Chi ha paura di Jacques Camatte?
mar 12th, 2021 | Di Thomas Munzner | Categoria: ContributiChi ha paura di Jacques Camatte?
di Federico Corriente
Il lettore potrà rendersi conto che l’invarianza dichiarata-proclamata all’inizio, quella della teoria del proletariato, è già inclusa in un’altra assai piú vasta: la ricerca di una comunità umana, il cui complemento è la messa in risalto della distruzione delle antiche comunità e l’addomesticamento degli uomini e delle donne cosí come la lotta contro di esso, una delle condizioni storiche perché il tentativo di fondare una comunità umana possa realizzarsi. («Communauté et devenir», 1994)
I. Inizi di Jacques Camatte nella sinistra comunista italiana e prime opere. Rottura con il pc-int
Gli inizi di Camatte si trovano nel Partito Comunista Internazionale (PC-Int), uno tra gli eredi del Partito Comunista Italiano originale, che l’Internazionale Comunista finí per espellere intorno all’anno 1928. In quanto ai dati biografici, è curioso che quasi non ve ne siano: Camatte è riuscito a rendersi molto piú «anti-spettacolare», di Guy Debord, ad esempio. Il poco che sappiamo è che nacque vicino a Marsiglia nel 1935 e che lavorò come professore di Scienze della Vita e della Terra in varie località del sud della Francia (Tolone, Brignoles e poi Rodez) fino al 1967. Quanto alla sua iniziale militanza nella Frazione Francese della Sinistra Comunista Internazionale, entrò nel gruppo di Marsiglia nel 1953. Un paio d’anni piú tardi, conobbe a Napoli Bordiga (che visse fino all’anno 1970), con il quale concorderà un gran numero dei suoi primi testi.
Nel 1957 il gruppo francese della Sinistra Comunista Internazionale cominciò a pubblicare la rivista Programme Communiste, sotto la direzione di una donna, Suzanne Voute — germanista e traduttrice di gran parte dell’opera di Marx per le edizioni Gallimard e La Pléiade, in collaborazione con Maximilien Rubel — che arrivò da Parigi per stabilirsi nel Sud e farsi carico della direzione del gruppo. A quanto sembra, segnò subito la personalità di Camatte (non è azzardato supporre che Camatte abbia imparato il tedesco da lei). Suzanne Voute precedentemente aveva animato la Frazione Francese della Sinistra Comunista Internazionale sino agli anni 1949–1950, quando il suo compagno sentimentale, l’ex membro del POUM Albert Masó («Véga»), portò la grande maggioranza della FFGCI nelle file di «Socialisme ou Barbarie».
Durante tutto quell’anno — fino all’estate del 1950 — Suzanne Voute aveva avuto contatti con Castoriadis, il capo visibile de S. ou B., per avviare un processo di fusione tra i due gruppi. L’anno seguente, la Voute fondò il «Gruppo Francese della Sinistra Comunista Internazionale».
A partire dal 1961, Camatte sembra ricoprire un ruolo sempre maggiore nel PCInt e iniziò un vero scambio intellettuale molto fecondo con Bordiga. «Origine e funzione della forma partito» (1961), per esempio, è un testo interno del PCInt — scritto insieme con Roger Dangeville — la cui pubblicazione dovette essere imposta dallo stesso Bordiga, data la grande controversia che suscitò nel partito.
Nel 1963 Camatte fonda il gruppo di Tolone, ma lo abbandona l’anno seguente e si trasferisce a Parigi, dove comincia ad opporsi a quello che definisce «attivismo trotzkista»: stampa di tessere di partito, riunioni formali presiedute da un «responsabile del partito», attività di agitazione legata alla vendita del giornale Le Prolétaire e a favore di un sindacato di classe «rosso», eccetera.
Nel 1964 la polemica si intensificò, poiché all’epoca alcuni membri del PCInt cominciano a pensare che il partito dovesse intervenire piú attivamente nelle lotte che dal 1962 si andavano succedendo in Italia, e che la causa dell’incapacità del partito di inserirsi in quelle lotte stava nel suo modo di vita, nella sua forma organizzativa, per cui proposero di abbandonare il centralismo organico — che era basato sulla priorità della difesa del programma comunista e sull’assorbimento spontaneo delle frazioni al di sopra dei meccanismi democratici — per abbracciare il centralismo democratico leninista.
Tuttavia, nella riunione di Firenze di quell’anno, Bordiga reagí energicamente contro questa tendenza, e tra i testi che citò vi era «Origine e funzione della forma partito» il che rese manifesto il suo accordo con quel testo e incoraggiò chi intendeva continuare il lavoro svolto con lui a continuare le ricerche. Nello stesso periodo (1964), Camatte comincia a redigere lo studio Il VI capitolo inedito del «Capitale» e l’opera economica di Karl Marx (piú nota come Capitale et Gemeinwesen) — che era certamente un lavoro molto apprezzato da Bordiga —, in cui sviluppa l’idea del «passaggio dal dominio formale al dominio reale del capitale». Camatte terminò quest’opera nel 1966, lo stesso anno in cui abbandona il PC-Int), ma non lo pubblicò sino al 1968, nel №2 di Invariance.
Nella riunione di Napoli nel giugno 1965, Bordiga torna a rifiutare il «centralismo democratico», come ogni misura formale di esclusione contro Camatte, tuttavia non citerà «Origine e funzione» tra il materiale documentale destinato a commentare le tesi generali; da allora Bordiga comincia ad arretrare e ad inclinare verso la tendenza neoleninista e trotzkizzante, che andrà imponendosi sempre piú. Alla fine — e qui si conclude il cammino di Camatte nel PCInt — nel 1966, dopo che firmò un testo intitolato «Bilan», Bilancio, scritto inizialmente da Roger Dangeville, la scissione divenne inevitabile. E Suzanne Voute fu una delle militanti piú accanite al momento di esigere l’esclusione tanto di Camatte quanto di Dangeville, arrivando all’estremo di far pressione su Bordiga, che rifiutò per principio «ogni caccia alle streghe». La scissione non fu amichevole: Camatte, depositario in Francia della raccolta delle riviste del PCInt, dovette trincerarsi nella sua abitazione per conservarle. Ciononostante decise — secondo lui «per dimostrare di non essere un accademico» — di distruggere tutte le copie nelle quali non figurassero articoli di Bordiga, anche se si trattava di numeri con articoli suoi.1
Camatte ricostruisce cosí la sua relazione con Bordiga in «Du parti communauté à la communauté humaine» (1974):
questa breve storia era necessaria per poter capire l’accordo che ci poteva essere con A. Bordiga sulla questione del partito, cosí come i suoi limiti. «Origine e funzione» è, in un certo modo, un testo-cardine, poiché intorno ad esso si articolarono molte polemiche (tutti gli elementi che abbandonarono il PCInt dopo il 1962 lo attaccarono sempre violentemente); perché fu il punto d’inizio di un superamento che si sviluppò attraverso il lavoro esposto nella rivista Invariance, e perché a causa dell’opposizione che suscitò, provocò il rafforzamento della corrente leninista, con l’esaltazione del vincolo con la Terza Internazionale da parte di A. Bordiga, ma soprattutto del PCInt, che a partire del 1966 si immerge totalmente nella corrente leninista e perde ogni originalità.
Breve riassunto di «Origine e funzione» per caratterizzare il «bordighismo»
In «Origine e funzione», Camatte descrive le caratteristiche piú importanti della sinistra comunista italiana al fine di presentarla nella sua originalità e definirla rispetto al leninismo e al trotzkismo. Questa corrente, come abbiamo spiegato prima, era quella di un gruppo di sopravvissuti al naufragio dell’Internazionale Comunista, che aveva avuto la particolarità — insieme ai comunisti germano-olandesi, con i quali condividevano soltanto un antiparlamentarismo di principio — di essere stigmatizzati da Lenin nel suo famoso opuscolo del 1920, L’estremismo, malattia infantile del comunismo. Tuttavia, a differenza dei germano-olandesi, i comunisti di sinistra italiani rimasero nell’Internazionale Comunista sino al 1928. Secondo «Origine e funzione», le caratteristiche e i tratti principali della sinistra comunista italiana sono:
• La «teoria del proletariato», sorta una volta per tutte nel 1848, che teoricamente anticipava tutto ciò che il proletariato doveva fare per costituirsi in classe e diventare un soggetto della storia prima di distruggere se stesso e accedere al comunismo. Secondo la sinistra comunista italiana, la crisi, basata sulla teoria del valore — che rappresenta il punto di unione con la teoria del proletariato — avrebbe distrutto l’integrazione del proletariato nella società borghese e avrebbe permesso l’incontro tra questo e la sua coscienza incarnata nel partito.2
• In quanto depositario del programma comunista, il partito non solo era il rappresentante del proletariato, ma anche «la prefigurazione della società comunista», ovvero della Gemeinwesen, la futura comunità umana. Non poteva essere definito per regole burocratiche, ma per il suo essere, e il suo essere era il suo programma. Pertanto, bisognava distinguere tra «partito formale» e «partito storico», giacché quest’ultimo non era altro che quello che sarebbe riuscito a portare a termine la rivoluzione comunista e non si identificava necessariamente con alcun partito «realmente esistente» in quel momento.
• Il partito si definiva come un organo della classe, che nasceva — o tornava a formarsi — spontaneamente allorché la lotta di classe riprendeva su larga scala, concezione che rappresenta un tentativo di superare l’opposizione lenino-trotskista tra la spontaneità e la coscienza. (Né si considerava l’organizzazione come il male, né la spontaneità come il bene, poiché anch’essa, presto o tardi, è riassorbita dalla stabilizzazione delle relazioni sociali.)
• Per ultimo, il marxismo si definiva ancora come la teoria delle controrivoluzioni, poiché, secondo un testo di Bordiga dell’anno 1951, dal titolo «Lezioni delle controrivoluzioni» «tutti sanno orientarsi nell’ora della vittoria, ma pochi sono quelli che sanno farlo quando la sconfitta arriva, si complica e persiste». Non si poteva contemplare nessuna azione senza aver preventivamente definito la fase storica: rivoluzionaria o controrivoluzionaria, di rilancio o di ripiegamento, per cui in un periodo controrivoluzionario — come prima del maggio 1968 — gli internazionalisti dovevano evitare di cadere nella trappola dell’attivismo e dell’«immediatismo» e prima di tutto sviluppare il programma comunista concentrandosi nella critica dell’economia politica. Di qui, pertanto, secondo la sinistra comunista italiana, l’errore di Trotzky, che, anziché tracciare un bilancio che avrebbe permesso di preparare la successiva scalata rivoluzionaria, cercò la causa della sconfitta nel tradimento dei capi, nei crimini di Stalin, nella passività delle masse, nella cattiva applicazione delle parole d’ordine, eccetera. Ne «La révolution communiste: thèses de travail», testo di Camatte del 1969, cosí egli riassume la questione: «La forza di questo movimento sta nell’aver compreso che era necessario battere in ritirata.»
II. Invariance: la rottura teorica
Nel 1967 Camatte fonda la rivista Invariance e si distanzia progressivamente, prima dal «bordighismo» e poi dal marxismo classico, sino a giungere ad una rottura totale che si verificò ad ogni serie della rivista. In totale ci furono cinque serie: I (1967–1969), II (1971–1975), III (1975–1983), IV (1986–1996), e la V e ultima (1997–2002). Possiamo dividere il suo apporto in due aspetti principali (che poi furono utilizzati affinché qualcuno accogliesse solo uno di essi e non volesse sapere nulla dell’altro).
