Traiettorie operaiste nel lungo ’68 italiano
mar 4th, 2021 | Di Thomas Munzner | Categoria: Recensioni
Traiettorie operaiste nel lungo ’68 italiano
di Marco Cerotto
Il libro «Traiettorie operaiste nel lungo ’68 italiano», dedicato per l’espressione della volontà unanime agli operai della Whirlpool di Napoli, è anzitutto il risultato di un lavoro teorico collettivo, nato dalle molteplici assonanze che uniscono il gruppo di ricerca napoletano e il Groupe de recherches matérialistes parigino, rispecchiante l’esito fruttuoso di un incontro seminaraiale svoltosi tra il 20 e il 21 dicembre 2018 presso il Dipartimento di Filosofia dell’Università di Napoli “Federico II”.
Questo testo si propone di rintracciare le influenze delle potenze assiologiche del neomarxismo italiano nella particolare soggettività di classe emergente nel cosiddetto «lungo decennio», orientandosi ad analizzare la complessità della produzione critica dell’operaismo italiano elaborata sin dai primi anni Sessanta, la quale approda alla lucida constatazione dell’affermazione di una figura potenzialmente rivoluzionaria negli sviluppi neocapitalistici, come l’operaio-massa, confrontandosi con il rapido susseguirsi dei differenti cicli di lotte operaie e con la formazione delle prime organizzazioni classiste dopo il biennio rosso del 1968-69.
Nella prima parte del testo «All’origine della Nuova Sinistra», e in particolare nel saggio che apre il libro «Il dibattito sull’autonomia nel Partito socialista italiano», Mariamargherita Scotti mette in evidenza come i germi della «Nuova Sinistra» siano presenti principalmente nel Psi, probabilmente per la peculiare tradizione politico-culturale di questo partito, che nei meriti e nei limiti lo differenziava notevolmente dal Partito comunista. «Autonomia» è il concetto che viene recuperato per spiegare l’esistenza di questo filone «critico» collocato preminentemente nel Psi, all’interno del quale figure politiche come Gianni Bosio e Raniero Panzieri vengono elevate a precursori teorici del marxismo critico.
Se il primo è interessato a valorizzare la tradizione marginale del movimento operaio, come quella concernente gli anarchici, i socialisti di sinistra e le masse contadine meridionali, oscurata dalla dominante letteratura comunista, il secondo è invece assillato dalla ricerca teorica e politica delle principali cause che determinarono la crisi del movimento operaio durante la metà degli anni Cinquanta. La sua battaglia iniziale, dopo l’esperienza siciliana, è orientata infatti al recupero di un’efficace azione culturale volta ad imprimere un significativo apporto all’azione politica, soprattutto in quegli anni di embrionale mutamento della società italiana. La logica terzinternazionalista, ossia la «presunzione di guidare politicamente l’attività culturale dei singoli o dei gruppi» dall’esterno, come scriveva Panzieri, provocava una «grave deformazione dell’azione socialista anche sul piano propriamente politico»[1], contribuendo ad esasperare ulteriormente l’impasse politico del movimento operaio durante gli anni Cinquanta. Eppure, come giustamente sottolinea Scotti, tra Panzieri e i marxisti critici emergeranno diffidenze e contrasti intorno alla stessa concezione del partito, perché se ad accomunarli vi era il rifiuto della visione del partito-guida e la propensione verso la concezione del partito-strumento, che Panzieri aveva mutuato da Rodolfo Morandi, li divideva la funzione specifica da assegnare all’organizzazione. Tuttavia, non definirei «ambigua» (p. 45) l’idea panzieriana del partito, che da una parte coordina il lavoro culturale fornendo gli strumenti idonei per la ricerca teorica senza orientare e influenzare i risultati politici e da un’altra si pone come mediatore nelle fasi storicamente determinate; piuttosto, vi scorgerei una determinata coerenza teorico-politica emergente nella innovativa concezione maturata dal militante socialista prima ancora del «trauma del ‘56». Infatti, la vocazione di Panzieri verso le istanze del consiliarismo lo conduce alla necessità di instaurare autentici momenti di democrazia diretta in ogni singolo aspetto dell’azione del movimento operaio, sia nella sfera interposta tra gli intellettuali e il partito che in quella tra la classe e l’organizzazione, affinché si concretizzassero positivamente le manifestazioni di democrazia socialista, cioè di una democrazia sostanziale, all’interno delle strutture di produzione.
