Guy Debord fa 60

mar 9th, 2021 | Di | Categoria: Cultura e società

 

Guy Debord fa 60

 

Il presente articolo, Guy Debord fa 60, è stato originariamente pubblicato in «Filmcritica» n° 696/697, sett.- ott. 2019. Viene qui riproposto per gentile concessione del suo autore, Sergio Arecco.

«Notre vie est un voyage / Dans l’hiver et dans la nuit. / Nous cherchons notre passage…» sono versi scritti nel 1812 durante la campagna di Russia da un ufficiale napoleonico, lo svizzero-tedesco Thomas Legler. E sono parsi talmente appropriati a Céline, alla sua idea di vita = viaggio stravolto nel mezzo delle tenebre, da essere stati promossi a esergo per il Voyage au bout de la nuit.

Così come paiono talmente appropriati a Guy Debord (1931-1994) da essere citati dal medesimo, tramite la sua voce over, in una delle sequenze iniziali di Passage de quelques personnes à travers une assez courte unité de temps (1959, b/n, 19’). Forse proprio per la coincidenza della parola passage. Laddove, secondo la teoresi debordiana del détournement, dello straniamento o svisamento o spiazzamento dissociativo tra parola e immagine nella narrazione cinematografica, nulla dovrebbe corrispondere. Nessuna sovrapposizione analogica, o nessun accostamento illustrativo, dovrebbero secondo lui sopravvivere, stante l’istituzionale schizofrenia tra le due componenti della narrazione stessa, tra il valore intrinseco della parola già di per sé narrante e lo ‘spettacolo’ estrinseco del cinema-illusione tradizionale.

In Passage de quelques personnes, le personnes in questione alle quali Debord associa – dissociando – il proprio dire, preso a prestito dai versi di Legler immortalati da Céline, sono i colporteur di carrelli ancora vuoti nel traffico mattutino delle Halles: coloro che, in un animatissimo carosello di trasporti a mano o meccanici, stanno allestendo il grande mercato in tempo per l’apertura. Si tratta di uno ‘spettacolo’ del quotidiano visualizzato dal regista – qui al suo primo corto, dopo il lungo Hurlement en faveur de Sade (1952, 75’) – per lunghissimi secondi. Fino a che la luce dell’alba presente nel segmento esposto in prima battuta si ottenebra, e si offre ai nostri occhi un secondo segmento: quello dello ‘spettacolo’ delle Halles notturne, ingombre degli identici carrelli ora accatastati, addossati a pareti o riposti in appositi magazzini. Nessuna ‘voce’ discorde o dissonante a segnare la separazione (Critique de la séparation sarà il secondo corto di Debord, elaborato nel 1960-1961 con eguali intendimenti anti-filmici) tra oralità e visione?

In teoria, sì. Nella citazione dei versi di Regler ripresi da Céline, Debord ha omesso (volutamente) l’ultimo della quartina regleriana, destinato a rimare con il nuit del verso precedente: «Dans le ciel où rien ne luit», ovvero «Nel cielo ove nulla risplende», ovvero nel buio. Perché in teoria? Perché, in pratica, la buia notte delle Halles viene in realtà proposta al nostro sguardo come se il suo ‘spettacolo’ sottintendesse proprio il verso fintamente dimenticato. In realtà, con le panoramiche delle Halles, Debord non mostra affatto di contraddire, o di voler contraddire – come se il détournement fosse autentico détournement solo esprimendo il contrario di se stesso – i principi di dissoluzione del narrante dal narrato, dei materiali di repertorio – gli stereotipi desunti da cinegiornali, documentari o magari da riprese standard di Parigi – dalle voci (in Passage de quelques personnes sono tre, una seconda maschile alternata e dialogante con quella di Debord e una femminile) che dovrebbero straniarle o neutralizzarle, indifferenziarle o svalorizzarle. Annichilendo il tutto nel gran magma dello ‘spettacolo’ del sociale, luogo dell’inganno e della falsa coscienza – per non parlare dei lunghissimi secondi di schermo bianco in funzione ulteriormente negatrice, demolitrice.

