Chi ha paura di Jacques Camatte?

mar 12th, 2021 | Di | Categoria: Contributi

Schermata del 2021 03 12 16 03 32

Chi ha paura di Jacques Camatte?

di Federico Corriente

Il lettore potrà rendersi conto che l’invar­ianza dichiarata-proclamata al­l’i­ni­zio, quella della teoria del proleta­riato, è già inclusa in un’altra assai piú vasta: la ricer­ca di una comunità umana, il cui com­plemento è la messa in risalto della di­struzione delle antiche comunità e l’ad­domesticamento degli uomini e delle donne cosí come la lotta contro di esso, una delle condizioni storiche per­ché il tentativo di fondare una comunità uma­na possa realizzarsi. («Communauté et devenir», 1994)

I. Inizi di Jacques Camatte nella sini­stra comunista italiana e prime opere. Rottura con il pc-int

Gli inizi di Camatte si trovano nel Par­tito Comunista Internazionale (PC-Int), uno tra gli eredi del Partito Co­munista Italiano originale, che l’Internazional­e Comunista finí per espellere intorno al­l’an­no 1928. In quanto ai dati biografici, è cu­rioso che quasi non ve ne siano: Camatte è riuscito a rendersi molto piú «anti-spettacola­re», di Guy Debord, ad esempio. Il poco che sap­piamo è che nacque vicino a Marsiglia nel 1935 e che lavorò come professore di Scienze della Vita e della Terra in varie località del sud della Francia (Tolone, Brignoles e poi Ro­dez) fino al 1967. Quanto alla sua iniziale mi­litanza nella Frazione Francese della Sini­stra Comunista In­ternazionale, entrò nel gruppo di Marsiglia nel 1953. Un paio d’anni piú tar­di, conobbe a Napoli Bordiga (che visse fino all’anno 1970), con il quale concorderà un gran numero dei suoi primi testi.

Nel 1957 il gruppo francese della Sinistra Comunista Internazionale cominciò a pubblicar­e la rivista Programme Communiste, sotto la direzione di una donna, Suzanne Voute — germanista e traduttrice di gran parte dell’ope­ra di Marx per le edizioni Gallimard e La Pléiade, in collaborazione con Maximilien Ru­bel — che arrivò da Parigi per stabilirsi nel Sud e farsi carico della direzione del gruppo. A quanto sembra, segnò subito la personalità di Camatte (non è azzardato supporre che Camatt­e abbia imparato il tedesco da lei). Suzan­ne Voute precedentemente aveva animato la Fra­zione Francese della Sinistra Comunista Inter­nazionale sino agli anni 1949–1950, quando il suo compagno sentimentale, l’ex membro del POUM Albert Masó («Véga»), portò la grande maggioranza della FFGCI nelle file di «Socia­lisme ou Barbarie».

Duran­te tutto quell’anno — fino all’estate del 1950 — Suzanne Voute aveva avuto contatti con Castoriadis, il capo vi­sibile de S. ou B., per av­viare un processo di fusione tra i due gruppi. L’anno seguente, la Voute fondò il «Gruppo Francese della Sinistra Comunista Internazio­nale».

A partire dal 1961, Camatte sembra ricopri­re un ruolo sempre maggiore nel PCInt e ini­ziò un vero scambio intellettuale molto fecon­do con Bordiga. «Origine e funzione della for­ma partito» (1961), per esempio, è un testo in­terno del PCInt — scritto insieme con Roger Dange­ville — la cui pubblicazione dovette es­sere imposta dallo stesso Bordiga, data la grande controversia che suscitò nel partito.

Nel 1963 Camatte fonda il gruppo di Tolo­ne, ma lo abbandona l’anno seguente e si trasfer­isce a Parigi, dove comincia ad opporsi a quel­lo che definisce «attivismo trotzkista»: stampa di tessere di partito, riunioni formali presiedute da un «responsabile del partito», at­tività di agitazione legata alla vendita del giornale Le Prolétaire e a favore di un sindacat­o di classe «rosso», eccetera.

Nel 1964 la polemica si intensificò, poi­ché all’epoca alcuni membri del PCInt co­minciano a pensare che il partito dovesse in­tervenire piú attivamente nelle lotte che dal 1962 si an­davano succedendo in Italia, e che la causa dell’incapacità del partito di inserirsi in quelle lotte stava nel suo modo di vita, nel­la sua for­ma organizzativa, per cui propo­sero di abban­donare il centralismo organico — che era ba­sato sulla priorità della difesa del programma comunista e sull’assorbi­mento spontaneo delle frazioni al di sopra dei meccanismi democrati­ci — per abbracciare il centralismo democra­tico leninista.

Tuttavia, nella riunione di Firenze di quel­l’anno, Bordiga reagí energicamente con­tro questa tendenza, e tra i testi che citò vi era «Origine e funzione della forma partito» il che rese manifesto il suo accordo con quel testo e incoraggiò chi intendeva continuare il lavoro svolto con lui a continuare le ricerche. Nello stesso periodo (1964), Camatte comincia a redig­ere lo studio Il VI capitolo inedito del «Capi­tale» e l’opera economica di Karl Marx (piú nota come Capitale et Gemeinwesen) — che era certamente un lavoro molto apprezza­to da Bordiga —, in cui sviluppa l’idea del «passag­gio dal dominio formale al dominio reale del capitale». Camatte terminò que­st’o­pera nel 1966, lo stesso anno in cui abbandona il PC-Int), ma non lo pubblicò sino al 1968, nel №2 di Invariance.

Nella riunione di Napoli nel giugno 1965, Bordiga torna a rifiutare il «centralismo democ­ratico», come ogni misura formale di esclu­sione contro Camatte, tuttavia non citerà «Ori­gine e funzione» tra il materiale docu­mentale destinato a commentare le tesi gene­rali; da allora Bordiga comincia ad arretrare e ad inclinare verso la tendenza neoleninista e trotzkizzante, che andrà imponendosi sempre piú. Alla fine — e qui si conclude il cammino di Camatte nel PCInt — nel 1966, dopo che firmò un testo intitolato «Bilan», Bilancio, scritto inizialmente da Roger Dangeville, la scissione divenne inevitabile. E Suzanne Voute fu una delle militanti piú accanite al momento di esigere l’esclusione tanto di Camatte quanto di Dangeville, arrivando all’estremo di far pres­sione su Bordiga, che rifiutò per principio «ogni caccia alle streghe». La scissione non fu amichevole: Camatte, depositario in Francia della raccolta delle riviste del PCInt, dovette trincerarsi nella sua abitazione per conservar­le. Ciononostante decise — secondo lui «per di­mostrare di non essere un accademico» — di distruggere tutte le copie nelle quali non figu­rassero articoli di Bordiga, anche se si trattava di numeri con articoli suoi.1

Camatte ricostruisce cosí la sua relazione con Bordiga in «Du parti communauté à la communauté humaine» (1974):

questa breve storia era necessaria per po­ter capire l’accordo che ci poteva es­sere con A. Bordiga sulla questione del parti­to, cosí come i suoi limiti. «Origine e funzione» è, in un certo modo, un te­sto-cardine, poiché intorno ad esso si artico­larono molte polemiche (tutti gli ele­menti che abbandonarono il PCInt dopo il 1962 lo attaccarono sempre violentem­ente); perché fu il punto d’inizio di un superamento che si sviluppò attra­verso il lavoro esposto nella rivista In­variance, e perché a causa dell’opposi­zione che su­scitò, provocò il rafforza­mento della cor­rente leninista, con l’esaltazione del vincolo con la Terza Internazionale da parte di A. Bordiga, ma soprattutto del PCInt, che a partire del 1966 si immer­ge totalmente nella corrente leninista e perde ogni origina­lità.

 

Breve riassunto di «Origine e funzione» per caratterizzare il «bordighismo»

In «Origine e funzione», Camatte descrive le caratteristiche piú importanti della sini­stra comunista italiana al fine di presentarla nel­la sua originalità e definirla rispetto al lenin­ismo e al trotzkismo. Questa corrente, come abbiamo spiegato prima, era quella di un grup­po di sopravvissuti al naufragio dell’Internaziona­le Comunista, che aveva avuto la par­ticolarità — insieme ai comunisti ger­mano-olandesi, con i quali condividevano sol­tanto un antiparlamentarismo di principio — di essere stigmatizzati da Lenin nel suo famo­so opusco­lo del 1920, L’estremismo, malattia infantile del comunismo. Tuttavia, a differen­za dei ger­mano-olandesi, i comunisti di sini­stra italiani rimasero nell’Internazionale Co­munista sino al 1928. Secondo «Origine e fun­zione», le caratteristiche e i tratti principali della sinistra comunista italiana sono:

• La «teoria del proletariato», sorta una volta per tutte nel 1848, che teoricamente an­ticipava tutto ciò che il proletariato doveva fare per co­stituirsi in classe e diventare un sog­getto della storia prima di distruggere se stesso e accedere al comunismo. Secondo la sinistra comunista ita­liana, la crisi, basata sulla teoria del valore — che rappresenta il punto di unio­ne con la teo­ria del proletariato — avrebbe di­strutto l’integrazione del proletariato nella società borghese e avrebbe permesso l’incontro tra questo e la sua coscienza incarnata nel par­tito.2

• In quanto depositario del programma co­munista, il partito non solo era il rappresentant­e del proletariato, ma anche «la prefigurazion­e della società comunista», ovvero della Ge­meinwesen, la futura comunità umana. Non po­teva essere definito per regole burocratiche, ma per il suo essere, e il suo essere era il suo programma. Pertanto, bisognava distinguere tra «partito formale» e «partito storico», giac­ché quest’ultimo non era altro che quello che sarebbe riuscito a portare a termine la rivoluzion­e comunista e non si identificava necessariam­ente con alcun partito «realmente esisten­te» in quel momento.

• Il partito si definiva come un organo della classe, che nasceva — o tornava a formarsi — spontaneamente allorché la lotta di classe ri­prendeva su larga scala, concezione che rappres­enta un tentativo di superare l’opposizione le­nino-trotskista tra la spontaneità e la coscienz­a. (Né si considerava l’organizzazione come il male, né la spontaneità come il bene, poiché anch’essa, presto o tardi, è riassorbita dalla sta­bilizzazione delle relazioni sociali.)

• Per ultimo, il marxismo si definiva ancora come la teoria delle controrivoluzioni, poiché, secondo un testo di Bordiga dell’anno 1951, dal titolo «Lezioni delle controrivoluzioni» «tutti sanno orientarsi nell’ora della vittoria, ma po­chi sono quelli che sanno farlo quando la scon­fitta arriva, si complica e persiste». Non si po­teva contemplare nessuna azione senza aver preventivamente definito la fase storica: rivo­luzionaria o controrivoluzionaria, di rilancio o di ripiegamento, per cui in un pe­riodo controri­voluzionario — come prima del maggio 1968 — gli internazionalisti dovevano evitare di ca­dere nella trappola dell’attivismo e dell’«imme­diatismo» e prima di tutto svilup­pare il pro­gramma comunista concentrandosi nella criti­ca dell’economia politica. Di qui, pertanto, se­condo la sinistra comunista italia­na, l’errore di Trotzky, che, anziché tracciare un bilancio che avrebbe permesso di preparare la successi­va scalata rivoluzionaria, cercò la causa della sconfitta nel tradimento dei capi, nei crimini di Stalin, nella passività delle mas­se, nella cat­tiva applicazione delle parole d’ordine, eccete­ra. Ne «La révolution com­muniste: thèses de travail», testo di Camatte del 1969, cosí egli riassume la questione: «La forza di questo mo­vimento sta nell’aver com­preso che era necessa­rio battere in ritirata.»

 

II. Invariance: la rottura teorica

Nel 1967 Camatte fonda la rivista In­variance e si distanzia progressiva­mente, prima dal «bordighismo» e poi dal marxismo classico, sino a giungere ad una rottura totale che si verificò ad ogni serie della rivista. In totale ci furono cinque serie: I (1967–1969), II (1971–1975), III (1975–1983), IV (1986–1996), e la V e ultima (1997–2002). Possiamo dividere il suo apporto in due aspetti principali (che poi furono utilizzati affinché qualcuno accogliesse solo uno di essi e non vo­lesse sapere nulla dell’altro).

