DAL GRUPPO GRAMSCI ALL’AUTONOMIA OPERAIA: UN PERCORSO TUTT’ALTRO CHE LINEARE (I)
di Piero Pagliani
Introducendo la pubblicazione della prima delle tre sezioni di archivio della rivista “Rosso” sul sito Machina https://www.machina-deriveapprodi.com/post/rosso-quindicinale-del-gruppo-gramsci, Tommaso De Lorenzis, Valerio Guizzardi e Massimiliano Mita cercano di spiegare come mai la più nota rivista dell’Autonomia non sia nata dal filone “classico” dell’operaismo che si è dipanato da “Quaderni Rossi” a “Contropiano”, bensì da un’altra componente “eretica” delle sinistre radicali, vale a dire dal Gruppo Gramsci, nato dalla confluenza di due scissioni, la prima dai gruppi dell’area marxista leninista “ortodossa”, la seconda dal Movimento studentesco milanese. La presentazione sopra citata, pur fornendo alcuni elementi utili per ricostruire quella originale esperienza storica presenta – dal punto di vista di chi, come chi scrive, ne ha vissuto in prima persona la fase iniziale - due limiti di fondo: in primo luogo, si tratta di una versione troppo “continuista” del passaggio dalla prima alla seconda versione di Rosso, laddove le differenze sia teoriche sia pratico organizzative fra Gruppo Gramsci e Autonomia furono non di poco conto (non a caso solo una parte di chi aveva militato nel Gramsci confluì in Autonomia), inoltre manca un’adeguata riflessione sulle contraddizioni e sui limiti soggettivi che contribuirono – non meno delle condizioni oggettive create dalla crisi e dalla ristrutturazione capitalistica, oltre che dal riflusso delle lotte operaie e dalla repressione di Stato – al tragico epilogo della storia dell’Autonomia. A questi due punti il blog dedicherà due interventi: qui di seguito potete leggere il primo, di Piero Pagliani, ne seguirà un secondo del sottoscritto. (Carlo Formenti)
Giustamente la prefazione di Tommaso De Lorenzis, Valerio Guizzardi e Massimiliano Mita alla raccolta del quindicinale “Rosso”, sottolinea il paradosso che la «più celebre rivista dell’Autonomia [operaia]» non era il frutto della tradizione operaista italiana che faceva capo a “Quaderni rossi” o a “Contropiano”, ma nasceva da una particolarissima esperienza politica, quella del Gruppo Gramsci, a cui avevano dato vita “transfughi” dal marxismo-leninismo dogmatico italiano e del Movimento Studentesco milanese. In realtà il paradosso si risolve se si considera che il Gruppo Gramsci originario non si travasò nella sua interezza nell’Autonomia. In particolare, questo passaggio non fu compiuto da alcuni dei suoi esponenti di spicco, tra i quali vanno citati Romano Madera, Giovanni Arrighi e Carlo Formenti (Arrighi si allontanò fra fine 73 inizio 74, Madera e Formenti non molto tempo dopo) Per capire la distanza tra l’operaismo, o meglio il tardo operaismo, che muoveva l’Autonomia e animava “Rosso” e l’elaborazione teorica e politica dei militanti appena citati, occorre immergersi, scontando brevità e schematismi, nel crogiolo da cui uscirono quelle esperienze.
Seguendo Boltanski e Chiapello (Il nuovo spirito del capitalismo. Mimesis, 2014), possiamo in prima istanza classificare il Sessantotto studentesco nella categoria di “bohème” ovvero di “critica artistica al capitalismo”. A dispetto del nome, la critica artistica ha sempre avuto delle motivazioni materiali. Nel nostro caso il fermento studentesco e giovanile era esploso sul crinale tra il “ventennio d’oro” di sviluppo capitalistico occidentale degli anni Cinquanta e Sessanta e l’inizio della crisi del sistema egemonico statunitense che aveva favorito quel ventennio di sviluppo materiale, che in Italia aveva preso il nome di “boom economico” e che si era imposto con la vittoria alleata nella Seconda Guerra Mondiale. Crisi tuttora in corso. Insomma, si ereditavano promesse e possibilità mentre si sperimentavano le prime chiusure e le prime difficoltà. In relazione agli studenti, il Movimento Studentesco della Statale di Milano classificava questa congiuntura col concetto di “proletarizzazione dei ceti medi”.