A proposito di Panzieri, il saggio di Alessandro Arienzo offre una lettura decisamente interessante dell’attività teorico-politica del militante socialista, interrogandosi principalmente sulla centralità che occupa la «rivoluzione epistemologica» (p. 57) attuata nel 1958, quando pubblicò sulla rivista del Psi «Mondo Operaio» le Sette tesi sulla questione del controllo operaio insieme al compagno Lucio Libertini. Per mancanza di spazio, comprensibilmente, Arienzo si concentra sull’elaborazione panzieriana della democrazia operaia e sulle analisi teoriche del neocapitalismo, le quali connotano stricto sensu la nascita della fiorente stagione dell’operaismo italiano. Inoltre, risulta fondamentale rimarcare, come d’altronde anticipa coerentemente il titolo del saggio, il rapporto dialettico che Arienzo imposta tra lo sviluppo del pensiero politico panzieriano – la democrazia socialista – e la lettura della fabbrica neocapitalistica; in particolare quest’ultima contribuirà alla demistificazione delle cosiddette ideologie «oggettivistiche»[2] del movimento operaio. Il merito principale di Arienzo è quello di comprendere in un unico discorso la critica panzieriana appartenente al primo periodo dei «Quaderni rossi» e quella successiva, dell’ultimo Panzieri, nella quale emersero manifestamente le divergenze teoriche con la rivoluzione copernicana di Mario Tronti. Dalla concezione della tecnologica incorporata al processo produttivo all’analisi sulla pianificazione capitalistica, Arienzo fornisce una lettura decisamente innovativa dell’elaborazione critica di Raniero Panzieri sul neocapitalismo, studiato e analizzato proficuamente da quella che risulta essere la prima esperienza teorico-politica del neomarxismo italiano dei primi anni Sessanta. Egli pone essenzialmente due questioni fondamentali e soprattutto mai definitivamente risolte, sia durante il percorso teorico dei «Quaderni», sia nella successiva produzione critica dell’operaismo italiano, ossia la tensione riprodotta tra capitale e lavoro salariato negli sviluppi neocapitalistici, la quale parrebbe non presentarsi più nella classica formula marxiana del piano nella fabbrica-anarchia nella società. Strettamente connessa risulta la riattualizzazione della lezione marxiana sugli sviluppi dei processi capitalistici e sulla conseguente finanziarizzazione, che fagociterebbe interamente l’organizzazione dei processi produttivi.
In un testo di questo spessore non poteva ovviamente mancare un saggio che ripercorresse il grande contributo critico di Franco Fortini, l’intellettuale marxista probabilmente più impegnato nella battaglia culturale sin dai primi anni Cinquanta. La critica fortiniana si differenziava notevolmente da quella sensibilmente liberale elaborata dai primi anni de Il Politecnico. Certamente, non fu un caso, come specifica Giovanni La Guardia, che lungo il percorso della faticosa battaglia intrapresa dai marxisti critici contro l’oscurantismo di impronta zdanoviana Fortini incontrasse Raniero Panzieri. Se nel saggio precedente, come abbiamo notato, Arienzo si concentra sugli anni operaisti dell’intellettuale socialista, non dobbiamo trascurare l’importanza che assume la lotta politico-culturale condotta strenuamente all’interno delle organizzazioni storiche del movimento operaio durante la metà degli anni Cinquanta, prima ancora dell’exploit della crisi storica del biennio 1955-56. Sensibile alla lezione morandiana della democrazia diretta, Panzieri è un convinto sostenitore della visione del partito come uno strumento atto a soddisfare le esigenze dirette della classe operaia: tale dissonanza culturale nell’ambiente marxista di quegli anni lo condurrà ad intraprendere un’autentica battaglia per il rinnovamento della dialettica cultura-politica e intellettuali-partito, in qualità del suo ruolo di responsabile della Sezione centrale Stampa e Propaganda del Psi, assunto nel 1955. Tuttavia, bisogna aggiungere che la concezione che accomunava Fortini e il cosiddetto gruppo dei «milanesi» con Panzieri, ovvero il rifiuto della visione terzinternazionalista di guidare dall’esterno il soggetto trasformante provocandone uno svilimento e una oggettivazione dello stesso, di benjaminiana memoria, risultò inefficace per avviare quella trasformazione decisiva della cultura marxista italiana, che in quegli anni era impegnata ad affrontare la crisi dello stalinismo con inusitata difficoltà. In definitiva, la critica panzieriana può essere considerata propedeutica a concreti sbocchi politici, differenziandosi, o comunque superando quella di natura intellettuale e meramente accademica dei «milanesi» e degli altri intellettuali di sinistra[3].