Abbiamo scritto dovrebbero. Perché anche gli altri inserti, antecedenti e susseguenti a quelli delle Halles, tradiscono a nostro avviso non una critique ma una acritique della separazione. Se, infatti, una delle tre voci, la voce di Debord, apre il film dichiarando «Questo quartiere [Saint-Germain-des-Prés] era fatto per la dignità infelice della piccola borghesia e per il turismo intellettuale», ecco che sfilano, in un carrello esteticamente bellissimo, gruppi di giovani d’oggi, anticonformisti e scapigliati, poco dopo puntualmente ripresi ai tavolini di Les Deux Magots, davanti a bicchieri di vino, intenti a chiacchierare certo della «coscienza infelice» di Hegel ma comunque e soprattutto a chiacchierare tout court (si vede pure, durante una serie di ritratti più o meno fissi, Debord ventisettenne). E, a seguire, per ‘commentare’ – anche se è un delitto pronunciare un verbo del genere nel contesto situazionista della performance cinematografico debordiana – la discrepanza del gruppo di sradicati, «sempre ai margini dell’economia del consumo, disillusi dell’avvenire, isolati nel rifiuto del tempo e dell’invecchiamento, liberi sì ma in un circuito chiuso, e in ogni caso riconsegnati dalla forza delle cose agli istituti dell’arbitrio e della sorveglianza totalizzante», ecco che sfilano eloquentissime immagini d’archivio, ora in campo lungo, riprese dall’alto. Relative, in primo luogo, a scontri tra operai giapponesi e polizia; in secondo luogo, a cariche di dimostranti a opera di poliziotti inglesi a cavallo; in terzo luogo, a sommosse di coloni algerini represse da colonne di paracadutisti francesi; in quarto luogo, alla dispersione di altri rivoltosi giapponesi con lanci di lacrimogeni in dotazione alle truppe speciali, provviste di maschere antigas.

È vero che la seconda voce osa affermare che «un eventuale film d’arte sulla nostra generazione, intesa a sottrarsi ai condizionamenti, a cercare un uso diverso del paesaggio urbano, a cogliere l’atmosfera di luoghi ispirati ai poteri futuri di un’architettura ancora sconosciuta, sarebbe soltanto un film sull’assenza delle sue opere». Ma, quando si deve arrivare al dunque del «cinema da distruggere in quanto forma alienante della comunicazione», ecco che il «paesaggio urbano» mostrato è pur sempre quello dei passanti di boulevard Saint-Michel, di rue des Écoles e della Montagne-Sainte-Genevièvedi place des Victoires, o degli stazionanti all’ingresso del Musée de Cluny e delle vecchie case storiche del centro di Parigi. Ed ecco che la conflittualità, teoricamente spiazzante, tra il visibile della violenza politica quotidiana e il visibile del ‘quieto vivere’, pare risolversi in una relazione di causa-effetto, o di effetto-causa, piuttosto che in una neutralizzazione del visibile oggi dominante, o in una deliberata attuazione dell’invisibilità.

I tanti secondi di schermo bianco, sempre più prolungati, alla fine lunghissimi, i quali, a partire dal decimo minuto di Passages de quelques personnes e con l’incisione di ben nove cesure, o enjambement, intervallano sadicamente il visibile in nome dell’invisibile, finiscono in buona sostanza – per effetto delle voci a essi sovrapposte, voci che in fondo li giustificano quali espedienti, ‘diversamente’ concepiti, del presunto non-racconto per immagini – per far parte anch’essi del gioco, sia pure al massacro: demistificatorio quanto si vuole e nondimeno manipolatorio (si veda l’inserto pubblicitario con la starlette di Monsavon). Tanto che, nell’ultima sequenza ‘recitata’, prima dello schermo bianco finale, Debord gioca, come tanti altri registi ortodossi e allineati, a rivelare i ciak, il lavoro della troupe, la mdp che riprende il gruppo di giovani situazionisti a Les Deux Magots.

Così come, nell’incipit sonoro di accompagnamento ai titoli di testa su fondo nero, Debord ha reso omaggio a se stesso riproponendo un frammento di audio registrato dei dibattiti della Terza Conferenza dell’Internazionale Situazionista a Monaco (17-20 aprile 1959). Passage de quelques personnes viene girato a Parigi in quello stesso aprile. I due eventi coincidono. Reciprocità della teoria e della pratica? Troppo facile. Forse Debord riesce alla perfezione proprio là dove smentisce creativamente se stesso e la logica alogica del détournement, della distonia. Da grande romantico refoulé quale è stato, come il messianico Gérard de Nerval, suicida come lui oltre un secolo prima, consumato come lui dallo struggimento per una sintonia già, al tempo, soffocata. «Il messianismo è la condizione trascendentale che Debord condivide con il Godard di Histoire(s) du cinema, progetto che tuttavia il nostro anticipa di trent’anni», fa notare Giorgio Agamben nella conferenza dedicata a Debord nel novembre 1995 a Ginevra, città natale di Godard.

https://www.archeologiafilosofica.it/guy-debord-fa-60/

Lascia un commento