RIFLESSIONI INTORNO “ADDIO AL LAVORO?” E NOTE A MARGINE SUL CONCETTO DI CLASSE-CHE-VIVE-DI-LAVORO
mar 10th, 2021 | Di Thomas Munzner | Categoria: Capitale e lavoro
RIFLESSIONI INTORNO “ADDIO AL LAVORO?” E NOTE A MARGINE SUL CONCETTO DI CLASSE-CHE-VIVE-DI-LAVORO
Grazie al suo lavoro è possibile osservare come il taylorismo-fordismo ha cessato di essere il principale modello di organizzazione del lavoro, iniziando a fondersi con forme più flessibili di accumulazione, a cui vengono assegnate varie denominazioni, come: “neofordismo”, “neo-taylorismo”, “postfordismo”.
Diverse sono le caratteristiche di questo nuovo modello: specializzazione flessibile; deconcentrazione industriale; nuovi modi di controllare la forza lavoro; rottura o flessibilizzazione di ogni vincolo; controllo della qualità totale…
Qui è già chiaro che per l’autore il superamento del regime flessibile della modalità di organizzazione del lavoro precedente, assume una connotazione dialettica, in quanto conserva elementi “passati” e introduce altri processi in un insieme articolato rispetto alle nuove dinamiche sociali emergenti.
Non c’è stato alcun tentativo di seppellire il fordismo a partire da una determinata data, dopo la quale è iniziato il toyotismo, seguendo una linea temporale cronologica. Al contrario, esisteva una (co)esistenza tra forme di sfruttamento e controllo dei processi lavorativi. Fin dall’inizio Antunes spiega il concetto di fordismo che darà coesione al testo, riferendolo al processo di lavoro nell’industria, cioè : “a) dalla produzione in massa, mediante la linea di montaggio e prodotti più omogenei; b) dal controllo dei tempi e dei movimenti da parte del cronometro taylorista e dalla produzione in serie fordista; c) dall’esistenza del lavoro parcellizzato e dalla frammentazione dei compiti; d) dalla separazione tra progettazione ed esecuzione nel processo lavorativo; e) dall’esistenza di unità di fabbrica concentrate e verticali; f) dal consolidamento dell’operaio-massa, del lavoratore collettivo di fabbrica, tra gli altri fattori.”
“Piuttosto che come un modello di organizzazione sociale che riguarda allo stesso modo ampie sfere della società, intendo il fordismo come il processo di organizzazione del lavoro che, insieme al taylorismo, è stato dominante nella grande industria capitalistica nel corso di questo secolo.”
Certamente, questa concettualizzazione implicherà il modo di vedere lo svolgersi delle forme di produzione che si trasformano nel regime flessibile, non solo per le sue caratteristiche produttive, ma anche per l’istituzione di un sistema di controllo del lavoro diversificato. La lotta per il controllo della forza lavoro sembra occupare un posto centrale nell’analisi di Antunes, in quanto le trasformazioni, siano esse di natura organizzativa, decentramento geografico, trasfigurazione funzionale nel mondo industriale, hanno cercato, in ultima analisi, di contenere ogni forma di organizzazione della classe operaia, tramite i sindacati, soprattutto dove erano forti. “Addio al lavoro?” rappresenta più di un semplice testo accademico, pubblicato in diverse lingue. Arriva in un buon momento, non solo perché l’espansione del pensiero neoliberista affligge il mondo, ma rappresenta anche un’opera di resistenza contro i tentativi di distorcere la realtà storica, che contribuiscono a mistificare o scartare possibilità rivoluzionarie, come si vede nelle tesi della ”fine del lavoro”, “fine delle classi”, “fine della storia”…
Tale lavoro era diretto principalmente contro la tesi di André Gorz, per il quale la categoria lavoro, a causa della diminuzione del numero di operai di fabbrica, non costituirebbe più un elemento di base, né del processo produttivo né tanto meno costituirebbe il nucleo della socialità umana. In altre parole, basato sul processo di metamorfismo industriale che ha alterato la composizione organica del capitale, un processo che si sviluppa in modo non uniforme, Gorz sfida un’intera complessa costruzione teorica basata sulla teoria del valore-lavoro del marxismo. Antunes parte dalle seguenti domande: la classe-che-vive-di-lavoro, un termine che usa per designare un vasto insieme di lavoratori, sta scomparendo, sia in relazione al processo produttivo che alle forme di lotta? La riduzione degli operai di fabbrica significa l’abolizione dell’essere sociale basato sul lavoro, cioè sulla capacità di auto-(ri)produzione umana o come protoforma della prassi umana nello scambio con la natura? Quali implicazioni hanno queste trasformazioni per le organizzazioni dei lavoratori, in particolare per i membri dei sindacati?