Recupero della «parte maledetta» del comunismo.

La rottura della continuità organizzati­va imponeva uno studio teorico piú esau­stivo, un rigore ancora maggiore e un radicamento nel passato piú profon­do, un’integrazione di tutte le correnti, che, anche parzialmente, difendevano la teoria del proletariato. («La révolution communiste: thèses de travail», 1969)

Camatte non si dedicò solo a recuperare te­sti importanti della sinistra comunista italiana, ma trasse dall’oblio le sinistre ger­mano-olandese, inglese e statunitense: i primi due numeri della prima serie della rivista furo­no dedicati rispettivamente a «Origine e funzion­e del­la forma-partito» e «Capitale e Gemeinw­esen». I numeri 3, 4 e 5 furono intera­mente consacrati alla pubblicazione di testi di Bordi­ga, salvo le «Glosse marginali all’artico­lo «Il re di Prussia e la riforma sociale «di Marx, in­cluso il finale del №5, del quale tor­neremo a parlare a proposito della Spagna e del gruppo Etcétera. Le tesi del №6 di Inva­riance sono dedicate al saggio monografico «La révolution communiste: thèses de travail» [1969], che do­vevano essere illustrate da testi provenienti da diverse correnti del movimento operaio, per cui nei numeri 7 e 8 della I serie vennero pub­blicati testi di Gorter, Pannekoek, Sylvia Pan­khurst, Lukàcs, dei comunisti di si­nistra statu­nitensi, del KAPD e della rivista Bilan. I nu­meri 9 e 10 della I serie furono de­dicati nuova­mente alla pubblicazione di testi di Bordiga. Per ultimo, nel numero 5 de la II serie di Inva­riance fu pubblicato il testo di Gorter «L’In­ternazionale Comunista Operaia (1923), e nel №6 della stessa serie il «Manife­sto del Gruppo Operaio del Partito Comunista Russo» (1923) di Miasnikov.

Tutto ciò in un periodo molto breve, poiché la II serie di Invariance arriva sino all’anno 1975, e il grosso di queste pubblicazioni e tra­duzioni fu realizzato prima del 1971. Inoltre Camatte non pubblicò solo questi testi, ma tra­dusse alcuni classici giovanili di Marx come La questione ebraica e la Critica alla filosofia del diritto di Hegel (di fatto, le Glosse margi­nali all’articolo «Il re di Prussia e la riforma sociale» vennero tradotte in Francia negli anni Venti e non ci furono altre traduzioni sino a quella che fece Camatte).

Riprendere la critica dell’economia polit­ica: l’analisi della sussunzione

I concetti piú importanti e veritieri dell’epoca sono condizionati necessaria­mente dall’organizzazione che li cir­conda, dalla maggiore confusione e dai peggiori controsensi. I concetti vitali conoscono nello stesso tempo gli usi piú veritieri e piú menzogneri. (Internatio­nal Situationniste №9, 1966)

Il punto di partenza della critica del­l’attuale società del capitale, deve es­sere la riaffermazione dei concetti di do­minio formale e dominio reale come fasi storiche dello sviluppo capitalista. Ogni altra periodizzazione del processo di autonomizzazione del valore, quale ca­pitalismo concorrenziale, monopoli­sta, monopolista di Stato, burocratico ecc., esce dall’ambito della teoria del proleta­riato, vale a dire della critica dell’econo­mia politica, per far parte del vocabola­rio e della prassi della socialde­mocrazia, o dell’ideologia «leninista» codificata dallo stalinismo. […] Nella fase del do­minio reale la politica, come strumento di mediazione del dispotismo del capita­le, scompare. Dopo averla ampiamente utilizzata nella fase di do­minio formale, esso può liquidarla quando perviene, in quanto essere tota­le, a organizzare rigi­damente la vita e l’esperienza dei propri subordinati. («Transition», 1969)

La cosa piú fondamentale dell’impostazio­ne di Camatte in Capital et Gemenweisen ri­siede nel fatto che, al di fuori di un’analisi del­lo svi­luppo del capitalismo come un tutto, non si pos­sono comprendere adeguatamente i movim­enti anticapitalisti; sembra una sciocchez­za, ma vedremo subito che non lo è tanto. Senza analiz­zare il capitalismo come una rela­zione di im­plicazione reciproca (come attual­mente sostie­ne Théorie Communiste) che in­clude tutto ciò che accade fuori dell’ambito immediato della lotta di classe, non si può an­dare molto lontano.

Non è sufficiente studiare solamente la classe lavoratrice, come fecero, peccando di immediatismo secondo Camatte e compagni, Socialisme ou Barbarie o l’operaismo italia­no, che in alcune occasioni arrivò fino all’e­stremo di feticizzare la soggettività operaia come un antagonismo onnipresente. In altre parole, per poter capire il capitalismo contem­poraneo, se­condo Camatte e Bordiga si imponeva uno studio a fondo del Capitale e di altri testi, come i Grundisse, l’Urtext e il Capitolo VI (inedito), Per fare questo, parto­no in primo luogo da Marx e a ciò che disse in relazione a questi temi.

Che cos’era ciò che aveva da dire Marx — ad esempio — sulle due forme di plusvalore e le due forme di sussunzione del lavoro nel ca­pitolo VI (inedito)? Tra altre cose, questo:

In ogni caso, le due forme di plusvalore, quella assoluta e la relativa, […] corri­spondono a due forme separate di sus­sunzione del lavoro nel capitale, delle quali la prima è sempre precorritrice del­l’altra, per quanto la piú sviluppata, la seconda, può costituire a sua volta la base per l’introduzione della prima nei nuovi rami della produzione.3

Quel che sta dicendo Marx non è che c’è una distinzione temporale stretta tra plusvalo­re assoluto e plusvalore relativo, bensí che, una volta che il plusvalore relativo diventa forma dominante su scala mondiale, serve an­che da base affinché si introduca il plusvalore assoluto in altri settori nei quali non era sino a quel mo­mento penetrato. La relazione è com­plessa: non è una semplice questione in cui c’è prima una cosa e dopo l’altra. A ciò Marx ag­giunge che sopra la base della sussunzione for­male — che come sappiamo è legata all’estra­zione di plusvalore assoluto, — si eleva un

modo di produzione [...] che diventa me­tamorfosi della natura reale del pro­cesso di lavoro e delle sue condizioni reali [...], il che ci porta alla sussunzio­ne reale del lavoro nel Capitale [...],4

che suppone una

rivoluzione totale [che prosegue e si ripet­e continuamente] nello modo di pro­duzione stesso, nella produttività del la­voro e nelle relazioni tra il capitalista e l’operaio».5

Questo è ciò che Marx dice in prima persona in ordine alla sussunzione, e non è poco.

La sussunzione formale — che precede sto­ricamente la sussunzione reale — suppone la sottomissione dei processi di lavoro preesi­stenti all’autorità del capitale. Qui le modalità fonda­mentali di estrazione del plusvalore sono l’al­lungamento della giornata di lavoro, l’in­tensificazione del processo di lavoro e l’assunzione di piú manodopera, anziché — ad esempio — introdurre nuovi macchinari per aumentare la produttività. Questo è ciò che Marx definisce plusvalore assoluto. La risorsa essenziale, pertanto, consiste nell’incrementa­re l’uso del capitale variabile, ossia la forza la­voro.

L’ estrazione di quello che Marx denomina plusvalore relativo — il principio «attivo» del­la sussunzione reale del lavoro da parte del capitale —, in cambio, permette al capitale di aumentare la produttività del lavoro senza al­lungare l’orario di lavoro e perfino abbrevian­dolo, a partire dall’applicazione della scienza e dell’innovazione tecnologica. La generalizzaz­ione dell’estrazione di plusvalore relativo, tut­tavia, determina trasformazioni ulteriori del­la società che vanno molto al di là del­l’ambito immediato del processo di produzio­ne. Por un verso, la diminuzione della propor­zione di capitale variabile in relazione con il capitale costante (macchinari, eccetera) riduce la «centralità» sociale della classe lavoratrice; per l’altro, nell’impadronirsi del rami dei set­tori della produzione che producono le merci indispensabili per la riproduzione della forza-lavoro — con il fine di ridurre il valore di quel­le merci — il capitale incorpora nel suo ci­clo la riproduzione sociale dei lavoratori, il che trasforma, a sua volta, la difesa della con­dizione proletaria in un momento della ripro­duzione delle relazioni sociali capitaliste.

Successivamente, nel corso del suo studio, Camatte procede a giustificare la periodizzazion­e che sta introducendo, affermando, ad esem­pio, ciò che segue:

[…] il capitale non può accontentarsi di dominare nell’interno del processo di produzione; deve impadronirsi del vec­chio processo di circolazione e farlo suo […]; ciò impone, a sua volta, la trasfor­mazione dei mezzi di trasporto. […] Non si può piú accontentare dello Stato come ausiliario; ha bisogno che si tra­sformi in uno Stato capitalista, in u­n’im­presa capitalista. Questo significa che il capitale deve ribaltare tutti i pre­supposti sociali e capitalizzarli tutti. È ciò che ab­biamo esposto nelle pagine preceden­ti, mostrando il dominio reale del capita­le; tuttavia, abbiamo omesso di preci­sare che, nel farlo, estendevamo il cam­po dei concetti di K. Marx — ba­sandoci sulla sua opera — dalla fabbrica alla società. (Capital et Gemeinwesen)

Cosí dunque lo stesso Camatte avverte che la periodizzazione storica è cosa sua; si appog­gia sul lavoro preventivo di Marx, ma è lui ad assu­mere la responsabilità di tale periodizza­zione.

Caratteristiche generali del dominio formale

Dice Camatte in Capital et Gemeinwesen: «[…] durante il periodo di dominio for­male del capitale, il capitale variabile — la forza lavoro — è l’elemento fondamentale.» [N. dell’Autore: del processo di produzione, s’intende).

Su questa base, la

prospettiva di una rivoluzione sotto il do­minio formale del capitale contemplat­a da Marx […] suppone una conti­nuità tra lo sviluppo delle forze produt­tive sot­to il capitale […] e sotto il domi­nio del proletariato. La rivoluzione si­gnifica l’af­fer­mazione della classe do­minata e la sua trasformazione in classe dominante. Nel prendere il potere e ge­neralizzare la sua condizione, la classe dei lavoratori produttivi sviluppa le for­ze produttive, cosa che già faceva sotto il capitale, ma adesso lo fa sotto la pro­pria direzione.

Nel segnalare come «missione storica» del movimento operaio classico spronare e accele­rare la transizione generalizzata della sussun­zione formale del lavoro alla sua sussunzione reale, Camatte coincide non solo con Karl Kor­sch (con il quale concorda nel non emetter­e al riguardo un giudizio totalmente negati­vo) ma anche — fino a un certo punto — con la «critica del valore». Orbene, se per quest’ulti­ma tale transizione verrebbe a riassu­mersi in una nefasta fatalità iscritta congenita­mente nel­la condizione stessa della «forza la­voro», né Camatte né Korsch vi scorgono una «neces­sità storica» non salvabile:

Sarebbe astratto e insufficiente cadere nello storicismo primitivo di dichiarare fondamentato e necessario ogni svilup­po storico, anche nelle sue caratteristi­che piú mostruose, semplicemente per­ché cosí è accaduto nel processo storico,

dirà Korsch.6 Da parte sua, nemmeno Camat­te, sebbene consideri pienamente giustificato il «riformismo rivoluzionario» di Marx come via piú breve destinata a creare le condizioni piú favorevoli per la transizione al comunismo, trae la conclusione che tale processo fosse ine­luttabile.

Korsch arriva anche piú lontano:

Il primo trionfo della lotta di classe pro­letaria consiste nell’imporre alla bor­ghesia, contro la sua volontà, la contin­uazione della sua (transitoria) mis­sione storica.7

E insiste, poche righe piú oltre,

Il progresso che impone a la borghesia nella lotta di classe non è per il proleta­riato un progresso borghese, ma una cosa sua.

Per il resto, la questione di come valutare quel «progresso proprio» del proletariato in base a come si dispiega nel tempo resta complet­amente aperta, ed è indubitabile che qui Ca­matte e la «critica del valore» ci offrono — per motivi strettamente storici — piú piste di Kor­sch.