La seconda parte del libro «Traiettorie operaiste» si apre con il contributo di Michele Filippini, «Nuova Sinistra e operaismo: le origini intellettuali del Sessantotto italiano», il quale assume un’importanza straordinaria per la comprensione dell’enorme influenza teorica che l’operaismo determinò nel lungo decennio italiano. A tal proposito, si comprende nell’operazione attuata dall’autore la volontà di rintracciare nelle prime esplosioni operaie degli anni Sessanta la genesi e lo sviluppo della nuova stagione operaista, sia rimarcando l’eco di Genova ’60, sia di piazza Statuto ’62, ma soprattutto enfatizzando le date storiche della crisi del movimento operaio, quali il nostro indimenticabile ’55 alla Fiat e il ciclone del ’56 proveniente dall’Unione Sovietica. Filippini riconosce in Panzieri «la figura più importante di quest’area eretica e radicale» (p. 94), individuandolo come un personaggio chiave per gli sviluppi del filone neomarxista in Italia, in quanto inserito nella politica del movimento operaio ufficiale da una parte, e precursore della stagione operaista e della «Nuova Sinistra» da un’altra. Ripercorrendo come Arienzo le tappe decisive del percorso panzieriano del post-’56, Filippini si sofferma sulla divergenza tra Panzieri e Tronti, asserendo che li aveva accomunati la concezione sulla nuova composizione di classe nell’Italia del benessere. Aggiungerei, inoltre, tra gli elementi di assonanza, la comune urgenza di proporre all’attenzione del dibattito marxista di quegli anni le ristrutturazioni avvenute nelle grandi fabbriche industriali, le quali necessitavano una lettura marxiana innovativa e in grado di cogliere le conseguenze sull’alienazione operaia indotta dall’uso capitalistico delle nuove macchine tecnologiche e soprattutto la potenzialità integrativa che assumeva la nuova organizzazione del processo produttivo nei confronti del lavoro vivo. Nell’ultima parte del saggio, Filippini assegna una funzione decisiva al sorgere delle numerose riviste di sinistra negli anni in cui il mondo appariva completamente in subbuglio: dalla resistenza del Vietnam alle prime rivolte statunitensi, dalla rivoluzione culturale cinese all’assassinio di Che Guevara. Ma è lo stesso autore del saggio a sottolineare la «specificità italiana» (p. 102), la quale contribuisce a contraddistinguere, dal punto di vista teorico e politico, il decennio di lotte sociali del nostro paese dal resto dell’Occidente capitalistico. Si tratta della ricerca di una nuova soggettività di classe che impegnò i principali intellettuali-militanti del neomarxismo italiano, i quali colsero prontamente l’affermazione dell’operaio-massa durante la trasformazione della grande fabbrica tra la fine degli anni Cinquanta e gli inizi dei Sessanta, e successivamente osservarono, Negri in primis, l’evoluzione del soggettivismo operaio e il consolidamento di una figura completamente nuova negli sviluppi capitalistici, vale a dire l’operaio-sociale, inducendo gli ultimi operaisti a compiere definitivamente quella scelta che ha provocato rotture e crisi durante l’intero excursus operaista: la fondazione di una formazione strettamente politica come «Potere Operaio».