Inizialmente, l’attenzione viene prestata sulla sintesi del dibattito sviluppato al riguardo. Naturalmente, il primo obiettivo è la tesi della specializzazione flessibile di Sobel e Piore. Antunes utilizzerà le idee di Coriat e Clarke per mettere in discussione la capacità di universalizzare le esperienze produttive italiane, secondo cui decentralizzare il processo produttivo, nelle piccole imprese, rappresenterebbe la fine dell’alienazione del lavoro esistente nel fordismo, una sorta di “neoproudhonismo”. Tuttavia, Antunes criticherà anche Clarke, principalmente per la sua idea di non vedere l’attuale crisi del capitalismo come un’espressione della ristrutturazione postfordista. Dalla fabbrica ai lavoratori domestici, le trasformazioni tecnologiche, associate al decentramento degli impianti produttivi, hanno cercato di rompere, come nel caso italiano, con gli operai-massa, cioè con l’aumento della parte costante della composizione organica del capitale (Capitale = Capitale Variabile / Capitale Costante) e la significativa riduzione del lavoro vivo, il capitale ha indebolito notevolmente la classe lavoratrice, contribuendo all’intensificazione del suo sfruttamento.
Antunes cerca nel lavoro di Harvey, “The Condition of Postmodernity”, un aspetto importante per la sua argomentazione. Osserva che esistono seri problemi sia nelle analisi che esagerano sulla fine assoluta del fordismo sia nelle analisi che non vedono l’imminenza di nuove forme di accumulazione che si fondono costantemente con imprese di piccola scala e megacorporazioni. Cioè l’idea di una “azienda snella” che è stata possibile solo in quanto sono emersi processi di lavoro e produzione di merci esternalizzate e decentralizzate dalla “casa madre”, che hanno portato, oltre ad intensificare l’appropriazione di materie prime, ad abbassare significativamente il prezzo della forza lavoro e, di conseguenza, c’è stato un aumento dello sfruttamento, poiché molti di questi lavoratori non hanno quasi mai avuto rapporti di lavoro.
Le caratteristiche principali del toyotismo sarebbero i seguenti aspetti: “1) la produzione è molto vincolata alla domanda; 2) è diversificata e piuttosto eterogenea; 3) si basa sul lavoro operaio svolto in squadra, con grande varietà di funzioni; 4) ha come principio il just in time, il maggiore sfruttamento possibile del tempo di produzione, funziona secondo il sistema kanban, cartellini o indicazioni di comando per il riposizionamento di pezzi e di stock che, nel toyotismo, devono essere in numero minimo. Mentre nella fabbrica fordista circa il 75% della produzione avveniva al suo interno, nella fabbrica toyotista soltanto il 25% circa è prodotto in sede.”
Di fondamentale importanza è l’incorporazione di principi che rafforzano l’idea di qualità totale, flessibilità, multifunzionalità e versatilità dei lavoratori. In questo modo viene esacerbato il volontarismo dei lavoratori, al fine di identificare i soggetti non più come una classe, ma come collaboratori dell’azienda, ovvero che l’obiettivo della classe venga svuotato dall’incorporazione di sottili ideali imprenditoriali, finalizzati al controllo dei soggetti da una nuova moralità. L’esempio dell’articolazione tra metodi flessibili di accumulazione, introdotto dalla “impresa snella”, si riflette nell’indebolimento delle organizzazioni sindacali, come espresso dalle sconfitte sindacali negli scioperi giapponesi negli stabilimenti Toyota, nonché nella creazione di un “sindacalismo d’impresa” in sostituzione del vecchio sindacalismo combattivo. Così, gran parte dei sindacati, guidati da questa logica, sono diventati un trampolino di lancio opportunistico per l’ascesa di gruppi di lavoratori privilegiati. Insomma, dal modello giapponese espresso nell’azienda Toyota e nel metodo ohnista (dall’ingegnere Ohno), emerge anche il tipico sindacato manipolato e cooptato dagli interessi corporativi del capitale e contrapposto alla classe operaia.
