12 Marzo 1977: l’ultima insurrezione
mar 9th, 2021 | Di Thomas Munzner | Categoria: Documenti storici
12 Marzo 1977: l’ultima insurrezione
La questione non è quella di
lottare per il comunismo.
Quello che è importante è che il
comunismo si viva nella lotta stessa»
Comitato Invisibile, Adesso
Il 12 marzo del 1977 può essere considerata, a buon diritto, l’ultima giornata insurrezionale della storia italiana. La scelta cade su quella data romana e non, ad esempio, sulle giornate genovesi del luglio 2001, in quanto, a differenza del movimento antiliberista di fine secolo, la sommossa del ’77 proveniva da un movimento che non si era posto l’obiettivo di governare l’economia e la modernità, magari con una decrescita e una migliore distribuzione delle risorse, ma, al contrario, di uscire dalla politica, dalla città, dal lavoro e dal capitalismo stesso.
Quel 12 marzo di quarant’anni fa centomila persone si erano date appuntamento a Piazza Esedra (negli anni successivi rinominata Piazza della Repubblica), per dichiarare con i propri corpi – e, se necessario, con la violenza di quei corpi – la loro fame di comunismo, il loro rifiuto di vendere sé stessi, il loro futuro e il loro mondo ad un destino di ubbidienza e miseria, spirituale e materiale. La manifestazione aveva queste profonde motivazioni, a cui si aggiungeva il bruciante desiderio di vendetta per l’omicidio, avvenuto il giorno prima, di Francesco Lorusso, ventiquattrenne compagno di Lotta Continua, ucciso a freddo da un carabiniere in una Bologna militarizzata e assediata dalle forze armate di Francesco Cossiga, l’allora Ministro degli Interni.
In quella piovosa giornata di marzo a Roma si pensava alla vendetta, alla rivoluzione e alla gioia, per nulla ad un governo, ad una politica o ad un’economia. Si aveva la consapevolezza di essere esclusi dai nuovi processi produttivi, già interessati da una massiccia automazione, e per questo si trovava il coraggio di mettere il proprio corpo in gioco, di rifiutare il lavoro, la centralità operaia, il socialismo, e vendere cara la pelle ai cosiddetti ‘padroni’.
In quel freddo e piovoso pomeriggio ben centomila persone si trovarono radunate a Piazza Esedra. Era una manifestazione nazionale, e in quel punto della città, vicino alla Stazione Termini, erano confluiti compagne e compagni romani, delle periferie e da tutta Italia, giungendo all’appuntamento in autobus, in treno, in autostop, in gruppo.
Una fotografia di Tano D’Amico, divenuta presto l’effigie di quella giornata, ritrae i compagni in fila davanti all’ingresso di Via Nazionale. Consapevoli che le macchine fotografiche e le cineprese della polizia politica (DIGOS) li stavano inquadrando, si mettono provocatoriamente in posa, testa reclinata su di un lato, piede destro incrociato davanti a quello sinistro, come novelli Charlie Chaplin. Se teatro doveva essere, che fosse almeno di qualità.
Nell’intenzione dei compagni il corteo avrebbe dovuto percorrere via Nazionale, e da lì, attraverso via Quattro Novembre, giungere a Piazza Venezia, proprio in prossimità di Via del Corso, dove si trovava la meta nominale della manifestazione, ovvero il Parlamento e Palazzo Chigi, in una parola il Palazzo d’Inverno. L’ingresso di Via Nazionale però era bloccato da un fittissimo schieramento di Celere e Carabinieri, con tanto di blindati a chiudere ogni possibilità d’ingresso. Archiviata la percorribilità di quell’itinerario, i compagni optarono per l’alternativa costituita da Via Cavour, lasciata completamente libera al corteo, probabilmente per tacito consenso della Questura. Le masse dei compagni e i vari servizi d’ordine si mossero allora lungo una Via Cavour stranamente deserta. Le saracinesche dei negozi serrate, le strade laterali prive di automobili, il cielo plumbeo, la pioggia, tutto rendeva il paesaggio urbano estraniante e affascinante allo stesso tempo. Fra le file del corteo cominciarono a comparire le pistole, che negli anni Settanta i compagni mostravano spesso nelle manifestazioni, per dissuadere fascisti e polizia dalla loro violenza abituale e istituzionale.