Recupero della «parte maledetta» del comunismo.
La rottura della continuità organizzativa imponeva uno studio teorico piú esaustivo, un rigore ancora maggiore e un radicamento nel passato piú profondo, un’integrazione di tutte le correnti, che, anche parzialmente, difendevano la teoria del proletariato. («La révolution communiste: thèses de travail», 1969)
Camatte non si dedicò solo a recuperare testi importanti della sinistra comunista italiana, ma trasse dall’oblio le sinistre germano-olandese, inglese e statunitense: i primi due numeri della prima serie della rivista furono dedicati rispettivamente a «Origine e funzione della forma-partito» e «Capitale e Gemeinwesen». I numeri 3, 4 e 5 furono interamente consacrati alla pubblicazione di testi di Bordiga, salvo le «Glosse marginali all’articolo «Il re di Prussia e la riforma sociale «di Marx, incluso il finale del №5, del quale torneremo a parlare a proposito della Spagna e del gruppo Etcétera. Le tesi del №6 di Invariance sono dedicate al saggio monografico «La révolution communiste: thèses de travail» [1969], che dovevano essere illustrate da testi provenienti da diverse correnti del movimento operaio, per cui nei numeri 7 e 8 della I serie vennero pubblicati testi di Gorter, Pannekoek, Sylvia Pankhurst, Lukàcs, dei comunisti di sinistra statunitensi, del KAPD e della rivista Bilan. I numeri 9 e 10 della I serie furono dedicati nuovamente alla pubblicazione di testi di Bordiga. Per ultimo, nel numero 5 de la II serie di Invariance fu pubblicato il testo di Gorter «L’Internazionale Comunista Operaia (1923), e nel №6 della stessa serie il «Manifesto del Gruppo Operaio del Partito Comunista Russo» (1923) di Miasnikov.
Tutto ciò in un periodo molto breve, poiché la II serie di Invariance arriva sino all’anno 1975, e il grosso di queste pubblicazioni e traduzioni fu realizzato prima del 1971. Inoltre Camatte non pubblicò solo questi testi, ma tradusse alcuni classici giovanili di Marx come La questione ebraica e la Critica alla filosofia del diritto di Hegel (di fatto, le Glosse marginali all’articolo «Il re di Prussia e la riforma sociale» vennero tradotte in Francia negli anni Venti e non ci furono altre traduzioni sino a quella che fece Camatte).
Riprendere la critica dell’economia politica: l’analisi della sussunzione
I concetti piú importanti e veritieri dell’epoca sono condizionati necessariamente dall’organizzazione che li circonda, dalla maggiore confusione e dai peggiori controsensi. I concetti vitali conoscono nello stesso tempo gli usi piú veritieri e piú menzogneri. (International Situationniste №9, 1966)
Il punto di partenza della critica dell’attuale società del capitale, deve essere la riaffermazione dei concetti di dominio formale e dominio reale come fasi storiche dello sviluppo capitalista. Ogni altra periodizzazione del processo di autonomizzazione del valore, quale capitalismo concorrenziale, monopolista, monopolista di Stato, burocratico ecc., esce dall’ambito della teoria del proletariato, vale a dire della critica dell’economia politica, per far parte del vocabolario e della prassi della socialdemocrazia, o dell’ideologia «leninista» codificata dallo stalinismo. […] Nella fase del dominio reale la politica, come strumento di mediazione del dispotismo del capitale, scompare. Dopo averla ampiamente utilizzata nella fase di dominio formale, esso può liquidarla quando perviene, in quanto essere totale, a organizzare rigidamente la vita e l’esperienza dei propri subordinati. («Transition», 1969)
La cosa piú fondamentale dell’impostazione di Camatte in Capital et Gemenweisen risiede nel fatto che, al di fuori di un’analisi dello sviluppo del capitalismo come un tutto, non si possono comprendere adeguatamente i movimenti anticapitalisti; sembra una sciocchezza, ma vedremo subito che non lo è tanto. Senza analizzare il capitalismo come una relazione di implicazione reciproca (come attualmente sostiene Théorie Communiste) che include tutto ciò che accade fuori dell’ambito immediato della lotta di classe, non si può andare molto lontano.
Non è sufficiente studiare solamente la classe lavoratrice, come fecero, peccando di immediatismo secondo Camatte e compagni, Socialisme ou Barbarie o l’operaismo italiano, che in alcune occasioni arrivò fino all’estremo di feticizzare la soggettività operaia come un antagonismo onnipresente. In altre parole, per poter capire il capitalismo contemporaneo, secondo Camatte e Bordiga si imponeva uno studio a fondo del Capitale e di altri testi, come i Grundisse, l’Urtext e il Capitolo VI (inedito), Per fare questo, partono in primo luogo da Marx e a ciò che disse in relazione a questi temi.
Che cos’era ciò che aveva da dire Marx — ad esempio — sulle due forme di plusvalore e le due forme di sussunzione del lavoro nel capitolo VI (inedito)? Tra altre cose, questo:
In ogni caso, le due forme di plusvalore, quella assoluta e la relativa, […] corrispondono a due forme separate di sussunzione del lavoro nel capitale, delle quali la prima è sempre precorritrice dell’altra, per quanto la piú sviluppata, la seconda, può costituire a sua volta la base per l’introduzione della prima nei nuovi rami della produzione.3
Quel che sta dicendo Marx non è che c’è una distinzione temporale stretta tra plusvalore assoluto e plusvalore relativo, bensí che, una volta che il plusvalore relativo diventa forma dominante su scala mondiale, serve anche da base affinché si introduca il plusvalore assoluto in altri settori nei quali non era sino a quel momento penetrato. La relazione è complessa: non è una semplice questione in cui c’è prima una cosa e dopo l’altra. A ciò Marx aggiunge che sopra la base della sussunzione formale — che come sappiamo è legata all’estrazione di plusvalore assoluto, — si eleva un
modo di produzione [...] che diventa metamorfosi della natura reale del processo di lavoro e delle sue condizioni reali [...], il che ci porta alla sussunzione reale del lavoro nel Capitale [...],4
che suppone una
rivoluzione totale [che prosegue e si ripete continuamente] nello modo di produzione stesso, nella produttività del lavoro e nelle relazioni tra il capitalista e l’operaio».5
Questo è ciò che Marx dice in prima persona in ordine alla sussunzione, e non è poco.
La sussunzione formale — che precede storicamente la sussunzione reale — suppone la sottomissione dei processi di lavoro preesistenti all’autorità del capitale. Qui le modalità fondamentali di estrazione del plusvalore sono l’allungamento della giornata di lavoro, l’intensificazione del processo di lavoro e l’assunzione di piú manodopera, anziché — ad esempio — introdurre nuovi macchinari per aumentare la produttività. Questo è ciò che Marx definisce plusvalore assoluto. La risorsa essenziale, pertanto, consiste nell’incrementare l’uso del capitale variabile, ossia la forza lavoro.
L’ estrazione di quello che Marx denomina plusvalore relativo — il principio «attivo» della sussunzione reale del lavoro da parte del capitale —, in cambio, permette al capitale di aumentare la produttività del lavoro senza allungare l’orario di lavoro e perfino abbreviandolo, a partire dall’applicazione della scienza e dell’innovazione tecnologica. La generalizzazione dell’estrazione di plusvalore relativo, tuttavia, determina trasformazioni ulteriori della società che vanno molto al di là dell’ambito immediato del processo di produzione. Por un verso, la diminuzione della proporzione di capitale variabile in relazione con il capitale costante (macchinari, eccetera) riduce la «centralità» sociale della classe lavoratrice; per l’altro, nell’impadronirsi del rami dei settori della produzione che producono le merci indispensabili per la riproduzione della forza-lavoro — con il fine di ridurre il valore di quelle merci — il capitale incorpora nel suo ciclo la riproduzione sociale dei lavoratori, il che trasforma, a sua volta, la difesa della condizione proletaria in un momento della riproduzione delle relazioni sociali capitaliste.
Successivamente, nel corso del suo studio, Camatte procede a giustificare la periodizzazione che sta introducendo, affermando, ad esempio, ciò che segue:
[…] il capitale non può accontentarsi di dominare nell’interno del processo di produzione; deve impadronirsi del vecchio processo di circolazione e farlo suo […]; ciò impone, a sua volta, la trasformazione dei mezzi di trasporto. […] Non si può piú accontentare dello Stato come ausiliario; ha bisogno che si trasformi in uno Stato capitalista, in un’impresa capitalista. Questo significa che il capitale deve ribaltare tutti i presupposti sociali e capitalizzarli tutti. È ciò che abbiamo esposto nelle pagine precedenti, mostrando il dominio reale del capitale; tuttavia, abbiamo omesso di precisare che, nel farlo, estendevamo il campo dei concetti di K. Marx — basandoci sulla sua opera — dalla fabbrica alla società. (Capital et Gemeinwesen)
Cosí dunque lo stesso Camatte avverte che la periodizzazione storica è cosa sua; si appoggia sul lavoro preventivo di Marx, ma è lui ad assumere la responsabilità di tale periodizzazione.
Caratteristiche generali del dominio formale
Dice Camatte in Capital et Gemeinwesen: «[…] durante il periodo di dominio formale del capitale, il capitale variabile — la forza lavoro — è l’elemento fondamentale.» [N. dell’Autore: del processo di produzione, s’intende).
Su questa base, la
prospettiva di una rivoluzione sotto il dominio formale del capitale contemplata da Marx […] suppone una continuità tra lo sviluppo delle forze produttive sotto il capitale […] e sotto il dominio del proletariato. La rivoluzione significa l’affermazione della classe dominata e la sua trasformazione in classe dominante. Nel prendere il potere e generalizzare la sua condizione, la classe dei lavoratori produttivi sviluppa le forze produttive, cosa che già faceva sotto il capitale, ma adesso lo fa sotto la propria direzione.
Nel segnalare come «missione storica» del movimento operaio classico spronare e accelerare la transizione generalizzata della sussunzione formale del lavoro alla sua sussunzione reale, Camatte coincide non solo con Karl Korsch (con il quale concorda nel non emettere al riguardo un giudizio totalmente negativo) ma anche — fino a un certo punto — con la «critica del valore». Orbene, se per quest’ultima tale transizione verrebbe a riassumersi in una nefasta fatalità iscritta congenitamente nella condizione stessa della «forza lavoro», né Camatte né Korsch vi scorgono una «necessità storica» non salvabile:
Sarebbe astratto e insufficiente cadere nello storicismo primitivo di dichiarare fondamentato e necessario ogni sviluppo storico, anche nelle sue caratteristiche piú mostruose, semplicemente perché cosí è accaduto nel processo storico,
dirà Korsch.6 Da parte sua, nemmeno Camatte, sebbene consideri pienamente giustificato il «riformismo rivoluzionario» di Marx come via piú breve destinata a creare le condizioni piú favorevoli per la transizione al comunismo, trae la conclusione che tale processo fosse ineluttabile.
Korsch arriva anche piú lontano:
Il primo trionfo della lotta di classe proletaria consiste nell’imporre alla borghesia, contro la sua volontà, la continuazione della sua (transitoria) missione storica.7
E insiste, poche righe piú oltre,
Il progresso che impone a la borghesia nella lotta di classe non è per il proletariato un progresso borghese, ma una cosa sua.
Per il resto, la questione di come valutare quel «progresso proprio» del proletariato in base a come si dispiega nel tempo resta completamente aperta, ed è indubitabile che qui Camatte e la «critica del valore» ci offrono — per motivi strettamente storici — piú piste di Korsch.