Sulla base dell’argomentazione di Goumet, Antunes cerca di mostrare come il toyotismo sia diventato una forma incorporata dal capitale nella lotta contro il lavoro organizzato, poiché si richiede una quantità minore di lavoro vivo, con un profilo diversificato, che si somma ad un aumento significativo del ritmo e / o delle funzioni svolte dai lavoratori. Ciò ha fatto sì che anche l’apparente riduzione dell’orario di lavoro giornaliero, in alcuni settori, non rappresentasse una riduzione del lavoro oggettivato nelle merci, né una riduzione delle funzioni lavorative svolte dai dipendenti. Non più limitato alle fabbriche giapponesi, il toyotismo ha assunto un carattere universale, espandendosi in modo ibrido attraverso i paesi centrali e periferici del pianeta. A differenza di Coriat, che sognava una versione socialdemocratica del toyotismo che avrebbe risolto i problemi del capitalismo in crisi, Antunes ritiene che l’espansione di questo regime tendesse a minare quello che era ancora considerato il Welfare State, soprattutto a causa dell’identificazione di questo modello con la logica della regolamentazione neoliberista, ritirando gli investimenti pubblici e riducendo sia i diritti dei lavoratori dipendenti che limitando le possibilità a coloro che non hanno più trovato un impiego. “Invece di una socialdemocratizzazione del toyotismo, avremmo una toyotizzazione de-caratterizzante e disorganizzante della socialdemocrazia”, aggiunge. Dalle considerazioni sui meccanismi di controllo, l’autore ricorda che non dobbiamo considerare il toyotismo come un progresso in termini di organizzazione aziendale, in quanto continua il processo di valorizzazione del capitale, mentre rende i lavoratori intensamente precari. Il fatto che risolva parte dei problemi dell’accumulazione di capitale, non deve significare che ci siano progressi nei rapporti di lavoro, che attualmente sono molto effimeri e precari, basta guardare all’outsourcing e al settore dei servizi.
Inoltre, attraverso l’introduzione di un nuovo lessico ideologico per i lavoratori, al fine di identificare gli interessi aziendali con gli interessi antagonistici dei soggetti che lavorano, cerca di cooptare soggettivamente e decostruire la classe operaia, come suggerito dalla parola “collaboratore” o il teatrino degli impresari che incoraggiano una moralità da “buon lavoratore”. Questi meccanismi non eliminano l’allontanamento tra il prodotto e il produttore, in quanto questi rimane ignaro del prodotto finale del suo lavoro, come ci ricorda Antunes:
“La sussunzione del modo di pensare del lavoratore a quello diretto dal capitale, l’assoggettamento dell’essere che lavora allo ‘spirito Toyota’, alla ‘famiglia Toyota’ è di intensità nettamente maggiore, è qualitativamente distinta da quella esistente nell’era del fordismo. Quest’ultima era mossa centralmente da una logica più dispotica; la logica del toyotismo è più consensuale, più coinvolgente, più partecipativa, in realtà più manipolatoria”.
Nonostante abbia notato la diminuzione degli operai tradizionali, l’autore individua la costante espansione dei salari precari, tipica della sottoproletarizzazione. Cioè, mostra che una maggiore complessità, frammentazione ed eterogeneità prende la forma del lavoro, mentre i lavoratori temporanei, i lavoratori parziali, i lavoratori esternalizzati, i lavoratori informali, la predominanza delle donne (nel settore dei servizi) …, costituiscono questa nuova morfologia del lavoro nell’era della disoccupazione strutturale.