Questa crisi, maturata alla fine degli anni Sessanta, si conclamò col Nixon shock, cioè la dichiarazione di inconvertibilità del dollaro in oro del Ferragosto del 1971, dopo il quale nel giro di meno di un decennio il sistema fordista-keynesiano sviluppatosi per e nella ricostruzione postbellica dei singoli Stati e del mercato mondiale dovette cedere, tra la fine degli anni Settanta e l’inizio degli Ottanta, alla triade liberalizzazione-globalizzazione-finanziarizzazione. Su questo crinale tra sviluppo e crisi la bohème sessantottina cercò di saldarsi a un movimento operaio in grande fermento, forte sui luoghi di lavoro perché sospinto dallo sviluppo precedente e forte politicamente perché organizzato materialmente e ideologicamente dalla straordinaria esperienza comunista e socialista. Ma la fusione tra le istanze studentesche e quelle operaie avvenne solo molto parzialmente nella realtà, mentre occupò il proscenio soprattutto nelle teorie rivoluzionarie di alcune tendenze della sinistra extraparlamentare. Tra esse, in Italia, l’operaismo a mio avviso costituì l’unica possibile lettura moderna dell’ortodossia marxista. Era, in altre parole, la forma più alta che la classicità marxista riuscì ad esprimere in quel periodo di profonda transizione. Una lettura quindi al contempo moderna e ortodossa. Moderna perché registrava, a volte efficacemente, le trasformazioni della società e della “composizione di classe” dovute al passaggio storico sopra accennato e perché alcuni suoi esponenti intuirono con precisione l’incedere della finanziarizzazione nel processo di accumulazione[1]. Ortodossa perché inseriva i risultati di quelle analisi in schemi esclusivamente legati alla contrapposizione capitale-lavoro. Ma al di là del fatto che il pensiero di Marx non si presta in realtà a un’ortodossia, un solo ingrediente non è sufficiente a spiegare la crisi e le sue dinamiche. Nemmeno un ingrediente centrale come la natura di classe del rapporto sociale capitalistico e del modo di produzione costruito su di esso.
Se è vero, e io ne sono convinto, che la crisi sistemica affonda effettivamente le sue radici nella natura di classe del rapporto sociale e del modo di produzione capitalistici, tuttavia, lasciare in secondo o terzo piano le correlazioni tra la natura sociale del capitalismo e la sua natura fisica e geografica, e quindi trascurare l’importanza dei rapporti tra sistemi contrapposti di potere e di governo del territorio (e delle sue risorse, per altro finite), come gli Stati, ignorare l’analisi dell’intrinseca necessità per il capitalismo dello sviluppo ineguale con la conseguente contrapposizione tra i diversi centri di potere territoriale, tutte queste mancanze riducono la visuale, bloccano il cammino e spesso fanno prendere abbagli. E’ qui che possiamo individuare la distanza tra l’analisi della crisi in Arrighi, basata su una complessa elaborazione di tutti gli ingredienti appena elencati, e la visione operaista, incentrata sul rapporto capitale-lavoro e sul tentativo di identificare il soggetto rivoluzionario nei meandri delle radicali trasformazioni delle società capitalistiche. Come accennato, il pensiero operaista si era reso conto con un anticipo sorprendente sul resto dei teorici di sinistra che il capitalismo occidentale stava scivolando sempre più profondamente nella finanziarizzazione. Lo aveva fatto spesso con lucidità, ma aveva riportato questo fenomeno all’assunto costitutivo dell’operaismo stesso: la finanziarizzazione era la risposta del capitale alla crescente pressione della classe operaia e richiedeva l’individuazione delle nuove modalità di composizione e di autorganizzazione della classe che avrebbe fatto superare la crisi con la rottura anticapitalistica.