In ogni caso, Korsch non pretendeva di consacrare in alcun modo il luogo comune «marxista» secondo cui il «testimone del progresso» sarebbe passato dalle mani della borghesia a quelle del proletariato (anche nel caso di ammettere che esistesse una certa sovrapposizione tra le rispettive «missioni storiche»). Non avrebbe potuto dire una cosa simile chi pochi anni prima aveva affermato:
Come marxisti, sappiamo che la stessa legge dialettica della storia che trasforma con il tempo inevitabilmente in ogni parte le forme nelle quali si muovono le forze produttive sociali, da forme di sviluppo in catene, vale nella pienezza della sua forza anche per la «maggior forza produttiva», che secondo la nota espressione di Marx è «la stessa classe rivoluzionaria». Anche i partiti politici e i sindacati che hanno ricevuto il loro contenuto e la loro forma attuale dalle lotte passate della classe operaia […], si sono trasformate già da molto tempo e irreversibilmente in catene che assoggettano quella forza di classe.8
Di conseguenza, Korsch non dubita di estendere questa «legge dialettica» allo stesso marxismo:
Nella relazione tra la forma fissata ideologicamente della teoria rivoluzionaria e la prassi progressiva del movimento operaio si mostra qui un caso peculiare della dialettica che, secondo la nota formula di Marx, regge in generale la relazione tra le forze produttive materiali e le relazioni sociali di produzione, e che consiste nel fatto che, ad un certo stadio del loro sviluppo, le forze produttive materiali entrano in contraddizione con le relazioni di produzione esistenti. La teoria marxista, trasmessa da un periodo passato del movimento operaio e ricevuta in modo ideologico dalla nuova generazione, […] rivela dall’inizio un carattere ambiguo: da un lato, porta avanti e promuove la formazione e lo sviluppo adeguati della coscienza e della lotta di classe nel nuovo periodo e, dall’altro, allo stesso tempo, li contiene ed incatena. Nello sviluppo successivo del movimento, la tendenza positiva e progressiva passa tuttavia sempre piú in secondo piano, mentre la tendenza negativa e retrograda ritorna sempre piú importante, fino a che la forma ideologica del «marxismo ortodosso» si trasforma nella sua totalità semplicemente in un freno e una trappola per lo sviluppo reale della coscienza e la lotta di classe.9
Si paragoni quest’ultimo giudizio con il seguente passaggio di Capital et Gemeinwesen:
Come fecero altri prima di noi, sosteniamo che il materialismo storico è, in ultima istanza, una teoria engelsiana (nata dopo il 1870). Possiamo soggiungere che esso corrisponde alla trasformazione della teoria in ideologia. È l’ideologia del proletariato nel periodo del dominio formale del capitale, del proletariato che contende il potere a quest’ultimo per dirigere lo sviluppo delle forze produttive che creerà le condizioni della società comunista.
Queste osservazioni ci forniscono inoltre la chiave della conservazione del «modello giacobino della dottrina rivoluzionaria che Marx e Engels avevano adottato prima della rivoluzione di febbraio del 1848 […] nella sua forma materialista ultima e piú avanzata», che Korsch spiegò in funzione della necessità di
un periodo transitorio durante il quale la classe proletaria era ancora obbligata a portare avanti la sua emancipazione attraverso lo stadio intermedio di una rivoluzione di carattere eminentemente politico.10
Ciononostante, la ratifica decisiva di tutte queste ipotesi si produce grazie alla riattivazione della critica dell’economia politica svolta da Camatte in Capital et Gemeinwesen (1968), e concretamente sulla base della sua analisi delle conseguenze e degli aspetti piú rilevanti — che non è possibile trattare qui nella loro totalità, nonostante la loro enorme portata — della transizione tra sussunzione formale e sussunzione reale:
Durante la fase di dominio formale, il proletariato deve generalizzare la condizione proletaria, deve ergersi a classe dominante; nella fase del dominio reale, al contrario, deve immediatamente sopprimersi. («Le KAPD et le mouvement prolétarien», 1971)
Infatti quest’ultimo realizza il suo pieno dominio mistificando in un primo tempo le rivendicazioni del proletariato classico. Si è avuto accesso al dominio sul proletariato in quanto lavoratore produttivo. […]
[Marx] non indica una reale discontinuità tra MPC e comunismo; c’è sempre accrescimento delle forze produttive; […] È in ciò il riformismo rivoluzionario di Marx nella sua vasta estensione. La dittatura del proletariato, la fase di transizione (mentre nei Grundrisse è il MPC che costituisce questa fase, il che ha una grande importanza per il nostro attuale modo di porre il comunismo), sono periodi di riforme delle quali le piú importanti sono la riduzione della giornata lavorativa e l’uso del buono lavoro. Dobbiamo notare qui, pur senza potervi insistere, il rapporto stretto tra riformismo e dittatura.. («Errance de l’humanité», 1973)
Qui Camatte sta caratterizzando un’intera epoca storica che, a suo avviso, comincia a rivelarsi obsoleta con la Comune del 1871 e del tutto dopo la Prima Guerra Mondiale. E qual è la conseguenza dal punto di vista della politica?
Dominio formale e politica
La conseguenza è che
durante il periodo di dominio formale del capitale [...], la politica, l’esercizio della volontà su una società che il capitale ancora non domina «da dentro» — per dire cosí — può avere ancora una certa efficacia per un periodo abbastanza lungo […]. Quando il capitale ha raggiunto il suo dominio reale e si è costituito in comunità materiale, la questione è risolta: si è impadronito dello Stato. […]
Caratteristiche generali del dominio reale
In «La révolution communiste: thèses de travail» (1969), Camatte dice:
Nella fase del dominio reale, il processo di valorizzazione si impone sempre piú a quello del lavoro. Sul piano sociale ciò implica che il capitale tende a dominare sempre di piú il proletariato.
E in «Caractères du mouvement ouvrier français» (1971), sottolinea questo fatto e fa emergere una nozione piuttosto curiosa:
Il dominio reale del capitale può essere raggiunto solo attraverso la mediazione del dominio del lavoro produttivo, da qui il dominio del proletariato come capitale variabile. Si tratta della mistificazione del proletariato come classe dominante.
Questa a prima vista può sembrare una formula piuttosto scioccante, ma se pensiamo allo stalinismo, al fascismo, al New Deal o alle origini del sindacalismo rivoluzionario e a come in Italia esso prepara il terreno al fascismo, potremmo pensare che tutti questi fenomeni siano paradigmatici di ciò che accade durante la prima fase di accesso al dominio reale: il capitalismo generalizza la condizione operaia e porta al massimo grado il potere relativo della classe lavoratrice all’interno della società. Questo è ciò che Camatte intende per «mistificazione del proletariato come classe dominante».
In quel senso, insiste sul concetto che in questa fase il capitale realizza l’obiettivo della generalizzazione della condizione proletaria contemplata da Marx per il «socialismo inferiore» della Critica del Programma di Gotha. Ciò segnala che tale generalizzazione si realizza come generalizzazione dei caratteri attribuiti da Marx alla classe media. («Le travail, le travail productif, et les mythes de la classe ouvrière et de la classe moyenne», 1972)
Conseguenza immediata dal punto di vista di ciò che supporrebbe una rivoluzione sotto il dominio reale
Nel periodo di dominio formale del capitale, la rivoluzione si presentava nell’interno stesso della società, come lotta del lavoro contro il capitale; ora si manifesta — e lo farà sempre di piú — all’esterno, come lotta contro il capitale e il lavoro insieme; ossia, che ora il proletariato deve lottare contro il suo stesso dominio come classe e distruggere il capitale e le classi. (Capital et Gemeinwesen)
A questo aggiunge un’altra osservazione: nella fase del suo dominio reale, il capitale si costituisce in comunità materiale, il che significa che, grazie al rafforzamento del dominio del lavoro morto sul lavoro vivo ed a relazioni sociali non rette dal valore d’uso ma dal valore di scambio, la società possiede un sostrato omogeneo e coerente, il che permette — per Camatte — di fondare una comunità materiale stabile. (Capital et Gemeinwesen). In ogni modo, questa nozione di «comunità materiale» rimarrà piuttosto polemica, poiché, enunciata in questa fase della sua produzione teorica, non sembra avere un’importanza massima, tuttavia piú avanti tende a feticizzarsi e diventa qualcosa da cui non è granché chiaro che si possa uscire.
Dominio reale e politica
Su questo tema, in «La révolution communiste: thèses de travail» (1969), Camatte cosí si esprime:
A partire dal momento in cui tutto ciò che dà fondamento alla società dipende — o è direttamente generato — dal capitale, la politica smette di esistere in maniera determinante. Passa a diventare parte del folklore, come elemento mistificatore della rappresentazione del capitale.
Nella fase del dominio formale, i proletari avevano creato sindacati e partiti nei quali potevano ritrovare una certa esistenza comunitaria a margine del capitale, ma sotto il dominio reale, giacché è questo che organizza gli esseri umani, tutte le organizzazioni diventano di fatto bande-racket sottomesse direttamente al capitale (oppure sono condannate a vegetare, a non avere rilevanza alcuna).
Alcune appropriazioni restrittive (e critiche non molto appropriate) della periodizzazione di Camatte
In Crisi dello Stato-Piano (1971), Toni Negri già utilizza la distinzione dominio formale/dominio reale. Molti anni piú tardi, nel 2003, nella prologo alla seconda edizione di 33 Lezioni su Lenin, dà l’impressione che cerchi di mettere le mani avanti (per evitare che qualcuno ne parli un giorno). Dice cosí:
Negli anni tra i 60 e i 70, ho avuto alcuni amici bordighisti: in Italia alcuni compagni cremonesi, in Francia Robert Paris e altri. Avevo l’impressione che […] una teoria del soggetto (come quella che stavo elaborando in quel periodo) poteva sottoporsi a questo dispositivo.
Phillipe Bourrinet, nel suo libro sulla sinistra italiana,11 dice tra l’altro che, a quanto si sapeva, Toni Negri lesse Invariance in carcere; ma Negri non fu incarcerato fino al 1979, per cui nel 1971 stava già impiegando la distinzione dominio formale/dominio reale; per qualche strada gli sarà arrivata…
Dopo viene Loren Goldner, che da quando pubblicò l’articolo «The Remaking of the American Working Class» (1983) utilizzò anch’egli la periodizzazione dominio formale/ dominio reale; riconosceva, questo sí, che era qualcosa che aveva appreso da quello che chiamava «neo bordighismo francese», ossia riconosce l’origine; ciò che capita è che — come Toni Negri — omette gli aspetti legati alla politica; l’uno e l’altro non dicono nulla circa le conseguenze che può avere l’accesso al dominio reale sulla politica e la politica rivoluzionaria/radicale come attività; su questo c’è da entrambi un mutismo abbastanza chiaro.
Per ultimo, sembra anche che negli ultimi tempi la periodizzazione di Camatte susciti un certo nervosismo in ambienti affini al Gruppo Comunista Internazionalista, non perché sia «eurocentrico», come dicono loro — non lo è — ma perché nemmeno a loro piacciono molto le conseguenze sulla politica dell’uso di questa periodizzazione. La loro critica si fonda, per un verso, nel ricordarci — abbastanza gratuitamente — il carattere mondiale del capitale dai suoi inizi e nel segnalare, per un altro verso, che la sussunzione formale suppone già uno sconvolgimento assoluto delle condizioni di vita. Forse l’accumulazione originaria e la separazione dei produttori dai mezzi di produzione sono esclusiva dell’America e della conquista spagnola? (O dell’Asia e dell’Africa? Evidentemente no: accompagnano il capitalismo dai suoi inizi e né Marx, né Camatte né Théorie Communiste sarebbero stati in disaccordo in nessuna maniera, il che non invalida né fa a pezzi la periodizzazione dominio formale/ dominio reale.)