In ogni caso, Korsch non pretendeva di con­sacrare in alcun modo il luogo comune «marxista» secondo cui il «testimone del pro­gresso» sarebbe passato dalle mani della bor­ghesia a quelle del proletariato (anche nel caso di ammettere che esistesse una certa sovrappos­izione tra le rispettive «missioni storiche»). Non avrebbe potuto dire una cosa simile chi po­chi anni prima aveva affermato:

Come marxisti, sappiamo che la stessa legge dialettica della storia che trasfor­ma con il tempo inevitabilmente in ogni parte le forme nelle quali si muovono le forze produttive sociali, da forme di svi­luppo in catene, vale nella pienezza del­la sua forza anche per la «maggior forza produttiva», che secondo la nota espres­sione di Marx è «la stessa classe rivolu­zionaria». Anche i partiti politici e i sin­dacati che hanno ricevuto il loro conte­nuto e la loro forma attuale dalle lotte passate della classe operaia […], si sono trasformate già da molto tempo e irrevers­ibilmente in catene che assoggetta­no quella forza di classe.8

Di conseguenza, Korsch non dubita di estendere questa «legge dialettica» allo stesso marxismo:

Nella relazione tra la forma fissata ideologicamente della teoria rivoluzionar­ia e la prassi progressiva del movi­mento operaio si mostra qui un caso pe­culiare della dialettica che, secondo la nota for­mula di Marx, regge in generale la rela­zione tra le forze produttive ma­teriali e le relazioni sociali di produzio­ne, e che consiste nel fatto che, ad un certo stadio del loro sviluppo, le forze produttive ma­teriali entrano in con­traddizione con le relazioni di produ­zione esistenti. La teoria marxista, tra­smessa da un periodo passato del movi­mento operaio e ricevu­ta in modo ideo­logico dalla nuova gene­razione, […] ri­vela dall’inizio un caratte­re ambiguo: da un lato, porta avanti e promuove la for­mazione e lo sviluppo adeguati della co­scienza e della lotta di classe nel nuovo periodo e, dall’altro, allo stesso tempo, li contiene ed incate­na. Nello sviluppo successivo del movi­mento, la tendenza positiva e progressiva passa tuttavia sempre piú in secondo pia­no, mentre la tendenza negativa e re­trograda ritorna sem­pre piú importante, fino a che la forma ideologica del «mar­xismo orto­dosso» si trasforma nella sua totalità semplicemente in un freno e una trap­pola per lo sviluppo reale della coscien­za e la lotta di classe.9

Si paragoni quest’ultimo giudizio con il se­guente passaggio di Capital et Gemeinwesen:

Come fecero altri prima di noi, sosteniam­o che il materialismo storico è, in ulti­ma istanza, una teoria engelsiana (nata dopo il 1870). Possiamo soggiun­gere che esso corrisponde alla trasformazion­e della teoria in ideologia. È l’ideolo­gia del proletariato nel periodo del domi­nio formale del capitale, del proleta­riato che contende il potere a quest’ulti­mo per dirigere lo sviluppo delle forze produttive che creerà le con­dizioni della società comunista.

Queste osservazioni ci forniscono inoltre la chiave della conservazione del «modello giacob­ino della dottrina rivoluzionaria che Marx e Engels avevano adottato prima della rivoluzion­e di febbraio del 1848 […] nella sua forma materialista ultima e piú avanzata», che Kor­sch spiegò in funzione della necessità di

un periodo transitorio durante il quale la classe proletaria era ancora obbligata a portare avanti la sua emancipazione at­traverso lo stadio intermedio di una rivo­luzione di carattere eminentemente politico.10

Ciononostante, la ratifica decisiva di tutte queste ipotesi si produce grazie alla riattivazion­e della critica dell’economia politica svol­ta da Camatte in Capital et Gemeinwesen (1968), e concretamente sulla base della sua analisi del­le conseguenze e degli aspetti piú ri­levanti — che non è possibile trattare qui nel­la loro to­talità, nonostante la loro enorme portata — della transizione tra sussunzione formale e sus­sunzione reale:

Durante la fase di dominio formale, il proletariato deve generalizzare la con­dizione proletaria, deve ergersi a classe dominante; nella fase del dominio reale, al contrario, deve immediatamente sop­primersi. («Le KAPD et le mouvement prolétarien», 1971)

Infatti quest’ultimo realizza il suo pie­no dominio mistificando in un primo tem­po le rivendicazioni del proletaria­to classico. Si è avuto accesso al domi­nio sul proletariato in quanto lavorato­re produttivo. […]

[Marx] non indica una reale discontinuit­à tra MPC e comunismo; c’è sempre ac­crescimento delle forze produttive; […] È in ciò il riformismo rivoluziona­rio di Marx nella sua vasta estensione. La dittatura del proletariato, la fase di transizione (mentre nei Grundrisse è il MPC che costituisce questa fase, il che ha una grande importanza per il nostro attuale modo di porre il comunismo), sono periodi di riforme delle quali le piú importanti sono la riduzione della gior­nata lavorativa e l’uso del buono lavoro. Dobbiamo notare qui, pur senza potervi insistere, il rapporto stretto tra riformi­smo e dittatura.. («Errance de l’humanit­é», 1973)

Qui Camatte sta caratterizzando un’intera epoca storica che, a suo avviso, comincia a ri­velarsi obsoleta con la Comune del 1871 e del tutto dopo la Prima Guerra Mondiale. E qual è la conseguenza dal punto di vista della poli­tica?

Dominio formale e politica

La conseguenza è che

durante il periodo di dominio formale del capitale [...], la politica, l’esercizio della volontà su una società che il capi­tale ancora non domina «da dentro» — per dire cosí — può avere ancora una certa efficacia per un periodo abbastan­za lungo […]. Quando il capitale ha rag­giunto il suo dominio reale e si è co­stituito in comunità materiale, la que­stione è risolta: si è impadronito dello Stato. […]

Caratteristiche generali del dominio reale

In «La révolution communiste: thèses de travail» (1969), Camatte dice:

Nella fase del dominio reale, il processo di valorizzazione si impone sempre piú a quello del lavoro. Sul piano sociale ciò implica che il capitale tende a dominare sempre di piú il proletariato.

E in «Caractères du mouvement ouvrier fra­nçais» (1971), sottolinea questo fatto e fa emergere una nozione piuttosto curiosa:

Il dominio reale del capitale può essere raggiunto solo attraverso la mediazione del dominio del lavoro produttivo, da qui il dominio del proletariato come ca­pitale variabile. Si tratta della mistifica­zione del proletariato come classe do­minante.

Questa a prima vista può sembrare una for­mula piuttosto scioccante, ma se pensiamo allo stalinismo, al fascismo, al New Deal o alle ori­gini del sindacalismo rivoluzionario e a co­me in Italia esso prepara il terreno al fa­scismo, potremmo pensare che tutti questi fe­nomeni siano paradigmatici di ciò che accade du­rante la prima fase di accesso al dominio reale: il ca­pitalismo generalizza la condizio­ne ope­raia e porta al massimo grado il potere relativo della classe lavoratrice all’interno della socie­tà. Que­sto è ciò che Camatte inten­de per «mistifi­cazione del proletariato co­me classe dominan­te».

In quel senso, insiste sul concetto che in que­sta fase il capitale realizza l’obiettivo della generalizzazione della condizione proletaria contemplata da Marx per il «socialismo infe­riore» della Critica del Programma di Gotha. Ciò segnala che tale generalizzazione si realizz­a come generalizzazione dei caratteri attribuit­i da Marx alla classe media. («Le tra­vail, le travail productif, et les mythes de la classe ou­vrière et de la classe moyenne», 1972)

Conseguenza immediata dal punto di vi­sta di ciò che supporrebbe una rivoluzion­e sotto il dominio reale

Nel periodo di dominio formale del ca­pitale, la rivoluzione si presentava nel­l’in­terno stesso della società, come lotta del lavoro contro il capitale; ora si manif­esta — e lo farà sempre di piú — al­l’e­sterno, come lotta contro il capitale e il lavoro insieme; ossia, che ora il proletariato­ deve lottare contro il suo stesso domi­nio come classe e distruggere il ca­pi­tale e le classi. (Capital et Gemeinwe­sen)

A questo aggiunge un’altra osservazione: nella fase del suo dominio reale, il capital­e si costituisce in comunità materiale, il che si­gnifica che, grazie al rafforzamento del domin­io del lavoro morto sul lavoro vivo ed a relaz­ioni sociali non rette dal valore d’uso ma dal va­lore di scambio, la società possiede un sostra­to omogeneo e coerente, il che permette — per Camatte — di fondare una comunità ma­teriale stabile. (Capital et Gemeinwesen). In ogni modo, questa nozione di «comunità ma­teriale» rimarrà piuttosto polemica, poiché, enunciata in questa fase della sua produzione teorica, non sembra avere un’importanza massim­a, tuttavia piú avanti tende a feticizzarsi e di­venta qualcosa da cui non è granché chiaro che si possa uscire.

Dominio reale e politica

Su questo tema, in «La révolution commu­niste: thèses de travail» (1969), Camatte cosí si esprime:

A partire dal momento in cui tutto ciò che dà fondamento alla società dipende — o è direttamente generato — dal ca­pitale, la politica smette di esistere in ma­niera determinante. Passa a di­ventare parte del folklore, come ele­mento mi­stificatore della rappresenta­zione del capitale.

Nella fase del dominio formale, i proletari avevano creato sindacati e partiti nei quali potev­ano ritrovare una certa esistenza comunita­ria a margine del capitale, ma sotto il dominio reale, giacché è questo che organizza gli esseri umani, tutte le organizzazioni diventano di fat­to bande-racket sottomesse direttamente al capitale (oppure sono condannate a vegetare, a non avere rilevanza alcuna).

Alcune appropriazioni restrittive (e cri­tiche non molto appropriate) della pe­riodizzazione di Camatte

In Crisi dello Stato-Piano (1971), Toni Ne­gri già utilizza la distinzione dominio for­male/dominio reale. Molti anni piú tardi, nel 2003, nella prologo alla seconda edizione di 33 Lezioni su Lenin, dà l’impressione che cer­chi di mettere le mani avanti (per evitare che qual­cuno ne parli un giorno). Dice cosí:

Negli anni tra i 60 e i 70, ho avuto alcun­i amici bordighisti: in Italia alcuni compagni cremonesi, in Francia Robert Paris e altri. Avevo l’impressione che […] una teoria del soggetto (come quel­la che stavo elaborando in quel periodo) poteva sottoporsi a questo dispositivo.

Phillipe Bourrinet, nel suo libro sulla sini­stra italiana,11 dice tra l’altro che, a quanto si sape­va, Toni Negri lesse Invariance in carce­re; ma Negri non fu incarcerato fino al 1979, per cui nel 1971 stava già impiegando la di­stinzione dominio formale/dominio reale; per qualche strada gli sarà arrivata…

Dopo viene Loren Goldner, che da quando pubblicò l’articolo «The Remaking of the American Working Class» (1983) utilizzò anch’egli la periodizzazione dominio formale/ dominio reale; riconosceva, questo sí, che era qualcosa che aveva appreso da quello che chia­mava «neo bordighismo francese», ossia ricono­sce l’origine; ciò che capita è che — come Toni Negri — omette gli aspetti legati alla po­litica; l’uno e l’altro non dicono nulla circa le conseguenze che può avere l’accesso al do­minio reale sulla politica e la politica rivoluzion­aria/radicale come attività; su questo c’è da entrambi un mutismo abbastanza chiaro.

Per ultimo, sembra anche che negli ultimi tempi la periodizzazione di Camatte susciti un certo nervosismo in ambienti affini al Gruppo Comunista Internazionalista, non perché sia «eurocentrico», come dicono loro — non lo è — ma perché nemmeno a loro piacciono mol­to le conseguenze sulla politica dell’uso di que­sta periodizzazione. La loro critica si fon­da, per un verso, nel ricordarci — abbastanza gratuitamente — il carattere mondiale del capit­ale dai suoi inizi e nel segnalare, per un al­tro verso, che la sussunzione formale suppone già uno sconvolgimento assoluto delle condi­zioni di vita. Forse l’accumulazione originaria e la se­parazione dei produttori dai mezzi di produ­zione sono esclusiva dell’America e della con­quista spagnola? (O dell’Asia e dell’Africa? Evi­dentemente no: accompagnano il capitali­smo dai suoi inizi e né Marx, né Camatte né Théorie Communiste sarebbero stati in disac­cordo in nessuna maniera, il che non invalida né fa a pezzi la periodizzazione dominio for­male/ dominio reale.)