Pur tenendo conto di processi così ampi e generici, il cui studio mira a cogliere le dimensioni di un processo universale, l’autore riesce ad articolare la specificità della classe operaia, come il rapporto intrinseco tra classe e genere, discussione indispensabile per comprendere le modalità di appropriazione di valore lungo tutta la storia del capitalismo, così come una questione nevralgica se si vuole pensare ai processi di emancipazione nel XXI secolo. In questo modo, non si tratta solo di abolire l’oppressione della proprietà privata contro gli esseri umani in generale, ma presuppone necessariamente la rottura con l’oppressione patriarcale inflitta all’essere donna lavoratrice (certamente aggravata se si considera la donna povera e nera). Oltre ad affrontare questi processi di crisi dell’accumulazione di capitale, l’autore ci presenta un approccio ricco sulle ripercussioni dei processi di ristrutturazione produttiva nelle forme di organizzazione della classe operaia. Quindi, è degno di nota che, parallelamente alla riorganizzazione aziendale, ci fu una grande diminuzione delle iscrizioni ai sindacati, specialmente alla fine degli anni ’80, e che colpì direttamente i paesi centrali del capitalismo. Questo contesto di polverizzazione di una classe operaia sempre più effimera e precaria ha contribuito all’emergere di un sindacalismo verticalizzato, dove i pochi soggetti stabili non mostrano solidarietà con le altre categorie. Tutto questo, dice Antunes, implica un serio problema di rappresentanza sindacale, poiché questa entità ha difficoltà a riunire le diverse rivendicazioni di classe in una lotta unitaria.
Questa forma di sindacalismo aziendale finirebbe per privilegiare gli interessi degli strati “superiori” dei lavoratori, che, sulla base dei processi di cooptazione, sono serviti in larga misura a frenare la resistenza negli / degli scioperi. In breve, l’autore pone una serie di questioni vitali per lo sviluppo dei sindacati se si vuole riavviare il conflitto con il capitale. Il primo passo sarebbe quello di andare avanti in modo “cooperativo” e “difensivo” verso la costruzione di un progetto autonomo della classe operaia, che dovrebbe considerare non solo l’eterogeneità dei soggetti e le loro rivendicazioni, ma anche stabilire un’unità tra problemi immediati (come problemi salariali, diritti fondamentali e orario di lavoro ridotto) con la lotta strategica anticapitalista.
Tuttavia, il fatto che la crisi si manifesti in diversi aspetti della classe operaia, con implicazioni oggettive e soggettive, Antunes (ri) afferma che non è possibile contestare la permanenza della categoria del lavoro come strutturazione sociale, poiché ciò implicherebbe trascurare i processi di sfruttamento che sono coinvolti nella produzione di valore astratto. E, inoltre, e forse è l’errore più grave a cui si oppone Antunes, rimuovendo la centralità del lavoro come protoforma dell’essere sociale, cioè come elemento fondamentale di scambio tra società e natura nella produzione di valore d’uso (a prescindere dalla forma storica), implicherebbe la soppressione della possibilità di una società al di là del capitale, che dovrebbe essere opera dello stesso lavoro associato.
In questo modo, le formulazioni più ragionate in relazione alla crisi del lavoro astratto (come quella di Robert Kurz, in “Il collasso della modernizzazione”) devono specificare, nell’ottica di Antunes, a quale tipo di lavoro si riferiscono, pena il disinteresse per la doppia dimensione del lavoro, che in termini marxisti non è mai stata ridotta alla sua dimensione astratta.
Considerare il lavoro come una protoforma dell’essere sociale non significa difenderne l’esclusività nell’emancipazione umana, cioè nel fondamento della socialità del tempo libero. Al contrario, significa cercare di comprendere tutto il carattere potenzialmente emancipatorio sorto con lo sviluppo della tecnica scienza-informazione, la cui logica è stata ribaltata per garantire la riproduzione del capitale e non una società emancipata. Pensare che le tecnologie sopprimeranno lo sfruttamento senza un cambiamento qualitativo nella logica a cui sono collegate e il loro carattere di classe, equivale ad una fantasia grande quanto quella che crede che in un mondo presieduto dal metabolismo sociale del capitale non ci sia lavoro astratto o sussunzione del lavoro vivo.
