchina di controllo centrale (se pure cambiata di “padroni”) è dirimente nella prospettiva marxiana; quanto, casomai, il superamento della coppia “Stato/società civile”, ed in uno di quella “Struttura/sovratruttura”, creando un’identità tra i luoghi e le forme della produzione collettiva e quelle della decisione collettiva. Il tema, cioè, del superamento della divisione sociale del lavoro. Il massimo livello utopico al vertice, però, di una analitica complessa e spietata.
Scendendo da questi altissimi e rarefatti livelli di astrazione, la lettura che Carlo Formenti compie del testo di Barros, si concentra sul problema pratico della posizione da assumere nei confronti dei concreti conflitti che mobilitano le forme nazionali e/o le relative ideologie e strutture organizzative nel farsi storico. Qui l’osservazione del posizionamento dei due ‘padri’ non soccorre pienamente, in quanto nel contesto del loro tempo accidentato si trovarono di fronte a grandiosi processi di formazione di nuove entità statuali (inizialmente plurinazionali) come l’Italia e la Germania; a movimenti irredentisti di popoli schiacciati e frammentati come quelli irlandesi e polacchi, in primo luogo, ma anche magiari, serbi, slovacchi, boemi, croati, rumeni e via dicendo sotto l’Impero Austro-Ungarico; al colonialismo in primis verso le grandi potenze e nazioni (o imperi plurinazionali) estremo-orientali indiana e cinese. L’obiettivo che ci si pone determina il posizionamento. E qui i nostri si fecero attrarre dallo schematismo che ritroveremo da ultimo ben espresso da Basso: dato che lo sviluppo delle forze produttive favorisce la socializzazione (collocandosi al livello della ‘società civile/struttura’) e si pone quindi in contrasto strutturale con i rapporti di produzione giuridico/formali (che si collocano al livello dello ‘Stato/sovrastruttura’) dunque in ultima analisi è a questo che bisogna guardare qualsiasi sia il costo. Lo sviluppo delle forze produttive, infatti, socializza e fortifica la classe operaia (che qui significa lavoratrice), e avvicina la rivoluzione.
La versione althusseriana di Poulantzas[7], o quella della costellazione negriana, o la versione luxemburghiana di Basso alla fine frequentano questo terreno. Dall’impiego della doppia coppia ‘Stato/società civile (nazione)’ e ‘sovrastruttura/struttura’ fanno dipendere, intorno al perno della lotta al riformismo letto come sussunzione della società civile/struttura nello Stato/sovrastruttura, la diagnosi della rivoluzione al punto più alto di sviluppo delle forze produttive e quindi la prescrizione politica di spingerle, pur nei loro effetti dislocanti e distruttivi.
Lelio Basso si troverà a dire che alla fine, in quel del 1977 Marx è attuale più che mai in quanto, cito: “l’immenso sviluppo delle forze produttive che la società capitalistica ha provocato e la spinta socializzatrice che ne sprigionano, in radicale contrasto con i rapporti capitalistici di produzione” è più vero che nel 1860-70 quando furono diagnosticate. La socializzazione immanente allo sviluppo delle forze produttive (che significa sia del sistema delle macchine[8], sia della crescita delle forze-lavoro[9]) apre alla possibilità di “rapporti sociali più elevati” e, contemporaneamente, a rapporti più coerenti con le possibilità dello sviluppo tecnico. Questo è il conflitto fondamentale, che genera e determina una vasta gamma di contraddizioni dialettiche le quali, nella forma di antagonismi laceranti e irriducibili, “non possono non trovare eco anche all’interno dello Stato”. A parere di Basso ne deriva che è un errore considerare scolasticamente lo Stato, in quanto “borghese”, come blocco monolitico di potere, quando è, piuttosto, “una sede permanente di contrastanti tendenze in lotta per il potere”. Ovvero, con formula sintetica ed illuminante, “un rapporto dialettico con la base della società”[10].