Di piú: il testo di Marx che Camatte sta commentando — il VI Capitolo inedito — si attiene espressamente — lo dice lo stesso tito­lo — al «processo di produzione immediato». Se afferma che il dominio formale riguarda soltan­to il processo di lavoro immediato è per­ché tutto lo sconvolgimento previo e simulta­neo — lo dà per supposto, non perché Marx neghi la sua esistenza o pretenda che il capita­le non abbia dovuto percorrere un lungo cammin­o storico per arrivare sino a quel punto.

C’è un ultimo argomento abbastanza inope­rante:

Osservando la realtà internazionalmen­te, è impossibile pensare a tappe delimitat­e (rispetto al processo di lavoro).12

In effetti, lo stesso Marx — citato da Camatte — lo aveva già detto chiaramente, indicando che il predominio del plusvalore relativo pote­va servire da base per l’introduzione di quello assoluto in nuovi rami della produzione..

Non si possono che fare domande sulle mo­tivazioni reali di queste critiche tanto fragili; la mia opinione è che si tratta di sostenere con­tro vento e marea il carattere invariabile della condizione proletaria per evitare che si svaluti­no certi richiami pubblicitari, come la «comu­nità di lotta» e l’«associazionismo pro­letario», che sono difficili da rendere compati­bili con la nozione di dominazione reale.

Critica e analisi dei racket

Per illustrare il mio punto di vista — diciam­o «agnostico» —, ho scelto un paio di ci­tazioni tratte dalla rivista The Fifth Esta­te del febbraio 1977:

Tesi: Non vale molto dire che The Fif­th Estate non è un’«attività di una ban­da»» solo perché è un «collettivo di pro­paganda» (dal momento che una let­tura ristretta del libello Camatte-Collu e l’interpretazione che di esso dà Maple porta alla conclusione che, sotto il siste­ma economico attuale, ogni attività or­ganizzata è un’«attività di gang»). Se Maple tiene per fermo che The Fifth Estate non è un’«attività di gang», do­vrà esporre il motivo per cui è un’ecce­zione alla regola, oppure riconoscere che le affermazioni di Camatte-Collu non sono valide.

Antitesi: Tanto Bufe quanto Nat Tur­ner dicono che se ogni attività umana è stata assorbita dal capitale nell’era del suo dominio reale, allora, forse ciò non include The Fifth Estate e simili progett­i? Una risposta che mi viene spesso quando mi sento cinico è: sí, molto pro­babilmente. Quanto all’accusa che se ac­cettiamo le affermazioni di Camatte— Collu, che ogni attività politica di­venta «attività di gang», rispondo de nuovo: molto possibilmente sí. (The Fifth E­sta­te, febbraio 1977)

Come abbiamo già detto, sotto il dominio reale, per Camatte tutte le forme di organizzaz­ione operaia autonoma spariscono e si integran­o, non perché si corrompano o siano compra­te, ma in conseguenza dell’evoluzione del modo di produzione stesso. Sotto il domi­nio reale, tutte le organizzazioni che non contrib­uiscono al processo di valorizzazione si ve­dono rapidamente costrette alla scelta di adot­tare pratiche che permettano loro di mante­nersi o prosperare oppure sparire. Una delle conse­guenze di questo riconoscimento di ciò che sup­pone il dominio reale è che prendere atto del dominio schiacciante del capitale im­plica riconoscere che agisce su tutti. Non pos­sono esistere gruppi di eletti che non siano se­gnati dal suo dispotismo. Pertanto e di conse­guenza, nessun gruppo può pretendere di rea­lizzare o prefigurare la Gemeinwesen.

A ciò Camatte aggiunge un’altra conclusio­ne in «La révolution communiste: thèses de travail»(1969), in relazione con un tema che tratteremo piú avanti, quello della «classe uni­versale»:

Ora non esiste un partito formale; nella misura in cui non si può parlare di clas­se, non è neppure piú possibile parlare di partito, neppure nel suo senso stori­co.

A questo punto, voglio fare un inciso per se­gnalare qualcosa di curioso, ovvero che Ca­matte non si chiese mai — a differenza di Né­gation, che seguiva la sua scia teorica molto da vicino — se il partito non fosse un fenomeno proprio del dominio formale, legato anche al carattere formale della stessa condizione prolet­aria in quell’epoca.

Nella stessa linea di conseguenze teoriche della tesi dei racket, Camatte dedusse che era necessario fare una critica alla sinistra comunis­ta italiana — dalla quale egli proveniva — per mostrare che non aveva portato a compi­mento una restaurazione della teoria, ma che era semplicemente stata l’ultimo movimento del proletariato a resistere sul terreno teorico all’assorbimento da parte del capitale. Per ul­timo, e per concludere con questo tema, in «Du parti communauté à la communauté hu­maine» (1974), dice Camatte che

dal 1969 […] i diversi studi intrapresi, alcuni dei quali apparvero su Invarian­ce, serie II, hanno condotto al supera­mento totale e pertanto a qualunque teorizza­zione sul partito.

§ § §

È importante fare una precisazione circa l’origine della tesi dei racket, ossia la sua origin­e adorniana.

Nel 1977 — in «Maggio-giugno 1968: il di­svelamento» — Camatte riconosce il suo de­bito con Adorno, autore praticamente scono­sciuto nella Francia degli anni 60:

Da molto tempo esisteva il progetto di pubblicare i testi di T. W. Adorno sulla questione dei racket e mostrare allo stes­so tempo quello che abbiamo preso in prestito e quello che ci separa da lui.

Una differenza importante tra l’uso che fa Adorno del concetto di racket e quello di Ca­matte è la periodizzazione: per quest’ultimo il tema racket è completamente legato all’acces­so al dominio reale; se pensiamo, per esempio, agli anni venti, quello in cui appare il fenome­no dei gangsters negli Stati Uniti, cosí come il fascismo e il nazismo incipienti, non sembra che vada tanto fuori strada. Un anno piú tardi, in «Précisions après le temps passé» (1978) torna a riferirsi a Adorno come precursore:

In «Riflessioni sulla teoria delle classi» (1942), [Adorno] pone in evidenzia tut­to ciò che di problematico ha il concet­to di classe, il che conduce ad affermare che occorre mantenerlo e trasformarlo. Accetta la teoria sociologica che mette in rilievo l’importanza delle bande e dei racket, ma pensa che vadano studiate a partire dalla teoria delle classi […].

Come dettaglio curioso, Camatte, in quel momento, considerava già che non c’erano classi, ma che non esisteva altro che una «clas­se universale di schiavi del capitale».

Fenomenologia del racket politico

Nel famoso testo in forma di lettera del 1969 «Sull’organizzazione», Camatte, dopo aver caratterizzato la banda di delinquent­i come risultato del contenimento del­l’istinto elementare di rivolta nella sua for­ma immedia­ta, segnala che la banda politica, in piú, preten­de convertire la sua comunità il­lusoria in modello per tutta la società, e che tutto il suo impegno

consiste nel far quadrare la realtà con il suo concetto; da lí procede tutta la sofi­stica degli squilibri tra momenti oggettiv­i e momenti soggettivi, e la condanna di ogni movimento immediato che non riconosca la superiorità della sua «co­scienza» come prematuro o come provoc­azione della classe dominante, poi­ché ogni racket politico pretende di es­sere il depositario della vera coscienza.

Visione sulle lotte del momento (68 lun­go)

Secondo Camatte, il Maggio del 68 non fu una sorpresa:

non è che lo avessimo previsto nella sua totalità, però ci aspettavamo un fenomen­o rivoluzionario […]. Avevamo analiz­zato la rivoluzione sotto il domi­nio for­male e aspettavamo di vederla sotto il do­minio reale, coscienti che non avreb­be potuto assomigliarle. Di conseguenz­a, per quanto non fossimo stati capaci di descriverla, avevamo pensato all’inevita­bilità della sua originalità. («Vers la communauté humaine», 1976)

In quel testo aggiunge che

la cosa immediatamente piú importante è che ci trovavamo di fronte un movi­menti rivoluzionario che non avanzava una determinazione classista, che pertant­o esprimeva molto bene l’esigenza indi­cata in «Origine e funzione della forma partito», ossia di una rivoluzione a titolo umano [...] («Vers la commu­nauté hu­maine», 1976)

In altri scritti, Camatte sostiene che il Mag­gio del 68 non fu la rivoluzione, ma il suo sorgere: «Il movimento di maggio […] segnò la fine della fase di controrivoluzione.» («Mai-Juin 1968: théorie et action», 1968)

Riconosce una volta di piú, in «Vers la com­munauté humaine» (1976), che

ci fu […] un certo ritorno alla teoria marxista, una purga limitata delle tare lenino-trotzkiste che le erano state ap­plicate, ma non ci fu nessun movimento proletario, per quanto di scarsa ampiez­za, che arrivasse per farsi carico di ciò che A. Bordiga chiamava l’opera di re­staurazione e affermazione della teoria.

E per ultimo contrasta le limitazioni del maggio francese, centrate sulla rivendicazione della democrazia diretta, per le quali egli lo considera il movimento piú avanzato dell’epo­ca. Questo è un aspetto dell’opera di Camatte che raramente si pone in primo piano, ma è certo che lo impressionò molto e vanificò i cal­coli teorici di Bordiga e compagni, che in prin­cipio speravano in un ritorno della rivolu­zione proveniente dall’Europa Orientale, non dagli Stati Uniti. Ciò che davvero sorprende Camatte è il movimento del proletariato nero statunitense e probabilmente è alla base di mote delle sue teorizzazioni dell’epoca:

In quell’aspetto, [il Maggio del 68] era in ritardo rispetto al movimento proletar­io nero negli Stati Uniti. Nel seno di quel movimento, alcuni elementi com­presero la necessità di rifiutare la demo­crazia una volta per tutte. («Mai-Juin 1968: théorie et action», 1968)

Questo, che è fondamentale, torna a ripeterl­o nel testo «Il KAPD e il movimento proletar­io» (1971) con il tema della «classe universal­e»:

D’ora in poi, negli Usa è effettiva la dis­soluzione della società. L’unità del pro­letariato come classe universale potrà diventare laggiú effettiva solo dopo una lotta tenace, decisa, senza concessioni, contro il capitale e, in una certa misura, attraverso una lotta in seno della stessa classe universale. Non si deve rivendica­re la riforma del proletariato classico, in quanto ciò equivarrebbe a voler restaurar­e il passato, come hanno capito alcu­ni rivoluzionari neri americani. (Boggs, ad esempio)

Si sofferma sulla stessa tesi in un altro testo del 1969, «Transizione»:

Nelle azioni del proletariato nero degli Stati Uniti, possiamo vedere in azione questa comunità costituita sulla necessi­tà vitale di distruzione e sulla coscienza di un’identità di obiettivi, che Marx considerava l’autentico partito del prolet­ariato […]. Il momento piú impor­tante di questa manifestazione del co­munismo è costituito dalla negazione positiva del­la democrazia, ossia, il rifiu­to del prole­tariato — quando mette in primo piano le proprie necessità mate­riali — di accet­tare qualunque separa­zione tra deci­sione e azione, e quindi la separazione tra essere e pensiero sul quale si è sostenu­ta in passato la possibi­lità di una dire­zione politica basata sul meccanismo del­la democrazia diretta.

Possiamo verificare che negli anni immediat­amente successivi al 68, la prospettiva di Ca­matte era che si sviluppasse nel seno della clas­se universale — l’insieme degli «schiavi» del capitale13 — una lotta destinata a sfociare nel­la sua costituzione in comunità-partito, con il rifiuto del lavoro come elemento fonda­mentale di unificazione.