Di fronte alla consapevolezza che il lavoro vivo rimane sia come produttore di beni sia in relazione alla produzione di valore d’uso, l’autore pone una domanda di fondamentale importanza, ovvero: chi si pone all’avanguardia dei processi di resistenza anticapitalista? Contrariamente alla visione egemonica, che vede ai vertici lavoratori relativamente stabili, l’autore scommette sulla ribellione del sottoproletariato, in considerazione della sua condizione generale di precarietà. Poiché pensa che le porzioni privilegiate di lavoratori sarebbero più probabilmente cooptate dai segmenti del capitale a scapito dell’eterogeneità della classe operaia.
Per l’autore c’è un’incompatibilità tra lavoro alienato e tempo libero, che implica necessariamente l’impedimento di una vita dotata di senso dentro e fuori il lavoro. Per ottenere ciò, Antunes suggerisce un cambiamento qualitativo nelle forme di regolazione del tempo di vita, cioè superare la socialità gerarchica e oppressiva del metabolismo capitalista. Ciò sarebbe possibile solo attraverso l’insieme del lavoro, che deve prendere per sé i meccanismi di controllo delle forme di produzione, guidandone di conseguenza le priorità, al fine di soddisfare i bisogni reali dell’essere umano e non le pretese feticizzate del capitale. In breve:
“Una vita piena di senso fuori dal lavoro presuppone una vita dotata di senso dentro il lavoro. Non è possibile rendere compatibile il lavoro salariato, feticizzato ed estraniato con il tempo (veramente) libero. Una vita priva di senso nel lavoro è incompatibile con una vita piena di senso fuori dal lavoro. In una certa misura, la sfera fuori dal lavoro sarà macchiata dalla derealizzazione che c’è all’interno della vita lavorativa. Dato che il sistema globale del capitale dei nostri giorni abbraccia anche le sfere della vita fuori dal lavoro, la critica del feticismo proprio della società del consumo ha come corollario imprescindibile la critica del feticismo nel modo di produzione delle cose. La sua conquista è molto più difficile se non si pone in relazione in modo decisivo la lotta per il tempo libero con la lotta contro la logica del capitale e la vigenza del lavoro astratto. Al contrario, se non si pone la questione in questo modo, si finisce per condurre una rivendicazione subordinata allo stato attuale delle cose, credendo nella possibilità di ottenerla mediante la via del consenso e dell’interazione senza toccare i fondamenti del sistema, senza ferire gli interessi del capitale o, il che è ancor peggio, si finisce gradualmente per abbandonare le forme di azione contro il capitale e dei suoi sistemi di metabolismo sociale, in una prassi sociale rassegnata.”
In questo senso, il problema della soppressione del lavoro alienante acquista un’importanza vitale nel lavoro di Antunes, poiché deidentifica il lavoratore. In altre parole, producendo ricchezza nella società egemonizzata dal capitale, il lavoro produce anche le condizioni della propria miseria. Con l’aumentare della dimensione del capitale, aumenta anche il pauperismo del lavoro. L’emancipazione, quindi, non sarebbe nella costituzione della società del non-lavoro (come volevano Gorz, Habermas, Offe), ma nell’emergere di una nuova socialità basata sul valore d’uso.
Appendice: la classe-che-vive-di-lavoro di Antunes
La costruzione di evidenze teoriche ed empiriche che dimostrano la vitalità contemporanea del concetto di classe, sotto il prisma del pensiero marxiano, si configura come obiettivo centrale delle opere di Ricardo Antunes. In “Il lavoro e i suoi sensi”, l’autore costruisce un nesso argomentativo che dimostra la nuova composizione assunta oggi dalla classe operaia. In effetti, non nega che il proletariato abbia subito profondi cambiamenti al suo interno, fondamentalmente negli ultimi quattro decenni. Al contrario, Antunes enfatizza e rende espliciti alcuni di questi cambiamenti, rendendo chiaro, però, che l’efficacia, la proceduralità e la concretezza della classe restano vive. Pensare al proletariato come a un elemento statico della storia rafforzerebbe, secondo l’autore, i presupposti teorici che vedono la classe come un fenomeno in pericolo, nella stessa misura in cui tendono a diminuire il numero di operai impiegati in fabbrica.