C’è un doppio sfondo storico da considerare per comprendere questa frase dell’anziano teorico e militante socialista[11]: pronunciato nel 1975 ha sotto gli occhi il ciclo di lotte crescenti nelle fabbriche del Nord ed in tutta Italia dell’ultimo quindicennio, il discorso è sul crinale della trasformazione del modo di produzione capitalista che si dispiegherà a partire proprio da quell’anno con i vari tentativi di aggirare da parte della proprietà capitalista della grande fabbrica (alla quale Basso guarda) il nodo dei maggiori costi e dell’erosione dei margini. Prende le mosse da qui la spinta alla “costellazione territoriale di piccole imprese”, che uniscono minore conflittualità perché le dimensioni minori portano differenze qualitative e maggiore controllo diretto, faccia-a-faccia, tra “padrone” e “operai”, elasticità organizzativa, capacità di inserirsi agilmente in mercati in via di trasformazione e via dicendo. Il secondo sguardo di Basso (l’estensione dei consumi), infatti, agisce in direzione inaspettata e come un secondo braccio di una tenaglia spiazza il consumo di massa in favore di un bisogno di distinzione che si manifesta come consumi “identitari”. Questi avvantaggiano il modello flessibile di produzione.
Pensando sostanzialmente con i piedi ben poggiati sul terreno che precede questa svolta la diagnosi è semplice e ben comprensibile quanto al suo oggetto ed ai fenomeni che nomina, le forze produttive con lo sviluppo della grande industria e del macchinismo rompono costantemente la corrispondenza precedente tra le forze produttive e i rapporti di produzione,
“le prime sono sospinte, dalla necessità stessa dello sviluppo capitalistico, verso forme sempre più sociali, mentre i secondi tendono a riprodurre perpetuamente una società basata sul profitto privato. Marx descrive questo processo come il vero processo autodistruttivo della società capitalistica e non esita ad affermare che le macchine sono le vere forze rivoluzionarie, più dei Blanqui, dei Barbés e dei Raspoil”[12].
Dunque, nello sconvolgere i vecchi rapporti, è la forza immanente del processo di socializzazione promosso necessariamente dallo sviluppo delle forze produttive a rendere necessaria la ricerca di sempre nuovi equilibri nel conflitto scaturente dalla contraddizione con i rapporti di appropriazione privatistici. Cioè, con le sue parole, “ad adattare di volta in volta la difesa del rapporto privatistico, vale a dire del profitto privato, alle avanzanti esigenze sociali dello sviluppo produttivo”. Ma, è molto importante anzi decisivo, “avanzanti esigenze” di natura “sociale”.
E qui si manifesta il secondo sfondo. Questo adattamento, la cui necessità scaturisce dal conflitto antagonista, negli anni in cui Basso pensa ed avendo sotto gli occhi il dispiegarsi della dinamica del dopoguerra fino ad allora (non solo in Italia) è dato da “l’intervento crescente dello Stato”. Siamo infatti al termine (ma il nostro non lo sa) non solo del modo di produzione fordista (dai due lati della produzione e del consumo), bensì anche dello Stato interventista. Al termine ma al culmine.
Quindi il leader socialista chiarisce che questo intervento “a partire dal New Deal americano”, ha visto “le nazionalizzazioni di interi settori dell’economia, le programmazioni o pianificazioni statali, le discipline coatte dei prezzi, la redistribuzione dei redditi fino al cosiddetto Stato assistenziale” e questi sono nello schema esattamente “altrettanti momenti di questo processo attraverso il quale l’azione dello Stato permette ai rapporti privatistici di produzione di mantenersi al di là di ogni crisi e di ritrovare un nuovo compromesso nonostante il crescente processo di socializzazione imposto dallo sviluppo delle forze produttive”.