Alla ricerca della comunità: la rivoluzion­e a titolo umano (e i lavori sulla Rus­sia, eccetera)

Lo studio intrapreso da Camatte sul Capito­lo VI (inedito), era iniziato, a suo di­re, come un tentativo di attualizzazione del­la teo­ria del proletariato, ma già in «Origine e funzio­ne», l’attualizzazione girava, per Ca­mat­te, in­torno a quello che egli considerava la questio­ne fondamentale dell’opera di K. Marx, che pe­rò era stata elusa: la questione della comuni­tà.

Camatte considerava che l’opera di K. Marx continuava ad essere valida a condizione di svi­lupparla a a partire dalla sua totalità e dagli ele­menti che non erano stati utilizzati, in parti­colare quello che si riferisce alla comuni­tà.

Nell’Introduzione alla Critica della Filosof­ia del Diritto di Hegel (Marx) si trova l’afferma­zione non solo che l’essere umano è la vera Gemeinwesen (comunità) dell’uomo, ma anche il concetto di classe universale — il proletariato — che non soffre un’ingiustizia specifica, ma l’ingiustizia pura e semplice — ed insorge a tito­lo umano. Questo dimostra allo stesso tempo, secondo Camatte, sino a che punto esisteva un’unità profonda tra tutti i te­sti giovanili di Marx (La questione ebraica, i Manoscritti del 1844, la Critica della Filoso­fia del Diritto di Hegel, le Glosse marginali all’articolo «Il re di Prussia e la riforma socia­le»).

In «Caractères du mouvement ouvrier fra­nçais» (1971), segnala che

la questione della comunità era stata già affrontata in «Origine e funzione della forma partito» […] Ciononostante, dato il carattere non concluso di questo lavo­ro, non si è esposto un aspetto important­e della storia del movimento opera­io. […] Si tratta della formazione della co­munità materiale.

Qui Camatte fa un’osservazione importan­te: inizia a constatare che

esisteva una certa contraddizione tra la teoria del proletariato e la ricerca sulla Gemeinwesen. […] Non si può uscire dall’ambito di questa se non superando la teoria del proletariato e la teoria del valore-lavoro. («Du parti-communauté à la communauté humaine», 1974)

§ § §

Bisogna dire, soprattutto, che il grande teo­rico della «questione russa» è Bordiga, non Ca­matte, nonostante i suoi contributi al tema. (Ad esempio, la «doppia rivoluzione» borghe­se e proletaria che, sconfitta quest’ultima, ri­piega sul primo traguardo, cosí come la que­stione agraria come fondamento della rivolu­zione ca­pitalista, tema questo di cui si è fatto eco Lo­ren Goldner in varie occasioni). Bordi­ga insi­steva molto sulla circostanza che la capitalizzazi­one dell’agricoltura era una delle pietre an­golari del fatto che si sia pervenuti a un capita­lismo «come comandano i canoni», poiché sino a quando non si capitalizzano a fondo i campi, la liberazione di manodopera per l’in­dustria urbana, eccetera, è una questio­ne con­flittuale; di fatto, uno dei problemi che c’erano in Russia durante l’epoca stalinista era che molti operai continuavano a mantenere qual­che tipo di vincolo con i loro campi e vil­laggi, ciò che permetteva di opporre una certa resi­stenza, qualcosa che non può fare chi è com­pletamente proletarizzato (come il tipico ope­raio americano).

In ogni caso, negli anni 60 e ancora molto tempo dopo, la maggior parte dei rivoluziona­ri «di sinistra» tendevano a considerare l’URSS come il centro della controrivoluzio­ne in quan­to il capitalismo di Stato o capitali­smo burocratico era, per loro, una forma di domi­nio del capitalismo molto piú potente e perfet­ta di quella che ci poteva essere in Euro­pa oc­cidentale e perfino negli Stati Uniti.

Questo punto di vista fu sempre rifiutato da Bordiga, che dal 1951 aveva insistito sul fat­to che la Russia non era il centro delle pre­occupazioni dei rivoluzionari e nemmeno il centro della controrivoluzione, individuato negli Stati Uniti.14

Sosteneva altresí che, per quanto avesse un’originalità propria, l’URSS era semplice­mente capitalista, niente di piú.

§ § §

Gli apporti di Camatte alla «questione rus­sa» si trovano fondamentalmente in due testi, Comunità e comunismo in Russia (1972), e «La Révolution Russe et la théorie du proléta­riat» (1974), e possono riassumersi sostanzial­mente come segue:

Nonostante tutte le ore dedicate alla ri­voluzione russa e alla società sovietica, pensiamo che, lungi dall’essersi conclu­so, quello studio deve ancora iniziare realmente, poiché sono state eluse le que­stioni essenziali; quella della comu­nità e quella della periodizzazione del MPC [Modo di Produzione Capitali­sta] sotto il dominio formale e reale del capitale.15

Ciò che Camatte fa in questi due testi è svol­gere un ripasso di molti dei dibattiti storici che si ebbero, da Marx ed Engels, passando per Ple­chanov e Lenin, sullo sviluppo del ca­pitalismo in Russia e sul destino della comune rurale rus­sa, e se questa poteva o no servire di base per evitare i «dolori di parto» del capita­lismo. Ad esempio, in «La Révolution Russe et la théorie du prolétariat», dopo aver esposto la posizione di Marx sulla comune rurale russa (la obščina) e la possibilità di ritornare al MPC nel caso in cui si producesse una rivoluzione vittoriosa in Occidente, Camatte segnala che nel 1883 (anno della morte di Marx) Engels ancora pensava alla possibilità di una rivitaliz­zazione delle an­tiche comunità, ma, alla fine della sua vita, ten­deva a considerare che il va­lore di scambio si era sviluppato eccessivamen­te in Russia, e che questa, nel prosieguo del tempo, era condanna­ta al capitalismo. In que­sto mondo, spianò la strada a G. Plechanov e a V. Lenin, che, a diffe­renza dei populisti russi, sostenevano la possibili­tà di andare oltre il MPC e, di conseguenza, sottolineavano il ruo­lo primordiale del proleta­riato nella rivolu­zione russa. Il marxismo russo, nel suo deside­rio di favorire lo sviluppo del ca­pitalismo come premessa del socialismo, aveva perso quella dimensione populista. Cionono­stante, la Makhnovschina, il movimento della classe contadina ucraina che lottò nello stesso tempo contro i «bianchi» i bolscevichi e a volte anche contro i tedeschi, «sarebbe stato impossi­bile senza la resistenza dei contadini su base co­munitaria» […]).16

In un testo del 1881 intitolato «La Marca», Engels aveva segnalato anche un altro aspetto della questione agraria:

L’intero sistema agricolo europeo sta per essere superato dalla concorrenza sta­tunitense. L’agricoltura, per quanto concerne l’Europa, sarà possibile se si svolge in linee socializzate e a beneficio della società nel suo complesso. («La Révolution Russe et la théorie du prolé­tariat», 1974)

Effettivamente, Engels aveva previsto che una delle conseguenze della guerra mondiale che sarebbe venuta, che già si intuiva all’oriz­zonte, sarebbe stata la vittoria degli Stati Uni­ti, il che avrebbe obbligato l’agricoltura euro­pea o a ripiegare sulla produzione per il consum­o interno o a intraprendere la strada della tra­sformazione sociale.

Se l’effetto sull’agricoltura occidentale non fu tanto impattante, lo fu invece su quella rus­sa, che dovette ristrutturarsi per produrre esclusivamente per il mercato interno. Quel­l’e­voluzione era già stata prevista da Marx con l’affermazione che, dopo l’emancipazione dei servi della gleba (1861), la Russia doveva «pas­sare inevitabilmente da esportatrice a importa­trice di cereali e che avrebbe conosciuto crisi periodiche».17

Come culmine dei suoi studi sulla «questio­ne russa», Camatte sostiene che nel momento in cui scriveva (nel 1974, dopodiché le cose cambiarono)

In Russia il capitale non è riuscito a completare il suo dominio reale, poiché non è arrivato a dominare l’agricoltura, e secondo Bordiga la nascita dei kol­khoz (le cooperative agricole) durante la collettivizzazione stalinista fu un com­promesso tra le classi destinato a limitar­e la produzione di proletari rurali e crea­re loro un antagonista, per accrescer­e il potere e l’autonomia dello Sta­to.» («Introduction», 1974). «La conseguenz­a economica, tuttavia, fu la for­mazione di una struttura poco produtti­va, princi­pale causa della crisi agraria permanen­te.» («La Révolution Russe et la théorie du prolétariat», 1974)

§ § §

Per ultimo, verso il finale di Comunità e co­munismo in Russia, Camatte fa un’interes­sante e opportuna osservazione, che non ri­guarda di­rettamente la Russia, ma costituisce una critica anticipata sul tema delle comunità e delle ideo­logia del tipo delle «comuni»:

In altri luoghi, il capitale utilizza il fe­nomeno comunitario per ostacolare l’au­tonomizzazione della classe operaia, come accade in Sudafrica, dove il prole­tariato nero, al ritorno nelle comunità di origine […] dopo alcuni anni passati nel­le città, è riassorbito in esse. […] In via generale, arrivando allo stadio della comunità materiale, il capitale non ha piú la necessità di dissolvere totalmente le vecchie relazioni sociali per poter do­minare; tanto piú tenendo conto che dis­solverle distruggerebbe anche la sua possibilità di insediarsi come forza di do­minio, poiché, avendo necessità di es­seri umani, è imprescindibile che essi possano sopravvivere; orbene, in certe zone del pianeta, l’unico comportamen­to vitale possibile è quello comunita­rio.18

Concludiamo questo argomento con una citazione molto lucida de «La Révolution Rus­se et la théorie du prolétariat»:

La rivoluzione russa svolge il ruolo di vertice del pensiero. Anche tra gli ele­menti piú radicali, che traggono dal con­siliarismo la rivendicazione dei consig­li e l’autogestione, come gli elementi che animarono l’Internazionale Situa­zionista, e che fecero una critica molto pertinente dei bolscevichi e di Lenin, la rivoluzione russa ha la funzione di mo­dello: la formazione dei soviet. […] Tra gli a­nar­chici, la rivoluzione spagnola so­stituisce la rivoluzione russa. («La Révo­lution Russe et la théorie du prolétar­iat», 1974).

L’ abbandono della teoria del proletariat­o: contro la domesticazione, l’erranza dell’umanità, uscire da questo mondo

[…] nel momento in cui iniziava la se­conda serie di Invariance (1971), si af­fermò l’idea che il capitale era andato ol­tre i suoi limiti e che dunque un’anali­si strettamente classista risultava diffici­le: non parlavamo di classe universale. («Vers la communauté humaine», 1976)

Nel 1973 — anno molto significativo — si esaurisce l’impulso del 68 in Francia (negli Stati Uniti si era già esaurito verso la fine del 71), la crisi economica torna nella for­ma di «crisi petrolifera» e si produce il colpo di Stato contro Allende in Cile… Sottolineo tutto questo poiché a volte si parla allegra­mente del «secondo assalto proletario contro la società di classe» che assertivamente avreb­be incluso il periodo tra il 1968 il 1977. Questa è una mezza verità, poiché in paesi molto cen­trali del capita­lismo, come Francia, Stati Uni­ti e Germa­nia, le cose si esaurirono ben prima; in alcuni altri continuarono arrancando; in al­tri duraro­no di piú, come nel caso dell’Inghil­terra, in cui la «pace sociale» non si cristalliz­zò del tut­to sino ad anni successivi, e in paesi che potrem­mo definire «periferici», come il Portogal­lo, la Spagna, l’Argentina o la Polo­nia, si producono ancora movimenti di lotta, per quanto ormai in contesti in cui i think-tanks del capitalismo mondiale contano già con possi­bili «straripamenti» e iniziative su come ge­stirli. In alcuni luoghi, apriranno il rubinetto della democrazia, in altri procede­ranno a re­pressioni sanguinose, che però non sfoceranno in dittature di lunga durata, come poté essere quella di Franco in Spagna. È an­che l’epoca in cui molti gruppi di sinistra nati al calore del 68 entrano in crisi e scompaiono, ma — contro ogni pronostico — altri gruppi, come la I.S., ICO e Solidarity, che pensavano che con la crisi dello stalinismo fosse arrivata la loro grande occasione, entrano anch’essi in crisi e scompaiono.