Quei corpi, che con rapidità si muovevano nel centro storico romano, abitavano il territorio e conoscevano il proprio mondo. In quella giornata di marzo erano convenuti nel centro di Roma ragazzi e ragazze delle periferie e non solo (anche se è riduttivo, oltre che falsante, parlare di periferia e centro per il movimento del ’77). Proprio fra Via Nazionale e Via Cavour si apre, come si apriva allora, il Rione Monti, oggi misera landa ‘gentrificata’, preda notturna di movida e di capitalizzazione immobiliare, terra di caccia per bed & breakfast, birrerie, negozi di chincaglierie per turisti o di abiti griffati per benestanti. Al contrario di oggi, il quartiere aveva allora una natura profondamente popolare. Pullulava di ragazzini, giovani e famiglie di operai, muratori, impiegati, disoccupati. In questa porzione di città gli edifici risalivano per lo più al XVIII e XIX secolo, periodo nel quale, sulle vestigie dell’antica Subura – il quartiere popolare che già in epoca antica era separato da un possente muro di recinzione dal lusso del Foro di Augusto – era stata edificata un’area urbana ad alta densità abitativa.
Alti edifici condominiali s’allineavano sugli stretti vicoli del quartiere, destinato nei piani urbanistici post-unitari ad ospitare l’immigrazione massiccia successiva alla presa di Porta Pia, prima, e quella di epoca fascista e mussoliniana poi. In questo quartiere, come in quello limitrofo del Viminale, o quello altrettanto confinante dell’Esquilino, la popolazione era composta essenzialmente da figli e nipoti di quelle ondate migratorie. Donne la mattina affollavano i mercati rionali, soprattutto quello di Piazza Vittorio, identico per composizione sociale e umana a quello descritto da Carlo Emilio Gadda in Quer pasticciaccio brutto di Via Merulana. Folle di ragazzini frequentavano le scuole del quartiere, mentre sui davanzali delle finestre le foglie di basilico riflettevano la luce del sole, attirato dal bianco delle lenzuola stese ad asciugare. Quella porzione di città, come d’altra parte l’intero centro storico romano, era a forte connotazione proletaria, con un’estrazione sociale simile a quella che caratterizzava periferie come San Basilio, Pietralata, Centocelle, Mandrione, Quadraro, Primavalle ecc.
Per questa appartenenza ad un mondo, piuttosto che ad una società, ad una comunità piuttosto che ad una classe, la gente di quei quartieri conservava nei sottoscala dei palazzi bottiglie ormai vuote di birra o di acqua minerale, o ancora quelle, altrettanto vuote, utilizzate per la passata di pomodoro fatta in casa, eredità dei forti legami che quel mondo manteneva con il sostrato contadino di provenienza. Quelle bottiglie erano utili per confezionare, in caso di bisogno, bombe molotov, e in quei giorni nessuno fra i residenti pensava di denunciare la presenza di queste armi potenziali alla polizia. Nessuno si faceva delatore di sé stesso.
Questo significava abitare il quartiere, questo vivere il proprio mondo. E sempre in quegli androni scuri, appena illuminati dalle fioche lampade appese al soffitto, o dalla luce tremolante di candele accese davanti a piccole immagini della Madonna, trovavano riparo i ragazzi e le ragazze inseguite quel pomeriggio da Polizia e Carabinieri, accolte da anziani che aprivano loro il portone, quegli stessi anziani che avevano assistito al passaggio su Via dei Fori Imperiali delle camice nere prima, quello delle croci uncinate della Wehrmacht in ritirata poi, e infine quello delle bandiere a stelle e strisce del generale Mark Clark, all’indomani del 4 giugno 1944. Quei ragazzi e quelle ragazze erano accolti da quella gente da sempre refrattaria ad ogni divisa, in quei sottoscala dove trent’anni prima avevano ricevuto rifugio ebrei, partigiani o semplici soldati sbandati dopo l’8 settembre ’43, durante i freddi anni dell’occupazione nazista di Roma città aperta. Roma, città così prossima al potere, così intessuta di potere, e tuttavia da sempre refrattaria ad ogni potere.
Quei corpi erano figli di operai, l’ultimo soggetto del Novecento, e nipoti di contadini, la soggettività più antica, ancestrale e resistente: quel ceto che neanche il fascismo era riuscito a piegare. A questa impresa epocale, tuttavia, si era dedicata la società di consumi negli anni ’60, e in quel pomeriggio di Marzo del ’77 già si era compiuta la grande trasformazione forzata dell’Italia contadina in quella consumistica e industriale, quella della società dello spettacolo. Già si era consumata la distruzione del quel mondo atavico osservato con lucidità da Pier Paolo Pasolini o da Ernesto De Martino. È in questa consapevolezza di non-appartenenza, esclusi dal processo produttivo capitalistico industriale e decisi a non rimpiangere nulla di questa esclusione, sradicati ormai per sempre dalla terra e dal mondo contadino, orfani ormai di padri e di nonni: è in questa esclusione, trasformata in libertà, che questi corpi si ritrovarono allora insieme, decisi a vendere a caro prezzo la loro inappartenenza, il loro essere scarto, la loro eccedenza rispetto ai binomi tanatopolitici di democrazia e capitalismo, economia e stato.