Il soggetto rivoluzionario in questa ricerca sarebbe stato identificato prima nell’operaio massa, poi nell’operaio sociale, infine nelle moltitudini desideranti. Una trasformazione coerente con la lettura delle trasformazioni del capitalismo: inizialmente quello delle concentrazioni multinazionali e dell’organizzazione gerarchica fordista, poi quello diffuso del “piccolo è bello”, delle delocalizzazioni e dell’organizzazione “a rete”, più in là quello della New Economy, vista come segnale di una nuova “società della conoscenza” permessa dall’internettizzazione globale e non come enorme bolla borsistica, quello della globalizzazione, vista come realizzazione delle “profezie” di Marx e non come un altro nome per “egemonia degli Stati Uniti”, come dichiarato senza peli sulla lingua da Henry Kissinger[2] e quello della finanziarizzazione, interpretata come “capitalismo immateriale”, ovvero come una nuova fase del capitalismo e non come sbocco obbligato della sovraccumulazione. Se paragoniamo queste analisi con quelle di Giovanni Arrighi che affondano nella Storia, nel tentativo di capire ciò che persiste e ciò che muta nel suo divenire, nel connettere elementi di natura diversa (geografia, organizzazioni d’impresa, organizzazioni statali, organizzazioni sociali, tecnologie, risorse, modalità di pensiero, eccetera) possiamo dire che l’analisi operaista è stata una raffinata analisi del concetto di capitale non delle società capitalistiche realmente esistenti. Un’analisi in cui spesso una bohème accademica radicale rappresentava il mondo e se stessa. Similmente, la riflessione di Romano Madera sulla possibilità stessa dell’esserci di un soggetto rivoluzionario depositario della capacità di negare la negazione, di ribaltare il ribaltamento della reificazione (si veda il suo Identità e feticismo, Moizzi, 1977) si svolgeva su un piano molto differente dall’adattamento sociologico del soggetto alle successive condizioni e trasformazioni del capitalismo. L’affascinante moderna ortodossia marxista dell’Operaismo ha ostacolato la comprensione delle nuove modalità di composizione di classe e delle loro conseguenze politiche in un’epoca, quella odierna, dove in basso si è dissolto, almeno in Occidente, il Quarto Stato e non si è ancora ricostituito un nuovo Terzo Stato laddove, in alto, il progredire tecnologico del capitalismo sta andando di pari passo al suo regredire a forme di neo-signoria. Difficoltà che non permette di comprendere oggi, ad esempio, la “variante populista” (Formenti).
Nel “Rosso” post Gruppo Gramsci finirono per sovrapporsi due dimensioni politiche, analitiche ed esistenziali molto differenti una dall’altra: la controcultura tipica della bohème (in cui emergevano i rapporti di genere e interpersonali in senso ampio) e gli schemi marxisti più ortodossi. Un esito interessante, in sé, e non sorprendente: in fin dei conti era la post-modernità che agiva sulla classicità rivoluzionaria. L’esito veramente sorprendente si è visto solo molto più in là, dopo la Belle Époque reaganiana-clintoniana quando la correttezza politica ha decisamente preso il posto della correttezza sociale nascondendo/giustificando la lotta di classe dall’alto e la ripresa delle aggressioni imperialistiche. Un esito non previsto né da chi seguì “Rosso” dopo il 1973, né da noi che ce ne allontanammo. Tuttavia un esito che da qualcuno era stato previsto: Pier Paolo Pasolini. Più precisamente non era una profezia, ma la consapevolezza di un metodo che Pasolini, mentre intorno a “Rosso” ci si aggregava e ci si divideva, vedeva già all’opera: «Il ciclo è compiuto. La sottocultura al potere ha assorbito la sottocultura all’opposizione e l’ha fatta propria» [3].[1] Mi riferisco specialmente al “gruppo sulla moneta” raccolto attorno alla rivista “Primo Maggio” il cui lavoro in un certo senso era stato inaugurato da Sergio Bologna con Moneta e crisi: Marx corrispondente della “New York Daily Tribune”, 1856-57. “Primo Maggio”, n. 1, settembre 1973, pp. 1-15. Ampliato in S. Bologna, P. Carpignano e A. Negri, Crisi e organizzazione operaia. Feltrinelli, Milano, 1974. Ancora di interesse sono i “Saggi sulla moneta” nel Quaderno di Primo Maggio N. 2.
[2] Si veda Impero di Michael Hardt e Antonio Negri. Impero, era stato scritto quasi contemporaneamente a Il lungo XX secolo e mentre quest’ultimo metteva in guardia, in piena ubriacatura da globalizzazione e new economy, dalla prossime sequenze di crisi economiche e di guerre, il primo descriveva un mondo ormai appiattito e privo di stati-nazione, una condizione concettualmente teorizzata da Gilles Deleuze e Felix Guattari col termine “spazio liscio” in Millepiani. Capitalismo e schizofrenia (Castelvecchi, 1997).
[3] Pier Paolo Pasolini, Il “discorso” dei capelli. In Scritti corsari, Garzanti, 1975, pag. 13.