Invariance, anziché sparire, quel che fa è evolversi — o mutare, se si preferisce — ciò che si concretizzerà nell’abbandono del con­cetto di «classe universale». I piú importanti mutamenti di prospettiva si trovano in due te­sti di maggio 1973, «Erranza dell’umanità» e «Contro la do­mesticazione», e in un altro dell’anno successi­vo: «È necessario uscire da questo mondo». In essi, Camatte passa da con­cepire la classe univer­sale come classe porta­trice di una negatività, a considerarla come «insieme di uomini e donne proletarizzati, in­sieme di schiavi del capitale» («Erranza dell’umanità — Coscienza repressiva — Co­munismo», 1973). Quest’analisi era stret­tamente legata, inoltre, alla considerazione che la legge del valore aveva smesso di essere ope­rativa, dopo aver seguito strettamente — in compagnia di alcuni compagni come Jean-Louis Darlet — tutte le peripezie della crisi monetaria

che aveva portato allo sganciamento del dollaro dalla parità con l’oro […], cosí come lo studio del credito e del capitale fittizio. («Gloses en marge d’une realité X», 2009)

In «Vers la communauté humaine» (1976), Camatte riassume cosí la sua evoluzione:

Lo studio del capitale e di altri modi di produzione mi ha convinto sempre piú della convergenza MPC-MPA [Modo di Produzione Asiatico] […] da parte sua, J. L. Darlet era pervenuto alla con­clusione che il capitale non era che una rappresentazione, cosa che io preferisco enunciare cosí: il capitale adesso non è piú che una rappresentazione, tenendo conto che si è fatto tale […] attraverso un processo storico. È chiaro che a partir­e da ciò, la problematica del capitale fit­tizio è superata, il che solleva simultan­eamente e con maggiore acutezza la questione della classe rivoluzionaria, tan­to piú quando ormai non è possibile mantenere la tesi della classe universale. L’affermazione di quest’ ultima può esser­e concepita per un periodo di tempo ab­bastanza breve, momento di negazio­ne del proletariato e delle classi, ma a parti­re dal momento in cui si rivela che il lasso di tempo deve essere piú lungo, non si può piú utilizzare […].

Un anno dopo, in un testo intitolato «Prolét­ariat et Révolution» (1975), Camatte aveva af­frontato piú concretamente — ma nell’otti­ca della comunità — la questione del proleta­riato e la sua relazione con lo sviluppo delle forze produttive capitaliste:

È diventato evidente che non si poteva uscire dall’impasse se non abbandonan­do la teoria del proletariato. […] L’e­sempio delle rivoluzioni tedesca e sopratt­utto russa mostra che il proletaria­to era stato ampiamente adeguato per distrugg­ere un ordine sociale che osta­colava lo sviluppo delle forze produtti­ve, ma […] che nel momento in cui si trattava di fon­dare un’’altra comunità, rimase pri­gioniero della logica della ra­zionalità dello sviluppo di quelle forze produttive e si rinchiuse nel problema della loro ge­stione.

Questa critica della concezione marxista del­lo sviluppo delle forze produttive affiorava già19 in «Errance de l’humanité» (1973), in cui Camatte aveva detto:

[…] Marx considerò che l’emancipazio­ne umana dipendeva dal pieno apogeo di quelle forze (produttive); la rivolu­zione comunista — e pertanto la fine del MPC — doveva prodursi quando questo non fosse «sufficientemente am­pio» da conte­nerle. Tuttavia, Marx re­sta chiuso in un’ambiguità: da un lato, pensa che l’uo­mo è un ostacolo per il capitale poi­ché questo lo distrugge, per­ché impedi­sce il suo sviluppo in quanto forza produt­tiva e, in certi casi, adom­bra la possibi­lità che il capitale riesca a sfuggire alle restrizioni umane. A parti­re da ciò, Marx si vede portato a postu­lare una auto-negazione del capitale in cui le crisi sono percepite sia come mo­mento di ri­strutturazione del capitale […], sia come il momento effettivo della sua distruzio­ne.

Come non poteva essere diversamente, l’abbandono della teoria del proletariato pro­dusse una svolta di 180 gradi nell’orientamen­to della rivista. In «Thèses provisoires» (1973), Camatte già segnalava che

l’affermazione della dimensione biologic­a della rivoluzione [...], portò i compag­ni che producevano Invariance a tenta­re di precisare ed esporre una certa rap­presentazione positiva del divenire del­l’u­manità e dell’avvento della rivolu­zio­ne […] e a constatare l’immensità dei te­mi che inevitabilmente ci si presentavan­o.

Di conseguenza, la diagnosi finale — pre­sentata ad agosto del 1974 in «È necessario uscire da questo mondo», (Invariance, serie II, n° 5) — sarebbe la seguente:

… il MPC non sparirà dopo una lotta frontale delle persone contro la loro op­pressione attuale, ma a causa di un im­menso abbandono che implica un ri­fiuto del cammino che l’umanità ha per­corso da millenni.

Nello stesso anno 1974, Camatte conclude altresí che il processo-rivoluzione era giunto alla sua fine, e nel 1983, nel testo «Gloses en marge d’une realité I», appare il tema della morte potenziale del capitale (vincolato a quel­lo dell’antropomorfosi) in cui dichiara che «l’invarianza di cui si tratta è quella del deside­rio di comunità, del ritorno a un’unione con la natura».20 Successivamente, non farà che ap­profondire in questa direzione dell’unione con la natura e lo studio di ciò che chiama i «presup­posti» del capitale, come l’agricoltura neoli­tica, il patriarcato, temi si­tuati molto lontano dalla problematica imme­diata del capitalismo (non si limita esclusiva­mente a questo, ma vi consacra abbondante at­tenzione).

 

III. Ripercussione diretta dell’opera di Camatte

In Francia. Vi è una chiara influenza di Ca­matte sull’«ultrasinistra» post-68 in generale, attraverso la pubblicazione dei testi di classici «maledetti» della sinistra comun­ista, sulla Vieille Taupe, il Mouvement Com­muniste-Dauvé — con certe sfumature sulle quali torneremo in seguito — e su gruppi come Négation, Le Voyou, Les Amis de 4 Millions de Jeunes Travailleurs (influenza piú margina­le, poiché quest’ ultimo gruppo fu piú influen­zato da Dauvé e dalla I.S.); allo stesso modo, la crisi dell’ICO non si comprende sen­za l’influsso di Invariance su Dauvé e altri. In ge­nerale — cosa che viene rilevata raramente — a partire dal 68, tutta la corrente autogestionar­ia (o di «gestione operaia») basata sulle teorie di «S. ou B.» entra in crisi, e precisa­mente in quegli anni i vecchi animatori del gruppo «S. ou B.», Castoriadis, Lyotard e Le­fort, iniziaro­no la loro carriera di stelle intel­lettuali.

In Italia. Invariance influí su gruppi e individ­ui minoritari ma significativi, che criticaro­no nella pratica i limiti del consiliarismo come ideologia operativa, in larga misura perché sta­linisti e gauchistes (operaisti inclusi) non li la­sciavano intervenire nelle loro assemblee. Tra questi gruppi c’erano l’Organizzazione Consi­liare di Torino e il gruppo Ludd, forma­to nel 1969 a partire da elementi in maggio­ranza di origine anarchica, che si sciolse nel 1971. Nella loro rivista — Ludd-consigli pro­letari — ap­parve «L’utopia capitalista», testo di Eddy Gi­nosa e Giorgio Cesarano tradotto e pubblicato da Invariance. Il gruppo Com-ontismo — il cui nome era la traduzione piú o meno lettera­le di Gemeinwesen (com = comu­ne, e ontos = essere) si formò nel 1971. Secon­do Francesco Santini, il Comontismo identifi­cò il suo ambito (in gran parte, veterani della vecchia Organiz­zazione Consiliare di Torino) con il partito sto­rico del proletariato, o meglio ancora, con la «comunità umana», la Gemein­wesen, che doveva essere messa in pratica im­mediatamente e sul campo. Si trattava di pas­sare al comu­nismo tra venti o trenta persone, «comunizzan­do» una volta per tutte le rela­zioni. (Uno dei suoi slogan piú celebri fu «Contro il capita­le, lotta criminale», che ci può dare un’idea del­la modalità con cui con­cepivano il passag­gio al comunismo su scala microscopica.)21

Gente come Sergio Bologna, che si era già distinto scrivendo un libro intitolato Maggio del 68 in Francia che non faceva menzione al­cuna dei situazionisti né degli «enragés», organ­izzò rapidamente un ferreo silenzio attor­no a tutti questi gruppi, a causa del quale furo­no cancellati dalle vicende del 68 italiano. In Ita­lia, peraltro, furono tradotti non pochi testi di Camatte (a luglio 1969 fu pubblicato un nu­mero unico di Invariance in italiano e a Napo­li venne pubblicata un’antologia di testi della rivi­sta nel 1971), oltre a Capital et Gemenwei­sen (tradotto con il titolo Il Capitale Totale).

Negli Stati Uniti. L’influenza di Camatte si esercitò soprattutto su Ferdy Pelman, sul grup­po Black & Red (esperienza che durò dal 1968 al 1976), che pubblica «Erranza dell’uma­nità» e il testo di Négation, «Lip And The Self Managed Counter-Revolution»22 nel 1975; e su The Fifth Estate (gruppo che intorn­o al 1975 comincia ad evolvere verso il primi­tivismo). La relazione con Camatte per­dura sino alla morte di Perlman nel 1985; esi­ste una corrispondenza inserita in alcuni testi di Ca­matte che arriva sino a quella data. Nella picco­la antologia El persistente atractivo del na­cionalismo (Pepitas de Calabaza, 2013), che ho tradotto, non appare alcuna menzione del­la re­lazione di Perlman con Camatte23 né nel­l’introduzione né nell’epilogo e, curiosament­e, non si ritenne neppure di includere un testo molto breve, nel quale è evidente l’in­fluenza di Camatte su Perlman: le «Dieci tesi intorno alla proliferazione di egocrati». La mia impressione­ retrospettiva è che questo si dovette all’insist­enza di qualche consigliere di corret­tezza po­litica o di un analista di mer­cati «li­bertario» a cui sembrò «sconveniente». Anche il libro di Seidman, Los obreros contra el tra­bajo [Gli operai contro il lavoro] (Pepi­tas de Calabaza, 2014), mette in rilievo una certa in­fluenza sot­terranea di Camatte (in questo caso, riferita all’anarcosindacalismo spagnolo, nell’affrontar­e la tematica delle «forze pro­duttive» del cui sviluppo si farà ca­rico il movi­mento operaio «anticapitalista»). Si tratta di un tema molto camattiano, una fi­liazione a cui non si allude in alcun momento (e sappiamo in quali «media» si mosse Seid­man durante le sue ricerche in Eu­ropa: Échanges e Etcétera). Di fatto, quando Jorge Montero ed io realizzam­mo una postfazione in cui parlavamo di Camatte e del­l’ul­trasinistra in Francia, do­vemmo lottare con molta energia per inclu­derlo, poiché pare che anche in questo caso si sia mezza in mezzo un’opposizione anonima.

In Gran Bretagna: a partire dal 1975 il grup­po Solidarity entra in crisi prolungata. Di quell’anno è il «testo perduto» «The Illusions of Solidarity»24 pubblicato solo nel 2011, ope­ra di Dave Brown, un membro di Solidarity che tradusse un buon numero di testi di Camatt­e in inglese e fece una critica a fondo di questo gruppo, che sprofondò l’anno seguente (1976), per quanto la sua agonia si sia prolun­gata un po’ di piú.

In Spagna? L’ influenza piú chiara fu sul Movimiento Ibérico de Liberación, attraverso la libreria La Vieille Taupe. Nella «Lettera de La Vieille Taupe al MIL», Parigi, 8 febbraio 1971, si può leggere quanto segue.

