Su precariato e regime da caserma nei call center di Pisa e provincia
gen 21st, 2021 | Di Thomas Munzner | Categoria: Interviste
SU PRECARIATO E REGIME DA CASERMA NEI CALL CENTER DI PISA E PROVINCIA
Riportiamo integralmente l’intervista che abbiamo fatto a Stefano Zecchinelli, operatore call center della provincia di Pisa.
Quanto ci dice nell’intervista fa emergere chiaramente che razza di ambiente di sfruttamento siano i call center, i padroni sono sempre all’erta nel non far entrare nei loro uffici dei lavoratori combattivi che potenzialmente gli possono creare dei problemi e quindi la riservatezza è un accorgimento minimo per tutelarli: sono preziosi per quanto denunciano, allo stesso tempo mettono le basi per la riscossa dei lavoratori di un settore che oggi conta decine di migliaia di addetti in tutto il paese.
Buona lettura!
. Presentati, dicci di cosa ti occupi e le esperienze lavorative che hai avuto…
Come professione sono giornalista, soltanto che, lavorando fuori dai circuiti mainstream e nonostante nel campo editoriale abbia avuto esperienze significative, ho dovuto ripiegare su vari lavori precari con i quali mantenermi. I lavori che ho svolto più di frequente sono stati all’ interno dei call center.
. Spiegaci quali sono le caratteristiche principali di questi impieghi
Questo mondo è ben poco conosciuto, è una sorta di mondo a parte perché il lavoratore dei call center non viene nemmeno considerato un dipendente ma un “collaboratore”, quindi una persona che mette sul piatto quanto emerge dalla sua forza-lavoro ma che dal datore di lavoro può essere scartato dalla sera alla mattina: in modo del tutto arbitrario. Parlando di seguito mi concentrerò sulla realtà toscana, che rispetto ad esempio ad altre realtà (come quella pugliese di Taranto dove ci saranno una cinquantina di call center nascosti in appartamenti..), riguarda call center di aziende nazionali che fanno il lavoro sporco per gruppi multinazionali; ad esempio la TIM dà in appalto a ditte locali servizi gestionali e attività di vendite e promozioni.
In provincia di Pisa, a Pontedera, c’è un call center, Ac Agency, che svolge l’attività di promoter di prodotti TIM e nel campo energetico. Gli operatori svolgono un’attività lavorativa pagata giornalmente, è una sorta di fisso variabile, hanno inoltre un contratto collettivo che fissa uno stipendio base su circa 8,50 euro lordi, anche se vi sono call center che offrono paghe sostanzialmente più basse cercando di compensare il tutto con i cosiddetti premi.
Si tratta di una bufala perché ad esempio i premi di Ac Agency sono in buoni Amazon, così passiamo direttamente da produttori in consumatori di cosa vogliono loro tra l’altro, e vediamo ulteriormente lo stretto legame tra questi call center e le grandi multinazionali; nel call center pisano TIM Business Promoter, per ogni contratto stipulato, il collaboratore riceve un bonus di 5 euro, cifre irrisorie. Quindi le paghe variano, Ac Agency paga 6,50 euro l’ora lordi a fronte degli 8,50 previsti dal CCNL, mentre TIM Business Promoter paga circa 7,70euro lordi; il call center della Data Company (settore energetico) su Lucca e Pisa, retribuisce mensilmente i dipendenti con 450 euro al mese.
Gli orari sono flessibili in alcuni, in altri viene violata la normativa di base del già terribile Co-Co-Co perché il datore di lavoro si permette di imporre un orario lavorativo all’ operatore, ad esempio a Pontedera l’orario imposto era 12:00-16:00, cosa molto scomoda se si pensa che questi lavoratori, per mantenersi hanno bisogno di un secondo impiego. L’attività di per sé logora: si sta ore e ore di fila in postazione, attaccati alle cuffie che spesso ho riscontrato essere di pessima qualità per le orecchie, utilizzando continuamente e spesso in toni alti la voce quindi si danneggiano le corde vocali; quando un operatore esce dal turno spesso ha la voce fioca, il mal di testa per le cuffie, e il tutto in rapporto ovviamente con la quantità di ore impiegate che variano.
. Parlando di questo lavoro, mi hai definito il clima all’interno del call center come un “regime da caserma”: raccontaci cosa significa
All’interno dei call center vige un controllo ferreo. Il capo team/responsabile, benchè non abbia condizioni contrattuali molto diverse dagli altri operatori, svolge un vero e proprio ruolo di caporalato e può mandare via di punto in bianco un operatore su una pulsione arbitraria, facendogli firmare le dimissioni o chiedendogli di non recarsi più sul posto di lavoro: pena un’operazione costante di “bossing”, ovvero un’oppressione svolta dai cosiddetti capireparto su mandato e richiesta del datore di lavoro e quindi dell’azienda, con l’obiettivo di eliminare quell’operatore. Più che un regime da caserma è una sorta di fascismo aziendale.