Di piú: il testo di Marx che Camatte sta commentando — il VI Capitolo inedito — si attiene espressamente — lo dice lo stesso titolo — al «processo di produzione immediato». Se afferma che il dominio formale riguarda soltanto il processo di lavoro immediato è perché tutto lo sconvolgimento previo e simultaneo — lo dà per supposto, non perché Marx neghi la sua esistenza o pretenda che il capitale non abbia dovuto percorrere un lungo cammino storico per arrivare sino a quel punto.
C’è un ultimo argomento abbastanza inoperante:
Osservando la realtà internazionalmente, è impossibile pensare a tappe delimitate (rispetto al processo di lavoro).12
In effetti, lo stesso Marx — citato da Camatte — lo aveva già detto chiaramente, indicando che il predominio del plusvalore relativo poteva servire da base per l’introduzione di quello assoluto in nuovi rami della produzione..
Non si possono che fare domande sulle motivazioni reali di queste critiche tanto fragili; la mia opinione è che si tratta di sostenere contro vento e marea il carattere invariabile della condizione proletaria per evitare che si svalutino certi richiami pubblicitari, come la «comunità di lotta» e l’«associazionismo proletario», che sono difficili da rendere compatibili con la nozione di dominazione reale.
Critica e analisi dei racket
Per illustrare il mio punto di vista — diciamo «agnostico» —, ho scelto un paio di citazioni tratte dalla rivista The Fifth Estate del febbraio 1977:
Tesi: Non vale molto dire che The Fifth Estate non è un’«attività di una banda»» solo perché è un «collettivo di propaganda» (dal momento che una lettura ristretta del libello Camatte-Collu e l’interpretazione che di esso dà Maple porta alla conclusione che, sotto il sistema economico attuale, ogni attività organizzata è un’«attività di gang»). Se Maple tiene per fermo che The Fifth Estate non è un’«attività di gang», dovrà esporre il motivo per cui è un’eccezione alla regola, oppure riconoscere che le affermazioni di Camatte-Collu non sono valide.
Antitesi: Tanto Bufe quanto Nat Turner dicono che se ogni attività umana è stata assorbita dal capitale nell’era del suo dominio reale, allora, forse ciò non include The Fifth Estate e simili progetti? Una risposta che mi viene spesso quando mi sento cinico è: sí, molto probabilmente. Quanto all’accusa che se accettiamo le affermazioni di Camatte— Collu, che ogni attività politica diventa «attività di gang», rispondo de nuovo: molto possibilmente sí. (The Fifth Estate, febbraio 1977)
Come abbiamo già detto, sotto il dominio reale, per Camatte tutte le forme di organizzazione operaia autonoma spariscono e si integrano, non perché si corrompano o siano comprate, ma in conseguenza dell’evoluzione del modo di produzione stesso. Sotto il dominio reale, tutte le organizzazioni che non contribuiscono al processo di valorizzazione si vedono rapidamente costrette alla scelta di adottare pratiche che permettano loro di mantenersi o prosperare oppure sparire. Una delle conseguenze di questo riconoscimento di ciò che suppone il dominio reale è che prendere atto del dominio schiacciante del capitale implica riconoscere che agisce su tutti. Non possono esistere gruppi di eletti che non siano segnati dal suo dispotismo. Pertanto e di conseguenza, nessun gruppo può pretendere di realizzare o prefigurare la Gemeinwesen.
A ciò Camatte aggiunge un’altra conclusione in «La révolution communiste: thèses de travail»(1969), in relazione con un tema che tratteremo piú avanti, quello della «classe universale»:
Ora non esiste un partito formale; nella misura in cui non si può parlare di classe, non è neppure piú possibile parlare di partito, neppure nel suo senso storico.
A questo punto, voglio fare un inciso per segnalare qualcosa di curioso, ovvero che Camatte non si chiese mai — a differenza di Négation, che seguiva la sua scia teorica molto da vicino — se il partito non fosse un fenomeno proprio del dominio formale, legato anche al carattere formale della stessa condizione proletaria in quell’epoca.
Nella stessa linea di conseguenze teoriche della tesi dei racket, Camatte dedusse che era necessario fare una critica alla sinistra comunista italiana — dalla quale egli proveniva — per mostrare che non aveva portato a compimento una restaurazione della teoria, ma che era semplicemente stata l’ultimo movimento del proletariato a resistere sul terreno teorico all’assorbimento da parte del capitale. Per ultimo, e per concludere con questo tema, in «Du parti communauté à la communauté humaine» (1974), dice Camatte che
dal 1969 […] i diversi studi intrapresi, alcuni dei quali apparvero su Invariance, serie II, hanno condotto al superamento totale e pertanto a qualunque teorizzazione sul partito.
§ § §
È importante fare una precisazione circa l’origine della tesi dei racket, ossia la sua origine adorniana.
Nel 1977 — in «Maggio-giugno 1968: il disvelamento» — Camatte riconosce il suo debito con Adorno, autore praticamente sconosciuto nella Francia degli anni 60:
Da molto tempo esisteva il progetto di pubblicare i testi di T. W. Adorno sulla questione dei racket e mostrare allo stesso tempo quello che abbiamo preso in prestito e quello che ci separa da lui.
Una differenza importante tra l’uso che fa Adorno del concetto di racket e quello di Camatte è la periodizzazione: per quest’ultimo il tema racket è completamente legato all’accesso al dominio reale; se pensiamo, per esempio, agli anni venti, quello in cui appare il fenomeno dei gangsters negli Stati Uniti, cosí come il fascismo e il nazismo incipienti, non sembra che vada tanto fuori strada. Un anno piú tardi, in «Précisions après le temps passé» (1978) torna a riferirsi a Adorno come precursore:
In «Riflessioni sulla teoria delle classi» (1942), [Adorno] pone in evidenzia tutto ciò che di problematico ha il concetto di classe, il che conduce ad affermare che occorre mantenerlo e trasformarlo. Accetta la teoria sociologica che mette in rilievo l’importanza delle bande e dei racket, ma pensa che vadano studiate a partire dalla teoria delle classi […].
Come dettaglio curioso, Camatte, in quel momento, considerava già che non c’erano classi, ma che non esisteva altro che una «classe universale di schiavi del capitale».
Fenomenologia del racket politico
Nel famoso testo in forma di lettera del 1969 «Sull’organizzazione», Camatte, dopo aver caratterizzato la banda di delinquenti come risultato del contenimento dell’istinto elementare di rivolta nella sua forma immediata, segnala che la banda politica, in piú, pretende convertire la sua comunità illusoria in modello per tutta la società, e che tutto il suo impegno
consiste nel far quadrare la realtà con il suo concetto; da lí procede tutta la sofistica degli squilibri tra momenti oggettivi e momenti soggettivi, e la condanna di ogni movimento immediato che non riconosca la superiorità della sua «coscienza» come prematuro o come provocazione della classe dominante, poiché ogni racket politico pretende di essere il depositario della vera coscienza.
Visione sulle lotte del momento (68 lungo)
Secondo Camatte, il Maggio del 68 non fu una sorpresa:
non è che lo avessimo previsto nella sua totalità, però ci aspettavamo un fenomeno rivoluzionario […]. Avevamo analizzato la rivoluzione sotto il dominio formale e aspettavamo di vederla sotto il dominio reale, coscienti che non avrebbe potuto assomigliarle. Di conseguenza, per quanto non fossimo stati capaci di descriverla, avevamo pensato all’inevitabilità della sua originalità. («Vers la communauté humaine», 1976)
In quel testo aggiunge che
la cosa immediatamente piú importante è che ci trovavamo di fronte un movimenti rivoluzionario che non avanzava una determinazione classista, che pertanto esprimeva molto bene l’esigenza indicata in «Origine e funzione della forma partito», ossia di una rivoluzione a titolo umano [...] («Vers la communauté humaine», 1976)
In altri scritti, Camatte sostiene che il Maggio del 68 non fu la rivoluzione, ma il suo sorgere: «Il movimento di maggio […] segnò la fine della fase di controrivoluzione.» («Mai-Juin 1968: théorie et action», 1968)
Riconosce una volta di piú, in «Vers la communauté humaine» (1976), che
ci fu […] un certo ritorno alla teoria marxista, una purga limitata delle tare lenino-trotzkiste che le erano state applicate, ma non ci fu nessun movimento proletario, per quanto di scarsa ampiezza, che arrivasse per farsi carico di ciò che A. Bordiga chiamava l’opera di restaurazione e affermazione della teoria.
E per ultimo contrasta le limitazioni del maggio francese, centrate sulla rivendicazione della democrazia diretta, per le quali egli lo considera il movimento piú avanzato dell’epoca. Questo è un aspetto dell’opera di Camatte che raramente si pone in primo piano, ma è certo che lo impressionò molto e vanificò i calcoli teorici di Bordiga e compagni, che in principio speravano in un ritorno della rivoluzione proveniente dall’Europa Orientale, non dagli Stati Uniti. Ciò che davvero sorprende Camatte è il movimento del proletariato nero statunitense e probabilmente è alla base di mote delle sue teorizzazioni dell’epoca:
In quell’aspetto, [il Maggio del 68] era in ritardo rispetto al movimento proletario nero negli Stati Uniti. Nel seno di quel movimento, alcuni elementi compresero la necessità di rifiutare la democrazia una volta per tutte. («Mai-Juin 1968: théorie et action», 1968)
Questo, che è fondamentale, torna a ripeterlo nel testo «Il KAPD e il movimento proletario» (1971) con il tema della «classe universale»:
D’ora in poi, negli Usa è effettiva la dissoluzione della società. L’unità del proletariato come classe universale potrà diventare laggiú effettiva solo dopo una lotta tenace, decisa, senza concessioni, contro il capitale e, in una certa misura, attraverso una lotta in seno della stessa classe universale. Non si deve rivendicare la riforma del proletariato classico, in quanto ciò equivarrebbe a voler restaurare il passato, come hanno capito alcuni rivoluzionari neri americani. (Boggs, ad esempio)
Si sofferma sulla stessa tesi in un altro testo del 1969, «Transizione»:
Nelle azioni del proletariato nero degli Stati Uniti, possiamo vedere in azione questa comunità costituita sulla necessità vitale di distruzione e sulla coscienza di un’identità di obiettivi, che Marx considerava l’autentico partito del proletariato […]. Il momento piú importante di questa manifestazione del comunismo è costituito dalla negazione positiva della democrazia, ossia, il rifiuto del proletariato — quando mette in primo piano le proprie necessità materiali — di accettare qualunque separazione tra decisione e azione, e quindi la separazione tra essere e pensiero sul quale si è sostenuta in passato la possibilità di una direzione politica basata sul meccanismo della democrazia diretta.
Possiamo verificare che negli anni immediatamente successivi al 68, la prospettiva di Camatte era che si sviluppasse nel seno della classe universale — l’insieme degli «schiavi» del capitale13 — una lotta destinata a sfociare nella sua costituzione in comunità-partito, con il rifiuto del lavoro come elemento fondamentale di unificazione.