Generalmente la nostra opinione si tro­va espressa nei testi [Cahiers] Spartacus che abbiamo pubblicato: quelli di Guil­laume e Barrot in quello su Kautsky, la prefazione al testo di R. Luxemburg su­gli scioperi belgi e in tutti i numeri di In­variance. Quei testi seguono la nostra evoluzione e ci manteniamo fedeli ad essi, salvo in alcuni punti che hanno bisog­no di precisazioni e critiche, poiché Invariance era l’insieme di due tipi di te­sti: ¶ 1) Testi classici e storici del movim­ento bordighista. ¶ 2) Testi redatti da chi pubblicavano Invariance. ¶ In quei testi, molto importanti e stimolan­ti, ab­biamo trovato punti inaccettabili — leni­nismo, data della Rivoluzione eccete­ra. Pensiamo che il numero 3 di Inva­riance (Teoria del Proletariato) sia di particolare importanza. Diteci che cosa ne pensate.

Qui si può intuire che la gente de La Vieille Taupe non era del tutto d’accordo con alcuni dei testi redatti da Camatte (qui stiamo parland­o del 1971, quando Camatte ancora non aveva annunciato l’abbandono della teoria del prole­tariato né niente di simile). Nella «Ri­sposta del MIL alla Vieille Taupe», (dicembre 1971,) si rispondeva:

ci siamo divisi i numeri di Invariance e il [quaderno] Kautsky, e stiamo procedend­o tutti alla lettura. Abbiamo inizia­to an­che il famoso №3 di Invariance che ci raccomandate. […] ¶ Abbiamo un gran­de interesse per Invariance, per quanto crediamo di dover manifestare alcune os­servazioni: 1) in questa rivista si cita este­samente a Lenin e si arriva perfino a dire che non sono la stessa cosa Lenin e il le­ninismo… ¶ È molto giusto quel che dice­va della lettura di «S.o.B.»: per quanto sia interessante, non può essere real­mente feconda se non si leggono paralle­lamente Bordiga, Invariance, eccetera.

Piú avanti arriverà, per mano di Zero-zyx, Comunidad y comunismo en Rusia (1975), e piú tardi il libro di Santi Soler, Marxismo, señas de identidad (1980) nel quale ci sono un paio di brevi riferimenti a Camatte e Invariance, il che permette di supporre che l’influenza di Ca­matte, mediata dalla gente della Vieille Taupe fu piú dal lato del recupero dei «testi maledetti del comunismo» che della teorizza­zione dello stesso Camatte… E nel 1977 appa­re, inserita in una serie impropriamente chiamat­a Crítica de la Política, la prima pubblicazion­e del gruppo Etcétera, che non fu altro che le Glosse marginali all’articolo «Il re di Prussia e la riforma sociale» di Marx (Inva­riance №5).

La traduzione di Etcétera non diceva né dove avessero ottenuto il testo né nominava il suo traduttore originale (di piú: nell’occhiello si faceva capire che l’avessero tradotto loro di­rettamente dal tedesco). La cosa non si fermò lí: nella conclusione, oltre a parlare continua­mente della Gemeinwesen e della comunità, eb­bero la sfacciataggine di parafrasare un am­pio frammento dell’unico testo di Camatte pubbli­cato sino ad allora in spagnolo: Comu­nidad y comunismo en Russia. Perché lo fece­ro? Ci sono spiegazioni per tutti i gusti, salvo le loro, che non dettero mai, ma senza dubbio non fu solo per attribuirsi qualcosa a spese di Camat­te: è molto probabile che in quest’ «af­faire» esi­stano relazioni piú complesse e ramificazion­i internazionali.

Di sicuro, poco tempo dopo, nel №3 della serie Crítica de la Política, «La ilusión demo­crática», presentarono una biografia di Bordi­ga tanto piena di errori facilmente individuabil­i, che i bordighisti ufficiali reagirono pubblic­ando un articolo intitolato «No sólo el estalinismo tiene su escuela de falsificación»25 (Non solo lo stalini­smo ha la sua scuola di falsificazione) a cui Etcétera non ha mai risposto. In piú, avevano gonfiato il petto perché chiudevano la loro presentazione dicendo che il loro obietti­vo era

riempire finalmente quel vuoto, quel si­lenzio complice, che gli «specialisti» nel­la pubblicazione di antologie ed ap­prossimazioni di Bordiga volevano la­sciare intatto per opportunismo, in nome di divergenze di impostazione.26

Qui finisce il capitolo delle ripercussioni nel corso dei decenni… E Camatte cominciò a usci­re dall’oblio grazie alla rivitalizzazione del­la «corrente comunizzatrice» intorno agli anni 2008–2011, quando soggetti come Théo­rie CommunisteAufhebenEndnotes, torna­no a studiare il suo legato e renderlo accessibi­le.

 

IV. Similitudini e differenze con la «cri­tica del valore»: superamento della legge del valore, antropomorfosi del capitale

Come ho rilevato in un testo anterio­re,27 l’evoluzione teorica di Camatte lo portò ad adottare, circa l’antagoni­smo borghesia/proletariato e la lotta di classe, una prospettiva che, fino a un certo unto, coin­cide con quella che elaborarono in altri contesti il gruppo Krisis o personalità come Moishe Postone. Mi occuperò adesso di quella possibile coincidenza, ma, prima di ogni altra cosa, vorrei iniziare con la critica generale che Camatte mosse in Invariance a quelli che, come la I. S. (Internazionale Situazionista) e altri, non andavano — nella sua opinione — oltre la critica della merce, del suo feticismo e del lavoro come merce (e non come un aspetto di una relazione sociale), che è un punto che tutti questi gruppi hanno in comune con la «critica del valore», per quanto quest’ultima sia piú sofisticata.

Per esempio, in «La révolution communi­ste: théses de travail» (1969), diceva:

I situazionisti28 (e anche molti trotzki­sti), seguendo Lukàcs, mettono al cen­tro la critica della merce. Dimenticano che per Marx: «Il tratto che caratteriz­za spe­cialmente il modo capitalista di produzio­ne è la produzione di plusvalo­re come obiettivo diretto e motivo de­terminante della produzione. Il capitale produce es­senzialmente capitale, e non lo fa se non nella misura in cui produce plusvalore.» (Il Capitale, Libro III, p. 117.)

L’obiettivo di ogni capitalista non è produrre valore, ma che la sua merce contenga il minor valore possibile affinché, venduta allo stesso prezzo di quella concorrente, gli fornisca un profitto differenziale, un incremento di plusval­ore. Il plusvalore non è un potere su cose che si consumano e scambiano, ma su persone e mezzi di produzione che vengono fatti lavorar­e congiuntamente per ottenere profitto.

Molti anni dopo, Camatte, en «Glosses en marge d’une realité VII» (2008), insiste: «par­lare di spettacolo operando con la categoria della merce significa non giungere all’invisibi­le.» L’ invisibile, naturalmente, è ciò che acca­de nella produzione, ovvero, la relazione social­e capitalista come relazione di sfruttamen­to, e non solo di scambio generalizzato.»

Detto questo, andiamo alla «critica del va­lore».

Tanto Camatte quanto i rappresentanti del­la «critica del valore» sono d’accordo che la contraddizione fondamentale del capitale è quella che si dà tra il processo di produzione immediato (cioè il processo di valorizzazione) e il processo di circolazione (ovvero, il proces­so di svalorizzazione). L’unità dei due processi si presenta quindi come un processo di valorizz­azione e di svalorizzazione, come un’unità contraddittoria.

Concordano altresí che quanto piú si svilupp­a il capitale, piú difficile gli riesce ottene­re un incremento importante di plusvalore re­lativo, poiché la massa del lavoro vivo impie­gato dimi­nuisce sempre in relazione alla massa del la­voro morto posta in movimento.

Dove differiscono è nell’idea che il limite del capitale consiste sul fatto che è fondato sul­lo sfruttamento del lavoro altrui, cioè a dire, in una relazione sociale di classe contradd­ittoria (di qui l’importanza attribuita da Ca­matte e da molti altri al plusvalore di fronte al valore). Come dice Roland Simon,29 di Théo­rie Communiste, in una critica a Jappe:

L’obiettivo della produzione capitalista non è il valore ma il plusvalore in esso contenuto, e si potrebbe aggiungere che l’obiettivo non è nemmeno il plusvalore, ma la riproduzione delle classi e la loro relazione.

Altre differenza tra Invariance e la «critica del valore» dei gruppi Krisis e Exit! riguarda­no la storia: a differenza dei questi ultimi, tra Camatte e i sopravvissuti della sinistra comunis­ta italiana c’è una continuità diretta, dovuta probabilmente alla coincidenza del nazismo con il passaggio al dominio reale del capitale in Germania, che rese impossibile ogni conti­nuità generazionale, cosa che non accadde nel caso francese e italiano (a prima vista può sem­brare un dettaglio irrilevante, ma spesso la continuità storica ha la sua rilevanza). D’altra parte, parlando di storia, Invariance lega quasi sempre la sua analisi del capitale alla succes­sione di eventi storici concreti e alle loro conseg­uenze, oltre a prestare molta attenzione a fe­nomeni non strettamente anticapitalisti, come la decolonizzazione; in cambio, la «cri­tica del valore» mette in rilievo le sue remote origini francofortesi attenendosi in gran parte a una teorizzazione piú astratta — con il pre­testo di non offrire ricette pratiche (quando avrebbero potuto limitarsi semplicemente ad analizzare realtà piú concrete) — o offrendoci passeggia­te nel museo degli orrori dell’attuali­tà (cosa non esente da interesse, certo, ma ca­rente di ogni prospettiva di «pronostico» o anticipazione­ del futuro).

Un’altra differenza importante è che la di­stinzione tra il «Marx esoterico» e il «Marx es­soterico» che fece la Neue Marx-Lektüre tede­sca degli anni 70 portò i rappresentanti del­la «critica del valore», che la fecero pro­pria, a postulare che la lotta di classe era «im­manente al sistema» (e, pertanto, inoperante al momen­to di determinare la sua evoluzione); Camatte, al contrario, approva da un lato quello che de­finisce il «riformismo rivoluzio­nario» di Marx (che considera storicamente giustificato) e dall’altro descrive ciò che pos­siamo chiamare la «fuga» dal capitale senza ignorare a priori la lotta di classe. Al riguardo, il gruppo francese Temps Critiques riassume assai bene la posizio­ne della «critica del valo­re»:

Krisis non prende atto della sconfitta del proletariato, proclama piuttosto la sua incapacità congenita di essere nient’altro che capitale variabile. Il rim­provero che occorre fare a Krisis non è di negare la realtà attuale,30 ma di nega­re quella di ieri, ossia negare la sto­ria della lotta di classe […].31

Tuttavia, la «critica del valore» va oltre: sta­bilisce un vincolo necessario tra la lotta di classe e l’antisemitismo, il populismo e altre po­litiche fondate sulla ricerca di capri espiato­ri, confondendo la parte — la lotta di classe — per il tutto — ossia la dinamica — chiamiam­ola racketista — del capitale come tota­lità — in maniera tale che, nello stesso tempo in cui pretende di ostentare ampiezza di vedu­te, non può cessare di censurare come «insufficient­e» ogni movimento reale.

Senza smettere di differenziarli, potrem­mo dire che tanto la «critica del valore» quan­to il Camatte attuale soffrono della stes­sa carenza di attenzione verso i movimenti contempora­nei di popolazioni eccedenti crea­ti dall’evolu­zione ca­tastrofica del capitali­smo (Camatte in quanto ha abbandonato qualunque analisi in termini di valore e di classi, e Krisis perché ha eliminato ogni questione di classe sommer­gendola nel valo­re).

Per Camatte, quantunque la «fuga» del ca­pitale verso il capitale fittizio abbia le sue origin­i nella valorizzazione di questo, il processo non smette di ripercuotersi sulle relazioni so­ciali (sebbene la ripercussione concreta non può che essere distorta dalla priorità che confer­isce alla «comunità umana» come ipotetico soggetto trasformatore).

Peraltro, entrambi sono d’accordo nella con­cezione del capitale come «soggetto auto­matico», ma anche nel rifiuto della missione storica del proletariato» (nel caso di Camatte, a partire dal momento in cui rigetta la teoria del valore e considera che il capitale si è trasform­ato in rappresentazione).

§ § §

Per Camatte, il punto di partenza del­l’abbandono della teoria del valore è stata la constatazione che, a partire del 1956, negli Sta­ti Uniti il numero di lavoratori improdutti­vi — in termini di produzione di plusvalore — aveva superato quello dei lavoratori produtti­vi. «A partir da allora» — dice in «Epilogue au Manifeste Communiste 1848» (1992) —

è diventato evidente che il movimento del capitale superava la legge del valore, che stava superando i suoi limiti, come aveva esposto Marx nei Grundrisse […].