Il contributo di Irene Viparelli, che verte sul confronto critico-dialettico tra Mario Tronti e Toni Negri, occupa uno spazio decisivo per gli sviluppi teorico-politici dell’operaismo italiano tout court. La specificità italiana che richiamavamo poco sopra viene espressa chiaramente dallo stesso Negri, come riporta accuratamente Viparelli, il quale scrive che la «differenza italiana» consiste nella scoperta teoretica trontiana che affida al «lavoro vivo» una «soggettività» rivoluzionaria (p. 109). Dopo l’esperienza di «Classe operaia» e la manovra del rientrismo di massa nel Pci attuata da Tronti, l’intellettuale veneto proseguirà il percorso operaista sulle orme delle potenze assiologiche che lo studio trontiano aveva sancito sin dall’ultimo periodo dei «Quaderni rossi» col principio della rivoluzione copernicana. Negri giunge alla lucida constatazione che i recenti sviluppi capitalistici hanno trasformato la sfera politica in una moderna ed efficace «forza economica» (p. 113), la quale interviene nelle diverse fasi per stabilizzare e valorizzare il processo del capitale. Ciò che lo distingue dal filosofo romano è il ragionamento per cui l’affermazione della nuova soggettività operaia provocasse una situazione di «crisi» (p. 114) nella dinamica dello scontro tra il capitale e il lavoro salariato, differenziandosi dall’assunto trontiano che coglieva, invece, una risposta dell’organizzazione capitalistica tendente allo sviluppo, e quindi allo stabilizzarsi del processo capitalistico; mentre per Negri la politicizzazione del capitale ha generato, conseguentemente, la «piena autonomizzazione costituente del soggetto antagonista», scrive splendidamente Viparelli (p. 115). L’analisi che Viparelli conduce sui diversi momenti concernenti la tattica e la strategia mette in risalto le ulteriori dissonanze teorico-politiche che oramai separano due figure così diverse dell’operaismo italiano, giungendo a constatare come per Tronti risulti ancora decisiva la mediazione del partito (e quindi il recupero del momento dialettico) con il rifiuto soggettivista per avviare definitivamente il «processo rivoluzionario» (p. 117). Negri, invece, sostiene che il «rifiuto operaio» si configura essenzialmente come «rifiuto politico», ossia diretto e «cosciente» (p. 118), aggiunge Viparelli, che definisce la capacità della classe operaia di assumere una funzione totalmente antagonista, escludendo l’intervento esterno del partito. Infine, più che sulla parte conclusiva del saggio, la quale si orienta sul distinguo teorico tra i due intellettuali considerati, ossia tra la dialetticità e l’ontologizzazione del soggetto, vorrei dare particolare attenzione ad un aspetto che viene giustamente enfatizzato nelle prime pagine del saggio in questione, poiché credo fermamente che vada discusso costruttivamente. Quando Viparelli scrive che Negri «critica l’incapacità trontiana di riconoscere le conseguenze teorico-politiche delle premesse da lui stesso poste» (p. 110), riprende – consciamente o meno – la medesima discussione, che poi si tramutò in rottura, tra Panzieri e Tronti dopo la rivolta del 1962 di piazza Statuto. Anche i critici panzieriani, successivamente, hanno individuato nell’intellettuale socialista la stessa «incapacità» di sviluppare politicamente le scoperte teoriche condotte con i «Quaderni rossi», dal momento che rifiutava l’intervento diretto nelle lotte operaie con una formazione autonoma, come spingevano sia i «romani» che i «selvaggi». Ovviamente, non è possibile approfondire dettagliatamente in questa sede le diverse interpretazioni che prima Panzieri, poi Tronti e infine Negri hanno elaborato nelle fasi storicamente determinate, laddove emergeva una soggettività operaia diversa dai precedenti storici. Tuttavia, possiamo liberamente avviare una questione che richiederebbe un’ulteriore discussione collettiva, come magnificamente questo testo già propone. Fino al 1962-63 Panzieri puntava sul rinnovamento del sindacato di classe, da attuarsi attraverso l’affermazione di una «avanguardia interna» che, esprimendo manifestamente il rifiuto al lavoro oggettivato, avrebbe avviato una pianificazione realmente anticapitalistica di lotte operaie dirette al fulcro del potere padronale; dopo piazza Statuto, invece, Tronti si orientava verso l’intervento diretto nei cicli di lotte operaie con la costruzione del partito rivoluzionario, ma con la prima affermazione dei prodromi sessantottini ripiegava sulla manovra entrista. Infine, Negri approfondisce il discorso teorico trontiano per approdare alla concezione dell’operaio-sociale e alla necessaria fondazione di una formazione classista da scagliare «contro» e «fuori» le organizzazioni ufficiali del movimento operaio. Quale potrebbe essere il filo rosso che congiunge le diverse soluzioni inerenti la questione dell’organizzazione nei tre intellettuali dell’operaismo?