Alla ricerca della comunità: la rivoluzione a titolo umano (e i lavori sulla Russia, eccetera)
Lo studio intrapreso da Camatte sul Capitolo VI (inedito), era iniziato, a suo dire, come un tentativo di attualizzazione della teoria del proletariato, ma già in «Origine e funzione», l’attualizzazione girava, per Camatte, intorno a quello che egli considerava la questione fondamentale dell’opera di K. Marx, che però era stata elusa: la questione della comunità.
Camatte considerava che l’opera di K. Marx continuava ad essere valida a condizione di svilupparla a a partire dalla sua totalità e dagli elementi che non erano stati utilizzati, in particolare quello che si riferisce alla comunità.
Nell’Introduzione alla Critica della Filosofia del Diritto di Hegel (Marx) si trova l’affermazione non solo che l’essere umano è la vera Gemeinwesen (comunità) dell’uomo, ma anche il concetto di classe universale — il proletariato — che non soffre un’ingiustizia specifica, ma l’ingiustizia pura e semplice — ed insorge a titolo umano. Questo dimostra allo stesso tempo, secondo Camatte, sino a che punto esisteva un’unità profonda tra tutti i testi giovanili di Marx (La questione ebraica, i Manoscritti del 1844, la Critica della Filosofia del Diritto di Hegel, le Glosse marginali all’articolo «Il re di Prussia e la riforma sociale»).
In «Caractères du mouvement ouvrier français» (1971), segnala che
la questione della comunità era stata già affrontata in «Origine e funzione della forma partito» […] Ciononostante, dato il carattere non concluso di questo lavoro, non si è esposto un aspetto importante della storia del movimento operaio. […] Si tratta della formazione della comunità materiale.
Qui Camatte fa un’osservazione importante: inizia a constatare che
esisteva una certa contraddizione tra la teoria del proletariato e la ricerca sulla Gemeinwesen. […] Non si può uscire dall’ambito di questa se non superando la teoria del proletariato e la teoria del valore-lavoro. («Du parti-communauté à la communauté humaine», 1974)
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Bisogna dire, soprattutto, che il grande teorico della «questione russa» è Bordiga, non Camatte, nonostante i suoi contributi al tema. (Ad esempio, la «doppia rivoluzione» borghese e proletaria che, sconfitta quest’ultima, ripiega sul primo traguardo, cosí come la questione agraria come fondamento della rivoluzione capitalista, tema questo di cui si è fatto eco Loren Goldner in varie occasioni). Bordiga insisteva molto sulla circostanza che la capitalizzazione dell’agricoltura era una delle pietre angolari del fatto che si sia pervenuti a un capitalismo «come comandano i canoni», poiché sino a quando non si capitalizzano a fondo i campi, la liberazione di manodopera per l’industria urbana, eccetera, è una questione conflittuale; di fatto, uno dei problemi che c’erano in Russia durante l’epoca stalinista era che molti operai continuavano a mantenere qualche tipo di vincolo con i loro campi e villaggi, ciò che permetteva di opporre una certa resistenza, qualcosa che non può fare chi è completamente proletarizzato (come il tipico operaio americano).
In ogni caso, negli anni 60 e ancora molto tempo dopo, la maggior parte dei rivoluzionari «di sinistra» tendevano a considerare l’URSS come il centro della controrivoluzione in quanto il capitalismo di Stato o capitalismo burocratico era, per loro, una forma di dominio del capitalismo molto piú potente e perfetta di quella che ci poteva essere in Europa occidentale e perfino negli Stati Uniti.
Questo punto di vista fu sempre rifiutato da Bordiga, che dal 1951 aveva insistito sul fatto che la Russia non era il centro delle preoccupazioni dei rivoluzionari e nemmeno il centro della controrivoluzione, individuato negli Stati Uniti.14
Sosteneva altresí che, per quanto avesse un’originalità propria, l’URSS era semplicemente capitalista, niente di piú.
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Gli apporti di Camatte alla «questione russa» si trovano fondamentalmente in due testi, Comunità e comunismo in Russia (1972), e «La Révolution Russe et la théorie du prolétariat» (1974), e possono riassumersi sostanzialmente come segue:
Nonostante tutte le ore dedicate alla rivoluzione russa e alla società sovietica, pensiamo che, lungi dall’essersi concluso, quello studio deve ancora iniziare realmente, poiché sono state eluse le questioni essenziali; quella della comunità e quella della periodizzazione del MPC [Modo di Produzione Capitalista] sotto il dominio formale e reale del capitale.15
Ciò che Camatte fa in questi due testi è svolgere un ripasso di molti dei dibattiti storici che si ebbero, da Marx ed Engels, passando per Plechanov e Lenin, sullo sviluppo del capitalismo in Russia e sul destino della comune rurale russa, e se questa poteva o no servire di base per evitare i «dolori di parto» del capitalismo. Ad esempio, in «La Révolution Russe et la théorie du prolétariat», dopo aver esposto la posizione di Marx sulla comune rurale russa (la obščina) e la possibilità di ritornare al MPC nel caso in cui si producesse una rivoluzione vittoriosa in Occidente, Camatte segnala che nel 1883 (anno della morte di Marx) Engels ancora pensava alla possibilità di una rivitalizzazione delle antiche comunità, ma, alla fine della sua vita, tendeva a considerare che il valore di scambio si era sviluppato eccessivamente in Russia, e che questa, nel prosieguo del tempo, era condannata al capitalismo. In questo mondo, spianò la strada a G. Plechanov e a V. Lenin, che, a differenza dei populisti russi, sostenevano la possibilità di andare oltre il MPC e, di conseguenza, sottolineavano il ruolo primordiale del proletariato nella rivoluzione russa. Il marxismo russo, nel suo desiderio di favorire lo sviluppo del capitalismo come premessa del socialismo, aveva perso quella dimensione populista. Ciononostante, la Makhnovschina, il movimento della classe contadina ucraina che lottò nello stesso tempo contro i «bianchi» i bolscevichi e a volte anche contro i tedeschi, «sarebbe stato impossibile senza la resistenza dei contadini su base comunitaria» […]).16
In un testo del 1881 intitolato «La Marca», Engels aveva segnalato anche un altro aspetto della questione agraria:
L’intero sistema agricolo europeo sta per essere superato dalla concorrenza statunitense. L’agricoltura, per quanto concerne l’Europa, sarà possibile se si svolge in linee socializzate e a beneficio della società nel suo complesso. («La Révolution Russe et la théorie du prolétariat», 1974)
Effettivamente, Engels aveva previsto che una delle conseguenze della guerra mondiale che sarebbe venuta, che già si intuiva all’orizzonte, sarebbe stata la vittoria degli Stati Uniti, il che avrebbe obbligato l’agricoltura europea o a ripiegare sulla produzione per il consumo interno o a intraprendere la strada della trasformazione sociale.
Se l’effetto sull’agricoltura occidentale non fu tanto impattante, lo fu invece su quella russa, che dovette ristrutturarsi per produrre esclusivamente per il mercato interno. Quell’evoluzione era già stata prevista da Marx con l’affermazione che, dopo l’emancipazione dei servi della gleba (1861), la Russia doveva «passare inevitabilmente da esportatrice a importatrice di cereali e che avrebbe conosciuto crisi periodiche».17
Come culmine dei suoi studi sulla «questione russa», Camatte sostiene che nel momento in cui scriveva (nel 1974, dopodiché le cose cambiarono)
In Russia il capitale non è riuscito a completare il suo dominio reale, poiché non è arrivato a dominare l’agricoltura, e secondo Bordiga la nascita dei kolkhoz (le cooperative agricole) durante la collettivizzazione stalinista fu un compromesso tra le classi destinato a limitare la produzione di proletari rurali e creare loro un antagonista, per accrescere il potere e l’autonomia dello Stato.» («Introduction», 1974). «La conseguenza economica, tuttavia, fu la formazione di una struttura poco produttiva, principale causa della crisi agraria permanente.» («La Révolution Russe et la théorie du prolétariat», 1974)
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Per ultimo, verso il finale di Comunità e comunismo in Russia, Camatte fa un’interessante e opportuna osservazione, che non riguarda direttamente la Russia, ma costituisce una critica anticipata sul tema delle comunità e delle ideologia del tipo delle «comuni»:
In altri luoghi, il capitale utilizza il fenomeno comunitario per ostacolare l’autonomizzazione della classe operaia, come accade in Sudafrica, dove il proletariato nero, al ritorno nelle comunità di origine […] dopo alcuni anni passati nelle città, è riassorbito in esse. […] In via generale, arrivando allo stadio della comunità materiale, il capitale non ha piú la necessità di dissolvere totalmente le vecchie relazioni sociali per poter dominare; tanto piú tenendo conto che dissolverle distruggerebbe anche la sua possibilità di insediarsi come forza di dominio, poiché, avendo necessità di esseri umani, è imprescindibile che essi possano sopravvivere; orbene, in certe zone del pianeta, l’unico comportamento vitale possibile è quello comunitario.18
Concludiamo questo argomento con una citazione molto lucida de «La Révolution Russe et la théorie du prolétariat»:
La rivoluzione russa svolge il ruolo di vertice del pensiero. Anche tra gli elementi piú radicali, che traggono dal consiliarismo la rivendicazione dei consigli e l’autogestione, come gli elementi che animarono l’Internazionale Situazionista, e che fecero una critica molto pertinente dei bolscevichi e di Lenin, la rivoluzione russa ha la funzione di modello: la formazione dei soviet. […] Tra gli anarchici, la rivoluzione spagnola sostituisce la rivoluzione russa. («La Révolution Russe et la théorie du prolétariat», 1974).
L’ abbandono della teoria del proletariato: contro la domesticazione, l’erranza dell’umanità, uscire da questo mondo
[…] nel momento in cui iniziava la seconda serie di Invariance (1971), si affermò l’idea che il capitale era andato oltre i suoi limiti e che dunque un’analisi strettamente classista risultava difficile: non parlavamo di classe universale. («Vers la communauté humaine», 1976)
Nel 1973 — anno molto significativo — si esaurisce l’impulso del 68 in Francia (negli Stati Uniti si era già esaurito verso la fine del 71), la crisi economica torna nella forma di «crisi petrolifera» e si produce il colpo di Stato contro Allende in Cile… Sottolineo tutto questo poiché a volte si parla allegramente del «secondo assalto proletario contro la società di classe» che assertivamente avrebbe incluso il periodo tra il 1968 il 1977. Questa è una mezza verità, poiché in paesi molto centrali del capitalismo, come Francia, Stati Uniti e Germania, le cose si esaurirono ben prima; in alcuni altri continuarono arrancando; in altri durarono di piú, come nel caso dell’Inghilterra, in cui la «pace sociale» non si cristallizzò del tutto sino ad anni successivi, e in paesi che potremmo definire «periferici», come il Portogallo, la Spagna, l’Argentina o la Polonia, si producono ancora movimenti di lotta, per quanto ormai in contesti in cui i think-tanks del capitalismo mondiale contano già con possibili «straripamenti» e iniziative su come gestirli. In alcuni luoghi, apriranno il rubinetto della democrazia, in altri procederanno a repressioni sanguinose, che però non sfoceranno in dittature di lunga durata, come poté essere quella di Franco in Spagna. È anche l’epoca in cui molti gruppi di sinistra nati al calore del 68 entrano in crisi e scompaiono, ma — contro ogni pronostico — altri gruppi, come la I.S., ICO e Solidarity, che pensavano che con la crisi dello stalinismo fosse arrivata la loro grande occasione, entrano anch’essi in crisi e scompaiono.