Qui è dove appare il tema dell’antropo­morfosi.

Secondo Camatte, trasformandosi in rappres­entazione, il capitale tende a sfuggire alla ne­cessità di incarnarsi in un processo di produzion­e materiale. In questa maniera, può eludere o inglobare le difficoltà sorte durante il suo svi­luppo anteriore. Il capitale diviene specie u­mana e si impadronisce di tutto l’uma­no; men­tre donne e uomini si trasformano in ogget­ti reificati, il capitale realizza il suo progett­o di dominare la natura e insediarsi in to­tale di­scontinuità con essa.32

D’altro canto, l’antropomorfizzazione non esclude un movimento antagonista — in partic­olare che il capitale obblighi gli esseri uma­ni ad esserlo — né qualunque capacità di lot­ta, in quanto, secondo Camatte, nel momento in cui il capitale si separa dalla specie umana, anche la specie umana può separarsi de esso. («La mort potentielle du capital», dicembre 2001).

A questo proposito, in un testo de 2007 («Commentaires sur le texte de Marcel») Ro­land Simon e Bernard Lylon, di Théorie Com­muniste, dicono molto criticamente:

Con la «comunità materiale» e l’«antro­pomorfosi» […] passiamo dall’asimme­tria dei poli della relazione nella loro re­ciproca implicazione […] a un occultam­ento o annichilimento della contradd­izione che fa sí che esista quel movim­ento. Il risultato, svincolato dal suo pro­prio processo costitutivo, si presenta come la sua stessa causa (reificazione). È l’auto presupposizione del capitale senza la contraddizione che la costitui­sce. La nozione di «comunità materia­le» riman­da a quella di individui-perso­ne che si tratterebbe di riunire; è, di fat­to, una no­zione politica.

In effetti, bisogna chiedersi qual è il nesso della relazione sociale capitalista una volta su­perata la legge del valore. Su che cosa si sostien­e? Già diceva Marx nell’Introduzione gener­ale alla critica dell’economia politica (1857) — che:

La popolazione è un’astrazione se trala­scio, ad esempio, le classi della quale si compone. Queste classi sono, a loro vol­ta, una parola vuota se disconosco gli ele­menti su cui si sostengono, ad esem­pio il lavoro salariato, il capitale, ecceter­a. […] Il capitale, per esempio, non è nulla senza lavoro salariato, senza valo­re, denaro, prezzi, eccetera.

§ § §

Dove appare che la «critica del valore» av­vantaggia chiaramente Camatte per capacità esplicativa è nella teoria della dissociazione — valore introdotta nel 1992 da Roswitha Schol­tz per riferirsi alla «scissione» che fondamenta l’esistenza del valore come forma sociale feticis­ta e strutturalmente «maschile» (a dispetto del fatto che alcune donne producano valore e ne gestiscano anche la produzione).

Concretamente, questa teoria sostiene che le funzioni relazionate con la riproduzione della forza lavoro che il capitalismo delega alle don­ne hanno un carattere distinto dal la­voro astrat­to, e costituiscono una dimensione della società capitalista che è parte della stessa realtà sociale del valore/plusvalore, ma che in­sieme è fuori dal suo ambito ed è perciò un suo presup­posto.

In questo senso, decisivo è che le trasformaz­ioni storiche della relazione di genere e delle relazioni sociali in generale si devono intender­e a partire dai meccanismi e dalle strut­ture del­la scissione del valore; per esempio, quando le donne non possono piú disimpegna­re quei compiti di riproduzione della forza la­voro poi­ché devono occuparsi tanto della fa­miglia quanto del loro lavoro remunerato, o quando l’obsolescenza del lavoro astratto pro­duce an­che una violenta riaffermazione delle strutture, gerarchie e condotte patriarcali. Per quanto riguarda tali questioni, Camatte — senza es­servi indifferente — si vede ridotto a parlare della «specie» e della «comunità umano-femmini­le», in quanto, una volta che dia­mo per supe­rata la legge del valore, e per­tanto la distinzio­ne lavoro produttivo/lavoro impro­duttivo, quale interpretazione concreta può attribuirsi ai movimenti delle donne? Ol­tre ad alludere ge­nericamente all’avvento del­la «co­munità umano-femminile» come obiet­tivo e il dominio maschile come uno dei «pre­supposti del capita­le», Camatte può solamente dire cose come «il fenomeno rivoluzionario è stato effettivamente frammentato e le sue di­verse componenti si sono autonomizzate, ciò che è un momento dell’affermazione del capi­tale, poiché ciò facili­ta il divenire della separazio­ne­» («Epilogue au Manifeste Commu­niste 1848», 1992) men­tre parla della «morte po­tenziale» del capitale, dovuta al fatto che è scomparsa l’estrazione di plusvalore a spese del lavoro degli uomini e del­le donne.

 

V. Conclusione.

Camatte ha scritto, come minimo, un paio di classici, e i classici sono sem­pre attuali. L’analisi di Capital et Ge­meinwesen anticipa perfettamente e, in alcuni aspetti, supera la «critica del valore», ad esem­pio. Un altro testo che è un classico — e del quale fa parte certamente «La mistificazione democratica» (e non soltanto il frammento di questo testo disponibile in inglese e in spagno­lo, ma tutto intero) — è «La révolution com­muniste: théses de travail» (1969), in cui trac­cia un bilancio della rivoluzione comunista molto elaborato sia nel tempo che nello spa­zio. Constatata la vasta estensione e la ric­chezza dell’opera di Camatte, risulta molto scioccante a prima vista la scarsa diffusione e conoscenza della sua opera. Che tale mancan­za di cono­scenza non sia cosí assoluta come potrebbe sem­brare, lo abbiamo indicato qui e in altri la­vori, cosí come il ruolo svolto in piú di un’oc­casione rispetto all’ostilità manifesta.

Orbene, una congiura del silenzio non può trionfare né mantenersi senza che ci siano cir­costanze che la favoriscono. Nel caso dell’oper­a di Jacques Camatte, le circostanze sono sta­te varie:

1. L’ epoca stessa, ossia il fatto che l’opera di Camatte era molto in anticipo sui tempi. A ciò bisogna aggiungere che l’epoca — sebbene per poco tempo, poiché le circostanze lo impon­evano — considerò se stessa molto piú rivol­uzionaria di quanto fosse, errore di valuta­zione nel quale Camatte non cadde. Per di piú, Ca­matte non contribuí a diffondere le illusioni dell’epoca su se stessa, ciò che non favorí la dif­fusione delle tesi di Camatte.

2. Una volta terminata la fase delle illusioni e iniziato il riflusso, con le regressioni e le stra­de senza uscita camuffate da rinnovamento e ben insediata la confusione generale, il ghet­to e il piccolo mondo da racket — impegnato a so­pravvivere a ogni costo, ad auto ingannarsi e, se possibile, a prosperare in tempi avversi — poteva ancora meno diffondere alcune idee che, nonostante abbiano impresso il sigillo del­le loro stesse sconfitte, non erano disegnate in nessuna maniera per generare illusioni né impartire certezze su ipotetiche «vittorie fina­li». Peggio ancora, quelle idee continuavano a spargere una critica corrosiva e implacabile a ogni sorta di mistificazioni. Per tutto questo, anche chi ha osato appropriarsi qua e là di frammenti di quelle idee, si è astenuto dal for­nire indizi sulle origini e sui media che le han­no nutrite.


Traduzione di Roberto Pecchioli

Titolo originale ¿Quién teme a Jacques Camatte?, edizione Anábasis, anabasisradioqk.org,
settembre 2020.

Una bibliografia completa delle opere di Camatte e delle traduzioni è disponibile a:
www.ilcovile.it/V3_camatte_all_per_Articoli.html

Note

1Secondo Ph. Bourrinet in «Un siècle de gauche communiste ‹italienne›» (1915–2015), pp. 231–232: http://www.left-dis. nl/f/DictionnaireGCI.pdf

2A proposito della «decadenza» del modo di produ­zione capitalista, non c’è bisogno di precisare che Bordiga rifiutò sempre questa concezione, che con­siderava una deformazione gradualista della teoria di Marx (si veda «Le renversement de la praxis dans la théorie marxiste», in Invariance serie I №4). Conviene segnalare che la tendenza del PCInt che si scisse nel 1952 intorno a Onorato Damen, era so­stenitrice della teoria della decadenza.

3El Capital, Libro I, Capítulo VI (inédito): Resulta­dos del proceso inmediato de producción, trad. P. Scaron, Siglo XXI, Città del Messico, 2009, p. 60.

4Ibid., p. 72.

5Ibid., pp. 72–73.

6La concepción materialista de la historia, Ed. Ariel, Barcelona, 1980, p. 147.

7Karl Marx, Ed. Ariel, Barcelona, 1974, p. 221.

8«La recuperación del marxismo en la llamada «cue­stión del sindicato»», in Escritos políticos, Fo­lios Ediciones, México, 1982, p. 218.

9La concepción materialista de la historia, pp. 148–149

10«El marxismo y las tareas actuales de la lucha de cla­ses proletaria», Cuadernos de Pasado y Presente, 1979, p. 207.

11Un siècle de gauche communiste «italienne» (1915- 2015), p. 232.

12Gli estratti citati provengono da un’intervista con due membri della pubblicazione argentina Cuader­nos de Negación. A nostra conoscenza, l’intervista non è stata pubblicata.

13Di certo, poco tempo prima, gran parte di quei neri statunitensi erano stati impiegati nel settore dell’autom­obile e in altre importanti industrie ame­ri­ca­ne, dai quali furono espulsi in conseguenza del pro­cesso di automazione, per cui, quanto meno, esi­steva un vin­colo diretto con la classe lavoratrice nera.

14Camatte, Comunidad y comunismo en Rusia, Zero-ZYX, Bilbao, 1975, pp. 18–19.

15Ibid., p. 33.

16Ibid., p. 66.

17Ibid. p. 60–61.

18Ibid. p. 96.

19Secondo Camatte, Bordiga aveva rotto con l’impo­stazione «marxista» classica, rispetto allo sviluppo delle forze produttive, per giungere al comunismo, ciò che era coerente con la sua affermazione che que­sto era possibile dal 1848.

20«Epilogue au Manifeste du Parti Communiste 1848», 1989.

21Vedi, sul movimento italiano di quell’epoca «L’épingle stérilisée» in Les Fossoyeurs du Vieux Monde, №2 (aprile 1979), cosí come Apocalisse e sopravvivenza (1994), di Francesco Santini. A livel­lo radiofonico, le puntate da 146 a 149 di «Anába­sis» si occuparono di quest’area radicale, includen­do un’intervista a Claudio Albertani, esponente di LuddComontismo e Insurrezionehttp://anabasi­sradioqk.org

22https://libcom.org/library/ lip-and-the-self-mana­ged counter-revolution-negation

23Peggio ancora: non si fa riferimento alcuno alla tra­duzione e edizione dei Saggi sulla teoria marxi­sta del valore di I.I. Rubin. E questo non è attribui­bile alla casa editrice…

24http://libcom.org/library/ illusion-solidarity-david-brown

25http://www.sinistra.net/lib/ upt/elproc/mopu/mopud­jaces.html

26Etcétera, Crítica de la Política №3, «La ilusión de­mocrática», p. 9 (Introducción).

27«Jacques Camatte y el eslabón perdido de la crítica social contemporánea», https://dndf.org/? p=13570

28È strano, come minimo, certamente, che i situazio­nisti non abbiano detto nulla, né di buono né di cattiv­o, su Invariance.

29http://raumgegenzement. blogsport.de/2010/10/01/ roland-simon-a-propos-dun texte-danselm-jappe-2009/

30Se andiamo al fondo della questione, nega anche la realtà attuale, o almeno alcuni suoi aspetti important­i.

31«Poursuite de la valorisation ou domination du capit­al sur la valeur?», http://tempscritiques.free.fr/ spip.php? Article 166 (2006).

32Cfr. «La séparation nécessaire et l’inmense refus», 1979.

Il Covile

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