Intanto è molto difficile, se non impossibile, interloquire con i colleghi perché chi lavora nei call center tradizionali ha delle postazioni separate e qualsiasi modifica nello spazio viene notata. Ci sono contesti molto rigidi, come quello di Pontedera dove i capi reparto impediscono anche di andare in bagno, altri un po’ più morbidi dove i responsabili si dimostrano comprensivi e ti lasciano intendere indirettamente che alcuni dettami e restrizioni dipendono esclusivamente dall’azienda, per cui non possono farci niente. L’ intento è sempre comunque quello di tenere sotto ricatto l’operatore, convincendolo che la situazione e le condizioni di lavoro sono quelle e che se non gli stanno bene può andare a casa. Tra l’altro, le scadenze dei contratti sono per lo più mensili quindi il peso del ricatto è sempre sentito da questi lavoratori. A fianco dei responsabili più “comprensivi” esistono invece anche veri e propri esecutori e in questo caso il vincolo di fedeltà aziendale diventa per questi un’ideologia. I capi reparto sono tendenzialmente ex operatori particolarmente bravi e servili che l’azienda preleva dal posto, indottrina facendo credere chissà che cosa e fa svolgere su altri queste attività repressive e di controllo.
Per evitare lo scambio con gli altri operatori, addirittura a Pontedera non era permesso nemmeno prendere un caffè insieme ai dipendenti. Una parte dei lavoratori non condivide le disposizioni aziendali ma c’è molto timore e si va a creare quasi un’attività di delazione. Se vi sono anche dei banalissimi problemi, ho sentito lavoratori consigliare di andare fuori dagli uffici a parlare per non farsi sentire anche solo discuterne dai responsabili. D’altronde la forza contrattuale di questi lavoratori è misera dal punto di vista sindacale, come Co-co-co abbiamo scarsissimi mezzi per poter far valere i nostri diritti. La CGIL si occupa essenzialmente di lavoratori assunti, più o meno garantiti, che sono un’estrema minoranza, lavoratori più inquadrati anche, permettetemi, secondo logiche politiche. Del resto il PD ha forti interessi a mantenere un suo controllo sociale verso il lavoro salariato e quindi il lavoratore del call center è una persona “persa” per loro; se ne occupano un po’ i sindacati di base, però bisognerebbe vedere con quali strumenti effettivamente si possono creare rapporti di forza reali.
Ci sono call center o gruppi di reception, cito ad esempio l’Istituto Superiore di Formazione, dove fanno firmare un contratto in bianco, fanno mettere come data di fine di rapporto di lavoro l’anno seguente però mensilmente l’amministratore delegato si reca in loco per decidere chi mandare via senza nemmeno la lettera di dimissione, in condizioni in cui le paghe sono di 3,50 euro all’ora. Queste situazioni sono zone grigie, lo Stato non ci arriva, i sindacati tradizionali neanche e i datori di lavoro che commercializzano tutto, beni e servizi, fanno il bello e il cattivo tempo nei confronti di una massa enorme di lavoratori. Un altro call center da cui ho raccolto testimonianze delle forme molto frequenti di bossing è il call center della Wall Street English; scaricano sempre sull’operatore l’assenza di contratti, di iscrizioni e non sul consulente che lavora a P.IVA, lavoratore anch’esso sfruttato perché è retribuito sulla base delle provigioni. Nessuno garantisce il fatturato a queste strutture aziendali, perché essendo strutture private il più delle volte offrono un pessimo servizio formativo, mentre aziende che commercializzano beni e servizi come quelle in campo energetico o di telefonie offrono un pessimo servizio sulla clientela in termini di disservizi ricorrenti; però il malfunzionamento e le truffe che queste aziende di volta in volta piazza vengono scaricate sui telelavoratori e diventa una forma di sfruttamento continuo, costante che si articola all’ interno del luogo di lavoro in diverse modalità.
. Prima hai parlato di obbligo di fedeltà aziendale che, come sappiamo è nato per preservare interessi legati alla proprietà privata, ma che ad oggi viene utilizzato come forma di repressione legalizzata verso tutti i lavoratori che non condividono i diktat delle proprie aziende o che semplicemente vogliono fare emergere che cosa succede all’interno: tu come inquadri questo vincolo e come viene utilizzato nel tuo contesto lavorativo?