Invariance, anziché sparire, quel che fa è evolversi — o mutare, se si preferisce — ciò che si concretizzerà nell’abbandono del concetto di «classe universale». I piú importanti mutamenti di prospettiva si trovano in due testi di maggio 1973, «Erranza dell’umanità» e «Contro la domesticazione», e in un altro dell’anno successivo: «È necessario uscire da questo mondo». In essi, Camatte passa da concepire la classe universale come classe portatrice di una negatività, a considerarla come «insieme di uomini e donne proletarizzati, insieme di schiavi del capitale» («Erranza dell’umanità — Coscienza repressiva — Comunismo», 1973). Quest’analisi era strettamente legata, inoltre, alla considerazione che la legge del valore aveva smesso di essere operativa, dopo aver seguito strettamente — in compagnia di alcuni compagni come Jean-Louis Darlet — tutte le peripezie della crisi monetaria
che aveva portato allo sganciamento del dollaro dalla parità con l’oro […], cosí come lo studio del credito e del capitale fittizio. («Gloses en marge d’une realité X», 2009)
In «Vers la communauté humaine» (1976), Camatte riassume cosí la sua evoluzione:
Lo studio del capitale e di altri modi di produzione mi ha convinto sempre piú della convergenza MPC-MPA [Modo di Produzione Asiatico] […] da parte sua, J. L. Darlet era pervenuto alla conclusione che il capitale non era che una rappresentazione, cosa che io preferisco enunciare cosí: il capitale adesso non è piú che una rappresentazione, tenendo conto che si è fatto tale […] attraverso un processo storico. È chiaro che a partire da ciò, la problematica del capitale fittizio è superata, il che solleva simultaneamente e con maggiore acutezza la questione della classe rivoluzionaria, tanto piú quando ormai non è possibile mantenere la tesi della classe universale. L’affermazione di quest’ ultima può essere concepita per un periodo di tempo abbastanza breve, momento di negazione del proletariato e delle classi, ma a partire dal momento in cui si rivela che il lasso di tempo deve essere piú lungo, non si può piú utilizzare […].
Un anno dopo, in un testo intitolato «Prolétariat et Révolution» (1975), Camatte aveva affrontato piú concretamente — ma nell’ottica della comunità — la questione del proletariato e la sua relazione con lo sviluppo delle forze produttive capitaliste:
È diventato evidente che non si poteva uscire dall’impasse se non abbandonando la teoria del proletariato. […] L’esempio delle rivoluzioni tedesca e soprattutto russa mostra che il proletariato era stato ampiamente adeguato per distruggere un ordine sociale che ostacolava lo sviluppo delle forze produttive, ma […] che nel momento in cui si trattava di fondare un’’altra comunità, rimase prigioniero della logica della razionalità dello sviluppo di quelle forze produttive e si rinchiuse nel problema della loro gestione.
Questa critica della concezione marxista dello sviluppo delle forze produttive affiorava già19 in «Errance de l’humanité» (1973), in cui Camatte aveva detto:
[…] Marx considerò che l’emancipazione umana dipendeva dal pieno apogeo di quelle forze (produttive); la rivoluzione comunista — e pertanto la fine del MPC — doveva prodursi quando questo non fosse «sufficientemente ampio» da contenerle. Tuttavia, Marx resta chiuso in un’ambiguità: da un lato, pensa che l’uomo è un ostacolo per il capitale poiché questo lo distrugge, perché impedisce il suo sviluppo in quanto forza produttiva e, in certi casi, adombra la possibilità che il capitale riesca a sfuggire alle restrizioni umane. A partire da ciò, Marx si vede portato a postulare una auto-negazione del capitale in cui le crisi sono percepite sia come momento di ristrutturazione del capitale […], sia come il momento effettivo della sua distruzione.
Come non poteva essere diversamente, l’abbandono della teoria del proletariato produsse una svolta di 180 gradi nell’orientamento della rivista. In «Thèses provisoires» (1973), Camatte già segnalava che
l’affermazione della dimensione biologica della rivoluzione [...], portò i compagni che producevano Invariance a tentare di precisare ed esporre una certa rappresentazione positiva del divenire dell’umanità e dell’avvento della rivoluzione […] e a constatare l’immensità dei temi che inevitabilmente ci si presentavano.
Di conseguenza, la diagnosi finale — presentata ad agosto del 1974 in «È necessario uscire da questo mondo», (Invariance, serie II, n° 5) — sarebbe la seguente:
… il MPC non sparirà dopo una lotta frontale delle persone contro la loro oppressione attuale, ma a causa di un immenso abbandono che implica un rifiuto del cammino che l’umanità ha percorso da millenni.
Nello stesso anno 1974, Camatte conclude altresí che il processo-rivoluzione era giunto alla sua fine, e nel 1983, nel testo «Gloses en marge d’une realité I», appare il tema della morte potenziale del capitale (vincolato a quello dell’antropomorfosi) in cui dichiara che «l’invarianza di cui si tratta è quella del desiderio di comunità, del ritorno a un’unione con la natura».20 Successivamente, non farà che approfondire in questa direzione dell’unione con la natura e lo studio di ciò che chiama i «presupposti» del capitale, come l’agricoltura neolitica, il patriarcato, temi situati molto lontano dalla problematica immediata del capitalismo (non si limita esclusivamente a questo, ma vi consacra abbondante attenzione).
III. Ripercussione diretta dell’opera di Camatte
In Francia. Vi è una chiara influenza di Camatte sull’«ultrasinistra» post-68 in generale, attraverso la pubblicazione dei testi di classici «maledetti» della sinistra comunista, sulla Vieille Taupe, il Mouvement Communiste-Dauvé — con certe sfumature sulle quali torneremo in seguito — e su gruppi come Négation, Le Voyou, Les Amis de 4 Millions de Jeunes Travailleurs (influenza piú marginale, poiché quest’ ultimo gruppo fu piú influenzato da Dauvé e dalla I.S.); allo stesso modo, la crisi dell’ICO non si comprende senza l’influsso di Invariance su Dauvé e altri. In generale — cosa che viene rilevata raramente — a partire dal 68, tutta la corrente autogestionaria (o di «gestione operaia») basata sulle teorie di «S. ou B.» entra in crisi, e precisamente in quegli anni i vecchi animatori del gruppo «S. ou B.», Castoriadis, Lyotard e Lefort, iniziarono la loro carriera di stelle intellettuali.
In Italia. Invariance influí su gruppi e individui minoritari ma significativi, che criticarono nella pratica i limiti del consiliarismo come ideologia operativa, in larga misura perché stalinisti e gauchistes (operaisti inclusi) non li lasciavano intervenire nelle loro assemblee. Tra questi gruppi c’erano l’Organizzazione Consiliare di Torino e il gruppo Ludd, formato nel 1969 a partire da elementi in maggioranza di origine anarchica, che si sciolse nel 1971. Nella loro rivista — Ludd-consigli proletari — apparve «L’utopia capitalista», testo di Eddy Ginosa e Giorgio Cesarano tradotto e pubblicato da Invariance. Il gruppo Com-ontismo — il cui nome era la traduzione piú o meno letterale di Gemeinwesen (com = comune, e ontos = essere) si formò nel 1971. Secondo Francesco Santini, il Comontismo identificò il suo ambito (in gran parte, veterani della vecchia Organizzazione Consiliare di Torino) con il partito storico del proletariato, o meglio ancora, con la «comunità umana», la Gemeinwesen, che doveva essere messa in pratica immediatamente e sul campo. Si trattava di passare al comunismo tra venti o trenta persone, «comunizzando» una volta per tutte le relazioni. (Uno dei suoi slogan piú celebri fu «Contro il capitale, lotta criminale», che ci può dare un’idea della modalità con cui concepivano il passaggio al comunismo su scala microscopica.)21
Gente come Sergio Bologna, che si era già distinto scrivendo un libro intitolato Maggio del 68 in Francia che non faceva menzione alcuna dei situazionisti né degli «enragés», organizzò rapidamente un ferreo silenzio attorno a tutti questi gruppi, a causa del quale furono cancellati dalle vicende del 68 italiano. In Italia, peraltro, furono tradotti non pochi testi di Camatte (a luglio 1969 fu pubblicato un numero unico di Invariance in italiano e a Napoli venne pubblicata un’antologia di testi della rivista nel 1971), oltre a Capital et Gemenweisen (tradotto con il titolo Il Capitale Totale).
Negli Stati Uniti. L’influenza di Camatte si esercitò soprattutto su Ferdy Pelman, sul gruppo Black & Red (esperienza che durò dal 1968 al 1976), che pubblica «Erranza dell’umanità» e il testo di Négation, «Lip And The Self Managed Counter-Revolution»22 nel 1975; e su The Fifth Estate (gruppo che intorno al 1975 comincia ad evolvere verso il primitivismo). La relazione con Camatte perdura sino alla morte di Perlman nel 1985; esiste una corrispondenza inserita in alcuni testi di Camatte che arriva sino a quella data. Nella piccola antologia El persistente atractivo del nacionalismo (Pepitas de Calabaza, 2013), che ho tradotto, non appare alcuna menzione della relazione di Perlman con Camatte23 né nell’introduzione né nell’epilogo e, curiosamente, non si ritenne neppure di includere un testo molto breve, nel quale è evidente l’influenza di Camatte su Perlman: le «Dieci tesi intorno alla proliferazione di egocrati». La mia impressione retrospettiva è che questo si dovette all’insistenza di qualche consigliere di correttezza politica o di un analista di mercati «libertario» a cui sembrò «sconveniente». Anche il libro di Seidman, Los obreros contra el trabajo [Gli operai contro il lavoro] (Pepitas de Calabaza, 2014), mette in rilievo una certa influenza sotterranea di Camatte (in questo caso, riferita all’anarcosindacalismo spagnolo, nell’affrontare la tematica delle «forze produttive» del cui sviluppo si farà carico il movimento operaio «anticapitalista»). Si tratta di un tema molto camattiano, una filiazione a cui non si allude in alcun momento (e sappiamo in quali «media» si mosse Seidman durante le sue ricerche in Europa: Échanges e Etcétera). Di fatto, quando Jorge Montero ed io realizzammo una postfazione in cui parlavamo di Camatte e dell’ultrasinistra in Francia, dovemmo lottare con molta energia per includerlo, poiché pare che anche in questo caso si sia mezza in mezzo un’opposizione anonima.
In Gran Bretagna: a partire dal 1975 il gruppo Solidarity entra in crisi prolungata. Di quell’anno è il «testo perduto» «The Illusions of Solidarity»24 pubblicato solo nel 2011, opera di Dave Brown, un membro di Solidarity che tradusse un buon numero di testi di Camatte in inglese e fece una critica a fondo di questo gruppo, che sprofondò l’anno seguente (1976), per quanto la sua agonia si sia prolungata un po’ di piú.
In Spagna? L’ influenza piú chiara fu sul Movimiento Ibérico de Liberación, attraverso la libreria La Vieille Taupe. Nella «Lettera de La Vieille Taupe al MIL», Parigi, 8 febbraio 1971, si può leggere quanto segue.