In un testo che si propone di rintracciare le origini culturali e politiche del Sessantotto italiano non potrebbe mancare un’analisi specifica orientata alla metodologia conricercante, diffusasi enormemente con la stagione operaista. Scriviamo “diffusa” e non “inaugurata” perché, come chiarisce lo stesso autore del saggio Andrea Cavazzini, questo particolare modus operandi appartiene a quelle componenti intellettuali del movimento operaio che furono situate ai margini del dibattito teorico dal clima controriformista del dopoguerra: si tratta di quelle «rare e solitarie figure» di intellettuali d’avanguardia impegnati nella prospettiva di un marxismo critico non staccato dalla tradizione socialista[4]. Come ricorda Cavazzini, uno dei protagonisti dell’esperienza operaista italiana, Raniero Panzieri, fu particolarmente sensibile a siffatta metodologia, nella misura in cui vi scorgeva un’innovazione teorica propedeutica alla scoperta di dati concreti, i quali avrebbero influito necessariamente sulle azioni propriamente politiche. Fondamentale risultò l’incontro con Ernesto De Martino, che Cavazzini colloca a Bari nel 1946, quando Panzieri venne inviato alla federazione socialista affinché preparasse il congresso romano dell’anno successivo rafforzando la corrente di sinistra. L’enorme spessore culturale dell’antropologo De Martino concorse ad influenzare il giovane Panzieri sull’efficacia della metodologia conricercante, contribuente a reagire ad un marxismo «formale e citazionistico»[5], come scrive Stefano Merli. Tuttavia, se fu interesse di Panzieri condurre De Martino alla scoperta dei «sacri testi» poiché ancora troppo condizionato dal crocianesimo dominante dell’immediato dopoguerra, risulta diversa la situazione che il militante socialista affronterà a Torino dieci anni più tardi. Panzieri, infatti, oltre alla necessità di studiare la fabbrica tecnologica dell’Italia neocapitalista, fu decisamente attirato dalle inchieste operaie attuate dai giovani militanti socialisti della Camera del lavoro torinese sul finire degli anni Cinquanta. Cavazzini, a tal proposito, ricorda il ruolo attivo che occupò Romano Alquati, al quale viene conferita la paternità dell’inchiesta socialista. I «Quaderni rossi» erano molto sensibili all’inchiesta e alla conricerca operaia, soprattutto perché apparivano come una chiave di lettura «diretta e non mistificata dei comportamenti della classe, della sua mentalità, delle forme di pensiero e di azione attraverso i quali essa esprime il proprio antagonismo o la propria passività» (p. 128), scrive preziosamente l’autore del saggio. L’ultimo Panzieri, quello di Uso socialista dell’inchiesta operaia, esprime molto coerentemente l’efficacia di questa metodologia sull’analisi indagante la natura della nuova forza-lavoro degli anni Sessanta, collocandosi in posizione ostinata e contraria a Tronti e alla rivoluzione copernicana che lo aveva spinto a rompere con i Qr. Gli eventi di piazza Statuto concorrono all’evoluzione del pensiero politico panzieriano, che in un primo momento è convinto della necessità di un ciclo di lotte operaie per avviare la fase antagonista, ma successivamente è cosciente della capacità del sistema capitalistico di integrare i bisogni operai nei bisogni del capitale[6]. Determinate lotte operaie, dunque, risultano propedeutiche alla stabilizzazione della rivoluzione capitalistica e inducono a «mitizzare» la situazione generale della classe, come era capitato con Tronti. L’importanza dell’inchiesta, invece, aiuta a comprendere sociologicamente – e quindi scientificamente – i mutamenti avvenuti nella nuova classe operaia generata dagli sviluppi neocapitalistici, individuando le esigenze espresse dalla classe sia nel momento di maggior conflitto dualistico sia, e specialmente, nei periodi più statici, per analizzare infine il grado di maturità e di solidarietà della classe nell’opporre un coscienzioso rifiuto al sistema capitalistico[7], evitando formulazioni avalutative, ovvero ideologicamente condizionate dalla forte combattività operaia espressa in quegli anni e che avevano contribuito a fuorviare le conclusioni teoretiche dello studio trontiano.