In altre parole, lo sviluppo ‘riformista’ del welfare è visto essenzialmente come reazione e risposta equilibrante ad una tensione immanente tra masse crescenti di lavoratori capaci di azione politica e quindi richiedenti soluzioni sociali ai problemi posti dalla crescita e dominio politico di classe. Questo è, in fondo, il medesimo modo in cui lo vedeva la scuola althusseriana e come, anche post festum, hanno per inerzia teorica e cattura in schemi ossificati, continuato a vederlo gli epigoni fino ad oggi.
Basso ricorda che per Marx, il quale a sua volta scrive sul tramonto del secolo XIX e dentro una specifica tradizione filosofica, “il solo modo per superare una formazione sociale è quello di spingere a fondo le contraddizioni che si sprigionano al suo interno”. Ciò non comporta un fatalistico determinismo in quanto le contraddizioni sorgono spontaneamente, iscritte nelle cose per così dire, ma non le soluzioni. La cosa sta in questo modo:
“La lotta del proletariato contro il capitalismo assume l’aspetto di un’autentica lotta di classe per il potere nella misura in cui gli obiettivi del proletariato vengono a coincidere con le possibilità concrete offerte dallo sviluppo delle contraddizioni obiettive: solo la partecipazione cosciente del movimento operaio a questi processi spontanei e la coincidenza dell’azione soggettiva con le tendenze obiettive costituiscono, per Marx, un’autentica azione rivoluzionaria, secondo un’affermazione contenuta nello Herr Vogt, e che a me è sempre sembrata di importanza capitale: in essa, Marx definisce l’azione rivoluzionaria come la ‘partecipazione cosciente al processo storico di rivoluzione sociale che si svolge sotto i nostri occhi’”[13].
La questione dirimente per Basso è allora questa. Se nel movimento reale della Storia, dato dall’incalzare dello sviluppo crescente delle forze produttive nella loro natura socializzante e quindi dall’insanabile contraddizione con i rapporti capitalistici[14], gli elementi di una nuova società in potenza (il movimento dei lavoratori e le forze ad esso alleate) coscientemente agiscono e si raccolgono in unità organica, allora, e solo allora, si pongono le basi per un nuovo modo di produzione e quindi nuovi rapporti politici. Siamo, come si vede, nell’ambito delle distinzioni concettuali tra base/sovrastruttura e società civile/Stato.
Ma se manca questa azione cosciente, questo unirsi in unità organiche, allora ci si avvia ad un “pericoloso ristagno” (che a partire dal 1976 sarà visibile e quindi nella correzione di bozze del 77 probabilmente già intravede) e “non solo il capitalismo riuscirà a trovare soluzioni provvisorie, adattamenti e compromessi sempre nuovi, attraverso un’interpenetrazione crescente del potere politico e delle strutture economiche, ma riuscirà a prolungare innaturalmente la vita di queste sue successive reincarnazioni, che ormai recano palesemente in sé il germe permanente del fascismo, e a prolungare innaturalmente la riproduzione dei rapporti capitalistici”. Il capitalismo, in altre parole, in assenza di una forza cosciente che coordini l’azione verso una nuova formazione sociale, portando la sfida al livello opportuno ma anche organizzandola dal basso, avrà l’occasione di “utilizzare al massimo la capacità riequilibratrice del sistema”. Capacità che può passare anche per forme di suffragio rapidamente ricondotte nella rete di vincoli incrociati tra capitale, governo e potenze esterne (scrive sinistramente “in tal modo il potere decisionale che il suffragio universale avrebbe dovuto affidare al popolo appartiene a quest’ultimo solo in modo apparente, mentre nella realtà il parlamento è cortocircuitato da potenze estranee, qualche volta addirittura occulte, di cui si limita a registrare la volontà”[15]). Oppure per la stessa redistribuzione, che nella forma di consumi privati (ovvero di più alti salari) favorisce l’individualismo ed il consumismo in quanto questi “si convertono in un sostegno essenziale dello sviluppo capitalistico e dell’allargamento del processo di accumulazione”.