Per enfatizzare la sua lettura contemporanea della complessità del mondo sociale, Antunes utilizza una “nozione allargata di classe”. Egli, cerca di presentare il nuovo modo di essere della “classe-che-vive-di-lavoro”. L’autore chiarisce, tuttavia, che questa non è una “nuova espressione concettuale”, ma un’espansione del centro di analisi, al fine di spiegare la diversificazione e la complessificazione del proletariato oggi. Un simile impegno analitico si riferisce, in effetti, ad un aggiornamento della concezione marxista di classe, che dà luogo alla comprensione delle trasformazioni che i rapporti di produzione hanno subito negli ultimi decenni. Nelle parole di Antunes:
“L’espressione classe-che-vive-di-lavoro pretende di dare contemporaneità e ampiezza all’essere sociale che lavora, la classe lavoratrice oggi, vuole comprendere la sua effettività, la sua processualità e concretezza.”
Le ristrutturazioni e le innovazioni che il capitalismo ha subito sono varie e influenzano notevolmente la forma di organizzazione e il funzionamento dei rapporti di produzione e dei processi di lavoro. Antunes parte da questi cambiamenti per intraprendere la sua riflessione teorico-analitica sulla classe.
Antunes non omette una chiara definizione della composizione della “classe-che-vive-del-lavoro” e vi include tutti coloro che vendono la propria forza lavoro. Sottolinea, tuttavia, che c’è, in questa espansione concettuale, una centralità per i lavoratori produttivi. In questo modo è possibile verificare che l’autore non elimina il lavoro manuale diretto, cioè quello che produce il plusvalore e i valori di scambio per il capitale, ma lo incorpora in un nucleo che riunisce tutto il proletariato. L’enfasi data da Ricardo Antunes alle trasformazioni nel mondo del lavoro guida la sua proposta teorica e in effetti lo porta ad includere nella “classe-che-vive-di-lavoro” anche i lavoratori improduttivi, cioè coloro che non partecipano direttamente alla valorizzazione del capitale, in particolare quelli situati nel settore dei servizi. L’autore afferma che:
“Secondo Marx, il lavoro è consumato come valore d’uso e non come lavoro che crea valore di scambio. Il lavoro improduttivo abbraccia un ampio campo di salariati, da quelli inseriti nei servizi, come banche, commercio, turismo, servizi pubblici.. fino a coloro che realizzano attività nelle fabbriche ma non creano direttamente valore.”
Notevole è l’espansione del lavoro improduttivo nel capitalismo contemporaneo. Inoltre, c’è un intenso processo di sovrapposizione con il lavoro produttivo. Questa associazione si verifica, ad esempio, nel ruolo sempre più rilevante delle telecomunicazioni nel processo produttivo, nella generazione di “valori di scambio” da parte delle grandi multinazionali. Infine, Antunes aggiunge alla “classe-che-vive-di-lavoro”, i disoccupati, espulsi dalla produzione grazie a ristrutturazioni produttive e tecnologie, e i lavoratori rurali, che, in generale, vendono la propria forza lavoro ai nuovi “imprenditori rurali”. Consapevole che le sue proposizioni teoriche affrontano resistenze all’interno del pensiero sociale, specialmente da una prospettiva marxiana, Antunes cerca di delimitare la “classe-che-vive-di-lavoro” indicandone chi ”non ne fa parte”.
“La classe lavoratrice oggi esclude, naturalmente, i gestori del capitale, i suoi alti funzionari, che hanno il ruolo di controllo nel processo di lavoro, di valorizzazione e riproduzione del capitale all’interno dell’imprese e che ricevono rendimenti elevati o ancora quelli che, possedendo un capitale accumulato, vivono della speculazione e degli interessi. Esclude anche, dalla nostra analisi, i piccoli imprenditori, la piccola borghesia urbana e rurale proprietaria.”