Il saggio di Marco Grispigni, «Elogio dell’estremismo. Caratteristiche storiche dell’operaismo nel lungo ’68 italiano», apre la terza ed ultima parte del libro, intitolata «Operaismo e Movimenti», la quale affronta la riflessione sul rapporto teorico e politico tra l’operaismo e primi movimenti studenteschi. Come chiarisce sin dall’inizio l’autore del saggio, le tesi prodotte dall’ultimo operaismo influenzarono fortemente la composizione teorica e la strategia politica delle prime formazioni sessantottine, le quali intrapresero specifici e differenti percorsi dopo l’«Autunno caldo». Si trattava dell’assunto teorico elaborato da Negri che, approfondendo i recenti studi trontiani, era approdato alla concezione dell’operaio-sociale, la cui eredità viene esplicitamente rintracciata nell’esposizione delle «Tesi» della Sapienza di Pisa nel 1967, quando gli studenti si definirono «forza lavoro in formazione» (p. 134), come riporta Grispigni. Dopo aver sottolineato la critica trontiana al movimento studentesco, Grispigni ripercorre le vicende che hanno segnato la seconda esperienza del neomarxismo italiano, ossia la frattura emersa all’interno del gruppo redazionale «Classe operaia». La linea trontiana, sostenuta da Asor Rosa e Cacciari, volgeva l’attenzione alla necessità di aderire nuovamente al Partito comunista, tentando di evitare in tal modo di «consegnare il Pci all’operazione riformistica del capitale» (p. 139), come si espresse lo stesso Tronti. Il merito di Grispigni è quello di porre all’attenzione del dibattito teorico la delicata questione che ha influenzato e influito sulle scelte della galassia della sinistra extraparlamentare, ossia il tema dell’organizzazione, che l’autore del saggio riconduce giustamente alle principali formazioni protagoniste del biennio rosso 1968-69: Potere Operaio e Lotta Continua. Agli inizi degli anni Settanta, si afferma la diatriba sulla concezione della nuova organizzazione operaia, che Grispigni riassume nella formula «Leninismo vs spontaneismo» (p. 142), contribuendo ad approfondire la distanza teorico-politica tra Potop e Lc. Infine, l’autore del saggio si preoccupa di analizzare l’esplosione della violenza politica nei gruppi della sinistra movimentista degli anni Settanta, confutando quelle esposizioni teoriche che hanno tentato di rintracciare nella radicalizzazione del pensiero operaista i germi delle consuete pratiche d’azione delle formazioni extraparlamentari. Credo che il merito principale di questa riflessione risieda sicuramente nella questione sollevata da Grispigni concernente la tematica dell’organizzazione e le differenti modalità per svilupparla. L’autore del saggio si interroga non solo sul «che fare», ma soprattutto sul “come fare”, cercando di afferrare le discussioni principali che hanno concorso a lacerare «l’orda d’oro» dell’Italia degli anni Settanta, riflettendo coerentemente la necessità teorica che si impone nel dibattito contemporaneo, ruotante attorno alla riflessione che caratterizzò l’ultimo operaismo e il cosiddetto “post-operaismo”, che sviluppò – nei meriti e nei limiti – la fatidica questione dell’organizzazione e aprì una fase completamente nuova, nella quale le differenti soluzioni pratiche determinarono i successivi risvolti politici del lungo decennio italiano.