Il “Pagherete tutto, pagherete caro”, o il “Ci riprendiamo tutto” non erano solo slogan di vendetta, che in quel pomeriggio romano echeggiavano fra i palazzi di Via Cavour, Piazza del Gesù e Piazza del Popolo. Quel grido rivendicava la potenza vendicativa di fronte al compagno morto il giorno prima, di fronte alle centinaia di morti ammazzati nei giorni e negli anni precedenti, per le stragi di stato, per la polizia o per i fascisti di stato. Erano soprattutto parole di libertà: la responsabilità di decidere un rifiuto, quello del lavoro salariato, del denaro, della legge dell’equivalente, financo della cultura paludata, dello scientismo, del progresso, in una parola della ‘vita di merda’ del capitalismo, dentro e fuori la Cortina di Ferro, e quindi la libertà di scegliersi una vita diversa, dove è giusto e a portata di mano “Riprendersi la luna, la pace e l’abbondanza”, come recitava una canzone di Claudio Lolli.
Nel tardo pomeriggio di quel piovoso 12 Marzo il lungo corteo di compagni si ritrovò a Piazza Venezia, sfilando fra le silenti rovine di Via dei Fori Imperiali. Giunto al lato della piazza, laddove si apre Via del Corso, il viale che conduce ai palazzi del potere, Palazzo Madama e Palazzo Chigi, si trovò di fronte uno schieramento imponente di Polizia e Carabinieri, una massa di uomini in assetto da guerra e con ordini precisi: non consentire l’ingresso a nessuno e piena libertà nell’uso delle armi.
Di fronte allo stato di eccezione, alla trasformazione dei loro corpi in homines sacri, per dirla con Agamben, quella massa di insorgenti si trovò di fronte ad un bivio. Si trovò a decidere l’impossibile: da una parte l’assalto al Palazzo d’Inverno, con la decisione di trasformare l’insurrezione in guerra civile, nell’inseguimento del vuoto che ogni palazzo del potere ha in sé, dall’altra l’assalto al cielo, ovvero la proliferazione dell’insurrezione nei rami più nascosti della società, fra le donne, fra i baraccati, fra gli emigrati ecc. Proliferazione che quel pomeriggio significò la dispersione nei vicoli dei quartieri popolari del centro, onde evitare arresti e rastrellamenti, che pur si verificarono quella sera, con l’incendio di centinaia di bombe molotov, il saccheggio di armerie e l’erezione di barricate. Nell’incertezza, il corteo si divise dapprima in due tronconi, e subito dopo, si ritrovò unito sul Lungotevere, raggiungendo così Piazza del Popolo. Avendo raggiunto la tensione estrema dell’insurrezione, o forse avendone accarezzato la vertigine, i compagni decisero di disperdersi. Decisero di affidarsi al proprio mondo, di ritrovarsi ‘zingari felici’ fuori dal tiro dei carri armati. Quel pomeriggio di quarantatré anni fa, forse, si sfiorò la rivoluzione, o forse solo un bagno di sangue.
Marcello Tarì ha scritto recentemente, sulle pagine di Qui e ora, che per insorgere ci vuole coraggio, e che questo coraggio manca apparentemente oggi nel nostro paese. È una grande verità. Perché ci vuole coraggio, soprattutto, per vedere la piccola vita che conduciamo in quanto appartenenti alla piccola borghesia universale, con i suoi piccoli compromessi, le sue piccole astuzie, le sue piccole speranze, le sue piccole illusioni, sempre identiche in ogni angolo del globo, rilanciate a reti unificate sugli schermi di cellulari e televisioni. Proprio l’Italia è stata il teatro di questa grande trasformazione: quella da un proletariato giovanile ad una piccola borghesia. È qui che questa metamorfosi ha trovato la sua massima espressione, divenendo ben presto un modello di ripristino reazionario e contro-insurrezionale in tutto il mondo occidentale. Per ribellarsi bisogna non poter più sopportare. È necessario soprattutto prendersi la responsabilità della propria libertà, un gesto che implica sempre il rifiuto del comando.
Osservare e ricordare quella giornata di marzo del ’77 significa allora guardare dentro di sé, osservare la rete di meschinità che ci lega al comando, lo spettacolo osceno di una società votata al nulla esistenziale, all’autodistruzione e all’ubbidienza, e pensare che l’insurrezione è sempre dietro l’angolo, laddove minore è la possibilità della sua insorgenza.
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