Generalmente la nostra opinione si trova espressa nei testi [Cahiers] Spartacus che abbiamo pubblicato: quelli di Guillaume e Barrot in quello su Kautsky, la prefazione al testo di R. Luxemburg sugli scioperi belgi e in tutti i numeri di Invariance. Quei testi seguono la nostra evoluzione e ci manteniamo fedeli ad essi, salvo in alcuni punti che hanno bisogno di precisazioni e critiche, poiché Invariance era l’insieme di due tipi di testi: ¶ 1) Testi classici e storici del movimento bordighista. ¶ 2) Testi redatti da chi pubblicavano Invariance. ¶ In quei testi, molto importanti e stimolanti, abbiamo trovato punti inaccettabili — leninismo, data della Rivoluzione eccetera. Pensiamo che il numero 3 di Invariance (Teoria del Proletariato) sia di particolare importanza. Diteci che cosa ne pensate.
Qui si può intuire che la gente de La Vieille Taupe non era del tutto d’accordo con alcuni dei testi redatti da Camatte (qui stiamo parlando del 1971, quando Camatte ancora non aveva annunciato l’abbandono della teoria del proletariato né niente di simile). Nella «Risposta del MIL alla Vieille Taupe», (dicembre 1971,) si rispondeva:
ci siamo divisi i numeri di Invariance e il [quaderno] Kautsky, e stiamo procedendo tutti alla lettura. Abbiamo iniziato anche il famoso №3 di Invariance che ci raccomandate. […] ¶ Abbiamo un grande interesse per Invariance, per quanto crediamo di dover manifestare alcune osservazioni: 1) in questa rivista si cita estesamente a Lenin e si arriva perfino a dire che non sono la stessa cosa Lenin e il leninismo… ¶ È molto giusto quel che diceva della lettura di «S.o.B.»: per quanto sia interessante, non può essere realmente feconda se non si leggono parallelamente Bordiga, Invariance, eccetera.
Piú avanti arriverà, per mano di Zero-zyx, Comunidad y comunismo en Rusia (1975), e piú tardi il libro di Santi Soler, Marxismo, señas de identidad (1980) nel quale ci sono un paio di brevi riferimenti a Camatte e Invariance, il che permette di supporre che l’influenza di Camatte, mediata dalla gente della Vieille Taupe fu piú dal lato del recupero dei «testi maledetti del comunismo» che della teorizzazione dello stesso Camatte… E nel 1977 appare, inserita in una serie impropriamente chiamata Crítica de la Política, la prima pubblicazione del gruppo Etcétera, che non fu altro che le Glosse marginali all’articolo «Il re di Prussia e la riforma sociale» di Marx (Invariance №5).
La traduzione di Etcétera non diceva né dove avessero ottenuto il testo né nominava il suo traduttore originale (di piú: nell’occhiello si faceva capire che l’avessero tradotto loro direttamente dal tedesco). La cosa non si fermò lí: nella conclusione, oltre a parlare continuamente della Gemeinwesen e della comunità, ebbero la sfacciataggine di parafrasare un ampio frammento dell’unico testo di Camatte pubblicato sino ad allora in spagnolo: Comunidad y comunismo en Russia. Perché lo fecero? Ci sono spiegazioni per tutti i gusti, salvo le loro, che non dettero mai, ma senza dubbio non fu solo per attribuirsi qualcosa a spese di Camatte: è molto probabile che in quest’ «affaire» esistano relazioni piú complesse e ramificazioni internazionali.
Di sicuro, poco tempo dopo, nel №3 della serie Crítica de la Política, «La ilusión democrática», presentarono una biografia di Bordiga tanto piena di errori facilmente individuabili, che i bordighisti ufficiali reagirono pubblicando un articolo intitolato «No sólo el estalinismo tiene su escuela de falsificación»25 (Non solo lo stalinismo ha la sua scuola di falsificazione) a cui Etcétera non ha mai risposto. In piú, avevano gonfiato il petto perché chiudevano la loro presentazione dicendo che il loro obiettivo era
riempire finalmente quel vuoto, quel silenzio complice, che gli «specialisti» nella pubblicazione di antologie ed approssimazioni di Bordiga volevano lasciare intatto per opportunismo, in nome di divergenze di impostazione.26
Qui finisce il capitolo delle ripercussioni nel corso dei decenni… E Camatte cominciò a uscire dall’oblio grazie alla rivitalizzazione della «corrente comunizzatrice» intorno agli anni 2008–2011, quando soggetti come Théorie Communiste, Aufheben, Endnotes, tornano a studiare il suo legato e renderlo accessibile.
IV. Similitudini e differenze con la «critica del valore»: superamento della legge del valore, antropomorfosi del capitale
Come ho rilevato in un testo anteriore,27 l’evoluzione teorica di Camatte lo portò ad adottare, circa l’antagonismo borghesia/proletariato e la lotta di classe, una prospettiva che, fino a un certo unto, coincide con quella che elaborarono in altri contesti il gruppo Krisis o personalità come Moishe Postone. Mi occuperò adesso di quella possibile coincidenza, ma, prima di ogni altra cosa, vorrei iniziare con la critica generale che Camatte mosse in Invariance a quelli che, come la I. S. (Internazionale Situazionista) e altri, non andavano — nella sua opinione — oltre la critica della merce, del suo feticismo e del lavoro come merce (e non come un aspetto di una relazione sociale), che è un punto che tutti questi gruppi hanno in comune con la «critica del valore», per quanto quest’ultima sia piú sofisticata.
Per esempio, in «La révolution communiste: théses de travail» (1969), diceva:
I situazionisti28 (e anche molti trotzkisti), seguendo Lukàcs, mettono al centro la critica della merce. Dimenticano che per Marx: «Il tratto che caratterizza specialmente il modo capitalista di produzione è la produzione di plusvalore come obiettivo diretto e motivo determinante della produzione. Il capitale produce essenzialmente capitale, e non lo fa se non nella misura in cui produce plusvalore.» (Il Capitale, Libro III, p. 117.)
L’obiettivo di ogni capitalista non è produrre valore, ma che la sua merce contenga il minor valore possibile affinché, venduta allo stesso prezzo di quella concorrente, gli fornisca un profitto differenziale, un incremento di plusvalore. Il plusvalore non è un potere su cose che si consumano e scambiano, ma su persone e mezzi di produzione che vengono fatti lavorare congiuntamente per ottenere profitto.
Molti anni dopo, Camatte, en «Glosses en marge d’une realité VII» (2008), insiste: «parlare di spettacolo operando con la categoria della merce significa non giungere all’invisibile.» L’ invisibile, naturalmente, è ciò che accade nella produzione, ovvero, la relazione sociale capitalista come relazione di sfruttamento, e non solo di scambio generalizzato.»
Detto questo, andiamo alla «critica del valore».
Tanto Camatte quanto i rappresentanti della «critica del valore» sono d’accordo che la contraddizione fondamentale del capitale è quella che si dà tra il processo di produzione immediato (cioè il processo di valorizzazione) e il processo di circolazione (ovvero, il processo di svalorizzazione). L’unità dei due processi si presenta quindi come un processo di valorizzazione e di svalorizzazione, come un’unità contraddittoria.
Concordano altresí che quanto piú si sviluppa il capitale, piú difficile gli riesce ottenere un incremento importante di plusvalore relativo, poiché la massa del lavoro vivo impiegato diminuisce sempre in relazione alla massa del lavoro morto posta in movimento.
Dove differiscono è nell’idea che il limite del capitale consiste sul fatto che è fondato sullo sfruttamento del lavoro altrui, cioè a dire, in una relazione sociale di classe contraddittoria (di qui l’importanza attribuita da Camatte e da molti altri al plusvalore di fronte al valore). Come dice Roland Simon,29 di Théorie Communiste, in una critica a Jappe:
L’obiettivo della produzione capitalista non è il valore ma il plusvalore in esso contenuto, e si potrebbe aggiungere che l’obiettivo non è nemmeno il plusvalore, ma la riproduzione delle classi e la loro relazione.
Altre differenza tra Invariance e la «critica del valore» dei gruppi Krisis e Exit! riguardano la storia: a differenza dei questi ultimi, tra Camatte e i sopravvissuti della sinistra comunista italiana c’è una continuità diretta, dovuta probabilmente alla coincidenza del nazismo con il passaggio al dominio reale del capitale in Germania, che rese impossibile ogni continuità generazionale, cosa che non accadde nel caso francese e italiano (a prima vista può sembrare un dettaglio irrilevante, ma spesso la continuità storica ha la sua rilevanza). D’altra parte, parlando di storia, Invariance lega quasi sempre la sua analisi del capitale alla successione di eventi storici concreti e alle loro conseguenze, oltre a prestare molta attenzione a fenomeni non strettamente anticapitalisti, come la decolonizzazione; in cambio, la «critica del valore» mette in rilievo le sue remote origini francofortesi attenendosi in gran parte a una teorizzazione piú astratta — con il pretesto di non offrire ricette pratiche (quando avrebbero potuto limitarsi semplicemente ad analizzare realtà piú concrete) — o offrendoci passeggiate nel museo degli orrori dell’attualità (cosa non esente da interesse, certo, ma carente di ogni prospettiva di «pronostico» o anticipazione del futuro).
Un’altra differenza importante è che la distinzione tra il «Marx esoterico» e il «Marx essoterico» che fece la Neue Marx-Lektüre tedesca degli anni 70 portò i rappresentanti della «critica del valore», che la fecero propria, a postulare che la lotta di classe era «immanente al sistema» (e, pertanto, inoperante al momento di determinare la sua evoluzione); Camatte, al contrario, approva da un lato quello che definisce il «riformismo rivoluzionario» di Marx (che considera storicamente giustificato) e dall’altro descrive ciò che possiamo chiamare la «fuga» dal capitale senza ignorare a priori la lotta di classe. Al riguardo, il gruppo francese Temps Critiques riassume assai bene la posizione della «critica del valore»:
Krisis non prende atto della sconfitta del proletariato, proclama piuttosto la sua incapacità congenita di essere nient’altro che capitale variabile. Il rimprovero che occorre fare a Krisis non è di negare la realtà attuale,30 ma di negare quella di ieri, ossia negare la storia della lotta di classe […].31
Tuttavia, la «critica del valore» va oltre: stabilisce un vincolo necessario tra la lotta di classe e l’antisemitismo, il populismo e altre politiche fondate sulla ricerca di capri espiatori, confondendo la parte — la lotta di classe — per il tutto — ossia la dinamica — chiamiamola racketista — del capitale come totalità — in maniera tale che, nello stesso tempo in cui pretende di ostentare ampiezza di vedute, non può cessare di censurare come «insufficiente» ogni movimento reale.
Senza smettere di differenziarli, potremmo dire che tanto la «critica del valore» quanto il Camatte attuale soffrono della stessa carenza di attenzione verso i movimenti contemporanei di popolazioni eccedenti creati dall’evoluzione catastrofica del capitalismo (Camatte in quanto ha abbandonato qualunque analisi in termini di valore e di classi, e Krisis perché ha eliminato ogni questione di classe sommergendola nel valore).
Per Camatte, quantunque la «fuga» del capitale verso il capitale fittizio abbia le sue origini nella valorizzazione di questo, il processo non smette di ripercuotersi sulle relazioni sociali (sebbene la ripercussione concreta non può che essere distorta dalla priorità che conferisce alla «comunità umana» come ipotetico soggetto trasformatore).
Peraltro, entrambi sono d’accordo nella concezione del capitale come «soggetto automatico», ma anche nel rifiuto della missione storica del proletariato» (nel caso di Camatte, a partire dal momento in cui rigetta la teoria del valore e considera che il capitale si è trasformato in rappresentazione).