Strettamente connesso con la tematica che abbiamo analizzato nel saggio precedente, Marco Bazzan si concentra sui cicli dei seminari leninisti tenuti da Negri presso l’Istituto di dottrina dello Stato dell’Università di Padova nel biennio 1972-73, elaborando un contributo molto interessante e dal titolo «Un seminario leninista. Padova 1972-1973», che si propone di inquadrare coerentemente la problematica politica ed organizzativa della formazione operaia negli sviluppi neocapitalistici. Se Grispigni aveva sollevato intelligentemente la questione che ha maggiormente assillato il filone operaista, il «che fare» e il “come fare”, Bazzan si concentra giustamente sulle teorie negriane emerse nel corso dei seminari leninisti padovani, i quali si orientavano verso la costruzione di un’avanguardia operaia inserita nelle lotte sociali degli anni Settanta. L’autore del saggio mette in risalto gli sforzi teorici perseguiti in quegli anni dall’intellettuale veneto, i quali sono rivolti verso lo sviluppo di una tesi completamente dissonante rispetto a quella elaborata da Tronti concernente l’«autonomia del politico», concepita da Negri come «l’ultima manifestazione del riformismo socialdemocratico» (p. 158). Se le divergenze teoriche dell’ultimo operaismo riflettono le diverse scelte politiche attuate dai principali intellettuali-militanti di questo filone così fortemente eterogeneo, si comprende come la proposta negriana rilanciasse la formula del «potere operaio» e successivamente quella del «contropotere», rimarcando ipso facto la rottura con il gruppo entrista di «Classe operaia» ed enfatizzando l’idoneità delle ricerche teoriche elaborate lungo tutto il periodo operaista, le quali riscontravano nella fase storicamente determinata la necessità politica dello sviluppo di una formazione classista rivolta interamente contro la struttura del potere politico borghese. Infatti, Negri non si era limitato esclusivamente alla constatazione di una soggettività storicamente nuova, come appunto l’affermazione dell’operaio-sociale, bensì aveva indagato sulla trasformazione che aveva coinvolto la natura dello Stato borghese negli sviluppi neocapitalistici, appurando che l’evoluzione dell’organizzazione statuale fosse passata dal «garantismo al funzionalismo» (p.165), riflettendo in tal modo il «comando capitalistico sulla società intera» (Ibidem).
Infine, il saggio di Diego Melegari che chiude il libro, «Traiettorie operaiste nel lungo ’68 italiano», propone una riflessione piuttosto interessante sulla figura politica di Marco Melotti e sulla crisi che il mondo della sinistra extraparlamentare vive – tragicamente – sul finire degli anni Settanta. Melegari indaga su una tematica oltreché interessante soprattutto molto attuale, poiché pone all’attenzione del dibattito teorico la precisa evoluzione dei rapporti di produzione capitalistici degli anni Settanta e Ottanta, la cui fase nuova anticipa gli sviluppi politico-sociali della società contemporanea “tardo-capitalista”. Non è un caso, infatti, che viene recuperato Panzieri di Plusvalore e pianificazione, dal momento in cui si era realizzato un «salto tecnologico epocale» (p. 178), come riporta Melegari citando direttamente Melotti.
Una più attenta riflessione finale sui diversi saggi che compongono questo lavoro di ricerca teorica collettiva potrebbe essere posta anzitutto sulla figura di Raniero Panzieri, analizzata prima nel suo ruolo di dirigente culturale del Partito socialista e successivamente come teorico della democrazia operaia e fautore della stagione operaista italiana. Il contributo teorico e politico del militante socialista prematuramente scomparso viene recuperato dal primo all’ultimo saggio, dalla componente critica del marxismo teorico nel Psi, approfondita da Scotti, alla parabola della sinistra extraparlamentare dinanzi all’ascesa dirompente del “tardo-capitalismo”, messa in luce da Melegari nell’ultimo saggio su Melotti. Panzieri ha sicuramente il merito di aver avviato una discussione critica sul neocapitalismo e sulla nuova composizione di classe, tuttavia subisce l’impasse teorico-politica dopo la spaccatura dei «Quaderni rossi». Il successivo filone operaista, invece, si propone di approfondire i limiti emersi durante il periodo torinese, analizzando la centralità della classe operaia negli sviluppi neocapitalistici, come straordinariamente espose l’esperienza di «Classe operaia», ma soprattutto si orienta a sciogliere la delicata questione del «che fare» con l’immediata esplosione dei conflitti sociali anticipanti il «lungo decennio». Negri, chiaramente, non si limita a designare l’affermazione del nuovo soggetto rivoluzionario, l’operaio-sociale, ma approda a nuove e importanti scoperte scientifiche sull’evoluzione della forma-stato neocapitalistica, recuperando una discussione fondamentale per gli sviluppi politici del suo tempo.