O che oggi, nelle mutate condizioni, può passare per l’utilizzo dell’energia critica stessa al neoliberismo, dalla MMT ad alcune posizioni neokeynesiane, capovolta in forza stabilizzante nel contesto della doppia autodifesa del grande capitale multinazionale e dell’egemone non più egemone nordamericano[16].
La questione si riduce dunque a questo disperato appello: spingere le forze produttive cercando di stargli dietro ed organizzare la forza che deriva dalla loro necessaria capacità socializzante per costruire dei contropoteri autonomi ed un “uomo nuovo” ed evitare che il capitalismo usi ciò che si trova costretto a concedere (suffragio e redditi) per ristabilizzarsi. Una sorta di corsa contro il tempo che è stata evidentemente persa proprio in quel torno di anni (e che, inserita come era nel più ampio quadro del conflitto mondiale, peraltro, non poteva essere vinta in quei termini).
La mia glossa al commento di Carlo è dunque questa: non c’è in sé nulla di specificamente cattivo, o buono, nello sviluppo delle forze produttive, ma usciti dall’entusiasmo macchinico del XIX secolo, come dalla rincorsa del dopoguerra, oggi vediamo bene che esso non è né specificamente né necessariamente associato ad un incremento della socializzazione. Lo schema “sviluppo/tecnica/progresso” non ci può dunque guidare. Ci tocca il compito di tastare bene le pietre del guado, una ad una, unendo soccorso e protezione alle esigenze umane di base (lotta concreta per una buona sanità, per un fisco più equo, per salari degni, per servizi decenti), tensione ad unire un “blocco storico”[17] a partire da queste rivendicazioni concrete e lotta per la liberazione nazionale da ogni forma di dipendenza. Parafrasando una nota formula di Mao: l’uomo vuole vivere, la classe vincere, la nazione prosperare.
[2] - AAVV, a cura di Guido Carandini, “Stato e teorie marxiste”, Mazzotta editore, 1977.
[3] - Ovvero quel che si nomina quando si dice, ad esempio, che noi siamo italiani e loro spagnoli, mentre, ad esempio, io, Carlo e Barros potremmo essere “marxiani” verso i “liberali”.
[5] - Se pure il giovane Marx l’adopera in modo difforme dal vecchio Hegel. La “società civile” nel primo non è la sfera degli individui empirici e dei rapporti interpersonali dominati dall’alto dalla potenza dello Stato, ma, piuttosto, la sfera dei bisogni, del lavoro, della vita privata, che è piuttosto dominata ed organizzata internamente dagli interessi proprietari, ed è, ovviamente, divisa in classi e ceti esprimenti cultura, interessi e modalità organizzative fondamentalmente diverse.
[6] - Si veda la lettura di Danilo Zolo, “Epistemologia e teoria politica nelle interpretazioni del pensiero politico di Marx”, in AAVV, “Stato e teorie marxiste”, cit., p.49
[7] - Riferisco di passaggio la devastante critica che Danilo Zolo, nel 1977, produce all’ambizione di fondazione epistemologica althusseriana, a suo parere fallita: “per la scuola althusseriana un asserto scientifico, almeno nell’ambito del sapere storico e sociologico, è un asserto che corrisponde ai principi della ‘nuova scienza’ fondata da Marx. Solnato le categorie della nuova scienza marxiana consentono l’appropriazione conoscitiva degli ‘oggetti reali’ esistenti fuori del pensiero, nel mondo reale. Ogni epistemologia che non operi con categorie come ‘struttura’, ‘sovrastruttura’, ‘surdeterminazione’, ecc. dà luogo a conoscenze false, ideologiche, cui nulla corrisponde nel mondo reale. Si tratta di una impostazione fortemente dogmatica, in cui l’adesione a una gnoseologia realistica e precritica si sposa con alcune categorie desunte dallo strutturalismo di Bachelard e di Foucault e utilizzate per formalizzare il pensiero maturo di Marx. Permangono in questa epistemologia, nonostante la modernità del lessico strutturalistico, tutte le scorie del Diamat sovietico: la concezione filosofica del marxismo come Weltanschauung naturalistica e dialettica; l’oggettivismo gnoseologico che contro l’idealismo borghese ripropone in termini tomistico-spinoziani il primato dell’essere sul pensiero; una concezione metafisica della scienza come teoria della verità in senso filosofico; una inclinazione ‘monistica’ che pretende alla unificazione entro l’orizzonte della ‘scienza marxiana’ dell’intero orizzonte delle conoscenze storico-sociali e intende la stessa formazione capitalistica come totalità di interrelazioni causali, come un continuum di determinismi intrecciati e sovrapposti. Una singola combinazione di metafisica e di strutturalismo.” Danilo Zolo, op. cit., p. 48.