§ § §
Per Camatte, il punto di partenza dell’abbandono della teoria del valore è stata la constatazione che, a partire del 1956, negli Stati Uniti il numero di lavoratori improduttivi — in termini di produzione di plusvalore — aveva superato quello dei lavoratori produttivi. «A partir da allora» — dice in «Epilogue au Manifeste Communiste 1848» (1992) —
è diventato evidente che il movimento del capitale superava la legge del valore, che stava superando i suoi limiti, come aveva esposto Marx nei Grundrisse […].
Qui è dove appare il tema dell’antropomorfosi.
Secondo Camatte, trasformandosi in rappresentazione, il capitale tende a sfuggire alla necessità di incarnarsi in un processo di produzione materiale. In questa maniera, può eludere o inglobare le difficoltà sorte durante il suo sviluppo anteriore. Il capitale diviene specie umana e si impadronisce di tutto l’umano; mentre donne e uomini si trasformano in oggetti reificati, il capitale realizza il suo progetto di dominare la natura e insediarsi in totale discontinuità con essa.32
D’altro canto, l’antropomorfizzazione non esclude un movimento antagonista — in particolare che il capitale obblighi gli esseri umani ad esserlo — né qualunque capacità di lotta, in quanto, secondo Camatte, nel momento in cui il capitale si separa dalla specie umana, anche la specie umana può separarsi de esso. («La mort potentielle du capital», dicembre 2001).
A questo proposito, in un testo de 2007 («Commentaires sur le texte de Marcel») Roland Simon e Bernard Lylon, di Théorie Communiste, dicono molto criticamente:
Con la «comunità materiale» e l’«antropomorfosi» […] passiamo dall’asimmetria dei poli della relazione nella loro reciproca implicazione […] a un occultamento o annichilimento della contraddizione che fa sí che esista quel movimento. Il risultato, svincolato dal suo proprio processo costitutivo, si presenta come la sua stessa causa (reificazione). È l’auto presupposizione del capitale senza la contraddizione che la costituisce. La nozione di «comunità materiale» rimanda a quella di individui-persone che si tratterebbe di riunire; è, di fatto, una nozione politica.
In effetti, bisogna chiedersi qual è il nesso della relazione sociale capitalista una volta superata la legge del valore. Su che cosa si sostiene? Già diceva Marx nell’Introduzione generale alla critica dell’economia politica (1857) — che:
La popolazione è un’astrazione se tralascio, ad esempio, le classi della quale si compone. Queste classi sono, a loro volta, una parola vuota se disconosco gli elementi su cui si sostengono, ad esempio il lavoro salariato, il capitale, eccetera. […] Il capitale, per esempio, non è nulla senza lavoro salariato, senza valore, denaro, prezzi, eccetera.
§ § §
Dove appare che la «critica del valore» avvantaggia chiaramente Camatte per capacità esplicativa è nella teoria della dissociazione — valore introdotta nel 1992 da Roswitha Scholtz per riferirsi alla «scissione» che fondamenta l’esistenza del valore come forma sociale feticista e strutturalmente «maschile» (a dispetto del fatto che alcune donne producano valore e ne gestiscano anche la produzione).
Concretamente, questa teoria sostiene che le funzioni relazionate con la riproduzione della forza lavoro che il capitalismo delega alle donne hanno un carattere distinto dal lavoro astratto, e costituiscono una dimensione della società capitalista che è parte della stessa realtà sociale del valore/plusvalore, ma che insieme è fuori dal suo ambito ed è perciò un suo presupposto.
In questo senso, decisivo è che le trasformazioni storiche della relazione di genere e delle relazioni sociali in generale si devono intendere a partire dai meccanismi e dalle strutture della scissione del valore; per esempio, quando le donne non possono piú disimpegnare quei compiti di riproduzione della forza lavoro poiché devono occuparsi tanto della famiglia quanto del loro lavoro remunerato, o quando l’obsolescenza del lavoro astratto produce anche una violenta riaffermazione delle strutture, gerarchie e condotte patriarcali. Per quanto riguarda tali questioni, Camatte — senza esservi indifferente — si vede ridotto a parlare della «specie» e della «comunità umano-femminile», in quanto, una volta che diamo per superata la legge del valore, e pertanto la distinzione lavoro produttivo/lavoro improduttivo, quale interpretazione concreta può attribuirsi ai movimenti delle donne? Oltre ad alludere genericamente all’avvento della «comunità umano-femminile» come obiettivo e il dominio maschile come uno dei «presupposti del capitale», Camatte può solamente dire cose come «il fenomeno rivoluzionario è stato effettivamente frammentato e le sue diverse componenti si sono autonomizzate, ciò che è un momento dell’affermazione del capitale, poiché ciò facilita il divenire della separazione» («Epilogue au Manifeste Communiste 1848», 1992) mentre parla della «morte potenziale» del capitale, dovuta al fatto che è scomparsa l’estrazione di plusvalore a spese del lavoro degli uomini e delle donne.
V. Conclusione.
Camatte ha scritto, come minimo, un paio di classici, e i classici sono sempre attuali. L’analisi di Capital et Gemeinwesen anticipa perfettamente e, in alcuni aspetti, supera la «critica del valore», ad esempio. Un altro testo che è un classico — e del quale fa parte certamente «La mistificazione democratica» (e non soltanto il frammento di questo testo disponibile in inglese e in spagnolo, ma tutto intero) — è «La révolution communiste: théses de travail» (1969), in cui traccia un bilancio della rivoluzione comunista molto elaborato sia nel tempo che nello spazio. Constatata la vasta estensione e la ricchezza dell’opera di Camatte, risulta molto scioccante a prima vista la scarsa diffusione e conoscenza della sua opera. Che tale mancanza di conoscenza non sia cosí assoluta come potrebbe sembrare, lo abbiamo indicato qui e in altri lavori, cosí come il ruolo svolto in piú di un’occasione rispetto all’ostilità manifesta.
Orbene, una congiura del silenzio non può trionfare né mantenersi senza che ci siano circostanze che la favoriscono. Nel caso dell’opera di Jacques Camatte, le circostanze sono state varie:
1. L’ epoca stessa, ossia il fatto che l’opera di Camatte era molto in anticipo sui tempi. A ciò bisogna aggiungere che l’epoca — sebbene per poco tempo, poiché le circostanze lo imponevano — considerò se stessa molto piú rivoluzionaria di quanto fosse, errore di valutazione nel quale Camatte non cadde. Per di piú, Camatte non contribuí a diffondere le illusioni dell’epoca su se stessa, ciò che non favorí la diffusione delle tesi di Camatte.
2. Una volta terminata la fase delle illusioni e iniziato il riflusso, con le regressioni e le strade senza uscita camuffate da rinnovamento e ben insediata la confusione generale, il ghetto e il piccolo mondo da racket — impegnato a sopravvivere a ogni costo, ad auto ingannarsi e, se possibile, a prosperare in tempi avversi — poteva ancora meno diffondere alcune idee che, nonostante abbiano impresso il sigillo delle loro stesse sconfitte, non erano disegnate in nessuna maniera per generare illusioni né impartire certezze su ipotetiche «vittorie finali». Peggio ancora, quelle idee continuavano a spargere una critica corrosiva e implacabile a ogni sorta di mistificazioni. Per tutto questo, anche chi ha osato appropriarsi qua e là di frammenti di quelle idee, si è astenuto dal fornire indizi sulle origini e sui media che le hanno nutrite.
Traduzione di Roberto Pecchioli
Titolo originale ¿Quién teme a Jacques Camatte?, edizione Anábasis, anabasisradioqk.org,
settembre 2020.
Una bibliografia completa delle opere di Camatte e delle traduzioni è disponibile a:
www.ilcovile.it/V3_camatte_all_per_Articoli.html
Note
1Secondo Ph. Bourrinet in «Un siècle de gauche communiste ‹italienne›» (1915–2015), pp. 231–232: http://www.left-dis. nl/f/DictionnaireGCI.pdf
2A proposito della «decadenza» del modo di produzione capitalista, non c’è bisogno di precisare che Bordiga rifiutò sempre questa concezione, che considerava una deformazione gradualista della teoria di Marx (si veda «Le renversement de la praxis dans la théorie marxiste», in Invariance serie I №4). Conviene segnalare che la tendenza del PCInt che si scisse nel 1952 intorno a Onorato Damen, era sostenitrice della teoria della decadenza.
3El Capital, Libro I, Capítulo VI (inédito): Resultados del proceso inmediato de producción, trad. P. Scaron, Siglo XXI, Città del Messico, 2009, p. 60.
6La concepción materialista de la historia, Ed. Ariel, Barcelona, 1980, p. 147.
7Karl Marx, Ed. Ariel, Barcelona, 1974, p. 221.
8«La recuperación del marxismo en la llamada «cuestión del sindicato»», in Escritos políticos, Folios Ediciones, México, 1982, p. 218.
9La concepción materialista de la historia, pp. 148–149
10«El marxismo y las tareas actuales de la lucha de clases proletaria», Cuadernos de Pasado y Presente, 1979, p. 207.
11Un siècle de gauche communiste «italienne» (1915- 2015), p. 232.
12Gli estratti citati provengono da un’intervista con due membri della pubblicazione argentina Cuadernos de Negación. A nostra conoscenza, l’intervista non è stata pubblicata.
13Di certo, poco tempo prima, gran parte di quei neri statunitensi erano stati impiegati nel settore dell’automobile e in altre importanti industrie americane, dai quali furono espulsi in conseguenza del processo di automazione, per cui, quanto meno, esisteva un vincolo diretto con la classe lavoratrice nera.
14Camatte, Comunidad y comunismo en Rusia, Zero-ZYX, Bilbao, 1975, pp. 18–19.
19Secondo Camatte, Bordiga aveva rotto con l’impostazione «marxista» classica, rispetto allo sviluppo delle forze produttive, per giungere al comunismo, ciò che era coerente con la sua affermazione che questo era possibile dal 1848.
20«Epilogue au Manifeste du Parti Communiste 1848», 1989.
21Vedi, sul movimento italiano di quell’epoca «L’épingle stérilisée» in Les Fossoyeurs du Vieux Monde, №2 (aprile 1979), cosí come Apocalisse e sopravvivenza (1994), di Francesco Santini. A livello radiofonico, le puntate da 146 a 149 di «Anábasis» si occuparono di quest’area radicale, includendo un’intervista a Claudio Albertani, esponente di Ludd, Comontismo e Insurrezione: http://anabasisradioqk.org
22https://libcom.org/library/ lip-and-the-self-managed counter-revolution-negation
23Peggio ancora: non si fa riferimento alcuno alla traduzione e edizione dei Saggi sulla teoria marxista del valore di I.I. Rubin. E questo non è attribuibile alla casa editrice…
24http://libcom.org/library/ illusion-solidarity-david-brown
25http://www.sinistra.net/lib/ upt/elproc/mopu/mopudjaces.html
26Etcétera, Crítica de la Política №3, «La ilusión democrática», p. 9 (Introducción).
27«Jacques Camatte y el eslabón perdido de la crítica social contemporánea», https://dndf.org/? p=13570
28È strano, come minimo, certamente, che i situazionisti non abbiano detto nulla, né di buono né di cattivo, su Invariance.
29http://raumgegenzement. blogsport.de/2010/10/01/ roland-simon-a-propos-dun texte-danselm-jappe-2009/
30Se andiamo al fondo della questione, nega anche la realtà attuale, o almeno alcuni suoi aspetti importanti.
31«Poursuite de la valorisation ou domination du capital sur la valeur?», http://tempscritiques.free.fr/ spip.php? Article 166 (2006).