Ricardo Antunes ammette, quindi, che il mondo del lavoro ha assunto dimensioni più complesse, eterogenee e diversificate. C’è un’espansione dei lavoratori dei servizi, disoccupati e precari. Questi ultimi assumono un ruolo crescente nella composizione dell’attuale classe operaia, con outsourcing, subappalto, part-time. Tuttavia, la classe non perde vitalità storica e potenziale analitico. Per questo, deve essere intesa come un elemento dinamico, integrato con le contingenze della storia. I processi di produzione e di lavoro hanno subito profondi mutamenti dagli anni ‘70. Il proletariato di fabbrica, manuale, stabilizzato ha perso terreno con la ristrutturazione produttiva, mentre è aumentato il numero dei salariati, anche se precari. La caduta del fordismo / taylorismo e l’ascesa di modelli di produzione flessibile furono accompagnati da cambiamenti nel profilo della classe operaia. Antunes sottolinea proprio il rapporto tra le trasformazioni nell’universo della produzione e nell’universo del lavoro per spiegare il nuovo modo di essere della classe. La produzione e il lavoro non sono dimensioni dissociate. Al contrario, c’è una reciproca compenetrazione. Pertanto, le trasformazioni storiche comprendono le due sfere, non inficiando in alcun modo la concretezza e la centralità della classe.
L’elemento che unisce questo complesso e diversificato gruppo che forma la “classe-che-vive-di-lavoro”, si materializza nell’esperienza di sussunzione reale del lavoro al capitale, vissuta dai soggetti. I lavoratori (produttivi, improduttivi, disoccupati) a causa del metabolismo della società capitalista vivono situazioni che li avvicinano come membri di una stessa classe, in contrapposizione al capitale e per somiglianze nell’esperienza di vita.
È evidente che Ricardo Antunes non vede la classe come un elemento teorico imposto alla realtà, come un continuum osservabile in qualsiasi realtà. Il suo lavoro è orientato, per affermare questa proposizione, dallo scopo di comprendere la crisi del sindacalismo e delle organizzazioni politiche di classe, mettendole in relazione alle profonde trasformazioni nella composizione di classe e nell’esperienza dei soggetti che vivono della propria forza lavoro. I complessi fenomeni sociali del XXI secolo richiedono corrispondenti dispositivi teorico-metodologici, in grado di guidare le indagini in profondità. Antunes si pone proprio nel campo di chi promuove un aggiornamento di questi parametri di analisi.
I principali pensatori della teoria marxista, in tempi diversi, hanno ricordato che Karl Marx non ha sviluppato la sistematizzazione teorico-concettuale della classe oltre una pagina e mezza delle conclusioni del Capitale. Questo fatto ha contribuito, come sottolinea Antunes, a un ampio dibattito all’interno del pensiero sociale marxista sulla caratterizzazione della classe, la sua composizione, il modo di essere e di agire. Ricardo Antunes guida la sua analisi verso la comprensione della classe nel XXI secolo. Rende chiaro, infatti, che cerca di costruire una dimensione allargata del modo di essere della classe operaia oggi. Queste opzioni analitiche non escludono, tuttavia, la proceduralità storica della classe. Come afferma Thompson, la formazione della classe si pone in evidenza quando osservata nel processo storico, attraverso il quale è possibile notare la continuità di azioni e comportamenti che portano i soggetti ad essere classe. Tuttavia, le “esperienze” vissute dai soggetti sono influenzate dalle contingenze della storia. Non esiste una tipologia pura di classe, né c’è regolarità nel comportamento degli individui. Ora, se i rapporti di produzione subiscono trasformazioni, è possibile apprendere che anche le “situazioni” a cui sono esposti i soggetti subiscono fratture, nell’ambito della proceduralità degli eventi.