[8] - Questo, a sua volta, composto sia dello sviluppo tecno-scientifico sia della crescita degli investimenti fissi sociali, ovvero città, infrastrutture, luoghi di produzione, etc.
[9] - Queste composte dell’esistenza materiale di una classe lavoratrice sempre più ampia, concentrata, capace, sia dell’insieme delle capacità, know how, operatività, che questa esprime.
[10] - Lelio Basso, “La natura dialettica dello Stato secondo Marx”, in AAVV, “Stato e teorie marxiste”, op.cit., p. 18.
[11] - Lelio Basso, nato nel 1903, morirà l’anno seguente alla pubblicazione del libro e tre anni dopo il convegno di cui questo è rielaborazione (Settimana internazionale di studi marxisti, Firenze, Palazzo dei Congressi, 3-7 marzo 1975 che recava titolo “Lo Stato capitalistico contemporaneo alla luce del pensiero di Marx”. Figura cruciale del dibattito costituente (si veda “Note sul dibattito costituente: l’art 3 e l’eguaglianza sostanziale”) e portatore di una articolata posizione sulle questioni cruciali dell’internazionalismo e dell’autonomia nazionale (si veda “13 luglio 1949, Lelio Basso ‘internazionalismo e nazione’ sulla ratifica dello Statuto del Consiglio d’Europa”) e sul federalismo (si veda “Lelio Basso ‘consensi e riserve sul federalismo’”). era avvocato, ma prese anche una seconda laurea in filosofia, è stato come antifascista molte volte arrestato e mandato al confino, partecipò alla Resistenza e all’insurrezione di Milano in posizione apicale, fu il direttore dell’esecutivo del PSIUP, “Alta Italia” al quale partecipavano Rodolfo Morandi e Sandro Pertini. Fu eletto alla Costituente, e rivesti cariche di grande rilevanza nel suo partito, ne fu Segretario generale (1948) e poi membro della direzione (1949-51; 1957-64), nel PSI rappresentò la tendenza a una politica di collaborazione con il PCI. Quindi, nel 1964 fu tra i promotori della scissione dell’ala sinistra del PSI, che diede vita al PSIUP di cui fu Presidente e che abbandonò per divergenze di giudizio sull’invasione sovietica in Cecoslovacchia. Basso fu ininterrottamente deputato dal 1948 e senatore (per la sinistra indipendente) dal 1972. Grande studioso del marxismo e direttore (dal 1958 al 1976) della rivista Problemi del socialismo, nel 1969 fondò l’Istituto per lo studio della società contemporanea e fu Presidente del Tribunale Russell 2º per l’America latina (da 1974 al 1976); quindi nel 1976 ad Algeri fu tra i promotori della Dichiarazione Universale dei Diritti dei Popoli. Tra i suoi scritti si deve ricordare “Il Principe senza scettro. Democrazia e sovranità popolare nella Costituzione e nella realtà italiana” (1958); la raccolta degli “Scritti politici di Rosa Luxemburg”, “Neocapitalismo e sinistra europea” (1969).