L’ obbligo di fedeltà aziendale lo giudico sempre illegale, perché gli interessi del lavoratore non possono mai essere gli stessi del padronato per cui non mi si può obbligare a preservare i suoi interessi soprattutto dal momento in cui fa impresa in una struttura aziendale ampia e complessa: per tanto non dovrebbe esistere a priori, l’obbligo di fedeltà aziendale. Se un’azienda controlla centinaia di dipendenti ha una sorta di onere neocapitalistico schiacciante e chi va al lavoro in una struttura di call center si trova in grave difficoltà (essendo un lavoro di per sé meschino basato sui numeri), l’obbligo di fedeltà aziendale sembra impensabile. Ad esempio una società di tipo familiare ha l’obiettivo di far funzionare la propria attività perché da quell’attività ricava il proprio sostentamento, cosa ben diversa dalle aziende capitaliste. Queste grandi strutture sono un “non luogo” dal punto di vista contrattuale 3 per tanto a maggior ragione, dato che non sono neanche un vero e proprio dipendente, l’obbligo di fedeltà aziendale è ancora più illegittimo. Tuttavia l’obbligo di fedeltà aziendale può essere interiorizzato dallo stesso operatore quando da semplice operatore si aspira a diventare capo reparto, i capo reparto pensano di poter diventare responsabile di sede, e così via, giurando devozione a un’entità che è l’azienda; è legata al territorio però ha la vera e propria struttura in un’entità astratta, diventa un gioco a scatole chiuse e diviene difficile poter aver un minimo di garanzie sociali. Quando ai livelli più bassi scattano nei lavoratori meccanismi di delazione, ti rendi conto che queste aziende combinano una vera e propria mucillagine da un punto di vista sociale
. Quali pensi che siano le principali rivendicazioni da avanzare in questo ambito da parte dei lavoratori? E quali possono essere delle forme di organizzazione nonostante tutti i limiti anche oggettivi he hai espresso?
Per prima cosa questi lavoratori devono imporre la fine dei contratti Co-Co-Co perché rappresentano il precariato, i più fortunati hanno contratti rinnovabili ogni tre mesi e oltretutto si approfittano pure del periodo di prova. Sono necessari contratti veri in cui si è inquadrati come impiegati, dipendenti, con una struttura sindacale, un fisso mensile che possa garantire un minimo di autonomia. Delle forme sindacali devono poter intervenire in questi ambiti, anche facendo ispezioni. Ad oggi sarebbe molto utile ad esempio attivare un numero verde per denunciare in anonimo le operazioni di bossing. A Taranto ad esempio sono già state segnalate centinaia di aziende, in un servizio di Piazza Pulita, in cui hanno filmato molteplici operazioni di bossing in contesti in cui le paghe erano di 5 euro l’ora in turni di sette ore consecutive, però dovrebbero essere strumenti in mano ai lavoratori e con un legame sindacale. In Toscana ci sono aziende più individuabili e facilmente controllabili, per cui sarebbe una cosa fattibile. Ad esempio la struttura di Ac Agency di Pontedera che soprannominai “la stanza delle torture”, sarebbe ben soggetta a questo tipo di attività. Ci sono stati casi in cui giornalisti si sono presi la briga di filmare cosa avvenisse in queste strutture ma non sono andati a vedere le formule contrattuali dei dipendenti eccetera, significa che c’è una connivenza in loco tra le amministrazioni locali politiche, in Toscana il PD, con le strutture sindacali che dipendono dal PD e anche diverse agenzie di stampa che si allineano all’ideologia liberista. Deve essere stabilito un salario minimo, fisso, garantito e conforme al costo della vita di oggi, perché anche se uno stipendio raggiungesse gli 800 euro con un affitto da pagare di 500 uro si va poco lontano.
. Tu hai un passato da studente, da studente universitario, studente lavoratore sempre e infine precario da anni, nella tua stessa situazione si trovano moltissimi altri giovani proletari: se potessi, cosa diresti loro per esortarli prendere in mano le redini del proprio futuro?
Anche alla luce della mia esperienza spiegherei che tutta questa situazione è possibile perché viviamo in un contesto socioeconomico liberale volto al profitto, al business, allo sfruttamento. La nostra Costituzione sancisce che la proprietà privata deve essere indirizzata al bene della collettività, pertanto dal momento in cui questo non avviene queste sono strutture illegali. All’ interno di questo ambiente c’è chi accetta tutto perché si sente costretto ad accettare e chi riconosce il meccanismo di funzionamento perverso alla base di queste aziende, ed è tutto perverso perché il consulente viene pagato con le provigioni, il caporeparto non ha una situazione molto diversa dall’operatore, se non c’è fatturato la cupola aziendale delocalizza tranquillamente e nel frattempo in loco si creano un centinaio di disoccupati dalla sera alla mattina. Ad oggi, se un’attività di questo tipo non arriva al fatturato, scusa che utilizzano per sottopagare i lavoratori, benissimo: se ne prendesse atto e venisse nazionalizzata, i manager si cacciassero la cravatta e portassero rispetto a tutti i lavoratori!
. Quale tipo di governo pensi che possa ed abbia interesse a fare questo?
Un governo che si ponga l’obiettivo di uscire dall’Unione Europea, di riconquistare sovranità, che porti avanti una campagna di nazionalizzazione dei settori strategici, dove la politica determina l’economica e non il contrario, si tratta quindi di cambiare il sistema.
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