In questo senso, sembra che Antunes lavori proprio con questa nozione di sviluppo dinamico dei rapporti di produzione nella storia. Pertanto, i processi di formazione della classe non sono continui, né omogenei. Quindi, possono essere osservati solo come un processo. L’ampliamento dell’ambito di analisi del fenomeno, proposto da Antunes nell’espressione “classe-che-vive-di-lavoro”, cerca di caratterizzare la classe sociale in un determinato contesto storico, senza perdere di vista le trasformazioni nella sfera del processo produttivo. In questo modo, cerca di rendere conto delle situazioni generate dai rapporti di produzione nel loro contesto, “vissuto e sperimentato” dai soggetti a cavallo del Novecento. La citazione di Mészáros, usata da Antunes per giustificare l’inclusione dei lavoratori improduttivi nella “classe-che-vive-di-lavoro” è sintomatica della dimensione dell’“esperienza” degli individui:
“agenti non produttivi, generatori di antivalore nel processo di lavoro capitalistico, [ma che] hanno vissuto le stesse premesse e si reggono sugli stessi fondamenti materiali. Essi appartengono a quei “falsi costi e spese inutili”, i quali sono, intanto, assolutamente vitali per la sopravvivenza del sistema.”
L’elemento che porta Antunes a riunire una vasta gamma di esseri sociali che vivono della vendita della loro forza lavoro nello stesso insieme di classe è, appunto, “l’esperienza di vivere nelle stesse condizioni di sussunzione del capitale”. È indiscutibile che negli ultimi decenni il mondo del lavoro è stato brutalmente trasformato e il profilo di chi vive vendendo il proprio lavoro è cambiato. Negare questo fatto storico significa ignorare il dinamismo dei rapporti di produzione, le sue composizioni e ricomposizioni, e optare per una comprensione antistorica della classe. Le contraddizioni e i conflitti generati nel processo di “sperimentazione” di “situazioni” di classe danno luogo alla centralità dei processi di lotta. Antunes afferma che le composizione di classe è organizzata e consolidata in contesti di intensificazione delle contraddizioni. Inoltre, c’è la dimensione delle relazioni interne a ciascuna classe, cioè la composizione degli insiemi influisce sulle forme e sui modelli di azione di ciascuno nel processo storico. Diventa così necessario verificare i modi di essere, le relazioni interne di ogni composizione di classe nel suo contesto reale.
Per Ricardo Antunes: “(…) nonostante l’eterogeneità, la complessità e la frammentazione della classe operaia, le possibilità di un’effettiva emancipazione umana possono ancora trovare concretezza e vitalità sociale dalle rivolte e ribellioni che hanno origine centralmente nel mondo del lavoro; un processo di emancipazione simultanea dal lavoro, nel lavoro e attraverso il lavoro (…) L’intera vasta gamma di dipendenti che comprende il settore dei servizi, più i lavoratori “esternalizzati”, i lavoratori del mercato informale, i “lavoratori domestici“, i disoccupati, i sottoccupati… possono essere aggiunti ai lavoratori direttamente produttivi e, quindi, agendo come una classe, costituiscono un segmento sociale con un maggiore potenziale anticapitalista nella lotta di classe.”
La preoccupazione di Antunes sta, fondamentalmente, nello studiare il proletariato nelle sue molteplici caratteristiche nel contesto del XXI secolo, della ristrutturazione e trasformazione dei mezzi di produzione. In questo modo è possibile verificare le singolarità delle lotte di classe in un dato contesto, tenendo conto della loro proceduralità, concretezza e evidenza negli eventi. Infine, vale la pena notare che Antunes non ha organizzato sistematicamente le sue definizioni di classe sociale. I punti che sintetizzano la sua idea della classe sono: a) classe come categoria storica, legata a contesti ed esseri reali; b) l’esperienza come elemento che genera relazioni tra soggetti e strutture nella proceduralità dei fenomeni; c) lotte e contraddizioni a seguito di situazioni vissute dagli individui, che danno luogo a processi di interazione tra classi; d) doppia dimensione della classe, interna (intendendone le variazioni nella composizione e nel modo di essere) ed esterna, nel rapporto tra soggetti riuniti in classi diverse, attraverso progetti e interessi diversi.
https://bollettinoculturale.blogspot.com/2021/03/riflessioni-intorno-addio-al-lavoro-e.html