[12] - Cit., p. 26
[13] - Cit., p. 28
[14] - Molto schematicamente: cresce la forza lavoro in numero e concentrazione, cresce il prodotto sociale ovvero la ricchezza disponibile perché prodotta da queste crescenti forze produttive, ma questa viene appropriata da pochi che dispongono della proprietà dei mezzi di produzione. Da una parte scarsità e forza crescente, dall’altra abbondanza e sempre minore numero. La contraddizione è insanabile e può portare ad un rovesciamento.
[15] - Cit., p. 32.
[16] - Per questa ipotesi, al momento poco più di uno spunto interpretativo, si veda “Klaus Schwab e Thierry Malleret, ‘Covid-19: The Great Reset”.
[17] - L’esperienza rende ancora più chiaro che il nucleo del potenziale “blocco storico” in grado di contendere l’egemonia nella sfera pubblica prima, nella società e nell’arena dello stato poi, al quale bisogna riferirsi non può che essere il variegato e frammentato mondo delle classi lavoratrici, le più sacrificate dalla forma attuale del modo di produzione capitalista. Giova qui sottolineare che il concetto di “classe” che si adopera in questo contesto è di natura espressamente funzionale. Non ha a che fare con la dotazione di risorse individualmente possedute, o l’accesso ai consumi, più o meno distintivi (ovvero dal “ceto”), quanto alla posizione della propria autoriproduzione rispetto al capitale. Non necessariamente, anche se principalmente, la posizione che determina l’appartenenza di classe, si cattura nell’esistenza o meno di “lavoro salariato”. Né, tanto meno, nella figura dell’operaio (ovvero del lavoratore addetto alla produzione di beni industriali). Il punto è che la forma, storicamente determinata, del nesso tra lavoro vivo e lavoro morto, ovvero tra attività lavorative subordinate a mezzi e oggetti del lavoro stesso, attraversa tutte le molteplici modalità della sua definizione. Riceve un salario come contropartita della sua relazione funzionale con “lavoro morto” (ovvero mezzi produttivi e forme totali della produzione dalle quali viene oggettivato) anche chi apparentemente lavora con partita Iva, è connesso ad una piattaforma, impegnato nelle varie forme di cottimo, anche iperspecializzate (anzi, soprattutto, se iperspecializzate). E la relazione funzionale implica sempre che il capitale (che si incarna nell’insieme dei mezzi produttivi e del nesso generale che li rende tali) si valorizzi. Questa relazione implica sempre dipendenza.
Fanno parte della “classe” lavoratrice, dunque, tutti coloro che si trovano connessi nella forma della remunerazione dietro prestazione a sistemi produttivi ad essi esterni e nei quali sono sussunti (e trasformati in oggetti). Ne fanno parte anche se le modalità cooperative che contraddistinguono il loro lavoro sono mediate da sistemi a maglia larga, invisibili, altamente tecnologici (è il caso delle cosiddette “piattaforme”, ma anche di tante modalità più o meno glamour di lavoro a cottimo o frammentato). Se la segmentazione dell’opera, anche nella iperspecializzazione apparentemente liberante o autonoma, rende impossibile controllare il proprio “valore” (o, secondo la formula scelta nelle Tesi, di “fare il proprio prezzo”). Se, infine, il senso complessivo dell’opera si perde.
Non ne fanno parte non tanto i “ceti medi” (dato che, come detto, non è questione di “ceto”), quanto coloro i quali traggono la propria autoriproduzione dal controllo di segmenti di capitale e quindi, nel nesso essenziale capitale/lavoro che costituisce la forma sociale del modo di produzione capitalistico, dipendono per la propria esistenza come soggetti economici dalla permanenza di tale nesso. Ciò anche se la frazione di capitale è piccola, periferica, subalterna (ad altre).