Ad ogni modo, pur essendo il libro un «risultato parziale, non definitivo» (p. 9), come chiariscono i curatori nella «Prefazione», rappresenta comunque un importante contributo critico, volto ad una comprensione globale dell’evoluzione dei processi strutturali e sovrastrutturali che hanno contribuito a plasmare la società italiana sin dagli anni Sessanta. Il grande merito di questo «percorso collettivo» (Ibidem) in fieri è sicuramente quello di orientarsi verso uno studio impostato su un approccio multidisciplinare, propedeutico alla ricerca delle peculiarità che hanno definito questo anomalo filone politico-culturale della seconda metà del Novecento, il quale ha concorso a rivoluzionare il pensiero teorico marxiano e ad influenzare le scelte politiche del post-’68. Che si tratti di un filone eterogeneo, indistinguibile e a tratti contraddittorio è una certezza lapalissiana, ma tuttavia si impone la necessità teorica di approfondire ulteriormente il discorso, ampliandolo ad una prospettiva più vasta, che consideri le principali riflessioni teoriche prodotte dal neomarxismo delle «nazioni europee filosoficamente più significative»[8]. L’eredità culturale del neomarxismo risente delle riflessioni teoriche elaborate da quegli autori marginalizzati dall’internazionalismo comunista, come Lukács e Benjamin, ma anche degli stessi francofortesi, i quali ricoprono una funzione determinante per gli sviluppi teorici del neomarxismo italiano ed europeo.
Concludendo definitivamente, mi preme aggiungere l’importanza che rivesterebbe il confronto e il lavoro teorico collettivo per avviare uno studio seriamente improntato all’indagine delle principali novità teoriche e politiche che si proponevano di offrire una chiave di lettura critica e dialettica, non dogmatica, dei processi sociali nel contesto del neocapitalismo, soffermandosi soprattutto sulla cosiddetta “particolarità italiana”. La ricerca di una soggettività emergente ha infatti determinato la complessità delle elaborazioni delle teorie critiche neomarxiste e indotto i protagonisti delle lotte sociali, che anticipavano il lungo decennio, a concentrare l’attenzione sul soggettivismo costituente, particolarità che contraddistingue l’esperienza italiana da quella francese e tedesca[9]. La chiave di lettura «tesa ad interrogare il presente» (Ibidem), come scrivono Morra e Carlino, potrebbe emergere con un approfondimento della particolarità italiana, analizzando contemporaneamente la trasformazione del soggetto e la cristallizzazione della coscienza di classe negli sviluppi economici e sociali dei decenni precedenti.
Note
[1] R. Panzieri, L’attività del Psi per la libertà della cultura, in L’alternativa socialista. Scritti scelti 1944-1956, a cura di, S. Merli, Einaudi, Torino, 1982, p. 155.
[2] Si rinvia al mio volume Raniero Panzieri e i «Quaderni rossi». Alle origini del neomarxismo italiano, DeriveApprodi, Roma, 2021.
[3] A tal proposito, risulta fondamentale riportare per intero la testimonianza di Fortini, estrapolata dalla Prefazione di Stefano Merli e che delinea chiaramente le dissonanze tra le due interpretazioni considerate:
noi milanesi avevamo delle forti resistenze verso il patronato di un partito politico (cui solo io, fra l’altro, ero iscritto) che si era distinto, nel decennio precedente, per una singolare sordità alla tematica della ideologia e della discussione «culturale» e verso uomini come Carlo Levi che – indipendentemente dal loro valore – ci apparivano legati a una mentalità 1945, ossia piuttosto remota.
S.Merli, Teoria e impegno nel modello Panzieri, in R. Panzieri, Lettere 1940 - 1964, Marsilio Editori, Venezia, 1987, p. XXVIII.
[4] E. Santarelli, Storia critica della Repubblica. L’Italia dal 1945 al 1994, Universale Economica Feltrinelli, Milano, 1996, p. 110.
[5] S. Merli, Teoria e impegno nel modello Panzieri, cit., p. XIII.
[6] R. Tomassini, La ricomposizione di classe come nuovo partito operaio in Raniero Panzieri, in «aut-aut», n.149/150, 1975, p. 64.
[7] Cfr. R. Panzieri, Uso socialista dell’inchiesta operaia (dal seminario tenutosi a Torino, 12-14 settembre 1964), in «Quaderni rossi» n. 5, Milano, 1970, pp. 67-76.
[8] G. Cesarale, Filosofia e capitalismo. Hegel, Marx e le teorie contemporanee, Manifestolibri, Roma, 2012, p. 86.
[9] La citazione precedente si riferisce infatti alle riflessioni teoriche dello strutturalismo francese elaborate da Louis Althusser e a quelle della «Neue Marx-Lektüre». Soltanto l’esperienza di Hans-Jürgen Krahl è riconducibile a quella prodottasi in Italia, con le singolari attività teorico-politiche di Panzieri, Tronti e Negri.
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